MARIA SI ALZÒ E ANDÒ IN FRETTA (LC 1,39)
L’esperienza spirituale, anima dell’azione pastorale
ASCOLTO
Ascoltare Dio
Ascoltare il prossimo
Sfide all’ascolto
Primato alla Parola sulle parole
Frequenza assidua, sistematica, “sistemica”
DISPONIBILITÀ E APERTURA DEL CUORE
Prima verso l’Altro, poi verso l’altro
Contemplare, non solo analizzare
Superare le frontiere
Come risposta dal profondo
Sfide alla disponibilità e apertura
Una visione ridotta della realtà
Autoreferenzialità e individualismo
Lettura e interpretazione orizzontale della missione
Condizionamento dai risultati
GENEROSITÀ E AUTODONAZIONE
Dimensione e espressione non obiettivo
Risposta ad una chiamata
Libera e liberante
Sfide alla generosità e autodonazione
Cercare frutti più che gettare “semi”
Cercare di affermarsi come persone di successo
Efficienza più che efficacia
Cercare risultati più che creare processi
Conclusione
MARIA SI ALZÒ E ANDÒ IN FRETTA (LC 1,39)
L’esperienza spirituale è l’anima dell’azione pastorale
Il primo atto che Maria compì
dopo aver accolto il messaggio dell’Angelo,
fu di recarsi "in fretta" a casa della cugina Elisabetta
per prestarle il suo servizio (cfr Lc 1,39).
Quella della Vergine fu un’iniziativa
di autentica carità, umile e coraggiosa,
mossa dalla fede nella Parola di Dio
e dalla spinta interiore dello Spirito Santo.
Chi ama dimentica se stesso
e si mette al servizio del prossimo.
Ecco l’immagine e il modello della Chiesa!
Ogni Comunità ecclesiale, come la Madre di Cristo,
è chiamata ad accogliere con piena disponibilità
il mistero di Dio che viene ad abitare in essa
e la spinge sulle vie dell’amore.
Papa Benedetto XVI
25 marzo, 2006
Carissimi confratelli,
vi saluto cordialmente mentre offro questa riflessione che introduce il Progetto del Sessennio 2025-2031 da parte del Consiglio Generale.
Vorrei presentare tale Progetto partendo da una frase del Vangelo che si pone come ponte tra due esperienze significative e quasi spontaneamente legate tra di loro: l’annuncio dell’Angelo e Maria, e la visita a Elisabetta per offrirle il suo servizio: “Maria si alzò e andò in fretta” (Lc 1,39).
Il mio desiderio di commentare questa frase trova origine in quello che sto vivendo e sentendo in questi primi mesi del mio ministero come Rettor Maggiore. Vedo emergere con sempre più chiarezza un parallelismo tra l'esperienza dello Spirito che abbiamo vissuto durante il CG29 e questi primi mesi del sessennio. Mi sembra di scorgere in questa esperienza dinamica di Maria un’icona viva e molto pertinente per noi, un’icona che diventa luce e fonte di incoraggiamento.
Abbiamo vissuto settimane dove il protagonista principale è stato lo Spirito Santo di Dio. Molti partecipanti hanno espresso la convinzione (o almeno la percezione) che la sua presenza ha dato un’altra tonalità ai lavori del CG29. Tale presenza non è stata solo invocata nella preghiera, ma era cercata, sentita e riconosciuta attraverso i vari momenti che abbiamo vissuto, i dialoghi condivisi e le decisioni che insieme abbiamo preso.
Vorrei ora commentare tre atteggiamenti che possono aiutarci a vivere bene e con intelligenza pastorale le scelte che abbiamo proposto e i cammini che vogliamo percorrere. Confido che diventino stili di vita affinché la nostra vita comunitaria insieme alle nostre proposte pastorali possano diventare specchio della stessa iniziativa di Dio in noi, per noi e attraverso di noi. Auguro che la nostra risposta sia il frutto maturo di quel continuo ascolto della volontà di Dio che alimenti il nostro essere servi dei giovani. In questa dinamica la nostra consacrazione trova la sua autentica identità.
Vi affido queste mie riflessioni, queste mie assolute convinzioni interiori così come mi vengono dal cuore. Non aspettatevi un trattato teologico o pedagogico, non ne ho l’intenzione. È come una buona notte un po’ più lunga ma una condivisione di famiglia. Aiutiamoci e aiutatemi e renderle vere, a viverle insieme nello stesso spirito.
ASCOLTO – DISPONIBILITÀ – GENEROSITÀ: sono i tre atteggiamenti sui quali vi invito a riflettere e che vi incoraggio a privilegiare. Tre atteggiamenti che vanno radicati e coltivati in un cuore libero perché maturino poi all’interno dell’esperienza educativo-pastorale salesiana. Solo così il contributo di ogni salesiano di Don Bosco diventa davvero un dono prezioso condiviso all'interno delle nostre Comunità Educative Pastorali (CEP) a favore dei giovani, specialmente i più poveri.
ASCOLTO
In una cultura che ormai sembra essere focalizzata e concentrata soltanto sul vedere, veloce e fugace, sul far correre lo sguardo qua e là, vogliamo che la chiamata che porta con sé la Buona Notizia ci aiuti a recuperare la dimensione dell’ascolto. Gli antichi dicevano che la fede viene dall’ascolto. Questo rimane assolutamente vero e valido anche per noi oggi. La testimonianza che comunica il vangelo non è sostituibile da un video, un disegno, un apparire. Se vedere è come mettersi davanti ad una finestra o ad uno schermo e tutto avviene di fronte e noi, può sembrare che oggi a noi basti vedere ciò che abbiamo davanti, lasciarci superficialmente impressionare. E ci illudiamo che possiamo davvero “conoscere” le cose soltanto perché le abbiamo viste una volta, e forse nemmeno guardate a fondo. Il vedere da solo non basta, ci offre solo dei fatti, dei dati; c’è bisogno dell’ascolto, attento, calmo e profondo. Senza l’ascolto non possiamo “capire”, interpretare, cogliere il senso dei fatti e la loro voce di richiamo.
Maria che si alza e va in fretta per servire, prima ha fatto l’esperienza dell’ascolto. È da questa esperienza di ascolto che Maria custodisce una verità profonda e divinamente salvatrice. Maria ascoltando la Parola, accoglie la Parola.
L’atteggiamento dell’ascolto chiede a Maria di assumere la via del discepolato, e diventa così partecipe di un disegno di Dio. Il suo ascoltare è sinonimo di obbedire – ob-audire. Maria si lascia attrarre dalla Parola, accetta di essere coinvolta, di entrare nel mistero che le viene rivelato. In Maria la verità che le viene consegnata e la libertà che già la segnava si incontrano. Verità e libertà: ed ecco, nasce la fede. La fede come relazione vera. La fede segnata dalla Parola, come rapporto con sé stessa, con Dio e con gli altri.
Maria non chiede “prove” all’annuncio dell’angelo, non chiede che le sia mostrata la “ragionevolezza” o il senso così che possa prima vedere, comprendere e possedere. Ella segue la voce e si mette in moto. Ella ascolta e obbedisce, e così avviene la verità che è Cristo in lei: l’incarnazione di Cristo. Avviene il miracolo che fa muovere la madre verso la cugina perché l’ascolto rende la madre simile alla forma del figlio. L’ascolto diventa missione, dedizione ai fratelli e sorelle. L’ascolto fin da subito porta a consegnarsi per il loro bene, a morire per loro, a dare la vita per la vita degli altri.
Contemplando questo primo punto, carissimi fratelli, facciamo lo sforzo di tornare a quell’ascolto che è fonte di vita. Ascoltare come atteggiamento che ogni giorno viviamo e rinnoviamo affinché l’incontro con la Parola abbia la forza di far nascere un vero cammino. Riconosciamo che tale cammino nutrito dalla Parola è faticoso perché ci invita a metterci in movimento, a essere discepoli, a distaccarci da ciò che rende meno liberi. Un movimento che non pretende di vedere fin da subito il risultato, che non cerca la falsa certezza di ciò che deve avvenire. Un cammino che non ci lascia spettatori passivi.
Ascoltare Dio
Allora per prima cosa iniziamo ad ascoltare Dio. La sua parola è parola creatrice. Non è solo un insieme di suoni, non c’è confusione e tantomeno menzogna nella parola di Dio, essa è pura potenza di chi crea un mondo nuovo e coinvolge chiamando al dialogo perché chi veramente ascolta prenda parte alla gioia del suo Signore.
È il difficile cammino del discernimento, del fare spazio ad una voce che soffia sottile come un vento leggerissimo e che spesso è coperta dalle molte voci e dai molti abbagli della nostra giornata. E questa per noi salesiani è una tentazione continua. Essere presi da tante preoccupazioni, giuste e generose, ma che rischiano di allontanarci dalla voce del Maestro.
Non si può ascoltare la voce del messaggero di Dio se non ci si allena al silenzio e alla meditazione. Di Maria non abbiamo grandi notizie prima della chiamata di Gabriele, ma la tradizione ci ha sempre riferito di una ragazza che fin da piccola è stata educata all’ascolto di Dio. Presentata al tempio fin da fanciulla, ha custodito la capacità di lasciare nella sua giornata uno spazio al silenzio, che non è un semplice vuoto di suoni, ma è il contenitore del parlare di Dio. Così l’angelo può farsi avanti e farsi sentire, nello spazio creato dalla preghiera.
Anche il nostro padre don Bosco lottava ogni giorno per avere il silenzio, pur nelle mille tribolazioni e impegni che lo occupavano. Prima e dopo la santa messa, nella meditazione, non mancava mai di cercare il silenzio perché soltanto così poteva poi ascoltare la voce di Dio e di Maria che lo spronavano a portare avanti la missione.
Ecco allora l’importanza della meditazione quotidiana per il salesiano. Non è tanto una pratica da porre a fianco delle altre, cioè uno dei vari modi di pregare che possiamo avere e che possiamo sostituire con altri più consoni o più belli o più pratici. La meditazione è l’anima della preghiera personale e comunitaria perché va al centro della preghiera stessa: allena all’ascolto. Dio parla sempre e in continuazione, il Verbo non lascia nel silenzio i suoi discepoli, ma sempre cerca uno spazio che solo l’ascolto può dare.
Ascoltare il prossimo
Così l’altro luogo dell’ascolto è il prossimo, nella consapevolezza che ogni fratello e sorella sono l’immagine di Cristo, sue membra predilette, presenza del Figlio di Dio sulla terra.
Così Maria corre, perché la parola dell’Angelo sprona a continuare, ad andare ad ascoltare la parola di chi ha più bisogno di lei, perché solo così continuerà ad ascoltare Dio. Allora l’annunciazione non sarà un evento isolato, vissuto in maniera intimistica, ma un cammino che continua e che riempie una vita intera, quella propria e quella delle persone incontrate e servite.
Maria lo farà con Elisabetta, ma anche a Cana e poi con i discepoli nel cenacolo. Maria sarà sempre con gli ultimi, anche le apparizioni di questi due millenni lo provano, Maria sta con i piccoli, con chi ha bisogno, perché così sta col suo Figlio e così continua ad ascoltare e a trasmettere la sua voce.
Da questo ascolto nasce il vero e autentico discernimento che diventa pratica spirituale vissuta nella fede perché il Cristo che nasce nel cuore continua a parlarci attraverso i poveri, attraverso i giovani più bisognosi e abbandonati. Questa è la realtà che parla di Dio e che ci indica oggi la missione. Occorre, perciò, una comunità di credenti che vive l’ascolto, una comunità che insieme cammina ascoltando e rispondendo al grido dei poveri – una Chiesa sinodale. In questa esperienza l’ascolto non diventa semplice analisi sociologica, ma missione apostolica e chiamata divina.
Quanto è urgente che tutti siamo consapevoli che soltanto se esiste l’ascolto di Dio, vero e sincero, può seguire l’ascolto dei fratelli e delle sorelle, può seguire una risposta educativo-pastorale piena di compassione, speranza e futuro.
Sfide all’ascolto
Primato alla Parola sulle parole
Tutta la Scrittura è attraversata dal comando dell'ascolto perché è grazie all'ascolto che noi entriamo nella vita di Dio e soprattutto consentiamo a Dio di entrare nella nostra vita, cosa che è per noi l’unico modo di vivere per davvero. L’ascolto, perciò, è la modalità più propria del nostro rapporto con Dio, e si traduce nella preghiera, che è la sua naturale forma espressiva, e in cui solo si realizza il nostro io autentico, la verità di noi stessi e della nostra vocazione più profonda.
Ascolteremo il grido dei giovani e ascolteremo il progetto che Dio ha su di noi soltanto se entreremo nella vera dinamica dell’ascolto, che non è anzitutto indagine e studio, ma disponibilità e apertura. Ascoltare significa pertanto discernimento, vigilanza, prontezza, azione.
Ascoltare è sempre l’inizio di un cammino che, come per Maria, matura in una totale apertura del cuore, e proprio per questo non nasconde il turbamento e le domande che esso suscita in lei. Eppure, tale turbamento non preclude la sua disponibilità a Dio che l’ha scelta, liberamente accogliendo il suo progetto. Papa Francesco presenta il senso proprio di questa chiamata quando dice che “abbiamo bisogno di implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale. [...] È urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri” (Evangelii gaudium, 264).
Occorre imparare a interiorizzare, a perdere del tempo per ascoltare e non tentare subito di passare all’azione. L’azione a volte è sopravvalutata. Il primo passo del fare è il silenzio e l’ascolto. Solo così il seme porta frutto. Se no, ogni azione lascia solo frustrazione e vuoto interiore. Occorre dare tempo all’ascolto, occorre perseverare in esso, lottando contro le tentazioni della fretta, del tutto subito, dove la Parola viene soffocata.
Frequenza assidua, sistematica, “sistemica”
Le difficoltà materiali e ambientali non mancheranno mai: rumore, mancanza di silenzio, luogo non propizio alla contemplazione. In più c’è il pericolo di entrare in un circolo vizioso che gradualmente favorisce l’ipervalutazione del fare, che fa nascere la sensazione che il tempo del silenzio e dell’ascolto sia perdita di tempo.
In questa situazione viene meno quella verità che ci dice che la missione non è solo mettere in campo delle azioni, ma prima di tutto curare una identità spirituale dinamica rispondente alla vocazione che abbiamo ricevuto. Nell’assenza di tale convinzione prendono il sopravvento le preoccupazioni diverse, le distrazioni, e infine la stanchezza e il disincanto. Occorre capire bene le radici e le ragioni della stanchezza che molti di noi sperimentano dopo un certo periodo di attivismo frenetico. Bisogna rivisitare con sincerità quelle scelte che hanno sottovalutato o addirittura scartato lo spazio del silenzio e della preghiera.
DISPONIBILITÀ E APERTURA DEL CUORE
L’ascolto quindi muove il cuore. Come le onde sonore, si allarga e apre orizzonti inediti. Chiede di aver uno spazio di risonanza che, prima di diventare immediatamente azione, sia svuotamento del cuore e disponibilità all’obbedienza, proprio come un fazzoletto nelle mani di Dio, un’immagine ricorrente nella vita spirituale.
In primo luogo, allora, la disponibilità è lasciare a Dio l’iniziativa di avere uno spazio da possedere dentro il nostro cuore. La disponibilità è svuotamento, è passività, è cammino di kenosi della persona, che deve imitare il suo Signore proprio nel lasciare tutta l’iniziativa al Padre.
La carità è così somiglianza a Gesù, non perché si tratta di un’azione specifica, ma perché è pura imitazione della stessa disponibilità di Cristo, che non ritenne nulla della propria persona un tesoro geloso. Cristo svuotò tutto sé stesso per poter agire come Risorto.
Così Maria deve imparare a deporre i propri desideri e i propri sogni, e andare da Elisabetta con piena disponibilità, ossia con il cuore vuoto di sé stessa. Riempita di Cristo, Maria sgorga così nella carità del Magnificat. Essa deve aiutare Elisabetta non per semplice iniziativa propria, né per dovere di parentela o per semplice bontà, ma perché dimentica di sé lascia che le proprie azioni siano dettate da Altro da sé, da quel Gesù che già porta dentro.
Di fronte all'annuncio dell’angelo, Maria non sta a negoziare o chiedere conferme, né chiede di che genere sarà il suo compito e quale sarà il suo spazio. Maria non è preoccupata del suo “fare”. Ella dà la totalità del proprio cuore e della propria persona, senza porre condizioni. Si sottomette in un atto di fede e umiltà, offrendo la sua disponibilità al progetto di salvezza. Maria apre il proprio “grembo” in totale fiducia accogliendo il Verbo, diventando così uno strumento divino per gli eventi futuri della storia della salvezza.
Con il suo consenso, Maria accettò la dignità e l'onore della Divina Maternità, ma anche le sofferenze e i sacrifici ad essa legati. Accettò che la sua identità fosse nelle mani del Figlio, incondizionatamente. Come serva si mette in un atteggiamento di totale disponibilità verso il suo Signore, mettendolo prima di qualunque rivendicazione o diritto per sé.
Maria ha capito la grandezza di Dio e il nostro “nulla” umano. Per la sua umiltà, giustamente rimase sorpresa nell’ascoltare le lodi dell'Angelo: “Ave, piena di grazia”, e con la stessa umiltà accoglierà quello che la vita le porrà di fronte, fino agli eventi drammatici della croce. Così la spada che le trapasserà l’anima non è altro che il culmine della sua kenosi, del cammino di espropriazione di sé a imitazione del suo Figlio. Non è semplicemente la sofferenza di una madre che vede morire il Figlio, ma la con-sofferenza della Vergine che trova la definizione di sé nell’essere tutta Madre del Cristo Crocifisso e null’altro.
Prima verso l’Altro poi verso l’altro
Soltanto questo cammino di totale apertura a Dio porta alla carità vera verso l’altro. Nonostante si dica spesso che amare l’altro è come amare Cristo, e nonostante il Vangelo affermi questo in modo deciso e perentorio, questo passaggio di identificazione del povero con Cristo non è affatto facile.
I grandi santi della carità sono infatti consapevoli che la carità non è semplice amore per l’umanità, ma è condivisione della stessa vita di Dio, o ancora di più l’inabitazione di Dio nella nostra vita. La vita di santa Teresa di Calcutta ne è un esempio: la più famosa santa contemporanea della carità verso i poveri reggeva la sua forte dedizione agli altri grazie ad una incessante preghiera, fatta di lunga adorazione quotidiana e costante unione con Dio.
Lo stesso amore di Don Bosco per i ragazzi non ha altra causa se non il suo essere “consacrato” per i suoi giovani. Il sogno dei 9 anni è tutto un cammino di ricentratura della carità di Giovannino, non solo dalle botte alla mansuetudine, ma soprattutto dal fare la carità ai compagni nella forma del protagonismo personale, a farla nella forma della disponibilità alla carità di Cristo, imparata proprio dalla Maestra che Lui gli dona.
Contemplare, non solo analizzare
È la consacrazione a fondare l’apostolato, perché è la nostra identità di consacrati a permettere che la carità di Cristo ci afferri e faccia di noi “nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani, specialmente ai più poveri”. (Cost. 2)
Così i nostri progetti non sono tanto frutto di strategia, di osservazione della realtà, di slanci generosi per il bene degli altri, ma soprattutto frutto della contemplazione, ossia della assunzione dello stesso punto di vista di Dio, su noi stessi, sugli altri e sul mondo.
La contemplazione proviene da una vera orazione personale e comunitaria, da un maturo discernimento della volontà di Dio al fine di comprendere cosa egli ci chiama ad essere e a fare per il bene degli altri.
Così l’azione pastorale per il bene dell’altro, come è la stessa visita di Maria a Elisabetta, scaturisce da una preghiera intima, un “cor ad cor loquitur” – il cuore che parla al cuore (san Francesco di Sales). L’azione, allora, è la continuazione della relazione che si fonda e sgorga dalla fede e dall’amore. È un respirare lo Spirito Santo, è uscita da se stessi per accedere ad una relazione trinitaria in cui Dio stesso parla al nostro cuore e ispira le nostre azioni verso gli altri.
Nella sua radice più profonda quindi ogni progetto pastorale, ogni azione di carità che vogliamo mettere in atto risulterebbe un’azione superficiale se non è frutto di una vocazione, di una chiamata del Padre, che provoca nel Figlio uno svuotamento di sé e che dà spazio così all’azione dello Spirito dentro di noi e attraverso di noi. È fondamentale favorire quel vero movimento che muove le nostre proposte e processi, un movimento che inizia dal nostro amore per Dio come risposta all’“amore che Dio ha versato nei nostri cuori” (Rm 5,5).
Contemplazione e conoscenza di Dio, meditazione e progetto pastorale significano dunque cercare il volto di Dio e cercarlo nel fratello, in chi incontriamo, in chi ci chiama in aiuto, in chi grida con il suo essere bisognoso. Contemplazione allora è assumere lo sguardo di Dio, vedere come Dio vede, e avere così gli stessi sentimenti di Gesù, unico che vede e conosce il Padre, e ne compie sempre la volontà. Il discepolo può forse essere più del Maestro, vivere altre modalità di far crescere il Regno?
Quanto è frequente e doloroso vedere il pericolo di un impegno pastorale non radicato in una vita di preghiera, di accoglienza in noi dello Spirito di Gesù. Sappiamo bene che quando questo capita, cioè quando viene meno l’ascolto di Dio, si finisce in un labirinto di attivismo senza sosta.
Superare le frontiere
Una tale apertura supera le frontiere: quelle geografiche, culturali, psicologiche, religiose. La disponibilità vera è sempre un “esodo”, un uscire da sé, dai propri schemi, dalla propria lingua spirituale. Non teme il diverso, anzi lo cerca, lo accoglie, perché riconosce nell’altro un fratello, una sorella.
Maria deve uscire di casa per “rendere vero” l’annuncio in cui ha creduto e a cui si è donata. Si potrebbe quasi dire che non solo l’annuncio ricevuto provoca in lei la necessità di andare da Elisabetta, ma in un certo senso se non fosse andata dalla cugina, l’annuncio non sarebbe stato vero fino in fondo perché la grazia ricevuta non sarebbe stata fruttuosa completamente.
La carità ci fa andare oltre noi stessi e quindi abbatte barriere e lontananze. La carità che ci muove non si “adatta” alla cultura che abbiamo, ma la purifica e ne crea una nuova. Se è vero che nessun carisma, nessuna forza della fede può esistere se non incarnata in una cultura, è anche vero che nessuna cultura può limitare la potenza della chiamata di Dio e della sua carità. Anzi è la fede stessa che purifica la nostra visione del mondo, le nostre categorie, le nostre visioni e ne crea di nuove.
Ecco perché una Congregazione come la nostra trova la sua unità nel carisma e vede nella diversità all’interno e all’esterno di sé l’opportunità di una maggiore unità perché è la diversità e unità di Dio che rende tali.
Ogni nostro sguardo sul mondo è limitato e limitante. Ognuno di noi ha un limite oltre il quale desidera non andare o dietro cui intravede soltanto negatività, ostilità, pericoli, incertezze, inutilità, minacce. Solo la chiamata di Dio ad una totale disponibilità, solo la contemplazione del mondo con gli occhi dello Spirito rende anche l’ignoto “casa nostra”.
Ogni “oltre” in cui a volte ci pare di non poter andare, non è altro che una casa in cui non siamo ancora stati, e ogni sconosciuto che appare all’orizzonte non è che un fratello verso cui non siamo ancora andati. Non esiste luogo o persona nell’universo in cui Dio non sia presente, che da Dio non sia sostenuto e che non ci chiami a condividere la stessa carità di Dio come unica famiglia e unica chiesa.
Questo vale sia nello spazio, sia nelle relazioni fraterne, sia nel tempo: non c’è futuro che non sia nelle mani di Dio e ogni attaccamento al passato è un tradimento della disponibilità che abbiamo fatto voto di dare a Dio.
Allora non posso stare fermo, ma devo andare fino alla temerità (una parola che noi Salesiani conosciamo bene perché è stato lo stile del nostro Fondatore, e anche di vari confratelli che sono stati pionieri e profeti), e compiere ciò che Dio mi sta chiedendo. Il cuore non si può fermare se ha compreso che Dio lo chiama e che Maria ha pronta quella grazia per cui forse ci apre orizzonti nuovi, come è stata all’inizio la Patagonia. Sono orizzonti che non possiamo ignorare.
I confini si abbattono e si può partire per andare fin dall’altra parte del mondo perché la spinta che ci viene da dentro non ha limiti e non ha mezze misure. Non basta andare solo fin lì dove le forze, calcolate col metro di quaggiù, ci promettono di arrivare, ma progettando ciò che è incomprensibile col metro dell’uomo, andare fin dove esige la spinta di Dio.
Ecco perché un figlio di contadini dell’800 come don Bosco tiene sulla scrivania un mappamondo e su quello misura l’ampiezza dei suoi progetti: perché deve andare fin là dove si spinge la stessa carità di Dio, deve andare a “morire”, a dare la vita per tutti coloro a cui per primo l’ha data Cristo.
Come risposta dal profondo
Maria non può allora stare a casa. C’è come una forza interiore che spinge all’azione, che nasce appunto dalla contemplazione e dalla disponibilità: per cui Maria non ha dubbi, non pone ostacoli: è dal profondo di sé, dal luogo in cui la sua coscienza incontra la chiamata di Dio, che sente che tutto spinge verso il cammino.
Come è stato per don Bosco (che non ha potuto restare a casa dopo averne così faticosamente conquistata una), anche per noi e dentro di noi la grazia ricevuta si mette in moto esattamente nella forma di un dono divino, certo gratuito, ma non per questo meno obbligante.
La grazia di Dio, la chiamata vocazionale, la richiesta della piena disponibilità è fatta da Dio per legarci a sé. Non di quel legame che impedisce alla libertà di essere, ma di quello che è garanzia di un buon funzionamento della libertà. Ci chiede la disponibilità di essere l’uno per l’altro, essendo fatti per il dono, cioè per una gratuità che lega a sé liberandoci e aprendo lo spazio per la fede che sola può riempire il cuore svuotato di chi obbedisce a Dio.
Sfide alla disponibilità e apertura
Una visione ridotta della realtà
In una circolare del 1885 Don Bosco scrisse che il salesiano deve obbedire non perché è comandato, ma per una ragione superiore, la maggior gloria di Dio. Questo è lo spirito che sta alla base della nostra obbedienza, disponibilità, apertura del cuore. Non è una questione burocratica, fatta di regole e prescrizioni, e non si risolve nell’applicazione precisa di esse. E per questo è ancora più esigente. Chiede una vera adesione del cuore al cuore del superiore e attraverso lui e la Congregazione al cuore stesso di Dio.
Così il clima di famiglia, lungi dall’essere un semplice affetto esteriore, è un vincolante legame del cuore e della volontà, nella totale disponibilità di sé, ossia nella rinuncia ad essere dispositori del proprio io per lasciarsi disporre in verità e libertà da chi ha preso possesso della nostra vita, perché abbiamo creduto in Lui.
La disponibilità viene però oggi sfidata su più fronti. L’ “Io” non disponibile preme per poter imporre la propria visione del mondo, di sé e della vita, e lo fa dal suo ristretto punto di osservazione ritenendo che quello sia il luogo da cui si vede o in cui si rivela la verità tutta intera. Ma la verità tutta intera, il Vangelo ce lo ricorda, non la si può vedere se non si è pieni di Spirito Santo, e non si può essere pieni di Spirito se non si è vuoti di sé.
E così l’indisponibile ha una visione ristretta della realtà, pensa di conoscere lui la verità delle cose e progetta la propria vita e la propria azione pastorale limitandola alla sua parziale prospettiva. Non arriva a intuire che c’è molto di più fuori dal suo orizzonte, che riduce tutto al visto, al misurato, al programmabile: nei limiti della sua personale esperienza.
Quando si smette di credere che ci sia un “oltre”, e si smette di lasciarsi condurre fuori da sé dalla carità che ci muove, si perde la tensione dell’attesa del Figlio, e la nostra opera missionaria diventa solo un oggetto da gestire.
Non si va in Patagonia se non lasciamo che Dio ci apra o spalanchi gli occhi. Ma il fatto di non andare e non voler vedere snatura ciò che siamo e impedisce al tralcio di dare frutto perché slegato dalla vite che lo alimenta e gli dà la forza di crescere più di quanto lui possa persino immaginare. E questo è un progetto assolutamente fuori portata con le sole proprie forze.
Il progetto del sessennio, così come i PEPS delle nostre case e ispettorie, non è allora carta burocratica descrittiva di ciò che potremmo fare secondo le nostre idee, ma strumento di condivisione e di discernimento comunitario per vedere oltre e obbedire alla volontà di Dio.
Autoreferenzialità e individualismo
Abbiamo di fronte delle sfide che, se non affrontate, rischiano di consolidare una visione distorta della realtà. Ci illudiamo spesso che nella nostra vita spirituale e nella missione che ci viene affidata anzitutto occorra guardare a noi stessi, e poi solo in seconda battuta agli altri, come se fossero solo clienti a cui diamo quello che è nostro. Se siamo abituati solo a misurarci su ciò che facciamo, pensiamo o otteniamo, finiamo per fissare o abbassare lo sguardo su di noi, illudendoci così di conoscerci meglio e di vederci di più. Invece siamo chiamati ad alzare lo sguardo e andare verso l’altro.
Maria non si ferma a riflettere, non si dà del tempo per capire quello che è successo, cosa è diventata, quali sono le conseguenze. Maria in fretta si mette in moto e ricentra tutta la vita sul bisogno di Elisabetta.
Se difendiamo la nostra immagine e diamo priorità alle nostre convinzioni con la tenacia di un lottatore, finiamo per lottare per nulla, per non portare a casa nessun frutto. Fondiamo le nostre sicurezze sulla convinzione di fare ciò che “vogliamo noi”, mentre è molto più sicuro per noi stessi provare a fare ciò che desidera l’Altro.
La “missione” non è un bene privato che condividiamo tra noi, la missione è per definizione comunitaria perché trinitaria, ossia appartiene a Dio, non alle nostre idee e progettazioni. Non stiamo insieme perché è più facile o più conveniente, ma stiamo insieme perché posso essere me stesso solo donandomi all’altro in modo radicale, svuotandomi per la comunità, essendo comunione e quindi facendo comunione con tutti.
La vera disponibilità è consacrazione, espropriazione di sé che ha alla radice il coraggio di mettersi in discussione, di rinunciare a sé stessi, anche quando questo appare come perdita. È la dinamica della kenosi che dà frutto, del partire in fretta verso la montagna anche se forse io per primo avrei bisogno dell’aiuto di qualcuno per capire chi sono e cosa avverrà di me.
Lettura e interpretazione orizzontale della missione
Non possiamo permetterci di convertire la nostra missione al solo compito educativo e promozionale di una ONG o di una organizzazione no profit. La missione che ci viene offerta come vocazione è la continuazione della missione stessa del Salvatore mandato dal Padre e ha come orizzonte il Paradiso, come don Bosco spesso ricordava ai suoi ragazzi e ha iconicamente rappresentato nel quadro della Ausiliatrice nella Basilica di Valdocco.
Il nostro compito educativo non può essere limitato a un servizio sociale o progetto solamente umano, per quanto meritori, preziosi ed essenziali. Siamo educatori ed evangelizzatori, sempre, se non sempre nell’azione lo siamo nell’intenzione, in ciò che ci anima e che ci sostiene. La sorgente unica e irrinunciabile di tutta la nostra opera di educazione ed evangelizzazione scaturisce dall’incontro personale con Cristo. Per questo, fin dal primo momento, ogni processo educativo deve prendere ispirazione dal Vangelo e l’evangelizzazione deve adattarsi alla condizione evolutiva del giovane. Con una formulazione che ci contraddistingue e che non è gioco di parole educhiamo evangelizzando e evangelizziamo educando: capire e vivere questo è garanzia che lavoriamo nella Chiesa.
Siamo consapevoli che siamo chiamati a educare ed evangelizzare mentalità, linguaggi, costumi ed istituzioni, e questo è possibile solo se si è illuminati dal Vangelo, chiamati dalla grazia, spinti dallo Spirito. Solo con una identità evangelicamente e carismaticamente chiara possiamo incontrare i giovani, tutti i giovani, “al punto in cui si trova la loro libertà” (Cost. 38).
Maria non va da Elisabetta soltanto perché umanamente crede che la cugina anziana abbia bisogno del suo aiuto, visto lo stato particolare in cui si trova, ma tutto in lei questo è reale e prende corpo all’interno di una visione di carità ossia di dedizione all’altro che ha Cristo come esempio, lo Spirito come visione e il Padre come destinazione ultima. La visitazione non è un gesto di bontà, ma è una decisione che precorre il modo di essere del Figlio che nel grembo sta già agendo per conformare a sé la Madre.
Anche nel sogno dei 9 anni: è da Gesù che viene la missione e da Maria viene la forma. La scienza e l’obbedienza che Giovannino deve mettere in campo non è rispetto ai bisogni dell’umanità, ma risposta obbediente alla volontà stessa di Dio, ossia alla sua missione salvifica presso l’umanità.
Condizionamento dai risultati
Infine, c’è una tentazione molto sottile ma sempre presente: quella di una disponibilità condizionata dai risultati. Ci si apre finché ci sono risposte, frutti, riconoscimenti. Ma la disponibilità del cuore non può essere a prestazione. Se la radice della disponibilità è una kenosi del discepolo, occorre sempre ricordare che la misura della missione e del suo successo è quella della croce e non del trionfo mondano.
La disponibilità è una grazia che va custodita, esercitata, invocata. È una forma di amore che ha compreso che occorre morire per salvare la vita propria e altrui. Il vangelo non può essere considerato come qualcosa di supererogatorio, come un maquillage spirituale o un bell’ornamento, di cui in fondo si potrebbe anche fare meno. D’altra parte, il successo non può essere letto se non nel filtro del mistero pasquale. Il pane va sempre spezzato prima che diventi nutrimento per la via del mondo.
Così anche la nostra missione non può basarsi solo sulle statistiche, sui numeri, sulle quantità di ogni tipo. Il salesiano è chiamato a dare la vita, e questo non è un modo di dire. La disponibilità svuota se stessi anche da sé e la morte può essere sconfitta solo compartecipando alla stessa morte di Cristo. Ancora una volta una spada deve colpire il cuore della Vergine Madre, perché la sua identità e la sua missione non possono essere diverse da quelle del Figlio che ha in grembo.
La vicinanza di Don Bosco a Dio e l'intenso amore del prossimo che ne deriva non si spiegano senza una profonda componente ascetica di sacrificio, di distacco, di dimenticanza di sé e di pazienza.
Ben oltre i facili trionfalismi che sovente ne deformano la figura, il santo mostra il suo vero volto di autentico discepolo del Crocifisso, curvo sotto il peso di croci inaudite che scarnificano il cuore. La vita di Don Bosco, dice don Ceria, “fu tutta quanta seminata di pungenti spine”: incomprensioni, contrasti, persecuzioni, perfino attentati, strettezze economiche; e poi malanni fisici così gravi da far dire al suo medico curante che “dopo il 1880 circa, il suo organismo era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante”.
Eppure, “non perdeva mai la sua serenità; anzi pareva che appunto nei tempi di tribolazione egli acquistasse maggiore coraggio, giacché lo si vedeva più allegro e faceto del solito”. Né chiedeva di essere liberato dai suoi mali. Il motivo di una condotta così sconcertante, spiega don Ceria, è relativamente semplice: “Le sofferenze fisiche accettate con sì perfetta conformità al volere di Dio sono atti di grande amore divino e penitenze volontarie”, e “le anime che verso Dio si sentono fortemente trasportate si danno alla mortificazione quasi per irresistibile istinto di amore” (Ceria, E., Don Bosco con Dio, Cap I, VIII e XX).
Lo confermano i frutti di tanto travaglio, lo confermano i santi e i martiri della nostra Famiglia e lo confermano i molti confratelli che hanno vissuto una vera e propria esistenza vittimale per il bene della gioventù.
GENEROSITÀ E AUTODONAZIONE
La generosità non è solo un atto occasionale o una risposta impulsiva a una situazione di bisogno, dovuto alla spontaneità di un’anima bella. È, piuttosto, una disposizione interiore profonda, radicata nell’identità di una persona. Non nasce da un calcolo, né da un dovere morale esterno, ma scaturisce da una comprensione del proprio posto nel mondo: quello di essere per l’altro dono e presenza significativa.
Questo significa che la generosità, in quanto dono di sé per l’altro toto corde, ha alla sua radice il prendere su di sé la stessa forma di Cristo, la stessa forma di Dio. La disponibilità, che ha reso il nostro cuore capace di contenere la forma di Cristo, ora diventa azione e responsabilità.
La grazia ricevuta dall’esperienza della kenosi diventa così capacità personale di dono di sé, risposta quotidiana e forma di vita. È ciò che avviene a Pentecoste: la comunità dei discepoli, abbandonata la propria umanità peccatrice e legata alla Legge, è resa nuova dal dono dello Spirito del Risorto. Questa comunità – che rimane la stessa nelle persone che la compongono –ora “diventa altro”, cambia vita e si fa annunciatrice di qualcosa che la trascende: della Parola di salvezza che è la radice di ogni generosità e di ogni dono.
L’essere generosi, la forza di fare ogni giorno il proprio servizio quotidiano non si limita ad essere un atto di volontà o di bontà, ma proviene direttamente dall’unione con Dio che la consacrazione ha permesso. L’amore per i giovani di Don Bosco non viene solo dalla sua spontanea delicatezza d’animo, ma discende direttamente dall’essere prete: un prete è sempre prete, e tale deve manifestarsi in ogni sua parola. Ora esser prete vuol dire aver, per obbligo (o meglio per vocazione), continuamente di mira il grande interesse delle anime; il grande interesse di Dio.
Dimensione e espressione, non obiettivo
Chi vive nella logica dell’autodonazione non agisce per ricevere in cambio riconoscimenti o gratitudine, ma per rispondere ad una vocazione che lo chiama alla responsabilità. La generosità non è un compito e un risultato da raggiungere, essa è dimensione portante della nostra identità, il modo in cui tale identità si esprime e si caratterizza.
Spesso silenziosa, quotidiana, nascosta, e proprio per questo ancora più feconda, la generosità è il nostro nome proprio nel senso che è parte della definizione della nostra identità, come singoli e come comunità. Siccome è la missione a definire la nostra identità e il nostro posto nella Chiesa e nel mondo, la generosità non viene dopo, non si aggiunge dall’esterno alla vita quotidiana, non è “cosa da fare”. La missione è la nostra idoneità in azione, ed essa è radicalmente generosità, dedizione di sé, dono della propria vita per la salvezza del mondo e specie dei giovani.
L’articolo 21 delle nostre Costituzioni commenta questo “cuore generoso” di Don Bosco in maniera molto viva: “Il Signore ci ha donato Don Bosco come padre e maestro. Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia… (questo) progetto di vita fortemente unitario… lo realizzò con fermezza e costanza, fra ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso”.
Risposta ad una chiamata
La nostra vocazione è segnata da uno speciale dono di Dio, la predilezione per i giovani: “Basta che siate giovani, perché io vi ami assai”. Questo amore, espressione della carità pastorale, dà significato a tutta la nostra vita (Cost. 14).
Questa vocazione non si sovrappone alla nostra identità in un secondo momento, non interviene dopo come cosa che si aggiunge alla nostra vita. La nostra vocazione è la nostra vita, è la nostra identità. Noi siamo radicalmente chiamati ad essere noi stessi in totale obbedienza e disponibilità. Vivendo già all’inizio della risposta la nostra generosità, rispondiamo in piena libertà e con pieno protagonismo.
Ogni chiamato da Gesù ha possibilità di diventare fecondo attraverso il suo servizio nel Regno, solo se tutte le cose contingenti che fa e offre scaturiscono da una illimitata disponibilità. Maria nella sua totale e immediata disponibilità all’angelo e ai fratelli (la cugina Elisabetta) ci insegna che l’unico atto col quale una persona può corrispondere a Dio è quello della disponibilità illimitata. Questo gesto è l’unità di fede, speranza e amore. È il sì che Dio esige dal credente perché è il sì che Dio ha pronunciato nei nostri confronti. Soltanto in questo senso di assoluta generosità, Dio pone il seme della sua Parola e del suo incarico missionario.
Per questo le esigenze di Gesù quando accoglie i discepoli che Lui ha chiamato riguardano l’identità stessa degli apostoli, fino a cambiarne il nome (da Simone a Pietro). Perché il discepolo si lascia modificare dal maestro per indentificarsi con lui. E questa è la garanzia perché questo stesso nome, questa nuova identità di autodonazione sia scritto nel Regno dei cieli.
Occorre sottolinearlo in maniera forte, poiché spesso oggi i “sì” limitati e condizionati da clausole personali paralizzano le vocazioni. Ciò di cui Dio può servirsi secondo le intenzioni del suo Regno è soltanto un dono totale che non pone alcuna condizione.
Libera e liberante
La generosità profonda non è mai imposta, eppure è sempre vincolante nella sua chiamata originale. Grazie al carattere unificante e totalizzante del progetto di Dio per ognuno di noi, la nostra risposta è simile all’esperienza che noi conosciamo bene, l’essere o il diventare “un bel vestito per il Signore”.
La generosità nel rispondere alla chiamata e l’obbedienza dovuta ad essa come conseguenza, diventano un segno chiaro del desiderio di essere sé stessi.
Essere la serva del Signore, per Maria, lungi dall’essere una limitazione dei suoi desideri e obiettivi di vita, è invece la porta aperta al pieno compimento della sua libertà e della sua identità: appunto, “del Signore”.
Maria è la donna pienamente realizzata, in completa libertà e autodeterminazione. Tutto questo movimento è nutrito e guidato dal legame con Dio, col suo Figlio, e con i fratelli e le sorelle che trova accanto (da Elisabetta, agli sposi di Cana, ai discepoli stessi, a noi).
Sfide alla generosità
Cercare frutti più che gettare “semi”
Il cammino della generosità non è privo di ostacoli. Uno dei più insidiosi è la ricerca dei frutti immediati: vivere con la pretesa di vedere subito i risultati delle proprie azioni e processi. Questo porta a scoraggiamento, delusione o anche a forme sottili di orgoglio ferito. La vera generosità, invece, si misura nella capacità di seminare anche senza vedere il raccolto, di lasciare che il tempo e la grazia compiano il resto del lavoro.
In un mondo che premia chi mostra risultati concreti, rapidi e visibili, è difficile accettare l’idea che seminare sia già un gesto completo e sufficiente. Eppure, è proprio qui che si manifesta l’autenticità e la bellezza di chi si dona: nella capacità di “cedere” la volontà di controllo, di avere fiducia nella forza del seme gettato, anche se nascosto sotto la terra per molto tempo, negli inverni silenziosi.
Cercare di affermarsi come persone di successo
Un altro ostacolo alla generosità è la spinta costante ad affermarsi come persone di successo. Il messaggio dominante oggi è chiaro: “Conta solo ciò che ti fa emergere, ciò che ti distingue, ciò che ti fa apparire migliore degli altri”: il sintomo del like! In questo contesto, il dono gratuito di sé rischia di essere percepito come debolezza, come una perdita di tempo o come una rinuncia al proprio potenziale.
Eppure, paradossalmente, è proprio nel dono di sé che la persona si realizza pienamente. Non si tratta di negarsi o di cancellare la propria identità, ma di metterla in relazione, di costruirsi non contro gli altri ma insieme agli altri. Una vita donata non è una vita sacrificata, ma una vita moltiplicata.
Efficienza più che efficacia
Viviamo in una società dominata dalla logica dell’efficienza: tutto deve essere misurabile, ottimizzato, produttivo. Anche nelle relazioni, a volte, si rischia di valutare il proprio impegno in base ai “risultati” ottenuti, come se le persone fossero progetti da portare a termine. Una mentalità che scarta chi non si adegua alle regole pre-imposte, che non lascia spazio alla gradualità dei cammini che sono diversi da una persona all’altra. Invece, la vera efficacia umana non si misura con numeri o grafici, bensì con la capacità di trasformare interiormente, di toccare le vite altrui, di costruire relazioni durature e autentiche.
In questa sfida sta la nostra capacità di “stare” con i giovani, “sprecare” tempo nell’ascolto, credere nel dono di una compassione che riconosce le domande e umilmente accetta che non sempre abbiamo le risposte. Una presenza capace di intravedere quei segni invisibili di potenziale crescita dando loro il tempo necessario.
Cercare risultati più che creare processi
Credo che qui ci aiuti una riflessione di Papa Francesco fatta all’inizio del suo pontificato: “Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi… Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.” (Evangelii Gaudium 223)
Qui abbiamo il fondamento del progetto che la CEP porta avanti. Un progetto che riconosce e promuove un cammino attraverso la diversità delle proposte pastorali. L’obiettivo non è un dato preconfezionato da raggiungere a tutti i costi. È piuttosto l’attenzione a favorire quei processi di crescita dove la comunità è sempre protagonista, vivendo e verificando il progetto stesso.
Coloro che entrano in campo nella pastorale giovanile devono essere consapevoli del cammino da intraprendere, della situazione da cui partire e della meta da raggiungere. Devono acquistare familiarità con l’intero processo educativo che concretamente si mette in atto. Progettare è un atteggiamento della mente e del cuore, prima che un’opera concreta. Progettare è un processo più che un risultato, progettare è un aspetto della pastorale più che un suo atto passeggero, progettare è un percorso di coinvolgimento e di unificazione delle forze.” (La Pastorale Giovanile Salesiana. Quadro di Riferimento, p. 136, 20143).
CONCLUSIONE
Concludo con una riflessione del cardinale Carlo Maria Martini che riassume la sfida che abbiamo di fronte.
Al primato della Parola corrisponde dunque la fede. Se la Parola non trova rispondenza nella fede risuona nell'aria, non ha efficacia. Quando la Parola viene invece ricevuta nell'uomo mediante l'atteggiamento della fede, esercita la sua efficacia. L'efficacia che la Parola, accolta nella fede dell'uomo, esercita è la carità. Il seme è la Parola; la fede è il grembo, la terra dell'uomo che accoglie il seme; la carità è il frutto che nasce dal seme.
Da questa semplicissima struttura del processo salvifico, possiamo trarre conseguenze molto importanti per la nostra vita pastorale. Vogliamo crescere nella carità? Dilatiamoci le radici della fede aprendoci all’ascolto della Parola. Sarebbe vano pretendere che nella comunità ci sia più carità se non c'è crescita di fede, ed è vano pretendere più fede se non c'è un profondo ascolto della Parola. Il processo – Parola, fede, carità – costituisce la realtà organica di tutta la pastorale.”1
Parola, fede e carità: un trinomio che nella logica dell’ascolto, disponibilità e generosità ci spingono a vivere la nostra chiamata oggi per essere persone generatrici di speranza per il bene dei giovani. Insieme a tanti collaboratori e collaboratrici che con noi vivono e condividono la missione salesiana, la centralità della Parola testimonia il recupero di ciò che è essenziale: per noi una persona, Gesù Cristo figlio di Dio nato da Maria vergine.
Maria è la donna che ha vissuto questa dinamica profonda e radicale nella sua pienezza. Con umiltà accoglie la Parola e con fede si alza in fretta per far dono agli altri di ciò che ha ricevuto. Il suo “andare in fretta” comunica quel gesto di carità che rispecchia un cuore libero e liberante. Questa è la nostra chiamata che cerchiamo di vivere con l’aiuto di “Colei che ha fatto tutto”!
1 C.M. MARTINI, La scuola della Parola, Bompani – Milano, 2018, p. 470-471.