05 Gennaio - La carita pastorale alla scuola del Cafasso |
La carità pastorale alla scuola del Cafasso
Il primo incontro di Giovanni Bosco con Giuseppe Cafasso avvenne a Morialdo, intorno al 1830, quando il nostro santo aveva quindici anni e il suo compatriota era chierico diciannovenne. La scena è nota. A Giovanni, che gli si proponeva come guida nelle attrattive della piccola sagra paesana, egli avrebbe risposto: «Mio caro, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa; quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione che sono sempre nuove e perciò da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la chiesa per poter entrare ... Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime»1.
In queste parole il Don Bosco delle Memorie dell’Oratorio vede sintetizzato «il programma delle azioni di tutta la vita» del Cafasso, un vero progetto di vita sacerdotale (e religiosa), un modello caratteristico e fecondo: quello sul quale egli stesso aveva imparato a forgiare la propria esistenza e che vuole riproporre a noi suoi discepoli.
1 1. San Giuseppe Cafasso maestro di spiritualità sacerdotale |
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Al Cafasso lo legherà una grande amicizia: sarà il suo confidente nei momenti più delicati e incerti durante la scuola pubblica e gli anni di seminario, e, più tardi, dopo l’ordinazione sacerdotale, suo confessore e direttore spirituale. Come collaboratore e successore del teologo Guala, Giuseppe Cafasso fu l’anima del Convitto ecclesiastico, uno straordinario formatore di pastori e di guide d’anime. Da lui Don Bosco imparò ad essere e a “fare il prete”: alle lezioni di teologia morale pratica, di omiletica e di ascetica veniva affiancato l’esercizio del ministero in attività pastorali di frontiera presso le carceri cittadine, le opere della Mendicità Istruita (specialmente le scuole primarie popolari della città dirette dai Fratelli delle Scuole Cristiane) e altri enti o istituti che operavano in campo giovanile e sociale.
Alle sue mani, Don Bosco si affidò senza riserve nel non facile cammino di discernimento carismatico, particolarmente durante i primi tempi del suo ministero torinese, perché in lui vedeva la realizzazione concreta e ardente di quell’ideale di prete zelante e santo che gli era stato additato negli anni di seminario.
San Giuseppe Cafasso si preoccupava essenzialmente di fondare e consolidare la struttura interiore dei giovani sacerdoti a lui affidati. Ci sono stati conservati molti documenti che testimoniano il suo impegno formativo; abbiamo poi le intense testimonianze rese dai suoi antichi allievi per i processi di beatificazione. Fra tutto questo materiale scegliamo i testi autografi degli esercizi predicati ai convittori e la testimonianza resa da Don Bosco stesso in occasione della commemorazione funebre del suo maestro ed amico: ci paiono molto efficaci per cogliere i tratti portanti del modello sacerdotale cafassiano e per capire e ricostruire le movenze della personalità sacerdotale del nostro fondatore, intuirne i dinamismi spirituali profondi, gli ideali e gli aneliti2.
La predicazione del Cafasso ai sacerdoti verteva quasi esclusivamente sulla loro identità e sulle esigenze del loro ministero.
Egli li invitava ad avere idee chiare sulla propria identità e missione, a stimarla molto, ma anche ad essere consapevoli della propria debolezza. I preti, diceva, sono uomini come gli altri «soggetti ugualmente a sbagliare, a fallire, a sdrucciolare, a cadere; dunque all'erta, attenti su di noi ...; vigilanza adunque, riservatezza, gravità, modestia ... Siamo uomini come gli altri, dunque non dobbiamo isgomentarci, né abbatterci, se il Signore permette a qualcuno certe molestie umilianti, ostinate e tenaci .... L'ecclesiastico che sa e vive praticamente persuaso di essere un uomo come un altro ... come tale infrena i suoi sensi, comanda alla gola, custodisce gli occhi, fugge i luoghi e le persone di dissipazione, di pericolo, fa uso di ciò che solo può renderlo vincitore nei cimenti e nei pericoli, l'orazione e la fuga: e buon per lui perché basterebbe che un momento solo si dimenticasse d'esser uomo per trovarsi rovinato»3. Ma, nella sua vocazione, il sacerdote ha una dignità altissima, congiunta a una grave responsabilità: deve dunque impegnare tutto se stesso per corrispondere alla propria vocazione.
Tre sono le condizioni indispensabili per diventare un vero e fedele servo del Signore: essere disposto al servizio senza eccezioni, sempre attento ai suoi comandi; servirlo «prontamente», «esattamente», «con garbo»; in questo servizio divino non può avere altro scopo che l'onore e la gloria di Dio.
Secondo il Cafasso, l’unico modello del prete è Gesù Cristo. La conformazione a Cristo nello spirito, nei sentimenti, nei pensieri e nella missione è il perno di ogni spiritualità sacerdotale: «Non crediate che l'imitazione di questo divino esemplare sia soltanto un pio suggerimento, una cosa di consiglio: no, qui si tratta di vero obbligo. Se ogni cristiano è tenuto ad imitare il divin Redentore, a conformarsi alle sue massime ed al suo spirito, tanto più vi siamo obbligati noi ecclesiastici. ... Dunque vuol dire che dobbiamo ricopiare, avere in noi lo spirito di Gesù Cristo ..., gli stessi sentimenti, gli stessi pensieri, lo stesso scopo; ... rendere a lui conformi il nostro cuore ed il nostro spirito .... Prendiamoci in mano questo Crocifisso, e poi fissandolo diciamo a noi stessi: - Se io non faccio una cosa sola con questo Signore, se i miei pensieri, i miei affetti, le opere mie non sono come quelle di questo divin Redentore, devo disingannarmi: avrò il nome, il titolo, il carattere di sacerdote, ma in realtà non lo sono; sarò sacerdote sì, ma disgiunto, separato dal principio che mi deve animare; sacerdote, ma copia difforme, degenere dal mio tipo e dal mio modello»4.
Per diventare sacerdoti imitatori del Cristo è indispensabile un itinerario ascetico esigente, una vita di fatica, di sacrificio, di accettazione e sottomissione alla divina volontà. Così il prete del Cafasso è, insieme, un uomo pio, attivo, zelante e sacrificato: «Cominciate di buon mattino; quel tempo che altri, forse anche ecclesiastici, impiegano in sonni quieti e tranquilli, quel tempo che forse piacerebbe anche a lui passare in qualche occupazione amena di sollievo ... egli non lo impiega così. Si ricorda che è sacerdote, il pensiero del suo dovere, della gloria del Signore lo sveglia, lo chiama, lo porta in chiesa, al confessionale, allo studio.
Quante volte nel corso della giornata si presentano all'ecclesiastico come al secolare, occasioni di prendere parte a cose profane, a negozi, a traffici, a novelle, a divertimenti, ad adunanze, a colloqui; è uomo come un altro; si sente egli pure trascinato a queste cose ... eppure no, guai se comincia a cedere; è cosa di un momento l'entrare in lui lo spirito del mondo, e divenire poco per volta leggiero, vuoto, dissipato e mondano. ... Egli deve saper usare di queste cose in modo e con circospezione tale da averne sempre libero il cuore, e mantenersi padrone e superiore ad ogni cosa; e questo non può ottenersi senza un continuo sacrificio»5.
L’ascesi è dunque finalizzata essenzialmente a renderlo idoneo ai sacrifici richiesti dal ministero: «Ad ogni ora il buon sacerdote deve essere pronto: di giorno, di notte, di buon mattino, ad ora tarda, anche se già stanco: non v'è tempo eccettuato. Sacrifizi per ogni sorta di persone: noiose, grossolane, rozze, villane, anche nemiche ed avverse. Sacrifizi infine per ogni genere di spirituale servizio...».6
Per formarsi veri e buoni sacerdoti è quindi indispensabile costruire una chiara, sincera e risoluta volontà di riuscirvi. Su questo punto della nostra santificazione - affermava il Cafasso - ci si deve convincere che non basta un vago desiderio, né i soli buoni propositi; non si possono tenere delle vie di mezzo: «O siamo veri ecclesiastici, e allora saremo grandemente buoni; o non lo siamo, e in questo caso purtroppo saremo anche noi grandemente cattivi; mediocri, lo ripeto, non possiamo mantenerci»7.
2 2. Gesù, unico modello del pastore |
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Innanzitutto il Cafasso propone ai sacerdoti l’imitazione della povertà di Gesù a Betlemme. La condizione e la missione del prete, infatti, richiedono distacco dai beni terreni e dalle comodità, capacità di adattamento, spirito di sacrificio, resistenza nelle privazioni e nella sofferenza.
Contemplando Gesù bambino impariamo la povertà reale, che consiste nell’accettare serenamente dalla mano di Dio tutte quelle pene di corpo e di spirito che egli vorrà permettere; nel non lasciarci frenare nel ministero dal timore di incontrare patimenti e tribolazioni; nell’abituarsi a praticare volontariamente durante la giornata alcuni tratti di abnegazione, rinunziando a qualche desiderio nelle piccole cose (nel guardare, nel parlare...), oppure privandosi dei divertimenti o sollievi non strettamente necessari, per rafforzare lo spirito. Gesù a Betlemme è anche modello di umiltà, di distacco da sé: «Preghiamo, studiamo, lavoriamo pure, ma tutto questo varrà un bel niente se non siamo umili; fossimo anche casti, se pur è possibile, caritatevoli, pazienti, zelanti, senza umiltà tutto questo è come una casa alta, appariscente, risplendente, adorna, ma che non è fondata, epperciò presto sarà per rovinare. ... Il Signore non si servirà mai di quel sacerdote che, persuaso di essere qualche cosa, fa dipendere, se non in tutto almeno in parte, il frutto del suo ministero da sé, dalla sua scienza, dalla sua abilità, dalle sue maniere, e via dicendo»8.
Il Gesù di Nazareth, poi, è modello di vita ritirata e laboriosa. Egli si è preparato per il suo apostolato nel ritiro e nel silenzio di una piccola città, di una povera casa, di un umile mestiere. Per un lungo periodo di oltre trent'anni - come dice il Vangelo - cresceva in sapienza, in amore e grazia presso Dio e presso gli uomini (Lc 2,52). Il Cafasso di qui deriva una importante lezione per il sacerdote desideroso di vivere secondo lo spirito del suo stato e di portare frutto nel ministero: la necessità, cioè, di «ritirarsi, star lontano dai rumori e dissipazioni del mondo. ... Separazione di cuore col disprezzo delle sue follie, separazione di corpo, per quanto gli è possibile, colla ritiratezza, colla solitudine. Noi siamo stati separati dal mondo per essere tutti del Signore»9.
La «ritiratezza», così intesa, conferisce al prete un'impronta esterna e interiore inconfondibile di delicatezza, profondità ed efficacia, quando è impregnata di «spirito interno»: un’espressione che nel linguaggio del Cafasso significava lo spirito di chi «non opera a caso o per fini umani, ma per la gloria di Dio; spirito che non cura di far molto, ma di far bene; spirito che non giudica le cose dalle apparenze, ma solo dalla sostanza, e che perciò ritiene per vanità senza sostanza tutto ciò che non è di gloria del suo Signore; spirito infine che per norma, per guida, per premio non guarda altro che Dio»10.
Ma la ritiratezza del sacerdote deve essere un «ritiro occupato», come quello di Gesù a Nazareth: «La ritiratezza e l'occupazione sono inseparabili nel sacerdote, perché l'una serve di mezzo all’altra»11. Occupazione assidua e costante, adatta e utile, ordinata e dipendente: queste sono le caratteristiche del lavoro di Gesù, che ogni prete deve far sue12. «Io dico francamente che lo studio del confessionale e del pulpito, una scienza sufficiente pei casi che occorrono, la maniera di saper prendere un'anima, regolarla, coltivarla, un modo di predicare utile, atto ad allettare l'udienza e a dirle tutto quello che si deve dire senza offenderla, senza annoiarla; spianarle la via per far quello che le si dice, saperla animare con motivi forti, piacevoli, chiari e tante altre cose ed industrie, che sono quelle che giovano a rendere utile il nostro ministero; io dico che tutto questo non è affar di un momento, non s'impara in un giorno, ci vuole studio, considerazione, esperienza, preghiera, e non d'un giorno e d'una volta, ma giornaliere e continue. E infatti osserviamo gli uomini sommi del nostro stato, se avevano tempo da perdere anche prima che si dessero totalmente al ministero; certo che no: gli uomini sommi non nascono, ma si fanno, e non si fanno con vagar qua e là o col marcire in un ozio ed in una pigrizia domestica, ma con assidua fatica allo studio, alla meditazione, alla preghiera»13.
Gesù contemplato nel suo ministero pubblico offre un modello di virtù pastorali. Come lui il prete deve acquistare una serie di virtù specifiche per svolgere con efficacia la sua missione pastorale: lo spirito di preghiera, lo spirito di dolcezza e di carità, lo spirito di vero e pieno disinteresse, cosicché «in tutte le sue azioni non abbia altro di mira che l'onore e la gloria di Dio e la salute delle anime»14. Viene rimarcata specialmente la costante unione col Padre di Gesù. Sul suo esempio il pastore deve riservarsi tempi frequenti e fissi di preghiera: un po' di meditazione e di lettura spirituale, qualche visita, un po' d'adorazione al SS. Sacramento, la recita del Rosario, la revisione della giornata (esame di coscienza)15, al fine di acquistare lo spirito di preghiera: «Ecco in questo piccolo quadro un sacerdote di orazione: egli, se ha qualche ritaglio di tempo lo gode, e lo consacra alla preghiera, e quando non l'ha, trova il modo di mantener viva la sua relazione con Dio per mezzo di aspirazioni, di sguardi, di slanci amorosi; non aspetta che altri gli insegni e lo ecciti, sa farlo da sé e con facilità, con destrezza, lavorando, camminando, fin anche conversando e ridendo. Di qui quella rettitudine d'intenzioni, di cui parleremo in fine, quella franchezza nel bene che non teme né ostacoli né motteggi, quella maniera di operare che edifica e incanta, quella candidezza, quella ilarità di sembianze e di tratto che attira ed alletta, quella unzione finalmente nelle sua parole, nel predicare, nel confessare, per cui la gente, sebbene non ammiri talvolta né forza di ragioni né eleganza di stile, pure ne prova un certo effetto, una tal sensazione, che il cuore ne è tocco e commosso»16.
Altra virtù necessaria al ministero sull'esempio della vita pubblica di Gesù è la dolcezza, espressione di carità misericordiosa e tenera: «Il Divin Redentore se ne rese un modello il più perfetto ... Fu dolce sempre, dovunque e con tutti, senza riserva: coi famigliari e cogli estranei, coi piccoli e cogli adulti, coi ricchi e coi poveri, cogli amici e coi nemici, coi giusti e coi peccatori, fossero questi pentiti od ostinati; dolce non già solo in certi giorni o periodi di tempo, ma abitualmente; dolce in tutto, nel tratto, nella sua maniera di parlare, e perfin nello sguardo; di modo che chiunque lo avesse a trattare, o soltanto lo vedesse, ne restava rapito ed innamorato, tanto era calma e placida la sua presenza. Ecco la dolcezza da imitarsi dal sacerdote»17.
Ma è il Gesù inchiodato sulla croce, paziente, mansueto e obbediente, che offre - nelle contemplazioni del Cafasso - la lezione più sublime e importante per chi è chiamato a proseguirne la missione. «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito (Lc 23,46). Ecco il punto a cui deve giungere il sacerdote, che è stato alla scuola di questo divin Maestro. Egli deve essere disposto a fare qualsiasi sacrificio per Dio, sacrificare e roba e parenti e amici e libertà e comodi. Non basta: quando Iddio il voglia, deve essere rassegnato anche a morire in quel tempo, in quel modo, in quel luogo, in tutte quelle circostanze che esso vorrà .... Prendiamo tra le mani questo Crocefisso, e - Signore, diciamogli, ci resta ancora un punto da intenderci tra noi due ed è questo misero avanzo di vita che ancora mi rimane. Voi ne siete il solo padrone, pensateci Voi, io lo depongo nelle vostre mani e non vi penso più; non penserò più né a vivere né a morire, ma solo a lavorare come esige il mio dovere, a contentarvi in tutto, a far mai sempre la vostra volontà ... Signore, dirò, Voi lo sapete, voglio morire con Voi, voglio morire come Voi, voglio morire assieme a Voi»18.
Questo slancio di puro amor di Dio costituisce il cuore della spiritualità sacerdotale del Cafasso. È un amore di carattere unitivo, che si esprime nel pensare spesso a Dio e nel desiderio di conformarsi pienamente alla volontà divina, nel desiderare che non vi sia differenza alcuna tra la nostra e la sua volontà. «Così deve dirsi del sacerdote che ama. Stretto ed attaccato di cuore al suo Dio, egli non deve formare con lui che un solo pensiero, un sol sentimento, una sola e medesima volontà; epperciò giudicar delle cose del mondo come Dio ne giudica, stimar ciò che egli stima, disprezzar ciò che egli disprezza, amar ciò che egli ama, cercare, fuggire ciò che egli dice di cercare o di fuggire ... Egli vuole distacco dal mondo, vuole fatica, occupazione, zelo per le anime, per l'onore e per la gloria sua»19.
Il prete che vive con tale intensità d'amore non percepisce la fatica del ministero, lavora con fecondità, vive sereno, calmo, tranquillo e gioioso, preoccupato di fare tutto unicamente per il servizio e la gloria di Dio: «Credetemi, fratelli miei, il vuoto di noi preti ordinariamente è più nel cuore che nelle mani, e voglio dire che, ad eccezione di pochi, generalmente dai sacerdoti si lavora; ma che valgono coteste opere esterne, apparenti, superficiali, quando vi manca la sostanza, il midollo; vi manca il retto fine e quella pura intenzione di piacere a Dio, e cercare unicamente la sua gloria? Si lavora, sì, da molti sacerdoti, ma si lavora per lucro e temporale interesse, si lavora per ambizione e per un po' di gloria umana; si lavora per genio ed inclinazione naturale; si lavora finalmente per costume ed abitudine. Ecco d'ordinario le cause motrici in tanti sacerdoti, anche occupati da mattino a sera in opere più o meno dirette del ministero ....
Prendete al contrario un altro sacerdote anche più carico di fatiche, di molestie, ma dotato di altro spirito, che nelle sue azioni cerchi soltanto la volontà del Signore, il suo onore, la sua gloria, voi vedrete tosto un altro brio, un'altra anima, altri modi, maniere ben diverse. Osservate con che ilarità, con che gioia anche esterna si comporta in mezzo alle azioni più comuni, più ributtanti e fastidiose. Che dire poi, quando si potesse entrare in quel cuore? Qualunque sia l'azione di questo sacerdote, ha sempre in se stesso cotesto conforto di paradiso. Di più cotesta purità d'intenzione è quella che ci serve d'un gran mezzo e d'un forte stimolo per fare bene le nostre opere, e per renderle utili e fruttuose pel nostro prossimo»20.
Un amore di Dio così inteso, infiamma il cuore del sacerdote di uno zelo intrattenibile che polarizza tutta la sua esistenza. Alla conclusione dei suoi esercizi spirituali il Cafasso esorta i discepoli ad abbracciare uno stile di vita ardente e battagliero, animato dall’unica passione di rendersi strumenti idonei per la salvezza delle anime e la diffusione del Regno di Dio: «Anime e peccati, ecco tutta la chiusa, tutto il termine del mio dire; anime e peccati, ecco i due anelli tra cui racchiudo quanto sono andato dicendo in questi giorni. Dammi anime, o Signore, diciamo con quell'apostolo di carità, S. Francesco di Sales, dammi anime da salvare! Dammi peccati da combattere, da sterminare. Lasciamo a chi le vuole le follie e le goffaggini di questo mondo, e noi appigliamoci a far gente pel paradiso, ed a risparmiar peccati sulla terra ...
Coraggio adunque, o cari, ed ogni giorno adoperiamoci per aiutare, per salvar qualche anima, per impedir qualche peccato: co' sani, cogli infermi, coi moribondi, in confessionale o fuori, predicando o conversando; solo che ci venga dato d'impedirne uno, la giornata per noi sarebbe già troppo bella e felice. ... Ecco la mia paga, eccomi il sacerdote più contento ed il più felice del mondo»21.
Queste espressioni, per noi salesiani, evocano un linguaggio e quadri mentali familiari: ci riportano al nostro Fondatore e insieme risvegliano nell’intimo qualcosa che percepiamo profondamente nostro. Vi sentiamo rappresentata la matrice di quella totalità e assolutezza di tensione spirituale e apostolica che ha caratterizzato e dovrebbe anche oggi definire il tipo pastorale consegnatoci da Don Bosco unitamente al suo specifico carisma.
3 3. «L'ardente sua carità inspiravagli coraggio eroico» |
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Quanto Don Bosco abbia recepito la novità e la potenza pastorale di tale modello sacerdotale e come ne abbia coscientemente fatto il suo punto di riferimento, è possibile comprenderlo leggendo il potente ritratto del Cafasso da lui presentato pubblicamente nei due discorsi funebri tenuti ai ragazzi di Valdocco, nella messa di settima, e ai sacerdoti torinesi radunati nella chiesa di S. Francesco d’Assisi per la messa di trigesima22.
Nel primo discorso (il 10 luglio 1860) Don Bosco descriveva la vita sacerdotale pubblica attivissima e instancabile del suo Maestro, la sua “carità industriosa”, “irresistibile”, indicandone la fonte: «L'ardente sua carità inspiravagli coraggio eroico»23. E indicava nel suo impegno ascetico uno dei segreti di tanta fecondità pastorale24.
«Egli stesso aveva per detto familiare e spesso lo andava ripetendo specialmente nelle conferenze morali: fortunato quel prete che consuma la sua vita pel bene delle anime, fortunatissimo colui che muore lavorando per la gloria di Dio; egli avrà certamente una grande ricompensa da quel Supremo Padrone per cui lavora»25.
Nel secondo discorso tenuto durante la Solenne pompa funebre celebrata nella Chiesa di san Francesco d'Assisi (30 agosto 1860)26, di fronte a un uditorio costituito prevalentemente da ecclesiastici, in gran parte ex-allievi del Convitto, Don Bosco rappresenta il Cafasso come «modello di vita sacerdotale»27, animato da una purissima ardente carità28, fin dai primi istanti del suo ministero. «Egli medesimo ci lasciò scritto le deliberazioni prese sul principio del suo sacerdozio. Si portò un giorno a’ piè del crocifisso, e, Signore, disse, voi siete la mia eredità: Deus pars aereditatis meae (Sal 15,5). Questa è la scelta che volontariamente ho fatto nel memorando giorno della mia ordinazione. Sì, o mio Dio, voi siete la mia eredità, la mia delizia, la vita del mio cuore in eterno: Deus vita cordis mei et pars mea, Deus in aeternum (Sal 72,26). Ma non solo o Dio io voglio essere tutto vostro, ma voglio farmi santo, e siccome non so se lunga o breve sarà la mia vita, così, o mio Dio, vi protesto che voglio farmi santo e presto santo. Cerchi pure il mondo le vanità, i piaceri, le grandezze della terra: io non voglio, non cerco, non desidero che farmi santo, e sarò il più felice degli uomini facendomi santo, presto santo e gran santo. Questo disse e mantenne la parola»29.
Le espressioni più intense vengono usate da Don Bosco per sintetizzare lo spirito che animava il suo maestro: «Il cuore di D. Caffasso era come una fornace piena di fuoco di amor divino, di viva fede, di ferma speranza e d'infiammata carità. Perciò una sua parola, uno sguardo, un sorriso, un gesto, la sola sua presenza bastavano a calmare la malinconia, far cessare le tentazioni e produrre nell'animo sante risoluzioni»30. Un impressionante analogia è riscontrabile tra queste affermazioni e le testimonianze di quanti conobbero il nostro Fondatore.
Questa passione di carità purissima diventava generatrice di un’attività pastorale incredibilmente variegata e instancabile. Don Bosco ne è impressionato e affascinato: «Sembra che D. Caffasso sia sempre intento a predicare ai popoli, e D. Caffasso è continuamente applicato alle conferenze, alla predicazione ed istruzione del clero. Pare che tutta la sua vita sia impiegata a catechizzare i ragazzi, assistere carcerati, istruirli, confessarli; ma intanto egli è di continuo in sua camera che dà udienza o medita, o predica o confessa. A rimirare il gran numero di scritti che ci lasciò, si crederebbe che la sua vita sia stata impiegata a tavolino; ciò non ostante lo vedo sempre in atto di dare consigli ad ogni condizione di persone, assistere e disimpegnare i suoi più minuti affari domestici.
D. Caffasso attende indefesso allo studio della storia sacra, della storia ecclesiastica, de’ santi Padri, della teologia morale, dogmatica, ascetica, mistica, della predicazione; prepara casi pel concorso delle parrocchie, dà esami di confessione, e intanto io vengo in questa chiesa, lo veggo genuflesso ora davanti all'altare di Maria che prega, ora prostrato davanti al SS. Sacramento che adora, oppure assiste al confessionale attorniato da lunga schiera di fedeli ansiosi di esporre le angosce della loro coscienza ed avere da lui le norme del ben vivere. Non basta, signori, ascoltate ancora: andate al santuario della Consolata, e vedete D. Caffasso in esercizio di divozione; visitate le chiese dove sono le quarant’ore, e là egli pure prostrato disfoga i suoi dolci affetti con l'amato suo Gesù. Mentre egli compie questa moltitudine di azioni, di cui ciascuna sembra dover impiegar la vita di un uomo, ecco aggiungersene altre. D. Caffasso è angelo di pace che porta concordia in questa famiglia, va a sollevare la miseria in quell'altra.
Là su quella soffitta vi è chi languisce e geme? D. Caffasso lo va a consolare; nel palazzo di quel ricco vi è un infermo che patisce? D. Caffasso lo va a confessare e lo conforta. Ci sono moribondi agonizzanti? D. Caffasso sta loro presso al letto per raccomandarne l’anima al Signore. Avrà qualche suo penitente all'ospedale? egli non lo abbandona, lo assiste con maravigliosa puntualità. Avvi colà un peccatore ostinato che rifiuti i sacramenti? D. Caffasso parla e alla sua parola ogni cuore è vinto, ogni fierezza a lui si piega e si raddolcisce per modo che ognuno pensa ad aggiustare le cose dell’anima propria ...
Ma ..., Signori: parlo di un solo o di più ministri di Gesù Cristo? io parlo, uditori, di un uomo solo; ma di un uomo che ha lo spirito del Signore, parlo di quell’eroe che con zelo maraviglioso fa vedere quanto possa la carità di un sacerdote coadiuvato dalla divina grazia. Questo sacerdote può dire di essere in certo modo onnipotente secondo le espressioni di s. Paolo: Omnia possum in eo qui me confortat, io posso tutto coll'aiuto del Signore (Fil. 4,13)»31.
I segreti di questa operosità apostolica multiforme sono, per Don Bosco, cinque: «Il primo segreto fu la costante sua tranquillità. Egli aveva familiare il detto di S. Teresa: niente ti turbi. Per ciò con aria sempre ridente, sempre cortese, colla dolcezza propria delle anime sante, disimpegnava con energia ogni affare anche prolungato, difficile e seminato talvolta di spinose difficoltà. Ma ciò senza affannarsi, senza che la moltitudine o la gravezza delle cose gli recassero il minimo turbamento. Questa maravigliosa tranquillità faceva sì che egli potea con calma trattare molti e svariati affari senza turbamento delle facoltà intellettuali32.
Il secondo segreto è la lunga pratica degli affari congiunta ad una grande confidenza in Dio. Egli ripeteva spesso le parole del real profeta Davide: (Sal 18, 2) Dies diei eructat verbum. Ciò che fo’ quest’oggi servemi di norma a’ quanto dovrò fare domani. Questa massima congiunta alla sua prudenza, esperienza e al suo lungo studio del cuore umano, gli avevano rese familiari le più elevate questioni. I dubbi, le difficoltà, le dimande più complicate dinanzi a lui scomparivano. Fattagli una questione, comprendevala al solo annunziarla, quindi alzato un istante il suo cuore a Dio rispondeva con prontezza e giustezza tale, che una lunga riflessione non avrebbe fatto pronunziare miglior giudicio.
Il terzo segreto per fare molte cose era l’esatta e costante occupazione del tempo. Nello spazio di 30 e più anni che lo conobbi, non mi ricordo di averlo veduto a passare un istante che potesse dirsi ozioso. Terminato un affare, tosto ne intraprendeva un altro. Quante volte fu veduto rimanere cinque ed anche sei ore al confessionale, e poi andare in camera, ove tosto cominciava la solita udienza che durava più ore. Quante volte pure giungere sfinito di forze dal predicare o dal confessare nelle carceri, ed invitato a riposare un momento: la conferenza, egli rispondeva, mi serve di riposo. Quindi con volto allegro recavasi a compiere questa o quell’altra incumbenza. Egli non prendeva mai trastullo per sollevarsi lo spirito, non facezia o parola inutile: l’unico sollazzo per lui era il cangiamento di occupazione, quando era oppresso dalle fatiche. Quando, per es., era stanco dal predicare, andava a pregare, quando era stanco di scrivere, recavasi a visitare gli ammalati, o andava a confessare nelle carceri o altrove.
Il quarto segreto è la sua temperanza, che meglio chiameremmo la sua rigida penitenza. Fin da giovanetto fu così sobrio nel mangiare e nel bere, che dopo il cibo egli era in grado d’intraprendere qualsiasi occupazione scientifica o letteraria. Più tardi depose l’uso della piccola colazione del mattino, di poi omise la cena, e ridusse così il suo alimento ad un solo pasto. Più tardi ancora... ma D. Caffasso, volete voi rovinarvi la sanità, accelerarvi la morte? D. Caffasso ci dà una risposta breve, ma degna della più gloriosa ricordanza: senza una grande sobrietà, egli dice, è impossibile di farci santi. Onde egli senza nulla badare, spinge avanti le sue austerità e porta la quantità de’ suoi alimenti ad un sol pasto al giorno, e questo pasto consiste in pane, minestra ed una piccola pietanza, alla quale pietanza, non di rado rinunciava, rimanendo così 24 ore con un tozzo di pane e con alquanto di minestra. In simil guisa ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, e l’anno intero, per D. Caffasso erano un rigido, uno spaventevole digiuno. ma egli, ad eccezione del momento del cibo, il rimanente del tempo poteva impiegarlo in cose utili pel bene delle anime.
Finalmente D. Caffasso guadagnò tempo nella parsimonia del riposo. L’unico sollievo che dava lungo il giorno al debole suo corpo erano tre quarti d’ora dopo il suo pranzo, in cui egli chiuso in camera, per lo più pregava, meditava, o trattenevasi in qualche pratica speciale di pietà. La sera poi era sempre l’ultimo a coricarsi, e al mattino sempre il primo a levarsi. La durata del riposo notturno non eccedeva mai le cinque ore, spesso erano quattro e talvolta soltanto tre. Egli era solito a dire che un uomo di chiesa deve una sola volta svegliarsi lungo la notte. Colle quali parole ci assicura che egli svegliatosi, qualunque ora fosse, tosto alzavasi di letto per pregare, meditare, o compiere qualche altro affare.
Talvolta gli fu detto di avere riguardo alla sua sanità e riposare qualche ora di più, ma egli sempre rispondeva: il nostro riposo sarà in Paradiso. O Paradiso, Paradiso, chi pensa a te non patisce più stanchezza! ...
Con questi cinque segreti - conclude Don Bosco - D. Caffasso trovava modo di compiere molte e svariate cose in breve tempo e portare così la carità al più sublime grado di perfezione; Plenitudo legis dilectio (Rm 13,10)»33.
Cresciuto docilmente sotto la guida di una tale maestro, il nostro Fondatore ne assimilò lo spirito, rivitalizzandolo nella prospettiva del suo specifico carisma. A noi viene riproposto per una contemplazione di salutare verifica e di conversione. Gli appelli della Chiesa per una rinnovata coscienza e per una pastorale in ordine alle urgenze della nuova evangelizzazione, la delicata fase in cui si trova la Famiglia Salesiana e particolarmente la nostra Congregazione ci impongono inderogabilmente un ritorno alle radici carismatiche e spirituali del modello pastorale consegnatoci da questi nostri Maestri e ci mettono di fronte alle nostre responsabilità.
1 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione e note a cura di A. da Silva Ferreira, Roma1992, I,502-514.
2 G. Cafasso, Opere complete. III: Meditazioni per esercizi spirituali al clero, Torino 1925 (= OC III); IV: Istruzioni per esercizi spirituali al clero, Torino 1925 (= OC IV).
3 OC IV, pp. 10-12.
4 OC III, pp. 203-204.
5 OC IV, pp. 33-34.
6 OC IV, pp. 33-34.
7 OC IV, pp. 44-46.
8 OC III, pp. 213-214.
9 OC III, pp. 223-224.
10 OC III, p. 228.
11 OC III, p. 229.
12 Cfr OC III, pp. 231-235.
13 OC III, p. 233.
14 OC III, p. 242.
15 OC III, p. 244.
16 OC III, pp. 245-246.
17 OC III, p. 49.
18 OC III, pp. 290-291.
19 OC III, p. 319.
20 OC IV, 314. 317. 318.
21 OC IV, 320-321.
22 Funerale celebrato nell’Oratorio di San Francesco di Sales in memoria del Sac. Caffasso Giuseppe, in G. Bosco, Biografia del sacerdote Giuseppe Caffasso esposta in due ragionamenti funebri, Paravia, Torino 1860, p. 20.
23 Ivi, pp. 18-25.
24 Ivi, pp. 29-34.
25 Ivi, p. 35.
26 Ivi, pp. 50-62.
27 Ivi, p. 56.
28 Ivi, p. 67.
29 Ivi, pp. 71-73.
30 Ivi, p. 88.
31 Ivi, pp. 88-91.
32 In Appendice, don Bosco riporta i Pensieri del sacerdote Caffasso Giuseppe per passar bene la giornata: «1. Fare ogni cosa come la farebbe lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo. - 2. Fare le nostre azioni a quel modo che vorremmo averle fatte quando ce ne sarà dimandato conto al tribunale di Dio. - 3. Fare ogni cosa come se fosse l'ultima di nostra vita. - 4. Fare le cose in maniera, come se non se ne avesse a far altra» (ivi, p. 110).
33 Ivi, pp. 91-95.