OTTOBRE 2012
“RIPARTIRE DA DON BOSCO”
“Ripartire da Don Bosco per risvegliare il cuore di ogni salesiano, per ritornare ai giovani con una identità carismatica rinnovata e una più ardente passione apostolica” (ACG 394), così il Rettor Maggiore indicava la finalità principale del CG26.
1. “Il Signore ci ha donato Don Bosco come padre e maestro” (Cost. 21)
Questo “ripartire da Don Bosco”, non consiste, evidentemente, in un “ritorno del figlio prodigo verso la casa paterna”: in realtà, mai siamo andati via dalla nostra Casa, dal nostro Carisma. Ciò nonostante, ci sono elementi oggettivi che ci spingono a rinnovare e progettare la nostra fedeltà a Don Bosco e al Carisma Salesiano, di fronte alle nuove sfide della storia e dei giovani. Nella Lettera di Convocazione del CG26, il Rettor Maggiore ci diceva: “Oggi più che ieri e domani più di oggi, c’è il grave rischio di spezzare i legami che ci tengono uniti a Don Bosco. Siamo ad oltre un secolo dalla sua morte. Sono ormai decedute le generazioni di salesiani che erano venute a contatto con lui e lo avevano conosciuto da vicino. Aumenta il distacco cronologico, geografico e culturale dal fondatore. Viene a mancare quel clima spirituale e quella vicinanza psicologica, che consentivano uno spontaneo riferimento a Don Bosco e al suo spirito” (ACG 394, p. 9).
Vorrei iniziare con un riferimento alla grandezza straordinaria di Don Bosco; essa riempie il nostro cuore di legittimo orgoglio, ma non è priva di rischi. Un rischio molto concreto è, ad esempio, quello di perderci nella complessa molteplicità di tratti che caratterizzano la sua personalità; si potrebbe persino perdere di vista l’essenziale della sua persona o del Carisma che, per mezzo di lui, lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa e all’umanità. Come dice un proverbio, talvolta “gli alberi ci impediscono di vedere il bosco”. Come semplicissimo esempio, ricordiamo di quante professioni e attività umane è patrono Don Bosco per sottolineare, anche in questa maniera, il carattere poliedrico della sua personalità.
Parlando di san Francesco d’Assisi, il geniale scrittore inglese G. K. Chesterton dice che, alle volte, si è voluto interpretare il profilo della sua santità nelle più diverse maniere: da iconoclasta a patrono dell’ecologia, dimenticando ciò che è essenziale e che dà senso a tutte le altre dimensioni: l’essere innamorato di Cristo. Quello che ha fatto S. Francesco, lo fa soltanto un pazzo… o un innamorato. E aggiunge, con la sua abituale ironia, che questi interpreti procedono come chi vuole scrivere una biografia di Amundsen imponendosi di non parlare dei due Poli (Nord e Sud). Se vogliamo fare un paragone più attuale: scrivere la biografia di Pelé o di Maradona, con la proibizione di fare qualsiasi allusione … al calcio!
Anche per Don Bosco “alla base di tutto, quale sorgente della fecondità della sua azione e della sua attualità, c’è qualcosa che spesso ci sfugge: la sua profonda esperienza spirituale, quella che si potrebbe chiamare la sua ‘familiarità con Dio’” (ACG 394, p. 12). La possiamo cogliere da un episodio poco noto delle Memorie Biografiche.
Durante la visita fatta da Don Bosco al Seminario di Grenoble, in Francia, “nell’ora della lettura spirituale che precedeva immediatamente la cena, […] si unì ai seminaristi per il pio esercizio; ma quella volta il leggere venne sostituito da una esortazione di Don Rua. Questi prese a ragionare sul tema dell’amor di Dio per noi. Scrive uno che fu presente: ‘Le sue ardenti parole rivelavano in lui un’anima infocata. Più che meditazione era contemplazione, ma per il Santo diventò estasi. Grosse lacrime gli rigavano le guance e il Superiore, come se n’avvide, con la sua voce dolce e simpatica disse forte: - Don Bosco piange. – È impossibile esprimere l’emozione prodotta nelle nostre anime da quella semplice parola. Le lacrime del Santo furono ancor più possenti che gl’infiammati sospiri di Don Rua. Noi ci sentimmo profondamente scossi e riconoscemmo la santità al segno dell’amore, né avevamo più bisogno di miracolo per manifestare al Santo la nostra venerazione, mentre di là s’andava nel refettorio’” (MB XVIII, p. 131).
“Ripartire da Don Bosco”, allora, altro non è che crescere in ciò che costituisce l’identità cristiana: la centralità di Dio nella nostra vita. Il nostro santo Fondatore l’aveva scritto nel primo articolo delle Costituzioni originali: “Il fine della Società Salesiana è che i soci, mentre si sforzano di acquistare la perfezione cristiana, esercitino ogni opera di carità spirituale e corporale verso i giovani, specialmente i più poveri”. È cercare sempre la “misura alta” della vita cristiana e consacrata: la santità, nell’esperienza del triplice atteggiamento teologale che ci fa vivere sempre di più come lui ha vissuto, “come se vedesse l’Invisibile” (Cost. 21).
Con la canonizzazione di Don Bosco la Chiesa ha riconosciuto l’eroicità delle sue virtù, la sua santità, ma essendo egli Fondatore, “garantisce che nel suo carisma spirituale e apostolico si trovano tutti i requisiti oggettivi per raggiungere la perfezione evangelica personale e comunitaria” (VC, n. 93). Sulla stessa linea si trova l’affermazione dell’articolo primo delle nostre Costituzioni: “La Chiesa ha riconosciuto in questo l’azione di Dio, soprattutto approvando le Costituzioni e proclamando santo il Fondatore” (Cost. 1).
“Cari Salesiani, siate santi”, ci invitava il Rettor Maggiore nella sua prima Lettera, elencando, inoltre, le caratteristiche della santità salesiana (cfr. ACG 379, pp. 8-10). L’intera Lettera è un invito ad accettare questa sfida; la nostra santificazione, infatti, “è ‘il compito essenziale’ della nostra vita, secondo l’espressione del Papa. Raggiunto questo, tutto è raggiunto; fallito questo, tutto è perduto”. S. Paolo afferma la stessa cosa a riguardo della carità (cfr. 1 Cor 13, 1-8), essenza della santità” (ibid., p. 11).
Don Bosco ci invita, anzitutto, a camminare nella santità, in modo che la Missione ne sia l’espressione e la conseguenza; mentre la Missione diventa un cammino per crescere in essa. “La testimonianza di questa santità, che si attua nella missione salesiana, rivela il valore unico delle beatitudini, ed è il dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani” (Cost. 25).
Mi permetto di fare una seconda precisazione, prendendo ispirazione dal Prologo del libro di Papa Benedetto, Gesù di Nazaret. È una semplice analogia.
È indubbio che per conoscere Don Bosco adesso abbiamo, più che nel passato, molti contributi da diverse discipline (storia, linguistica, psicologia, sociologia, ecc.). Ma possiamo correre il rischio segnalato dal Santo Padre a proposito del metodo storico-critico. Detto con un’immagine semplice, ma efficace: possiamo accontentarci o privilegiare una radiografia di Don Bosco, invece di preferire il suo volto vivo ed attuale. Se un chirurgo deve intervenire sulla madre, non cerca fotografie che la ritraggono, ma radiografie; ha bisogno degli studi più specializzati possibili. Nel suo ufficio o sulla sua scrivania, però, non mette la radiografia, ma la fotografia più fedele e “viva”.
Come Congregazione, anzi come Famiglia Salesiana, dobbiamo cercare sempre di più una sintesi che ci permetta di conoscere vitalmente l’autentico Don Bosco, perché, come dicevamo nel titolo di questo paragrafo, ci è stato donato da Dio come Padre e Maestro.
2. “Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia” (Cost. 21)
Don Bosco è stato dotato di una ricchezza fuori dal comune: “profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, era ricolmo dei doni dello Spirito Santo”; d’altra parte, era capace non soltanto di uno “splendido accordo” di natura e grazia, ma anche della loro fusione in un “progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani”. Anche da questa prospettiva il salesiano, dotato egualmente (non nella stessa misura, indubbiamente) di doni di natura e di grazia, è chiamato ad essere un uomo di sintesi, di equilibrio, di buon senso, che non cerca di ipertrofizzare o, al rovescio, atrofizzare nessuna delle sue dimensioni fondamentali. Il salesiano deve essere, nel miglior senso della parola, un uomo normale – come è stato descritto dal Cardinale Pironio all’inaugurazione del CG 22 -, non nel senso di “mediocre”, ma, al contrario, infiammato dalla passione dell’amore per i giovani, alla ricerca del loro massimo bene, la loro salvezza.
1. Don Bosco era straordinariamente sensibile al senso della gratuità. Lo si coglie soprattutto dalla predilezione carismatica per i più “insignificanti”.
Ricordiamo quello che il Rettor Maggiore scrive nella sua Lettera “Contemplare Cristo con lo sguardo di Don Bosco”, a proposito dell’esperienza vissuta con gli allievi dei Gesuiti, nel tempo della sua formazione seminaristica: “Mentre studiava filosofia, Giovanni Bosco accompagnò dei giovani di classe benestante in un soggiorno estivo dei Gesuiti nei pressi di Torino, al quale essi avevano invitato i loro convittori durante una epidemia. Se è vero che egli non trovò difficoltà nel rapporto con loro, anzi ebbe in questi giovani degli amici che gli volevano bene e lo rispettavano, si convinse che il suo ‘metodo’ non si adattava ad un sistema di ‘compenso reciproco’: ‘a Montaldo (…) percepì la difficoltà di ottenere su quei giovani l’influsso pieno che è necessario per far loro del bene. Quindi si persuase di non essere chiamato ad occuparsi di giovani di famiglie agiate’” (ACG 384, p. 17).
Vorrei approfondire ancora questo tema. La vita, ogni vita umana, è il dono per eccellenza, poiché tutti la possiedono; ma anche perché qualsiasi altro dono, “di natura o di grazia”, la presuppone. Sarebbe ovvio dire che anche Don Bosco ne era convinto; c’è però molto di più in lui: avendo visto la propria vita minacciata dalla morte ha imparato a valutarla in una misura infinitamente più grande. La descrizione classica di quest’esperienza si trova nella vita di Dostoevskij, nella situazione che Stefan Zweig chiama “uno dei momenti cruciali dell’umanità”; il romanziere russo lo descrive in “terza persona”:
“Gli restavano cinque minuti di vita, non di più. Diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, una immensa ricchezza (…) Egli moriva a ventisette anni, sano e forte (…) In quel momento nulla gli era più penoso di questo pensiero incessante: “Se si potesse non morire! Se si potesse far tornare la vita, quale eternità! E tutto ciò sarebbe mio! Allora di ogni minuto farei tutt’un secolo, non ne perderei uno solo, di ogni minuto terrei conto preciso, non dissiperei più nulla invano!” 1
Tutti conosciamo il commovente testo delle Memorie Biografiche che ci presenta la malattia mortale di Don Bosco, ma non resisto a trascrivere ciò che Don Bosco ha scritto:
“Mi sembrava che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giovanetti; ma era contento che terminava i miei giorni, sicuro che l’Oratorio ormai avesse una forma stabile”. Questa sua sicurezza proveniva dall’essere certo che l’Oratorio era voluto e fondato da Dio e dalla Madonna. “Fin dal principio della settimana, sparsasi la funesta notizia di questa malattia, successe nei giovani dell’Oratorio un dolore, un’angoscia indescrivibile (…) Allora succedevano scene tenerissime: ‘Me lo lasci solo vedere’, domandava uno; ‘non lo farò parlare’, assicurava un secondo (…); ‘se Don Bosco sapesse che io son qui, mi farebbe entrare’, diceva un altro (…) Don Bosco udiva i dialoghi che si facevano col domestico e ne era commosso (…) Vedendo che i rimedii umani non lasciavano ormai speranza alcuna, essi ricorsero a quelli del Cielo, con un fervore ammirabile (…) Era un sabato del mese di luglio, giorno sacro all’Augusta Madre di Dio.
Conosciamo benissimo anche la conclusione di questo momento decisivo, un vero spartiacque nella vita di Don Bosco. Invitato dal teologo Borel a fare almeno una piccola preghiera per la propria salute, con molta difficoltà Don Bosco, finalmente, ha chiesto: “Sì, Signore, se così vi piace, fatemi guarire”. “Al mattino i due dottori Botta e Cafasso venuti a fargli visita col timore di trovarlo morto, tastato il polso, gli dissero: - Caro Don Bosco, vada pure a ringraziare la Madonna della Consolata, chè ne ha ben donde”.
La scena in cui il caro Padre ritorna in mezzo ai suoi figli fu “uno spettacolo, una festa tanto cordiale che si può immaginare, descrivere non già”. “Don Bosco volse eziandio poche parole. Tra le altre cose disse: ‘Io vi ringrazio delle prove di amore che mi avete dato durante la malattia; vi ringrazio delle preghiere fatte per la mia guarigione. Io sono persuaso che Dio concesse la mia vita alle vostre preghiere; e perciò la gratitudine vuole che io la spenda tutta a vostro vantaggio spirituale e temporale. Così prometto di fare finché il Signore mi lascerà su questa terra, e voi dal canto vostro aiutatemi” (MB II, 492-499).
Forse la gran parte di noi non farà questa esperienza: la cosa più importante, tuttavia, è essere convinti che se Dio ci ha chiamato a questa vita, come salesiani, è per dire come il nostro Padre: “Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche a dare la vita” (Cost. 14).
2. La centralità di Dio è la chiave per capire la vita di Don Bosco: la fede in Dio è inseparabile dalla sequela e imitazione di Gesù Cristo. Per il nostro Padre, parlare di “religione” era praticamente uguale a parlare di Cristianesimo: nel suo tempo e nel suo contesto socio - culturale - religioso questo è innegabile. Se fosse vissuto in questi tempi Don Bosco sarebbe stato senza dubbio il primo ad invitarci a partecipare attivamente al dialogo ecumenico e interreligioso, proprio perché era convinto che Gesù Cristo è - con le parole del Magistero e della teologia attuale - “l’unico e universale Salvatore dell’umanità”.
È Gesù Cristo che, dai primi anni della sua vita, guida e orienta tutte le sue azioni. È Gesù Cristo che, nel sogno dei nove anni, gli indica una missione, facendogli comprendere che tutta la sua esistenza è segnata da questa vocazione-missione, e che gli dà la Maestra, “senza cui ogni sapienza diviene stoltezza” 2. È Gesù Cristo che lui scopre, ama e serve in ogni persona che trova sul suo cammino, in particolare i giovani più poveri e abbandonati, prendendo totalmente sul serio le parole del Signore in Mt 25, 31ss. È Gesù Cristo che lui vuole “modellare” in essi, attraverso un cammino dove la pedagogia e la catechesi si integrano a vicenda, in maniera piena: “Come Don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a essere educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero. Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto affinché, scoprendo in lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi” (Cost. 34).
Questa centralità del Signore Gesù nella vita di Don Bosco consegna una sensibilità carismatica che porta a privilegiare alcuni lineamenti della sua inesauribile figura (cfr. Cost. 11): tra queste, come sottolineava il Rettor Maggiore nella sua Lettera alcuni anni fa, quelli di Apostolo del Padre e di Buon Pastore. Nella contemplazione di Gesù Cristo, Buon Pastore, Don Bosco “impara” il Sistema Preventivo: la gratitudine, la preoccupazione e predilezione per il più lontano, l’amore fatto amorevolezza, la conoscenza personale (“il buon pastore conosce le sue pecorelle, e chiama ognuna per nome”), e, soprattutto, il bisogno di donarsi pienamente e consegnarsi, fino a “dare la vita per le sue pecorelle” (Cfr. ACG 384, pp. 26-28).- Tutti noi, come salesiani, siamo chiamati a fare questo stesso apprendistato.
3. La figura del Buon Pastore, la sua preoccupazione per tutte le pecorelle, ma anche la sconcertante predilezione per la pecorella smarrita, ci possono servire come motivazioni per cercare di approfondire un tema particolare: l’unità di agape e eros nella vita e nell’attività del nostro Padre.
Di fronte alla semantica abituale della parola eros, malintesa, quasi come sinonimo di “sessualità” (e, sovente, persino di sessualità “morbosa”), ma anche di fronte alla concezione di un settore della teologia protestante del XX secolo (specialmente nell’Europa del nord) che contrappone drasticamente eros e agape, il Papa Benedetto XVI ha avuto il merito di riproporre, dalla cattedra più alta della Chiesa universale, il valore umano, cristiano e anche teologico dell’eros, portando al suo culmine una linea di pensiero e di riflessioni umanistiche in questa direzione.
Se leggiamo con attenzione l’Enciclica Deus Caritas Est, e in particolare il Messaggio per la Quaresima 2007 di Benedetto XVI, possiamo rimanere con l’impressione che non sia chiaro a questo riguardo e, persino, trovare qualche contraddizione. Per esempio, se, alla luce dell’Enciclica, n. 7, intendiamo l’agape come “amore discendente” e l’eros come “amore ascendente”, come si potrebbe parlare dell’eros di Dio verso l’uomo? Oppure, detto in modo paradossale, quale altro tipo di amore potrebbe avere l’uomo verso Dio se non quello “ascendente”: dunque, soltanto l’amore erotico? Si possono trovare almeno cinque o sei descrizioni dell’eros in questi documenti del Papa: come amore ascendente – come corrispondenza nell’amore – come emozione e sentimento ‘statici’ – come possessione di quello che manca all’amante – come anelito di unione … Queste descrizioni, in fondo, non sono alternative, ma sono tutte approssimazioni, da diverse prospettive, alla sua essenza. Questa è indefinibile in quanto, come vero amore, è più in là della comprensione logica umana; possiamo applicare ad esso le parole di sant’Anselmo: “rationabiliter comprehendit … incomprehensibile esse”: comprendiamo, con la ragione, che l’amore è oltre la ragione stessa. Ma questa incomprensibilità non vuol dire che non possiamo penetrare nella sua conoscenza, ma significa piuttosto che non possiamo esaurirla.
Nell’approfondire questo tema, vorrei iniziare da due elementi, già menzionati prima. Da una parte, il Santo Padre sottolinea che l’eros è indispensabile per la pienezza dell’agape (Deus caritas est, n. 7); dall’altra, l’amore va contemplato tenendo presenti i due versanti dell’esperienza: l’amare, ma anche l’essere amato. In tutti e due gli aspetti scopriamo la presenza di un fattore essenziale, così evidente che paradossalmente rischia di passare inavvertito: la singolarità della persona amata. Senza di essa, lo stesso agape può diventare impersonale; senza questa attenzione la persona non può sentirsi amata, nel più profondo del suo essere. L’essenza dell’eros va legata al riconoscimento della persona amata in quanto unica e irripetibile, in tutte le espressioni autentiche dell’amore, dalla sessualità, che diventa vero amore umano quando si lascia personalizzare in questa maniera, fino all’agape, il quale ha anche bisogno di lasciarsi personalizzare dall’eros3; diversamente può diventare persino un egoismo narcisistico. Esiste il reale pericolo che, dietro la maschera del dire “io amo tutti”, in realtà non ami nessuno veramente.
Da questa “chiave di lettura” possiamo capire benissimo quello che chiamavamo “approssimazioni” all’eros nei documenti di Benedetto XVI, includendo le dimensioni del sentimento e persino dell’emozione che sono, senza dubbio, essenziali nell’esperienza dell’amore in genere, espressione dello stupore di fronte alla persona unica e irripetibile, che si esprime nella semplicissima frase: che meraviglia che tu esisti!
Il Buon Pastore, che lascia le novantanove pecore nell’ovile (o sui monti! Mt 18, 12) per cercare la pecorella smarrita, comprende questo alla perfezione (cfr. anche ACG 384, p. 27). L’applicazione al nostro santo Fondatore Don Bosco è evidente e anche, direi, entusiasmante. Cercando di precisare il suo profilo, oserei dire: la struttura e l’orientamento (“destinatari”) del suo amore è l’agape; ma il contenuto e la dinamica dello stesso amore è il suo eros. Don Bosco non cerca, nella propria realizzazione attraverso l’amore, chi lo affascina e “lo porta a pienezza”, ma chi ha più bisogno del suo amore agapico; ma questo amore è totalmente personale e affettivo (evidentemente, anche effettivo): ogni ragazzo si sentiva amato personalmente da Don Bosco; anzi: si sentiva il suo prediletto, come se fosse l’unico. Come risuonano di nuovo nelle nostre orecchie e nel nostro cuore le parole di quei ragazzi di strada, davanti alla porta del caro moribondo: “Se Don Bosco sapesse che io son qui, mi farebbe entrare subito”!
E, grazie a questo amore agapico, fatto affetto erotico, i suoi ragazzi si sentivano amati da Dio, in maniera tale che, come testimonia Don Giacomelli, “i giovani lo amavano tanto, e tanta stima e rispetto avevano per lui, da bastare che egli esternasse un desiderio per venir subito ascoltato. Si astenevano essi da qualunque cosa avesse potuto dispiacergli: nella loro obbedienza non vi era alcun timore servile, ma un affetto veramente figliale. Taluni si guardavano dal cadere in certe mancanze quasi più per riguardo a lui che per riguardo all’offesa di Dio; ma egli, accorgendosene, tosto li rimproverava seriamente, dicendo: ‘Dio è qualche cosa più che Don Bosco!” (MB III, 585). E verso la fine della sua vita, gli diceva il teologo Piano: “L’amore, che avevamo allora verso di voi, ancora l’abbiamo (…) Non è qui all’Oratorio che i più di noi ebbimo pane e vesti di cui eravamo privi? (...) Ah! Cesserà di battere questo cuore, prima che cessi di amarvi. Amare voi, noi lo teniamo come segno dell’amor di Dio” (MB XVIII, 366).
In un’altra occasione, anche negli anni ultimi, disse a un gruppo di exallievi sacerdoti e laici: “Ora tocca a me rispondere chi sia da me più amato. Dite voi: questa è la mia mano; quale di queste cinque dita è più amato da me? Di quale fra queste mi priverei? Certo di nessuno perché tutte e cinque mi sono care e necessarie egualmente. Or bene io vi dirò che vi amo tutti e tutti senza grado e senza misura” (MB XVIII, 160).
La frase più audace, a mio giudizio, di Benedetto XVI (è lui stesso che lo fa intendere così), verso la fine del suo Messaggio per la Quaresima 2007 può applicarsi, analogamente, a Don Bosco: “Si potrebbe addirittura dire che la rivelazione dell’eros di Dio verso l’uomo è, in realtà, l’espressione suprema della sua agape”. Niente di strano che il grande Origene capisse in questa maniera - contro una grande parte della Tradizione della Chiesa - la bellissima espressione di sant’Ignazio di Antiochia: “Il Mio Eros è crocifisso”.
Tutto questo ci permette di riprendere tutta la profondità dell’invito di Don Bosco, allora e ancora oggi: Studia di farti amare! Alla totale gratuità dell’amore non si oppone per niente il desiderio, anzi l’anelito della corrispondenza; non è, in assoluto, espressione di egoismo mascherato. Quando è autentico, l’amore implica la kenosis più radicale: svuotarci così totalmente da noi stessi, in maniera che sia Gesù Cristo che vive in noi (cfr. Gal 2, 19-20), e così sia Lui ad amare e ad essere amato, attraverso il nostro amore personale. Potessimo ascoltare anche noi dai nostri giovani, come hanno detto a Don Bosco: Amare voi, noi lo teniamo come segno dell’amore di Dio!
Vorrei finire questo paragrafo con la sintesi che lo stesso Benedetto XVI ci offre: “In verità, solo l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti”.
3. “Anche noi troviamo in lui il nostro modello” (Cost. 97)
Come conclusione, vorrei chiarire meglio il nostro rapporto con Don Bosco, Padre, Maestro e Modello. Forse abbiamo sentito da persone che non appartengono alla Famiglia Salesiana espressioni di disappunto, o persino di rimprovero, per lo stile con cui ricordiamo, veneriamo e cerchiamo di imitare Don Bosco. Qualcuno dice che abbiamo messo Don Bosco al posto di Gesù Cristo. Evidentemente sono giudizi ingiusti; ma conviene riflettere: il nostro rapporto con Don Bosco fondatore non è uguale a quello che altri Ordini o Congregazioni hanno con i loro Fondatori. Questo non dovrebbe preoccuparci e meno ancora provocare vergogna. D’altra parte, però, è vero che possiamo essere chiamati “figli di Don Bosco” senza che lo siamo in realtà (cfr. Lc 3, 8; Gv 8, 39.42), per diversi motivi: ad esempio perché abbiamo confuso la fedeltà con l’immutabilità nostalgica, ma anche perché ci siamo “inventati” Don Bosco, cercando di rispondere da soli alla domanda: Cosa farebbe Don Bosco qui, oggi?
L’articolo costituzionale dove si trova la frase che fa da titolo a questo paragrafo offre una risposta preziosa. Ci ricorda che all’inizio (non soltanto cronologico, ma anche carismatico) della nostra Congregazione, “i primi salesiani trovarono in Don Bosco la loro guida sicura. Inseriti nel vivo della sua comunità in azione, impararono a modellare la propria vita sulla sua. Anche noi troviamo in lui il nostro modello”. Ma, d’altra parte, “la natura religiosa apostolica della vocazione salesiana determina l’orientamento specifico della nostra formazione, necessario alla vita e all’unità della Congregazione” (Cost. 97).
Lasciando da parte il tema specifico della “formazione”, si tratta di cercare una sintesi vitale tra la figura concreta di Don Bosco e la natura del nostro Carisma. Tralasciare il secondo aspetto, ci porterebbe a una ripetizione nostalgica e aneddotica di Don Bosco, e lui stesso sarebbe il primo a rimproverarci per questo; ma tralasciare il primo aspetto ci porterebbe a limitarci ad un insieme di idee e concetti di tipo teologico, pedagogico o spirituale, dimenticando che tutto questo è parte di un Carisma, che Dio ha dato alla Chiesa e all’umanità, soprattutto ai giovani, in una persona concreta, chiamata Giovanni Bosco.
Don Bosco stesso ci aiuta a fare questa sintesi: “Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire con l’esatta osservanza delle nostre Costituzioni” (Proemio alle Costituzioni); “accogliamo le Costituzioni come testamento di Don Bosco, libro di vita per noi e pegno di speranza per i piccoli e i poveri” (Cost. 196).
4. Conclusione
Volendo sintetizzare in pochissime parole la personalità di Don Bosco direi: centrando tutta la sua vita in Dio, nella sequela di Gesù Cristo, spendendo tutta la sua vita per i giovani, di cui è carismaticamente appassionato, il nostro Fondatore e Padre si manifesta, allo stesso tempo e in maniera inscindibile, un uomo santo e felice; egli ha integrato perfettamente le due dimensioni della sua realizzazione personale in Cristo: la dimensione “oggettiva” (= perfezione, santità) e la dimensione “soggettiva” (= felicità). Non è soltanto un gioco di parole l’espressione tante volte citata a suo riguardo: “Un santo triste, è un triste santo”.
1 F. M. DOSTOEVSKIJ, I Demoni, Torino, Einaudi, 1994, 62-63.
2 GIOVANNI BOSCO, Memorie dell’Oratorio, Roma, LAS, 1991, 36.
3 Cfr. il testo straordinario (purtroppo, messo in una nota persa in fondo ad una pagina!) di EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, p. 416, nota 15 (anche se devo chiarire che non sono totalmente d’accordo con il linguaggio lì utilizzato).