Educare come Don Bosco 2012-2103, Meditazione 3 - Predilezione per i poveri

DICEMBRE 2012


LA MISSIONE SALESIANA:

I GIOVANI PIÙ POVERI E ABBANDONATI”



San Giovanni Bosco è conosciuto ed amato, più in là delle frontiere della Congregazione e della Famiglia Salesiana, e anche della Chiesa stessa, per la sua predilezione per i ragazzi e i giovani, soprattutto i più poveri e abbandonati.



1. “La sua predilezione per i piccoli e i poveri”


La Missione salesiana ha le sue radici nella vita, nelle parole e nell’esempio di Gesù Cristo. Come dice il Concilio Vaticano II, ogni carisma contempla il Figlio di Dio fatto Uomo da diverse prospettive (cfr. LG 46). O, come dicono le nostre Costituzioni, “siamo più sensibili a certi lineamenti della figura del Signore” (Cost. 11). Non è necessario dimostrare che la sua “predilezione per i piccoli e i poveri” costituisce uno dei lineamenti più indubitabili, sicuri e umani, del Signore Gesù. Sarebbero moltissimi i testi evangelici che ce lo dimostrano. Sono però necessarie alcune puntualizzazioni a questo riguardo.


In primo luogo, la parola utilizzata dalle nostre Costituzioni è rilevante. Parlare di predilezione è, anzitutto, parlare di amore; di un amore preferenziale, “maggiore”: ma non esclusivo e, meno ancora, escludente. È una parola molto più adeguata di “opzione”, termine che non esprime amore e può insinuare una certa discriminazione. In Gesù non troviamo mai il rifiuto, verso nessuno; ma, entro un amore universale, ci sono atteggiamenti di predilezione.


Di conseguenza possiamo domandarci: chi è oggetto della predilezione di Gesù? Le nostre Costituzioni, fedeli al Vangelo, parlano “dei piccoli e dei poveri”. Sono due tipologie di destinatari messe insieme o è una sola tipologia, identificata con un’endiade?

Possiamo rispondere evocando le Beatitudini: la prima di esse si riferisce ai “poveri” (Lc 6, 20), o ai “poveri di spirito” (Mt 5, 3)? In tutti e due i testi, si promette ad essi “il Regno di Dio/dei cieli”.


Forse conviene precisare il concetto di “povertàper Gesù. Lo stesso termine serve per designare una situazione negativa, conseguenza del peccato e dell’egoismo umano, e un ideale umano e cristiano, persino approvato nella vita consacrata con un voto.


Povero è la persona per cui il Vangelo è Buona Novella. Questa descrizione del povero non identifica automaticamente la povertà con una situazione sociale ed economica, ma stabilisce fra esse un rapporto molto stretto; e, simmetricamente, non condanna in maniera automatica l’avere, pur indicando il pericolo reale che implica in sé stesso. Certamente in seguito a tale descrizione la persona e il messaggio di Gesù non furono “buona novella” per tutti; gli ostacoli per l’accettazione sono di diverso genere: senza dubbio socio-economici (cfr. il giovane ricco, Mc 10, 17-22 e par.), ma non solo.

Con le parole del cantico di Maria, il Magnificat, possiamo dire che l’atteggiamento umano contrario a questa “povertà” è l’autosufficienza, che porta a rifiutare la Buona Novella del Vangelo e, in fondo, Gesù stesso. Si manifesta in tre direzioni: l’orgoglio – il potere – il denaro. “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore – ha rovesciato i potenti dai troni – ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1, 51-53).

Ricordiamo il testo di Pr 30, 8-9:


Non darmi né povertà né ricchezza,

ma fammi avere il cibo necessario,

perché, una volta sazio, io non ti rinneghi

e dica: “Chi è il Signore?”

Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi

e profani il nome del mio Dio.


Una persona che ha tutto è tentata di dire (forse non con le parole, ma con il suo atteggiamento): “Chi è Dio? Perché ho bisogno di Lui se io basto a me stesso?” Ma, d’altra parte, non possiamo neppure ignorare la difficoltà di credere all’Amore di Dio da parte di chi non ha neppure l’indispensabile, per sé e per i suoi, in ordine a una vita degna di esseri umani, figli/e di Dio.


Cambiando la prospettiva, ma sempre nella nostra sensibilità carismatica, possiamo chiarire questo aspetto centrale nella missione di Gesù accogliendo il suo invito a diventare piccoli per entrare nel Regno di Dio.


Purtroppo non è facile precisare quale tratto dell’infanzia viene sottolineato dal Signore: ci sono molti elementi, tipici di quest’età, a cui certamente Gesù non fa riferimento. In realtà, Lui stesso ci dà le risposte che cerchiamo, anche se dobbiamo dire che molte volte passano inosservate. Nel testo di Marco, il più antico, ci viene detto chiaramente: “Chi non accoglie/riceve il Regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10, 15). La parola chiave è il verbo “accogliere/ricevere” (nell’originale greco: ). E questo ci porta alla domanda: Come ricevono i bambini quello che viene loro dato? La risposta è semplice e immediata: con gioia e senso di riconoscenza, proprio perché non “meritano” quello che ricevono.


Purtroppo man mano che andiamo avanti nella vita perdiamo questo senso della gratuità, e con esso anche la gioia e il senso della gratitudine: “La semplicità, quello che il Nuovo Testamento chiama simplicitas, non è altro che ‘fiducia nell’amore’” 1.


Se prendiamo sul serio il carattere religioso della missione di Gesù arriviamo a precisare il profilo della sua predilezione radicale e la sua illimitata compassione per i più poveri, gli ammalati e gli emarginati, con i quali stabilisce una totale solidarietà, ma anche la sua predilezione per i peccatori, indubbiamente più “scandalizzante”. Sono i più lontani da Dio e, proprio per questo, sono quelli che più hanno bisogno del suo Amore e del suo Perdono; inoltre, sono quelli maggiormente disposti a ricevere, con la gioia e il senso di riconoscenza tipico del bambino, quello che come dono viene loro offerto: la misericordia di Dio e la salvezza (ricordiamo il caso “esemplare” di Zaccheo, Lc. 19, 1-10).


Senza dubbio in una società teocratica, come quella di Israele, tale scelta attirava il disprezzo “sociale”, ma si sottrarrebbe il midollo di questa missione di Gesù spostando la categoria del “peccatore” nella categoria sociale dell’“emarginato”. Non è per via dell’emarginazione sociale che Gesù mostra la sua predilezione per i peccatori, ma perché essi sono in pericolo di perdersi. Non prendere sul serio questo fa diventare il Cristianesimo un movimento sociale che, soprattutto nel nostro tempo, si converte in una ONG, spesso irrilevante e obsoleta. E qualcosa di simile possiamo dire del nostro lavoro salesiano, nella misura in cui non mira a realizzare e a manifestare questa meravigliosa sintesi tra ricerca della salvezza e promozione integrale.


Questo modo di pensare forse è accettato in linea di principio, ma raramente diventa criterio di azione e strategia anche sociale. Esso, invece, dovrebbe essere la modalità con cui la Chiesa offre un servizio insostituibile per la trasformazione della società, soprattutto di fronte all’ingiustizia e all’idolatria del potere e del denaro, che sembrano crescere senza misura.


Tutto questo riflette una profonda convinzione del cristiano, appresa dal Maestro: il male contro cui vogliamo lottare non procede, in ultima analisi, dalle strutture sociali, politiche o economiche, ma dal cuore dell’uomo (cfr. Mc 7, 20). E “solo l’amore è capace di trasformare in modo radicale i rapporti che gli esseri umani intrattengono tra loro” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 4).



2. “con Don Bosco riaffermiamo la preferenza per la gioventù povera”


Quanto abbiamo appena detto non elimina la nostra preferenza carismatica, ma la illumina; anzi, conferma la sintesi che vuole la Missione salesiana impegnata a condividere la Missione universale della Chiesa (cfr. Cost. 3), che è fondamentalmente religiosa, da una parte e dall’altra ad affrontare e offrire risposte concrete alla problematica sociale ed economica del mondo. Dobbiamo riaffermarlo chiaramente: i nostri destinatari sono “i giovani, specialmente i più poveri” (Cost. 26), “anzitutto i giovani che, a causa della povertà economica, sociale e culturale, alle volte estrema, non hanno possibilità di riuscita” (Reg. 1).


Questa fusione definisce la nostra identità salesiana nella realizzazione della Missione. Il nostro Carisma afferma chiaramente il tipo di povertà a cui ci riferiamo, ma allo stesso tempo sottolinea anche il perché ci dedichiamo ai giovani che vivono in questa situazione. Quest’ultimo aspetto è richiamato dall’articolo costituzionale: “i giovani vivono un’età in cui fanno scelte di vita fondamentali che preparano l’avvenire della società e della Chiesa. Con Don Bosco riaffermiamo la preferenza per la ‘gioventù povera, abbandonata, pericolante’, che ha maggior bisogno di essere amata ed evangelizzata, e lavoriamo specialmente nei luoghi di più grave povertà” (Cost. 26).


Il Rettor Maggiore, commentando questo tratto essenziale del nostro Carisma, scrive:

Conviene far notare che questa predilezione in Don Bosco non deriva solo dalla magnanimità del suo cuore paterno, ‘grande come l’arena del mare’, né dalla situazione disastrosa della gioventù del suo tempo – come anche del nostro -, né molto meno da una strategia socio-politica. All’origine di essa c’è una missione di Dio: “Il Signore ha indicato a Don Bosco i giovani, specialmente i più poveri, come primi e principali destinatari della sua missione” (C 26). Ed è bene ricordare che questo avvenne “con l’intervento materno di Maria” (C 1); infatti Ella “ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani e l’ha costantemente guidato e sostenuto” (C 8). In tale senso è ‘normativo’, e non un semplice aneddoto, l’atteggiamento che Don Bosco assunse in un momento decisivo della sua esistenza sacerdotale, di fronte alla Marchesa di Barolo e all’offerta, certamente apostolica e santa, di collaborare nelle sue opere, abbandonando i ragazzi straccioni e soli: “Ella ha danaro e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe’ suoi istituti. De’ poveri fanciulli non è così…” (ACG 384, p. 19).

Qui Don Bosco aggiunge una motivazione, che non è solo affettiva o pedagogica, ma teologica: “I miei poveri ragazzi hanno soltanto me”. È cosciente di essere una mediazione, una epifania dell’Amore di Dio per loro; senza di lui, tutti questi “ultimi” saranno privi della manifestazione dell’Amore di Dio e, di conseguenza, dell’esperienza di Dio come Padre. Detto con un’espressione evangelica, senza di lui essi sarebbero come pecore senza pastore. “Gesù, sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore” (Mc 6, 34; Mt 9, 36 aggiunge: “stanchi e sfiniti…”).


3. “poveri, abbandonati e in pericolo”


Nella Lettera appena citata Don Pascual aggiunge: “Sarebbe molto interessante approfondire le caratteristiche tipiche dei destinatari preferenziali della nostra missione: “giovani poveri, abbandonati e in pericolo”. Anche se oggi si parla di ‘nuove povertà dei giovani’, la povertà allude direttamente alla loro situazione socio-economica; l’abbandono richiama la ‘qualifica teologica’ di privazione di sostegno a causa della mancanza di una mediazione adeguata dell’Amore di Dio; il pericolo rimanda ad una fase determinante della vita, l’adolescenza-gioventù, che è il tempo della decisione, dopo la quale molto difficilmente si possono cambiare le abitudini e gli atteggiamenti adottati. Tale approfondimento serve come punto di partenza per determinare in ogni Ispettoria (cfr. Reg. 1) e comunità, quali sono i destinatari prioritari nell’hic et nunc concreto, tenendo conto, certo, dei criteri or ora segnalati” (ACG 384, p. 20).


Qui troviamo la straordinaria chiaroveggenza e capacità di sintesi di Don Bosco, tra la problematica socio-economica veramente lancinante, la visione pedagogica eccezionale e una fede incrollabile nell’Amore di Dio verso tutti, in particolare per i più bisognosi. Fermiamoci a contemplare questa “meraviglia della Grazia” che è il nostro Padre. Cerchiamo di vedere queste tre espressioni come dimensioni di una realtà globale, che caratterizza i nostri destinatari prioritari, e come prospettiva che ci permette di concretizzare, nel nostro lavoro educativo pastorale con loro, la Missione che Dio ci affida.


È necessario, d’altra parte, ricordare che la Missione non dipende dai destinatari, come se fosse opzionale o dipendesse dalle circostanze, essere o non-essere segni e portatori dell’Amore di Dio! La Missione non è “negoziabile”.


Quel che succede spesso, purtroppo, non è tanto il fatto di dimenticare che la situazione dei nostri destinatari non può precedere la Missione, quanto di dimenticare che la loro situazione deve precedere le attività e le opere. Cercando di schematizzare questo, possiamo dire che alle volte il nostro discernimento e le nostre decisioni non sono del tutto adeguate, perché procediamo in questa maniera:


Missione - attività e opere - destinatari


mentre, nella fedeltà alla Volontà del Signore, dovrebbe essere:


Missione - destinatari - attività e opere.

Non si tratta di vedere chi può frequentare e usufruire delle nostre attività e delle nostre opere (molte volte, purtroppo, non sono quelli che dovrebbero poter venire!), ma quali attività e opere dobbiamo realizzare, nell’hic et nunc, in favore di quelli a cui il Signore ci invia in maniera prioritaria.

Se all’inizio abbiamo parlato della povertà come un valore, tale da essere assunto nella vita consacrata come voto, non possiamo dimenticare che, entro l’ambiguità della parola, c’é anche una situazione socio-economica che va contro il piano amoroso di Dio e rende difficile, molto spesso impossibile, sentirsi figlio/a di Dio, amato/a personalmente da Lui. Come possiamo parlare dell’Amore di Dio ad una persona che non ha, per se e per i suoi, l’indispensabile per vivere?


Mi sembra interessante approfondire ancora la risposta che Don Bosco ha dato (o meglio: la chiamata che ha sentito, da parte di Dio) a fronte della situazione giovanile del suo tempo; essa diventa normativa anche per noi. È ovvio che non è stato lui l’unico a percepire la problematica dei giovani abbandonati a Torino e nelle grandi città (una situazione, per alcuni versi, qualitativamente nuova): molte personalità rilevanti hanno preso esplicita posizione di fronte ad essa, da prospettive anche diverse. C’è una corrente della letteratura, per esempio, che denuncia questa situazione: possiamo ricordare, tra tanti libri rappresentativi di questa scuola, la classica opera di Charles Dickens, Oliver Twist. Carlo Marx, da parte sua, cerca di trasformare questa situazione ingiusta partendo da una posizione atea e dà la sua soluzione. Dostoevskij sentì in forma così acuta la sofferenza degli innocenti, in particolare quella dei bambini, da proporla come il motivo più forte contro la fede in Dio. Don Bosco, invece, che non era certo meno sensibile di loro, non si fermò in una posizione teorica né di ateismo né di teodicea: nel nome del Dio di Gesù Cristo e del suo Amore, donò totalmente la sua vita per il bene integrale, temporale ed eterno, del lumpenproletariat infantile e giovanile.


Per concludere vorrei aggiungere una riflessione personale. Per designare i nostri destinatari prioritari vorrei utilizzare una parola che, pur non essendo evangelica, esprime nel suo senso etimologico una grande ricchezza. Mi riferisco alla parola “in-significante”. Nella semantica abituale il termine tende a identificarsi con qualcosa di “piccolo”, ma l’origine etimologica non va in questa direzione. Facciamo un esempio: un’opera salesiana significativa (per la presenza dei salesiani, per una vicinanza ai ragazzi che permette di conoscerli personalmente, per la qualità dell’educazione e della formazione cristiana, ecc.), può correre il rischio di crescere tanto da diventare insignificante, cioè da non essere più segno di quello che dovrebbe manifestare.


Partendo da questa accezione etimologica e giocando un po’ con le parole si può dire: “siamo un segno dell’Amore salvifico di Dio, quanto più insignificanti, dal punto di vista umano, sono i nostri destinatari”. Come dice il Rettor Maggiore, nella sua Lettera sull’Eucaristia, a proposito dell’invito al banchetto e del suo rapporto con la povertà: “Non è l’invito interessato agli amici e ai parenti (cfr. Lc 14, 12-13; Mt 5, 46-47), che non avrebbe senz’altro nulla di male, ma che non diventa ‘segno evangelico’, né produce lo scandalo salutare perché quello ‘lo fanno anche i pagani’ (Mt 5, 47)”; ma la predilezione evangelica “per i più poveri e gli abbandonati, per gli emarginati, per i peccatori, per tutti gli umanamente insignificanti” (ACG 398, p. 35).


4. “La Missione da’ a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto” (Cost. 3)


Nel CG 22, il Rettor Maggiore di allora, D. Egidio Viganò, precisò il senso della consacrazione nella vita religiosa, ricordando che, nello spirito del Concilio Vaticano II, questa consacrazione ha due caratteristiche fondamentali: è opera di Dio (soltanto Lui consacra, non siamo noi che “ci consacriamo” a Lui) ed è omnicomprensiva, non si riferisce ad un “settore” della nostra vita, ma abbraccia tutte le sue dimensioni. In questo senso consacrazione e missione non sono due “parti”, ma costituiscono, da due diverse prospettive specifiche, il “tutto” della nostra vita. Con altre parole, tutto è consacrazione e tutto è missione.


Per concretizzare queste riflessioni mi sembra che si debba stabilire un rapporto tra la predilezione per i giovani più poveri e alcuni grandi temi.


1. In primo luogo, la gratuità: questo tratto fondamentale dell’amore non è messo in discussione; tuttavia potrebbe essere in pericolo qualora ci allontanassimo dalla nostra “predilezione carismatica”. D’altra parte conviene sottolineare ancora una volta che questa gratuità non esclude affatto una risposta. Al contrario, l’aspetta e la “esige”: proprio perché non può “dare” niente, il ragazzo manifesta la sua corrispondenza all’amore donandosi, a sua volta, in maniera totale.


Tra moltissimi aneddoti della vita del nostro Padre, vorrei sceglierne soltanto uno, particolarmente espressivo e, nella sua semplicità, commovente. Si riferisce a un giovanetto dei primi tempi dell’Oratorio, che


veniva dal far le spese. Questi teneva in mano, con le altre provviste, un bicchiere pieno di aceto ed una bottiglia con olio. Visto Don Bosco, si mise a saltare per allegrezza ed a gridare: - Viva don Bosco! – Don Bosco ridendo gli disse: - Sei capace a fare come faccio io? – e così dicendo batteva le palme della mano una contro dell’altra. Il fanciullo, che era fuor di sé per la contentezza, mette la bottiglia sotto il braccio e grida di nuovo: - Viva Don Bosco! E batte le mani. Naturalmente per far ciò aveva lasciato cadere bicchiere, bottiglia e quanto aveva, e i cristalli si ruppero. A quel rumore egli resta un istante come sbalordito e poi si mette a piangere dicendo che, tornato a casa, sua madre lo avrebbe bastonato” (MB II, 94-5).


Tutto venne risolto, grazie alla generosità della padrona di una bottega.


2. L’espressione-manifestazione dell’amore: la Missione salesiana presuppone che i nostri destinatari prioritari, oggetto privilegiato dell’Amore di Dio, non abbiano esperienza di quell’amore; da qui la necessità urgente di propiziare questa percezione nella maniera più forte e concreta possibile. Don Pascual dice: “cercare di offrire il massimo a quelli a cui, purtroppo, la vita ha dato il minimo”. Un elemento fondamentale è la possibilità effettiva di promozione integrale attraverso l’educazione per non fermarsi a belle parole o pii desideri.


3. Un altro aspetto, che mi sembra particolarmente importante e delicato oggi, è l’esigenza che questa ricezione dell’Amore di Dio sia percepita attraverso la manifestazione (paterna – materna - fraterna) del nostro agape-eros… come per Don Bosco. E questo, dobbiamo dirlo immediatamente, non ha nulla a vedere con la sessualità ed è tutto il contrario di una pericolosa deviazione.


C’è un passaggio della Ratio 2000 – nel fascicolo su Le Ammissioni – che sintetizza questo tratto in maniera particolarmente indovinata. Fa allusione al pericolo che questo amore, che si manifesta nello stile salesiano, possa confondersi con la sua radicale falsificazione: concretamente, la controindicazione omosessuale. Sappiamo che, per ragioni psicologiche particolarmente sottili, questa inclinazione si accentua soprattutto nel rapporto con ragazzi fragili e “indifesi”, come dovrebbe essere il destinatario tipico della nostra azione educativa e pastorale. Il testo dice: “Per le sue peculiari caratteristiche, essa (la vocazione consacrata salesiana) comporta specifiche esigenze in riferimento alla omosessualità. Si tratta infatti di una vocazione-missione che si vive in comunità maschili, che porta ad agire in costante contatto con la gioventù povera, di preferenza maschile, bisognosa di attenzione e di affetto, con uno stile di famiglia e un metodo educativo che si esprimono attraverso l’amorevolezza, la capacità di farsi amare e di dimostrare amore” (Le Ammissioni, n. 77, pp. 56-57).


Dobbiamo essere molto attenti ad evitare ogni tipo di deviazione in questo campo; ma non possiamo, per timore di questa falsificazione, rinunciare ad un tratto specifico ed essenziale del nostro Carisma! L’identità autentica della nostra castità consacrata ci permette di essere “testimoni della predilezione di Cristo per i giovani, ci consente di amarli schiettamente in modo che ‘conoscano di essere amati’ e ci rende capaci di educarli all’amore e alla purezza” (Cost. 81).


4. Un altro aspetto, molto importante e concreto, che il Rettor Maggiore ha voluto sottolineare nella sua Strenna 2008, riguarda i diritti umani. Promuovere i diritti umani, in particolare quelli dei minori, come via salesiana per la promozione di una cultura della vita e il cambiamento delle strutture. Il Sistema Preventivo di Don Bosco ha una grande proiezione sociale. “L’educazione ai diritti umani, in particolare ai diritti dei minori, è la via privilegiata per realizzare nei diversi contesti l’impegno di prevenzione, di sviluppo umano integrale, di costruzione di un mondo più equo, più giusto, più salubre. Il linguaggio dei diritti umani ci permette anche il dialogo e l’inserimento della nostra pedagogia nelle differenti culture del nostro mondo”.


Vorrei terminare ricordando nuovamente la frase finale nella sezione costituzionale sulla castità: Il salesiano “ricorre con filiale fiducia a Maria Immacolata e Ausiliatrice, che lo aiuta ad amare come Don Bosco amava” (Cost. 84).

1 JOSEF PIEPER, Sull’Amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 58, citando Stanislaus Graf von Dunin-Borkowski SJ.

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