02 Ottobre - Il valore spirituale dell'amore di amicizia |
Il valore spirituale dell’amore di amicizia
Don Bosco, nella narrazione delle Memorie dell’Oratorio, ci dà la netta sensazione di considerare gli elementi costitutivi del suo Oratorio come un fatto ricevuto, un dono che gli è venuto da Dio tramite l’esperienza di vita, tutta la sua vita: le persone incontrate e le situazioni vissute.
La chiave interpretativa stabilita all’inizio dell’autobiografia («far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo»)1 ci permette di considerare le molte pagine dedicate ai quattro anni di frequenza alla scuola pubblica di Chieri come una rilettura di esperienze giovanili, che il santo ritiene indispensabili per comprendere tutto ciò che verrà in seguito, e come un tentativo di riportare aspetti ed elementi sentiti come costitutivamente propri e definitori del suo spirito e del suo metodo oratoriano, alla loro origine. Essi sono entrati nella sua vita in quell’età splendida tra adolescenza e giovinezza (dai 16 ai 20 anni) per la sua grande capacità recettiva. Questa dote di apertura e di captatività eccezionale, unita all’intuizione assimilatrice capace di amalgamare elementi operativi, educativi e spirituali in una sintesi personale dalle grandi potenzialità, sarà una caratteristica che lo accompagnerà sempre, facendo di lui quel sapiente valorizzatore di dati elementari, di situazioni, di persone e di opportunità storiche piccole e grandi in funzione educativa e pastorale.
Il racconto offerto da Don Bosco, apparentemente memorialistico, è in realtà un riconoscimento, una benedizione per tutto ciò che gli è stato donato e, nello stesso tempo, un’illustrazione della sua proposta formativa secondo un genere letterario che gli è congegnale: quello narrativo.
Qui non possiamo fermarci su tutti i particolari. Ognuno è invitato a rileggere con calma, a studiare attentamente e criticamente, quelle trenta pagine delle Memorie2, rimarcandone le molte sfumature e i diversi livelli interpretativi. Lo scopo è quello di conoscere meglio Don Bosco per innescare una feconda riflessione sulla propria personale esperienza e identità salesiana e sul ruolo che ciascuno ricopre all’interno delle comunità educativo-pastorali nelle quali è inserito. Così ci sarà possibile puntualizzare i tratti da recuperare o valorizzare maggiormente, gli stimoli da offrire, gli atteggiamenti da rivedere, le strategie da reinventare nell’oggi storico della cultura, dei condizionamenti e delle opportunità in cui crescono i nostri giovani e si innestano le nostre comunità salesiane.
Mi limito ad evidenziare alcuni aspetti in grado di stimolare una revisione del nostro itinerario giovanile (proprio come fa Don Bosco) e un ripensamento sulla nostra missione di educatori salesiani.
1 1. I tratti caratterizzanti dell’educatore ideale |
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La descrizione degli anni trascorsi nella scuola pubblica di Chieri ci appare come un grande affresco dai colori caldi e dai diversi punti prospettici. Contemplandolo siamo in grado di cogliere la preoccupazione di Don Bosco di illustrare l’ambiente scolastico di quegli anni come una vivace e originale comunità educativa e formativa globale, nella quale persone, istituzioni ed esperienze, disciplina e giovanile allegria, cultura umanistica, religione e impegno etico crearono il clima ideale per la crescita della sua personalità, stimolando il suo inserimento attivo. L’insieme ci è narrato come una parabola vivente del suo sistema educativo.
Innanzitutto Don Bosco ci presenta alcuni degli adulti che di lui si presero cura a Chieri con un affetto tenero e concreto. L’adolescente, che fino a quel momento è vissuto in ambiente contadino, viene immerso in una realtà umana più variegata. Gli insegnanti delle scuole pubbliche sabaude del tempo erano tutti ecclesiastici. Questo tipo di prete, orientato prevalentemente alla docenza e alla missione educativa, all’interno della grande famiglia educativa chierese, gli offre un’occasione per illustrare le diverse dimensioni dell’impegno formativo e pastorale. Ad ognuno dei suoi professori egli attribuisce caratteristiche e tratti, diversi e complementari, del suo ideale di educatore.
Don Valimberti rappresenta l’accoglienza cordiale, la vicinanza confidente e l’arte di facilitare l’inserimento del giovane nel nuovo ambiente: fu «la prima persona che conobbi ... Mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli; mi invitava a servirgli messa e questo gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento; egli stesso mi condusse dal Prefetto delle Scuole, mi pose in conoscenza con gli altri miei professori»3.
Il teologo Valeriano Pugnetti, professore di sesta, incarna la cura personalizzata e affettuosa: «mi usò molta carità: mi accudiva nella scuola, mi invitava a casa sua e mosso a compassione della mia età e della buona volontà nulla risparmiava di quanto poteva giovarmi»4.
Il professor Vincenzo Cima è descritto come l’insegnante competente ed esigente, che stimola all’impegno e alla responsabilità personale, sa far scaturire energie e buona volontà e facilita l’apprendimento: «uomo severo per la disciplina. Al vedersi un allievo alto e grosso al par di lui, comparire in scuola a metà dell’anno scherzando disse in piena scuola: Costui o che è una grossa talpa, o che è un gran talento. Che ne dite? ... Se avete buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascerò inoperoso. Fatevi animo, e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto che io ve le appianerò»5.
Don Pietro Banaudi, professore di Umanità, ci rappresenta più immediatamente la paternità e l’amorevolezza salesiana, la capacità di conquistare gli alunni percorrendo le vie del cuore e di farsi da essi riamare: «era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti quai figli, ed essi l’amavano qual tenero padre»6.
Il teologo Giuseppe Maloria, suo confessore, fu l’amico dell’anima, il padre spirituale, accogliente, incoraggiante, preveniente; un sicuro punto di riferimento etico nell’esperienza quotidiana del giovane che deve imparare a muoversi nel mare della vita: «La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona del teologo Maloria canonico della collegiata di Chieri. Egli mi accolse sempre con grande bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e a comunicarmi colla maggior frequenza ... Io mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai compagni strascinato a certi disordini che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi»7.
Accanto a costoro va pure collocata Lucia Pianta, vedova di Giuseppe Matta, che lo ospitava nei primi due anni (1831-1833), alla quale, per amore, egli si sottopose obbediente; essa lo coinvolse nella sua missione di educatrice valorizzandone le capacità e la freschezza. «Per l’amore che a quella io portava non voleva andare in nissun luogo, né fare cosa alcuna senza il consenso della medesima ... Ella con gran piacere mi affidò il suo unico figlio, di carattere molto vivace, amantissimo dei trastulli, pochissimo dello studio. Ella mi incaricò eziandio di fargli la ripetizione sebbene fosse di classe superiore alla mia. Io me ne occupai come di un fratello»8.
Tutti questi adulti, che si pongono nei confronti del giovane studente in un rapporto di interazione personale ed esprimono un amore educativo variamente configurato e complementare, vengono messi in scena da Don Bosco per illustrare una delle sue convinzioni consolidate: la comunità educativa, intesa come pluralità di presenze diversificate in modalità relazionali, ruoli e compiti, non solo è un potente mezzo formativo, ma è indispensabile per plasmare personalità complete e serene.
2 2. Amicizia come servizio |
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Altrettanto importanti ci appaiono i rapporti con i compagni. Don Bosco ritiene che la scelta degli amici sia un punto delicatissimo e determinante per la vita di un ragazzo, nel bene e nel male. Pare quasi che le relazioni amicali e la capacità di assumere un comportamento diversificato con i compagni (a seconda della loro “affidabilità”), siano da lui considerate un’ottima scuola di vita per abilitare il giovane ad un inserimento fecondo e attivo nei rapporti sociali.
D’altra parte egli sapeva quanto bisogno di relazione umana e quanta sete di amicizia sincera abbia un adolescente: si tratta di un elemento fondamentale per la sua crescita armoniosa, il suo equilibrio psichico e il concetto di sé che egli va elaborando, ma anche - e questo è particolarmente caratteristico - per il suo progresso spirituale.
Le Memorie dell’Oratorio, innanzitutto, rimarcano la circospezione nella scelta: «In queste prime quattro classi ho dovuto imparare a mio conto a trattare coi compagni. Io aveva fatto tre categorie di compagni: Buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre appena conosciuti; cogli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre famigliarità, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali»9.
Don Bosco, successivamente, mette in evidenza i pericoli provenienti dai cattivi compagni: si tratta di dissipazioni inutili, di dispersioni dall’impegno di crescita e di formazione, di passatempi pericolosi (tutte cose proibite espressamente dai regolamenti scolastici), oppure di vere tentazioni come l’invito al furto.
Sottolinea anche le virtù o gli atteggiamenti che servono come salvaguardia sicura contro ogni cattiva esperienza: l’ubbidienza alla “buona Lucia”, alla quale lo aveva affidato la madre, e la totale sincerità e confidenza con lei: «per l’amore che a quella io portava non voleva andare in nissun luogo, né fare alcuna cosa senza il consenso della medesima buona Lucia»10. Le stesse sottolineature le aveva presentate nel Giovane provveduto (parte I, art. 4: La prima virtù di un giovane è l’ubbidienza a’ propri genitori e superiori), dove si afferma che non è sufficiente la semplice ubbidienza: essa va fatta “prontamente”. A modello di tale cordiale dipendenza e docilità il santo presenta ai lettori Gesù giovane, sottomesso alla Vergine e a san Giuseppe in tutto, il quale, «per ubbidire poi al suo Padre celeste, si offrì a morire spasimando in croce: Factus est obédiens usque ad mortem, mortem autem crucis». Con quest’ultimo riferimento al Cristo obbediente fino alla croce, Don Bosco sposta l’attenzione del ragazzo da motivazioni di ordine pedagogico ad un ambito squisitamente spirituale. In tal modo egli mantiene uno stretto legame tra la vita quotidiana, con le sue esigenze, i suoi ritmi, le sue opportunità e i suoi pericoli, e la vocazione cristiana all’imitazione perfetta del Salvatore.
Nel testo delle Memorie è evidenziato soprattutto il servizio generoso e la cura dei compagni, la disponibilità e l’aiuto prestato con vari servizi per facilitare loro le cose, per migliorarli, per stimolarli al bene, per conquistarne l’affetto. Il figlio di Lucia, innanzitutto: «me lo resi assai docile, ubbidiente e studioso», da dissipato che era. Poi i compagni più trascurati nei doveri, dai quali non solo non si lascia «tirare ai disordini», ma che attrae a sé con l’offerta di sostegno nello studio. Qui Don Bosco fa un’annotazione sulla “falsa benevolenza”, che fomenta lo “spirito di pigrizia” e sulla vera benevolenza che consiste nello stimolo all’impegno e nell’aiuto che fa crescere11.
Giovanni conquista con mezzi vari la benevolenza e l’affezione dei compagni. Essi si sentono attratti da lui. Ne deriva un modello vivace, costruttivo e fascinoso di relazioni, che rappresenta in piccolo il metodo e le dinamiche dell’Oratorio e delle società amicali da lui favorite e proposte (secondo il modello presentato, per esempio, nella biografia di Domenico Savio): «Cominciarono quelli a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti e per fare il tema scolastico e finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo come già quei di Murialdo e di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle Società dell’Allegria; nome che assai bene si conveniva, perciocché era obbligo stretto a ciascuno di cercare que’ libri, introdurre que’ discorsi, e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibito ogni cosa che cagionasse malinconia specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato o nominato il nome di Dio invano, o fatto cattivi discorsi era immediatamente allontanato dalla società»12.
A questo punto Don Bosco ribadisce quanto già ha detto, trascrivendo alcune “regole” essenziali di quella che veniva chiamata la Società dell’allegria: la prima - «evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano» - è mirata a definire la qualità e lo stile del rapporto interpersonale; la seconda - «esattezza nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi» - prospetta l’obiettivo della relazione, orientata al reciproco aiuto e allo stimolo per una maturazione umana e cristiana che anela alla perfezione13.
Come si può facilmente constatare, questa è anche la formula che caratterizza tutta la sua proposta formativa. Egli l’aveva efficacemente sintetizzata nell’espressione biblica «Servite Domino in laetitia», proposta per la prima volta nel Giovane provveduto e ripresa in tutta la sua prassi educativa con sfumature e modulazioni diverse. Ricordiamo l’espressione semplificata, ma efficace suggerita a Francesco Besucco «Allegria, Studio, Pietà»14, e la fortunata affermazione messa sulle labbra di Domenico Savio: «Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitare il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d’oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, servite il Signore in santa allegria»15.
Da questo atteggiamento di allegra e concreta amicizia, che si esplicita nell’aiuto, il santo fa derivare la crescente stima dei compagni: «Io era venerato da’ miei colleghi come capitano di un piccolo esercito. Da tutte le parti io era cercato per dare trattenimenti, assistere allievi nelle case private ed anche per fare scuola o ripetizione a domicilio. Con questo mezzo la divina provvidenza mi metteva in grado di provvedermi quanto erami necessario per abiti, oggetti di scuola ed altro senza cagionare alcun disturbo alla mia famiglia»16.
3 3. Amici esemplari e amicizie spirituali |
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All’interno di queste intense e vivaci relazioni giovanili, di questo Oratorio in germe, Don Bosco rimarca alcuni tipi di amicizia più intima e profonda.
Innanzitutto egli ci prospetta il suo orientamento verso alcuni pochi compagni, «veramente esemplari», preferiti tra gli altri come amici più intimi. A distanza di circa quarant’anni dai fatti egli ritiene opportuno non solo ricordarne i nomi (Guglielmo Garigliano e Paolo Braje), ma anche i criteri che lo guidarono nella scelta: i suoi amici dovevano essere allegri, esemplari nei doveri, amanti della ritiratezza (cioè non dissipati, ma profondi), della laboriosità e della pietà; capaci di dare buoni consigli. «Essi partecipavano volentieri alla onesta ricreazione, ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola. Amavano ambedue la ritiratezza e la pietà, e mi davano costantemente buoni consigli. Tutte le feste dopo la congregazione del collegio, andavamo alla chiesa di S. Antonio dove i Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui raccontavansi parecchi esempi che tuttora ricordo.
Lungo la settimana poi la Società dell’Allegria si raccoglieva in casa di uno de’ soci per parlare di religione ...; ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli, e nel notarci quei difetti personali, che taluno avesse osservato, o ne avesse da altri udito a parlare ... Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa comunione».17
A conclusione della descrizione delle componenti di una società amicale costruttiva e stimolante, proposta a modello per quei giovani che costituiscono il nucleo animatore dell’Oratorio idealizzato dal santo, Don Bosco sente il bisogno di spiegare come tutto ciò fosse stato possibile. Egli ricorda ai suoi lettori, del tutto estranei al clima e allo stile che si era creato in certi ambienti a seguito della Restaurazione piemontese, quale fosse l’ambiente e il fondamento del metodo educativo adottato nell’antica scuola sabauda, ancorata ai tradizionali valori religiosi: «Qui è bene che vi ricordi come di que’ tempi la religione faceva parte fondamentale dell’educazione ...
Questa severa disciplina produceva maravigliosi effetti. Si passava anche più anni senza che fosse udita una bestemmia o cattivo discorso. Gli allievi erano docili e rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell’anno erano tutti promossi a classe superiore»18.
In queste espressioni traspare una certa nostalgia del santo per il buon tempo antico. Sembra quasi che Don Bosco, a Valdocco, abbia voluto riprodurre le condizioni ambientali ideali per ottenere simili effetti, mettendo la Religione - accanto alla Ragione che regola e disciplina ogni scelta di vita e all’Amorevolezza delle relazioni reciproche - come pilastro del suo sistema.
È significativo e non casuale che proprio a questo punto del testo egli ci ricordi la «fortunata avventura» della scelta di un confessore stabile, autenticamente amico, accogliente, buono, incoraggiante alla frequenza sacramentale, efficacemente preveniente contro i disordini.
Dunque, Don Bosco rimarca l’importanza della scelta di amici costruttivi e buoni, ma all’interno di un ambiente educativo fondato sui valori religiosi, secondo modalità e forme congegnali con il clima e la sensibilità romantica del tempo, e in piena apertura di coscienza e di consiglio con il «fedele amico dell’anima» che, in una relazione di accompagnamento, stimola e favorisce il discernimento nelle scelte, fornendone i criteri pratici.
Descrivendo questa cerchia di buoni amici, Don Bosco si sofferma in un lungo indugio narrativo per sottolineare la fortuna di aver trovato un amico del tutto particolare, intimo, spirituale, in Luigi Comollo e il sostanziale ruolo da lui avuto nella propria storia interiore. L’incontro, avvenuto nel terzo anno di frequenza alla scuola pubblica di Chieri (durante il corso di Umanità), determina una svolta positiva nella vita di Giovanni: «Da quel tempo l’ebbi sempre per intimo amico e posso dire che da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano. Ho messa piena confidenza in lui, egli in me; l’uno aveva bisogno dell’altro. Io di aiuto spirituale, l’altro di aiuto corporale»19.
L’irruenza e la vivacità naturale di Giovanni, la delicatezza spirituale, la dolcezza e la maturità del Comollo si fondono e si completano. Dopo la dimostrazione di forza dispiegata in difesa di Antonio Candelo e di Luigi Comollo, beffeggiati e percossi da alcuni prepotenti, l’amico ammonisce Giovanni: «La tua forza mi spaventa, ma credimi, Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo, e che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male»20. Queste parole ci riportano all’ammonizione del personaggio celeste nel sogno dei nove anni: «Non con le percosse, ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»21.
All’influsso positivo dell’amico Don Bosco attribuisce una grande importanza. «Io ammirai la carità del collega, e mettendomi affatto nelle sue mani, mi lasciava guidare dove come egli voleva. D’accordo coll’amico Garigliano andavamo insieme a confessarci, comunicarci, fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al Ss. Sacramento, a servire la S. Messa. Sapeva invitare con tanta bontà, dolcezza, e cortesia, che era impossibile rifiutarsi a’ suoi inviti»22.
Queste righe di Don Bosco ci inducono a pensare che il giovane Comollo abbia avuto un ruolo costruttivo di guida spirituale nei suoi confronti. Infatti gli atteggiamenti di affidamento descritti sono gli stessi che il santo raccomandava ai ragazzi verso il confessore o il direttore spirituale. Pare quasi che egli ci prospetti vari tipi e diversi livelli di accompagnamento spirituale, gli uni affiancati agli altri: l’ambiente positivo e propositivo; il compagno esemplare; l’educatore adulto tutto proteso nel suo impegno formativo; il sacerdote confidente e il confessore di fiducia; l’amico interiore, efficacissimo per la trasformazione della mente e del cuore.
A questa esperienza personale possiamo far risalire, probabilmente, l’origine della prassi adottata nell’ambiente di Valdocco di affidare ad un “angelo custode” i ragazzi più bisognosi di cura educativa e pastorale. Nella vita di Domenico Savio, quando si presenta la Compagnia dell’Immacolata, viene fatto un esplicito riferimento al Comollo come modello di impegno pastorale tra i compagni. Revisionando il Regolamento della Compagnia composto da Domenico e dagli amici, Don Bosco aggiunge: «Prima di accettare qualcheduno, gli si faccia leggere la vita di Luigi Comollo»23.
L’esistenza e la valorizzazione di amicizie intime, in funzione di stimolo alla crescita umana e spirituale, è spesso ricordata dal santo nelle sue opere. Domenico Savio dirà a Giovanni Massaglia dopo gli esercizi spirituali: «Voglio che noi siamo veri amici, veri amici per le cose dell’anima; perciò desidero che d’ora in avanti siamo l’uno monitore dell’altro in tutto ciò che può contribuire al bene spirituale ... Lasciamo i complimenti da parte ed aiutiamoci a farci del bene per l’anima»24.
Domenico divenne apostolo dei compagni conquistandoli con la sua luminosa e gioviale umanità, con la capacità di creare un rapporto di familiarità semplice e calda e con atteggiamenti di autentica amicizia: «Ognuno era amico con Domenico: chi non lo amava, lo rispettava per le sue virtù. Egli sapeva passarsela bene con tutti. Era così rassodato nella virtù che fu consigliato di trattenersi con alcuni giovani alquanto discoli per far prova di guadagnarli al Signore. Ed egli approfittava della ricreazione, dei trastulli, dei discorsi anche indifferenti per ritrarne vantaggio spirituale»25.
Dalla vita di Michele Magone sappiamo quale effetto potesse avere un tale sistema, che Don Bosco descrive come prassi normale nella sua casa: «È consuetudine di questa casa che quando si riceva qualche giovanetto di moralità sospetta o non abbastanza conosciuta si affidi ad un allievo dei più anziani della casa, e di moralità assicurata, affinché lo assista, lo corregga secondo il bisogno fino a tanto che si possa senza pericolo ammettere cogli altri compagni. Senza che Magone il sapesse, nel modo più accorto e caritatevole, quel compagno non lo perdeva mai di vista. Lo accompagnava nella scuola, nello studio, nella ricreazione: scherzava con lui, giuocava con lui»26.
Credo che qui ci vengano offerti interessanti stimoli di riflessione sia sul ruolo dell’affettività e dell’amicizia nella nostra storia spirituale, di ieri e di oggi, sia sulla formazione alle relazioni umane profonde dei giovani a noi affidati e alla valorizzazione delle amicizie nei processi educativi e negli ambienti che da noi dipendono. Abbiamo alle spalle quasi un secolo di riserve e sospetti nei confronti delle “amicizie particolari”. Se essi avevano un fondamento a motivo delle dinamiche psicologiche che si ingeneravano nei chiusi ambienti collegiali del passato, oggi dovremmo riconsiderarli in un orizzonte culturale e spirituale più vasto, aperto al recupero delle originali e potenti intuizioni del nostro santo educatore.
Qui ci pare necessario notare, inoltre, che tali amicizie “spirituali” nell’esperienza e nell’uso educativo di Don Bosco non erano affatto di tipo eccezionale né tantomeno si esprimevano in forme bigotte e ombrose. Esse avevano come base quel tipo di amicizia spontanea, fresca e intensa, basata su simpatia reciproca e su condivisione di gusti e di interessi, che è caratteristica dell’adolescenza e della giovinezza. Su quest’humus fecondo esse germinarono frutti abbondanti e impensati. Il santo ce lo dimostra con il racconto della sua intensa relazione con Giona.
Il giovane ebreo portava in sé alcuni dei doni che più caratterizzano i figli del popolo amato da Dio e aveva una personalità vivace, estrosa, di quelle che piacevano tanto a Don Bosco. Tra i due si creò una spontanea e luminosa connaturalità: «Io gli portava grande affetto, egli poi era folle per amicizia verso di me. Ogni momento libero egli veniva a passarlo in mia camera; ci trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere, ascoltando volentieri mille storielle, che gli andava raccontando»27.
Si tratta di un rapporto caldo e umanamente stimolante, che pure prescindeva da quei valori religiosi che invece apparivano determinati nell’amicizia con Luigi Comollo e i compagni della Società dell’Allegria. Tuttavia, quando si verranno creando le condizioni critiche favorevoli, sarà proprio tale intensità di affetti e di confidenza a costituire il canale privilegiato e tutto naturale per la comunicazione di valori superiori e per l’apertura dello spirito a una trasformazione profonda, anche in assenza delle condizioni che normalmente rendono possibile una condivisione religiosa28.
Dunque, nella vita di Don Bosco e, soprattutto, nel suo racconto emergono due tipi fondamentali e fecondi di amicizia: uno che serve da stimolo a Giovanni; l’altro che lo fa diventare un conquistatore. Entrambi convergono con una efficacia tutta propria alla costruzione e al consolidamento della sua luminosa personalità e alla generazione della sua inconfondibile potenza affettiva.
4 4. Una formazione completa |
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Dopo questa serie di inclusioni, mirate a focalizzare la preziosità delle relazioni umane per la crescita serena della persona, Don Bosco torna ad illustrare un insieme di aspetti che caratterizzarono la vivacità e la fecondità di quel periodo e che descrivono perfettamente lo stile dell’Oratorio. Questo, ricordiamolo, non è tanto un “luogo”, ma un metodo, un clima, un insieme di valori e, soprattutto, un caratteristico tipo di relazioni interpersonali.
Egli presenta la sua formazione religiosa, morale, sociale e culturale attraverso la descrizione anedottica dei ritmi quotidiani, dell’impianto disciplinare, degli studi classici, delle sue intense letture29, e dei trattenimenti nell’allegra comunità studentesca: canto, suono, teatrino, declamazione e giochi vari, «tutti divertimenti di sommo gusto»30.
Tali fattori contribuirono alla maturazione di una personalità equilibrata e completa, pronta ad affrontare le scelte della vita.
Qui le Memorie dell’Oratorio prendono un movimento diverso: dall’allegro e brioso passano al grave e solenne, introducendo, a conclusione del primo quaderno manoscritto delle Memorie, il grande tema della scelta dello stato di vita. Il santo intitola quest’ultimo capitolo: Preparazione - Scelta dello stato. L’indicazione è utile: Don Bosco ci suggerisce che il vertice, il coronamento di tutto ciò che costituisce la tensione dell’adolescenza e della giovinezza dev’essere lo sbocco vocazionale. Tutto va coscientemente orientato al discernimento della personale specialissima collocazione nel disegno di Dio, per un itinerario che sarà altro, che sarà la missione propria nella storia.
Qui sta il cuore della missione oratoriana, l’obiettivo ultimo di ogni rapporto educativo e la forza del progetto formativo, dal quale prendono efficacia e forma i cammini di liberazione, di crescita e costruzione prospettai ai giovani e con loro inventatati e costruiti.
1 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione e note a cura di A. da Silva Ferreira, Roma 1992, I,17-18,
2 Ivi, I,598-1298.
3 Ivi, I,604-609.
4 Ivi, I,612-615.
5 Ivi, I,625-634.
6 Ivi, I,907-910; Si vedano, a questo proposito altri documenti di don Bosco, come la Lettera da Roma del 10 maggio 1884 e i Ricordi confidenziali ai Direttori.
7 Ivi, I,762-772.
8 Ivi, I,678-685.
9 Ivi, I,660-666.
10 Ivi, I,675-676.
11 Ivi, I,691-698.
12 Ivi, I,698-707.
13 Ivi, I,710-713.
14 G. Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, in [A. Caviglia] Opere e scritti editi e inediti di don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti secondo le edizioni originali e manoscritti, vol. VI, Torino 1965, p. 54.
15 G. Bosco, Vita del giovinetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di San Francesco di Sales, in [A. Caviglia] Opere e scritti, vol. IV, Torino 1942-1943, p. 48.
16 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio, I,713-719.
17 Ivi, I,723-740.
18 Ivi, I,740-742.756-760.
19 Ivi, I,848-851.
20 Ivi, I,875-877.
21 Ivi, I,134-135.
22 Ivi, I,878-883.
23 G. Bosco, Vita del giovinetto Savio Domenico, pp. 46-47.
24 Ivi, p. 49 (ma si veda tutto il capitolo 19).
25 Ivi, pp. 46-47.
26 G. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, in [A. Caviglia] Opere e scritti..., vol. V, Torino 1965, p. 206.
27 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio, I,946-950.
28 Cfr ivi, I,950-989.
29 Cfr ivi, I,1200-1225.
30 Cfr ivi, I,1042-1070.