1938_CeriaE_SGiovanniBosco_nella_vita_e_nelle_opere


1938_CeriaE_SGiovanniBosco_nella_vita_e_nelle_opere

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Sac. EUGENIO CERIA
SAN GIOVANNI BOSCO
NELLA VIT.A E NELLE OPERE
ILLUSTRAZIONI DI G. B. GALIZZI
Seconda edizione
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE

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Sac. EUGENIO CERIA
SAN GIOVANNI BOSCO
NELLA VITA E NELLE OPERE
ILLUSTRAZIONI DI G. B. GALIZZI
Seconda edizione
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE
CENTRO
(I sno gl
VP DONBOSCO

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Visto per la Congregazione Salesiana
Torino, 10 aprile 1938
Sac. R e n a t o Zig g io t t i del C apitolo Superiore
V isto: nulla osta alla stampa
Torino, 6 maggio 1938
S ac. D . L u i g i C a r n i n o , Revisore
IMPRIMATUR
Torino, 6 maggio 1938
C . L . C occolo, V ie. Q en.
PRO PRIETÀ R ISE RV A T A A L LA SO C IE TÀ EDITRICE IN TERN AZIO NALE DI TO RIN O - OFFICINE G RAFICHE S . E . I .
R ISTA M PA LUGLIO 1963
( M - E' 34461)

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AL R E V E R E N D I S S I M O
DON PIETRO R1CALDONE
QUARTO SUCCESSORE
DI S. GIOVANNI B O S C O

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PREMESSA
Q uesto studio biografico su S. Qiovanni Bosco vide la luce nel 1937 per il prossimo
cinquantenario dalla morte del glorioso Fondatore dei Salesiani. Esaurita in
breve l ’edizione e continuando a giungere richieste, si è proceduto alla ristampa; esau-
rita anche questa, si è fatta una seconda edizione riveduta.
Ogni cap o è un panorama a se. La successione dei panorami sviluppa una visione
d ’insieme continua e progressiva, in cui si muove la figura centrale, presentandosi e
ripresentandosi nella cangiante varietà dei suoi atteggiamenti. E tutti gli atteggiamenti
non sono che i riflessi di u n ’unica luce, di quella fides quae per caritatem operatur
(Qal. V, 6).
Come sacerdote, com e educatore e com e cittadino Don Bosco tutto operò nel cam po
della carità ispirandosi ai principii della fede e mostrò col suo esempio come anche in
tempi difficili sia possibile stare attaccati alla Chiesa e fare un bene grande nella civile
società.
A impreziosire l ’edizione viene l ’arte del Qalizzi di Bergamo, l ’insuperato illustra-
tore del Manzoni.
Torino, 24 novembre 1948.

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CAPO I
L’UOMO E L’OPERA
on Bosco è nome di un Uomo e di u n ’Opera. L’Uomo, venuto su dal nulla,
riempi il mondo della sua fama; l ’Opera principiò umile granello di senapa,
che germogliato crebbe in albero. Gli alberi, si sa, non vivono solo carezzati da
brezzoline e vellicati da tepori primaverili, ma stanno esposti a tutte le ingiurie
del tempo e dei mortali. Vampe e geli, turbini e grandini, diluvi e siccità, morsi
di bestie e colpi di uomini ne travagliano e minacciano di continuo l ’esistenza.
L’albero di Don Bosco tallì, profondò le radici nel suolo, spinse in alto e in­
vigorì il tronco, ramò, come tutti gli alberi, vincitori delle forze avverse. Ma
colui che lo trasse dal terreno ebbe sempre, dal cielo benigno, tanto sole, tanta
pioggia, tanta protezione che nè inclemenze di stagioni nè assalti di esseri viventi
arrivarono a schiantarlo o ad arrestarne lo sviluppo.
Fanciullo di nove anni, fece un misterioso sogno. Gli parve di essere in mezzo
a una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano in un grande cortile presso la sua
casetta. Non pochi giocando bestemmiavano; le loro bestemmie lo accesero di santo
sdegno, sicché, slanciatosi in quella turba di monelli, voleva con pugni e invettive co­
stringerli a tacere. Ed ecco apparirgli un uomo venerando, in età virile, nobilmente
vestito, con una faccia così luminosa che gli occhi non potevano sostenerne la vista.
Il personaggio lo chiamò come lo chiamava la mamma, Giovannino; gli ordinò
di mettersi alla testa di quella marmaglia e gli disse: — Non con le percosse, ma
con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Fa’ dunque
loro subito un ’istruzione su la bruttezza del peccato e la preziosità della virtù.
— Ma io, rispose, sono un povero ragazzo, ignorante e incapace di fare questo!
Risse, schiamazzi e bestemmie allora cessarono di botto e i giovanetti si rac-
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colsero intorno a colui che parlava. Venivano forse perchè egli cominciasse la le­
zione? Sbigottito a questo pensiero e insieme animoso, domandò allo sconosciuto:
— Chi siete voi che mi comandate l ’impossibile?
— Appunto perchè è cosa che ti sembra impossibile, devi renderla possibile
con l ’obbedienza e con l ’acquisto della scienza.
— Dove, come acquisterò la scienza?
—■Ti darò io la maestra. Sotto la sua disciplina potrai divenire sapiente; senza
di essa, ogni sapienza diventa stoltezza.
— Ma chi siete voi che parlate così?
— Io sono il figlio di Colei che tua madre ti ha insegnato a salutare tre volte
al giorno.
— Mia madre mi dice di non mettermi, senza il suo permesso, con chi non
conosco. Perciò ditemi il vostro nome.
— Il mio nome domandalo a mia madre.
Subito dopo, il fanciullo vide accanto al personaggio una maestosa Signora, am­
mantata di splendore e dall’aspetto incoraggiante. Essa gli fe’ cenno di avvicinarsi
e presolo con bontà per mano: — Guarda, — gli disse indicando con l ’altra mano
il luogo occupato dai fanciulli. Egli guardò, ma i fanciulli erano spariti e ne aveva
preso il posto un’eterogenea mescolanza di capretti, cani, gatti, orsi e altri animali.
— Ecco il tuo campo, ripigliò la Signora, ecco dove hai da lavorare. Ren­
diti umile, forte e robusto, e quello che ora vedrai succedere di questi animali,
tu dovrai farlo per i miei figli.
Che singolare mutamento di scena! Invece di bestie più o meno feroci, cor­
revano saltellando intorno e belando tanti mansueti agnelli.
Il povero fanciullo, tutto confuso, ruppe in pianto. Quel vedere tante novità
e non capirne nulla lo disanimava e gli stringeva il cuore. Pregò la Signora di spie­
gargli le cose che succedevano. Ella, posatagli maternamente la mano sul capo,
gli disse in tono pacato e fermo: — A suo tempo capirai tutto.
In quell’istante un rumore lo svegliò; ma per le rimanenti ore della notte non
potè più chiudere occhio, tanto aveva la mente occupata dalle cose viste e udite.
Al mattino, candidamente, come l ’antico Giuseppe il casto, raccontò il sogno
in famiglia. Seguirono le interpretazioni. Il fratello Giuseppe, che aveva un paio
d’anni più di lui, contadinotto semplice e buono, disse: — Diverrai pastore di
greggi. — E sua madre: — Chi sa che tu non divenga prete. — Ma il fratellastro
Antonio rudemente: — Sarai forse capo di briganti. — Ultima la nonna sentenziò:
— Non bisogna badare ai sogni.
Il fanciullo diede ragione alla nonna. Tuttavia non si potè mai più togliere
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quel sogno dal capo. L’impressione era stata troppo forte. Ma per trentaquattro
anni non ne riparlò a nessuno. Soltanto nel 1858 lo raccontò a Pio IX, perchè
il Papa volle sentire da lui tutte le cose occorsegli, le quali avessero pur semplice
apparenza di comunicazioni superiori. Allora il Santo Padre gli comandò di scrivere
tutto. Così fu che per obbedienza ci lasciò scritto il sogno dei nove anni e altro
ancora. Dio, che è onnipotente, può ben suscitare nell’immaginazione di chi dorme
ordinate successioni di fantasmi, i quali contengano velati prenunzi di eventi futuri.
Precocemente, già prima, si era svegliato nel fanciullo il senso del soprannatu­
rale, che è l ’elevazione della natura umana, mediante la grazia, alla partecipazione
della natura divina. L’uomo, rimanendo uomo, vive propriamente della vita di Dio.
Il battesimo opera questa elevazione. Ma come i bambini vivono la vita fìsica senza
che ne abbiano coscienza, così vi è un ’infanzia spirituale che dura più o meno a
lungo, inconscia di quell’altra vita. Giovannino n ’ebbe presto la percezione distinta.
Lo dimostrava il gusto che sentiva delle cose di Dio. Erano una manna per
lui piccino i racconti sacri, che sua madre veniva facendo in famiglia. La sua ani-
muccia si volgeva quasi sitibonda alle verità della fede, man mano che le udiva
dalle labbra materne. Sembrava che scorgesse ognora Dio presente, tanta compo­
stezza serbava negli atti usuali della vita, fìnanco nel modo di ridere. Appena im­
parò a leggere, non sapeva staccarsi dal libretto della dottrina cristiana, dove appren­
deva a conoscere Dio. Anzi non aveva che cinque anni, com’egli scrive, e della
dottrina sacra possedeva solo le elementari nozioni orali comunicategli dalla sua ge­
nitrice; eppure ardeva già del desiderio di radunare i fanciulli per insegnar loro
chi è Dio. “ Ciò, scrive, sembravami l ’unica cosa che dovessi fare sulla terra” .
Era soprattutto rivelatore il suo spirito di preghiera. Pregava volentieri, pre­
gava spesso, pregava bene. La preghiera egli la assaporava. Venuta l ’ora di pregare
in comune, se non ci si badava, la voce di lui, il più piccolo di tutti, ne dava l ’av­
viso. Gli era cara la solitudine del praticello, perchè ivi, guidando la mucca al pa­
scolo, si sentiva più libero di elevare la mente a Dio, e nel pensiero di Dio s’im­
mergeva a segno, che a taluno sembrò d ’avervelo sorpreso qualche volta in estasi.
Dalla madre imparò pure senza sforzo a far le cose per piacere puramente al Si­
gnore . Progredì tanto in questo esercizio, che a dieci anni parve già superare la maestra.
Ne diede prova in una puerile circostanza. Aveva allevato e ammaestrato nel
canto un bellissimo merlo, che formava la sua delizia. Un giorno, mentr’egli rien­
trava, il canoro uccello non rispose al suo solito richiamo. Le unghie e i denti del
gatto attraverso le gretole della gabbia ne avevano fatto scempio. Pianse inconso­
labile il ragazzo, e il pianto si rinnovò più volte nei dì seguenti, finché, riflettendo,
prese la risoluzione di non attaccare mai più il suo cuore a cosa terrena.
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Sentiva gran brama di fare la prima comunione; ma per la rigida disciplina del
tempo si stimava profanazione Paccostarvisi senz’aver toccati i dodici o quattordici
anni. Egli ne contava solo dieci, quando fu presentato al suo parroco, perchè lo
ammettesse al catechismo dei comunicandi durante la prossima quaresima. Il buon
pastore, colpito dal suo contegno e dalle nette e luminose risposte alle proprie in­
terrogazioni, non si mostrò alieno dal fare uno strappo alla consuetudine. Nella
classe il giovanetto si segnalava fra tutti, sicché il parroco, volendo stimolare gli
altri, soleva ripetere: — Vedete come sa Bosco il catechismo! Non lo sa solamente,
ma lo canta! — Alla fine dunque non esitò a concedergli la inaudita eccezione,
autorizzandolo a comunicarsi nella Pasqua del 1826, che cadeva il 26 marzo. “ M i
pare che da quel giorno, scrive Don Bosco, vi sia stato qualche miglioramento nella
mia vita ” . Dove intervenne il miglioramento? Non certo in quelle cose che
purtroppo appannano così spesso l ’anima dei giovanetti. Pieno di Dio, non solo
rifuggiva quasi per istinto da ogni alito impuro, ma paventava financo la dime­
stichezza di creature innocenti. Per questo gli stette bene il nome del più giovane
Apostolo, prediletto da Gesù fra i Dodici a motivo del suo liliale candore.
Tuttavia anche i Santi ereditano da natura la loro parte di quel d ’Adamo. Gio­
vanni Bosco portava in sè impulsività di temperamento sanguigno, monferrina
tenacità d’idee e orgoglio di superiorità intellettuale. Il sogno stesso ne l ’aveva
in certo modo ammonito e premunito.
Quel sogno fu più che sogno, poiché gli squarciò realmente il velo del futuro.
Ma rivelazione è dir poco: bisogna dire missione. Al tenero fanciullo è affidata
ivi un ’opera, sono indicati i mezzi, si fa promessa di alta assistenza.
L’educazione cristiana della gioventù più bisognosa e più numerosa per mezzo
di oratorii festivi, di laboratori, di scuole, e questo non solo in Piemonte o in
Italia, ma nel vecchio e nel nuovo mondo, tanto nei paesi civili che in terre bar­
bare, ecco l ’impresa capitale, a cui dovrà accingersi per eseguire il mandato; due
istituti religiosi, maschile uno e l ’altro femminile, specializzati in novità di metodi,
fiancheggiati da falangi di ausiliari d ’ambo i sessi, ecco gli strumenti ch’ei do­
vette creare e mettere in azione al raggiungimento dello scopo. Oggi, dopo un se­
colo, davanti a ll’eloquenza delle statistiche, chi crede, dice che è stata la mano di
Dio, e chi non crede, ammira il genio dell’uomo. La realtà è che il genio sorretto
dalla Provvidenza e la Provvidenza secondata umilmente dal genio, coordinarono
uomini e cose per l ’attuazione di sì vaste finalità.
Un monito dovette sonare oscuro al piccolo veggente. Perchè rendersi forte?
L ’esperienza glielo chiarì. Molto soffrire attende quaggiù gli eroi del bene.
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C A P O II
L’OPERA E I TEMPI
L’Opera di Don Bosco giunse provvidenziale, ma i tempi non volgevano propizi
é per accoglierla. Nel 1815, quand’egli nacque, il suo Piemonte, libero dalla
tirannide di trilustre dominazione straniera, ricercava il suo assetto politico, eco­
nomico e religioso sulla vecchia base, sotto la vecchia dinastia, secondo il vecchio
spirito; nulla però valeva più a risuscitare il vecchio ambiente, quell’ambiente
quasi casalingo del vecchio Piemonte: troppe cose i Francesi avevano innovate
nell’amministrazione pubblica e nel vivere privato. In fondo il popolo continuava
a essere buono e affezionato a ’ suoi Principi sabaudi; ma il liberalismo, maschera
del razionalismo, scatenato dalla Rivoluzione francese nel mondo, si era fatto larga
strada, dopo quindici anni di governo napoleonico, nella parte più intraprendente
delle classi superiori, salendo fin presso ai gradini del trono e scendendo a poco
a poco nelle sfere inferiori della società.
Per buona sorte la famiglia si manteneva sana; tuttavia pendeva su di essa la
minaccia di una scuola, che si andava allontanando gradatamente da Dio. In un
regime avviato a sempre più effrenata libertà e a sempre più accentuata separazione
dalla Chiesa, erano da aspettarsi sempre maggiori sconvolgimenti. Allorché nel
1841 Don Bosco prese a muoversi fuori dei sacri recinti, le cose erano già arri­
vate a tal punto, che gli sorgevano ostacoli a ogni passo, rendendogli oltremodo
malagevole l ’incamminarsi per la sua strada.
Cominciato il movimento nazionale per l ’indipendenza e l ’unità d ’Italia, ben
diversi ne sarebbero stati gli sviluppi, se la setta massonica non se ne fosse tolte
in mano le redini, sbalzando lungi gli antesignani, che per fare l ’Italia non avevano
giudicato necessario buttar a mare il loro credo religioso. Una volta afferrato il
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timone, quella gente nefasta manovrò per conto suo. In nome della ragione e
della libertà inoculò il veleno dell’avversione al dogma e dell’odio alla Chiesa negli
impiegati dello Stato per mezzo delle congreghe, nelle menti giovanili per mezzo
della scuola e nel pubblico in genere per mezzo della stampa. È miracolo che il
pervertimento non sia stato così profondo da diventare irrimediabile.
A produrre questo miracolo contribuì in misura eccezionale Don Bosco. Egli
col fatto e con l ’esempio suscitò da un capo all’altro della penisola una reazione
crescente che, contrapponendo associazione ad associazione, scuola a scuola, stampa
a stampa, preservò dal contagio migliaia di giovani e alimentò la fede in genti in­
numerevoli del popolo. Ma la sua carità inesausta e la sua rettitudine a tutta prova
non salvarono lui da ripetuti attentati, che, fortunatamente falliti, ci fanno però
vedere quanto l ’efficacia della sua attività sconcertasse i piani degli avversari. In­
fatti il suo lavorìo direttamente e indirettamente sortì l ’effetto di preparare una
riserva di elementi preziosi, che, scoccata l ’ora della Provvidenza, si trovarono
pronti alle esigenze dei tempi nuovi. Osserviamo di volo in quali condizioni e con
quali modi egli conducesse innanzi la sua Opera.
Contro le Congregazioni religiose infieriva vento di distruzione. Soppresse da
Napoleone nel 1802, si erano venute ricostituendo nel periodo così detto della
restaurazione; ma dal ’48 al ’70, con l ’estendersi delle annessioni degli Stati ita­
liani al Piemonte, furono da capo successivamente spazzate via. Durante e dopo
quel tempo l ’abito e il nome di religioso erano oggetto di ludibrio a gazzettieri,
a scrittori drammatici e a scombiccheratori di novelle e di romanzi. Lo sprezzo ne
divenne così forte e generale, che Don Bosco, quando si tirava su coloro, i quali
dovevano essere le pietre fondamentali della vagheggiata sua Congregazione, doveva
nascondere bene i propri intendimenti, se non voleva che i suoi designati gli scap­
passero. Anche uomini a lui affezionatissimi fin da ragazzi, come il Cagliero, con­
fessarono più tardi che, se ne avessero conosciuto gli scopi, gli avrebbero volte
le spalle. Stare con Don Bosco, sì, dicevano essi; ma frati, no, neanche a parlarne.
Il clero secolare risentì a lungo le disastrose conseguenze dell’occupazione fran­
cese. Poi aveva avuto appena il tempo di rifarsi dei detrimenti patiti, che i nuovi
trambusti lo rimisero a duro cimento. Scemato di numero, inceppato nella giu­
risdizione, stremato di mezzi, sospettato, vessato in mille guise, vedeva spopolarsi
e in più luoghi anche vuotarsi del tutto i seminari. Da una parte era il fanatismo
della politica che montava le teste agli alunni del santuario, dall’altra erano la po­
vertà e il discredito che alienavano la gioventù dallo stato ecclesiastico. Santi Ve­
scovi che con petto apostolico difendevano i diritti della Chiesa, strappati ai loro
greggi, gemevano in esilio. S ’arrivò al punto che a una metà delle diocesi italiane,
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o per morte o per altri motivi prive di pastori, il Papa non aveva mezzo di prov­
vedere. Durante il conclave di Leone XIII nubi minacciose parvero doversi adden­
sare sul Vaticano.
Orbene nel corso di tante peripezie noi troveremo Don Bosco che, divorato
dallo zelo per la Casa di Dio, si farà gran cultore di vocazioni sacerdotali, gene­
roso e provvido confortatore di Presuli perseguitati, mediatore fortunato fra due
poteri, che erano costretti a ignorarsi.
Intanto la nuova legislazione italiana, orientata ognor più in senso ostile alle
libertà ecclesiastiche, raggiunta che fu l ’unità statale, pigliava di mira con metodica
continuità la scuola di ogni grado. Qui il liberalismo settario, specialmente dal ’76
in poi, dall’anno cioè in cui il governo passò nelle mani della sinistra democra­
tica, spiegò un programma di secolarizzazione prima e poi di laicizzazione, che av­
volse l ’insegnamento primario, medio e superiore in u n ’atmosfera d ’indifferentismo
religioso sboccante nel disprezzo della Chiesa, del Papa e di tutto l ’ordine sopran­
naturale. Unica arca di salvezza era la scuola privata, ma costretta per vivere a
lottare contro la forza formidabile dello Stato. Dio sa, e lo sappiamo tutti un
poco, che assalti dovette sostenere Don Bosco su questo terreno, che sacrifici
fare, che incomprensioni anche sormontare.
Dietro la questione politica si avanzava lenta in Italia, ma irresistibile la que­
stione sociale. Don Bosco ne presentì intera la gravità, mentre il liberalismo non
mostrava di rendersene conto, e corse in aiuto ai figli del popolo per sottrarli a
ree seduzioni e prepararli cristianamente alle nuove esigenze. Fuori d ’Italia il lato
sociale della sua Opera fu quello che la fece riguardare con simpatia, tanto in
paesi dove la questione aveva già fatto grandi progressi e si sapeva quindi apprez­
zare il suo contributo, quanto in altre parti dove la medesima questione non dava
ancora segno di svegliarsi, ma menti illuminate ne intuivano il fatale andare e per­
ciò salutavano in Don Bosco un pioniere, a cui bisognava spalancare le porte.
Sopra un mondo così in fermento la libertà di stampa dischiuse le cateratte
a una colluvie di libri e giornali perniciosi, che a getto continuo presero a inon­
dare città e villaggi. Col crescere della marea andò pure crescendo lo sforzo di
Don Bosco per porvi argine. Le sue scuole tipografiche aumentavano di numero
e di efficienza sia in Italia che a ll’estero. Il futuro Pio XI nel 1883 non si stupì, e
tanto meno si scandalizzò, sentendo da Don Bosco stesso che nell’arte della stampa
egli voleva essere sempre a ll’avanguardia del progresso. Nessuno stupore, perchè
vedeva in lui associato alPingegno uno spirito d ’iniziativa che sapeva volgere a suo
profitto ogni conquista della tecnica tipografica; nessuno scandalo, perchè intrav-
vide la santità autentica, che spirava dalla sua persona.
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Per valutare adeguatamente quello che costò a Don Bosco la sua opera, bi­
sogna tenere ben presente che nello svolgerla egli attraversò due periodi, in cui
dovette affrontare specialissime difficoltà.
Negli ultimi vent’anni di Torino capitale, la città, divenuta gran focolare delle
aspirazioni nazionali, era spesso in sobbollim elo ; la politica arroventava l ’aria,
accendendo anche i cervelli di ecclesiastici: le guerre che contraddistinsero quel
periodo di storia piemontese, creavano fra sacerdozio e governo situazioni delica­
tissime, nelle quali, date le male arti dei settari, i casi di conflitti non erano infre­
quenti, nati da cause le meno legittime e le più impensate. In quel clima pericoloso
Don Bosco gettò le basi della sua opera. Un errore di tattica poteva riuscirgli irre­
parabilmente fatale; ma egli con la sua leale franchezza disarmò avversari potenti
e con la sua sovrumana prudenza passò incolume anche per ignes subiectos cineri doloso.
Quando poi i rivolgimenti che mutarono l ’aspetto politico dell’Italia, misero
capo n ell’occupazione di Roma, ecco delinearsi a ll’orizzonte un nuovo ordine di dif­
ficoltà. La questione romana scavò un abisso fra Italiani e Italiani. Nel nome abusato
di Roma italiana l ’anticlericalismo trionfante informava di sè la vita della scuola,
il cui obiettivo divenne quello di plasmare le crescenti generazioni fuori d ’ogni in­
flusso cattolico. Naturalmente la guerra contro gl’istituti privati fu spinta fino al­
l ’inverosimile. Ingrossava ogni anno più siffatta corrente, allorché Don Bosco si
accinse a estendere la sua opera in tutta l ’Italia. Allora gli bisognò scansare i due
estremi, di essere cioè confuso con gl’intransigenti e di lasciarsi rimorchiare dai
liberali, impresa ben ardua fra tanto accanirsi di partiti. Medio tutissimus ibis, si può
dire che fosse la sua divisa. Senza nulla nascondere del suo attaccamento alla Chiesa e
senza inimicarsi le autorità costituite, delle quali approvava il buono e moderava con
pazienza il male, pur fra contrasti di varia natura, riuscì a piantare felicemente le sue
tende nel nord, nel centro e nel sud del paese. E venuto che fu a morte, i suoi figli
e le sue figlie non ebbero a far altro che camminare con fedeltà sulle orme paterne.
Nelle ore pomeridiane del 23 dicembre 1887 Don Bosco giaceva infermo del
male che lentamente lo conduceva alla fine. Gli fu annunciata un’alta visita. Il Car­
dinale Alimonda, Arcivescovo di Torino, veniva a portargli, in quella antivigilia
del suo ultimo Natale, il conforto della sua dolce parola di padre e di amico. Du­
rante l ’intimo colloquio, nel quale le due grandi anime effondevano la piena dei
loro sentimenti, Don Bosco a un tratto si arresta pensoso e nel breve silenzio lan­
ciando il pensiero su nove lustri di sudori e di stenti, esclama: — Tempi difficili,
Eminenza, ho passato tempi difficili! — Nelle parole affiorava il ricordo d ’infinite
vicende; ma vibrava nell’accento la commozione del forte che, combattuta la buona
battaglia, si apprestava fidente a ricevere la meritata corona.
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CAPO III
MADRE E FIGLIO
Ogni madre dovrebbe essere la prima educatrice della sua prole; certo, Mar­
gherita Occhiena, vedova Bosco, fu per il suo secondogenito una educa­
trice eccellente. Poco monta che fosse povera contadina analfabeta; fra cristiani,
l ’umiltà della condizione e l ’ignoranza dell’alfabeto non hanno mai impedito che
semplici persone pie fossero dotate di spirito profondamente penetrativo, di retto
giudizio e di volontà più forte della fortuna.
Dal nativo Capriglio, comunello dell’Astigiano, Margherita andò sposa al
vedovo Francesco Bosco, agricoltore che viveva del proprio lavorando alcuni po-
deretti suoi nel poco distante territorio di Castelnuovo Don Bosco.
Questo capoluogo di mandamento si chiama oggi così, non perchè Don Bosco
abbia avuto i natali entro il perimetro del suo abitato, ma perchè il suo municipio
ne registrò gli atti di stato civile. I natali egli li sortì in una remota frazioncella,
che tolse il nome da una famiglia Bechis, come scrivono i documenti, diventato
poi Becchi attraverso la deformazione orale del vernacolo.
Era un piccolo agglomeramento di casette coloniche, le une ammassate e le
altre isolate, sopra uno di quegli altipiani che coronano le amene colline, da cui
sono ondulate le terre ubertose del Monferrato. Parecchie generazioni vi si erano
inerpicate per un sentiero sghembo, staccantesi dalla strada carrozzabile a sinistra
di chi va da Castelnuovo a Capriglio. I Bosco abitavano, là sopra, un ’umile ca-
succia, custodita al presente come una reliquia, ma che sarebbe da gran tempo
un mucchietto di rovine coperte da una vegetazione di rovi e di ortiche, se non
si fosse provveduto a rafforzarne le deboli pareti. La compongono due vani angusti
a pian terreno e due meschine camerette superiori, alle quali si accede per una
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rozza scaletta di legno addossata al muro della facciata. Più in là è il prolunga»
mento per la legnaia e il fienile.
I due coniugi vivevano d ’amore e d ’accordo, degni veramente l ’uno dell’altro.
Cristiani per tradizione e per convinzione e amanti del lavoro, si vedevano crescere
attorno la famigliola, quando trascorsi appena cinque anni di matrimonio, una
tremenda sciagura piombò fulminea a spezzare i loro sogni dorati: morì il padre.
A Giovannino, secondo e ultimo nato, mancavano ancora tre mesi per com­
piere due anni. In sì tenera età, non è possibile comprendere che grande infor­
tunio sia la perdita del padre; questo fu tuttavia il primo fatto, che al futuro or-
phanorum pater, come lo disse la lapide sepolcrale, s’imprimesse nella memoria.
L’impressione provenne da una parola proferita allora dalla mamma. L’afflitta
donna voleva menare il bimbo fuori della stanza del morto; ma egli, puntando i
piedini, rifiutava di uscire, se non venisse anche il babbo. — Tu non hai più
padre!, — gli disse ella tirandoselo dietro e lacrimando.
Giorni duri cominciarono a succedersi per Margherita. Oltre ai due figlioletti,
doveva mantenere la vecchia suocera, un figliastro Antonio e due servitori di cam­
pagna, che non le bastò l ’animo di congedare. Per di più un’ostinata siccità aveva
finito con mandar a male i frutti dell’annata, unico suo mezzo di sussistenza. Il
lavoro indefesso, una costante e minuta economia e qualche soccorso provviden­
ziale le permisero di attendere fra privazioni inenarrabili il termine della crisi.
Cessata la grave penuria, le si presentò un ottimo partito per passare a se­
conde nozze; ma essa, risoluta di dedicarsi tutta all’educazione dei figli, vi oppose
un reciso diniego.
Bisogna notare subito che mamma Margherita non faceva distinzione di sorta
fra i suoi due e l ’altro. Ma che differenza da questo a quelli! Il figliastro, che in
morte del padre aveva già quattordici anni, cresceva robusto di corpo, ma rustico
di modi e prepotente. Giuseppe, il maggiore dei figli di Margherita, non mani­
festava aspirazioni superiori alla sua condizione; ma, d’indole pacifica, non tardò
a rivelarsi ricco del senno pratico, che distingue l ’agricoltore monferratese. Visse
legato sempre da cordiale affetto al suo grande fratello minore.
E che dire delle prime manifestazioni di questo fratello minore? Le mamme
sogliono prediligere la loro ultima creatura. Che mamma Margherita avesse un de­
bole per il beniamino delle mamme, sembra doversi escludere; donna però non
meno sagace che virtuosa, scorgendo nel suo Giovannino sotto la naturale vivacità
ima precoce apertura di mente e un gusto spiccato per le cose di pietà, non poteva
non riguardarlo con particolare compiacenza. Il giorno innanzi ch’ei nascesse, festa
dell’Assunta, l ’aveva preconsacrato alla Madre di Dio; orbene in quelle eccezionali
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•disposizioni di lui ravvisava un chiaro indizio di assistenza speciale da parte della
Vergine.
Con questo tuttavia non chiudeva gli occhi sopra i suoi difetti. Senz’alzare mai
la voce, correggeva lui al pari degli altri con amore, fortezza e costanza, esercitando
sui loro animi un’autorità ferma e dolce. Occorrendo, non avrebbe esitato a usare
anche il castigo; anzi, perchè i figli non si facessero illusioni, teneva sempre pronta
in un angolo della cucina una simbolica verga, che nessuno ardiva toccare. Che
l ’adoperasse, non sembra, tanti erano gli espedienti a cui sapeva e preferiva ricor­
rere invece di porre mano alla frusta.
Un giorno d ’estate, i due fratellini tornarono a casa arsi dalla sete. La mamma,
andata ad attingere acqua, ne porse prima a Giuseppe. Giovannino, sebbene non
avesse che quattro anni, impermalito al vedersi posposto, si abbuiò in volto, osten­
tando di non voler più bere. Margherita, come se nulla fosse, si voltò e ripose
l ’acqua, riprendendo le sue faccende. Fu cosa di un momento, perchè egli, rassere­
nato, la pregò di darne anche a lui.
—■Credevo che non avessi più sete — gli rispose ella con aria un po’ soste­
nuta .
—■Mamma, perdono! — fece il piccolo, ravveduto.
— Ah, così va bene! — esclamò la madre. Quindi, ripigliata l ’acqua, glie
l ’accostò alle labbra.
U n’altra volta Giovanni, un po’ più grandicello, aveva dato in uno scatto
d ’impazienza. Mamma Margherita: — Vieni qui, gli disse, vieni qui! — Il fan­
ciullo corre. — Vedi quella verga? — continuò la madre.
— Sì, la vedo, -— le rispose egli, guardando lei con intelligenza e adagio
adagio scostandosi.
— Ebbene, prendila e portamela.
— A che farne?
— Portamela e vedrai.
— È per le mie spalle?
— E perchè no? quando tu me ne fai di queste!
— Mamma, non farò più così!
Un sorriso da ambe le parti chiuse l ’incidente. In materia di correzioni era
sua massima indurre i figli a fare le cose per amore e per piacere a Dio.
Un giorno, ritornando da un paese vicino, si vide venire incontro Giovanni,
che tutto premuroso le chiedeva se stesse bene e se avesse fatto buon viaggio.
— Sì, tutto bene, rispose. Ma tu che cosa nascondi dietro le spalle?
— Ecco, mamma, — disse pronto il figlio, porgendole, con fare furbetto,
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un ramoscello ben ripulito, scortecciato qua e là con cert’arte e adorno di fregi.
La mamma capì che egli ne aveva fatta qualcuna e ne lo interrogò.
— Sì, rispose, questa volta me le merito proprio.
— Che cosa è successo ?
■— Per disgrazia ho rotto il vaso dell’olio.
Venutagli la fantasia di prendere un oggetto posto in alto, era montato sopra
una sedia e stendendo il braccio, aveva urtato col gomito l ’orcio, che cadde al
suolo e andò in frantumi, chiazzando il pavimento di una tondeggiante macchia
d ’olio che si allargava, si allargava... Egli cercò bene di rimediarvi, dando di piglio
alla granata; ma ci voleva altro a fare scomparire le tracce del disastro! Era dun­
que corso ai ripari con quell’accorgimento.
La mamma, udito il racconto e dato in silenzio uno sguardo al compunto
narratore e un altro alla verga così acconciata, sorrise dell’astuzietta infantile e
senza scomporsi gli disse: —■M i rincresce della disgrazia, ma non c ’è stata colpa e
quindi ti perdono. Bada però che prima di fare qualunque cosa, bisogna pensare
alle conseguenze. — Poi, rimettendosi in cammino, sviluppò la lezione. — Vedi,
proseguì, se tu avessi posto più attenzione, ti saresti accorto che c ’era pericolo di
rompere qualche cosa, avresti fatto più adagio e non ti sarebbe accaduto nulla. Chi
è sventato da giovane, sarà poi uomo senza riflessione, e si procurerà dispiaceri,
e arriverà anche a offendere il Signore... Abbi dunque giudizio.
Questo senno educativo che guarda le cose per il loro giusto verso, si diede
pure a divedere in una circostanza d ’altro genere e assai più rilevante. Mamma
Margherita vigilava i figli e non li lasciava in ozio; tuttavia, sapendo che avevano
necessità di ricrearsi, permetteva che si andassero a divertire con i loro coetanei
del vicinato: solo esigeva di conoscere ogni volta chi essi fossero. Giovanni giocava
con ardore, tanto che non di rado ritornava a casa malconcio in qualche parte
della persona. Una buona volta finalmente la madre gli disse di non mescolarsi
più con quei monelli.
-— Io vado con loro a bella posta, osservò egli, perchè sono birichini. Se
mi ci trovo io, stanno più buoni e non dicono certe parole.
— Ma intanto vieni a casa con la testa rotta.
—■Oh, sono disgrazie!
— Comunque sia, non ci andrai più.
— Per ubbidire non ci andrò più; ma quando ci sto io in mezzo a loro, fanno
come voglio io e non rissano più.
Le sue osservazioni colpirono la madre, che, ripensandoci e vedendolo im­
mobile ad aspettare l ’ultima parola, ritirò il divieto. Un ragazzetto che parla così,
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non è del comune stampo. Già fin d ’allora faceva capolino in lui la santa passione
che ne riempirà la vita.
Ai Becchi non esisteva chiesa; la più vicina era la cappellania di Morialdo,
borgata dipendente da Castelnuovo e distante un paio di chilometri. Là per lo più
s’andavano a fare le divozioni. Mamma Margherita vi conduceva i figli alla Messa
e alla predica; ma ai catechismi non ve li poteva mandare, finché erano piccoli.
Vi suppliva dunque da sé.
A quei tempi per le famiglie rurali del Piemonte correvano la Storia Sacra e
il Leggendario dei Santi, che nelle lunghe serate d ’inverno qualche vecchio più
istruito leggeva ad alta voce, e gli altri, intenti chi a dicanapulare canapa o a in-
trecciare vimini, chi a filare, ascoltavano con diletto. Tra prediche e simili letture,
Margherita venne via da Capriglio con un buon corredo di notizie agiografiche,
sicché in certe ore del giorno poteva intrattenere i figli narrando fatti dell’antico
e del nuovo Testamento ed esempi dei Santi; prima però faceva loro imparare e
ripetere alcune risposte del catechismo, che ella sapeva bene a memoria. Così
preparò Giovanni anche alla prima confessione. Per la prima comunione lo mandò,
come dicevamo, alla parrocchia durante la quaresima del 1836.
Una particolarità pertanto colpiva di meraviglia in lui, ed era l ’impulso irre­
sistibile che lo portava a comunicare agli altri le cose apprese; più ancora, l ’in­
gegnosità sua per mettersi in grado di esercitare quell’apostolato, chè con diverso
nome non si potrebbe chiamare tanto ardore di propaganda.
Nell’accompagnare la madre ai mercati e alle fiere dei villaggi, aveva notato
come folle di gente stessero estatiche a osservare acrobati e giocolieri. Egli s ’era già
provato a raccogliere gruppi di ragazzi per ripetere loro i racconti uditi dalla madre
in casa e dai sacerdoti nelle prediche e nei catechismi; ma pensava: “ Se fossi
anch’io capace di fare come quei tali, tutti gli abitanti dei Becchi mi verrebbero
attorno e io potrei dire loro quanto mi paresse ” . Concepire un buon pensiero e
tradurlo in atto sarà la vita di Don Bosco; era già intanto una tendenza di lui decenne.
Gli toccò prima espugnare la madre. Quali argomenti mettesse in campo, non
si sa; questo si sa, che la madre dopo matura riflessione si arrese e gli diede licenza
di recarsi in certe occasioni con persone fidate a Castelnuovo ed a borgate vicine
per assistere a quegli spettacoli. Là egli ora studiava le mosse dei saltimbanchi, ora
cercava di scoprire le trappolerie dei prestigiatori. Carpì financo il segreto di quei
ciarlatani che, cacciando in bocca ai pazienti la chiave inglese, cavavano loro i denti
coram populo. A casa poi s’ingegnava di imitare quanto aveva potuto comprendere
bene. Faceva e rifaceva senza mai stancarsi, finché non gli riuscisse di ottenere
un ’esecuzione perfetta.
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3.8 Page 28

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Gli occorrevano, com’è facile supporre, vari amminicoli e quindi ci volevano
•spesucce per provvedersi l ’indispensabile. Quelli se li fabbricava con le sue mani;
a queste pensava da sè, perchè la mamma nell’accordargli il permesso gli aveva
•detto di non chiederle danaro. Vexatio dai intellectum. Vendeva uccelli presi nel
nido o cacciando col vischio, coi lacci e altrimenti; faceva e portava al mercato
•cappelli di paglia, gabbie per uccellare con richiami da lui ammaestrati e calze a
maglia; raccoglieva e metteva in vendita funghi e piante tintòrie; si buscava rega-
lucci insegnando filature diverse, in cui si era reso molto esperto; financo le serpi
•gli procuravano qualche guadagno, vendendole a farmacisti. In seguito anche i
suoi spettatori gli davano volentieri con che procacciarsi il necessario per quei
graditi passatempi.
Ed eccolo all’opera. Quando si sentì sicuro del fatto suo, fece correre la voce
che la tal domenica, alla tal ora della sera, presso la casa dei Bosco, vi sarebbero
state belle cose da vedere. Fra i conterranei egli godeva già di una popolarità di­
screta sia per le sue belle qualità sia perchè nelle operose veglie invernali le famiglie
se lo disputavano, bramose di ascoltare i racconti edificanti che imparava a casa
e in chiesa e che sapeva infiorare ripetendoli. I terrazzani quindi, grandi e piccoli,
più i piccoli che i grandi, la prima domenica arrivavano a poco a poco, curiosi
di quella novità. Sul posto Giovanni aveva tutto preparato per creare l ’aspetta­
zione. Una fune tesa fra due alberi nel prato; un tavolino sull’orlo della riva con
l ’immancabile bisaccia; più in qua nel cortile una sedia e poi un tappeto steso in
terra. Quella volta si limitò ad alcuni saggi di ginnastica sulla corda, di agilità al
salto e di destrezza nella prestidigitazione. La sedia servì per arringare il pubblico.
La soddisfazione generale lasciò prevedere che nella domenica seguente il nu­
mero degli intervenuti sarebbe stato maggiore; ma allora il programma subì una
notevole variante. Al divertimento precedette una parte seria. Il piccolo gioco­
liere, montato sulla sedia, disse: — Ora sentite la predica fatta stamattina dal cap­
pellano di Morialdo. — E senza lasciare tempo a manifestazioni, incantò tutti con
una parlantina facile, franca e d ’una efficacia sorprendente. Oltre a questo, nel
volto, negli occhi, nei riccioli del capo, nel gestire aveva un misto simpatico di
grazia, di brio e di energia, che conquise i buoni villici. Terminata la predica, re­
citò una breve preghiera, indi die’ principio ai giochi. Sembrava un giocoliere di
professione. Finì con la comica sorpresa dell’uccisione e della risurrezione di un pollo.
Ormai quel pubblico di rustici era suo. Per tutta la durata della buona sta­
gione il concorso non diminuì. Egli sapeva variare l ’ordine del trattenimento, so­
stituendo anche numeri nuovi ai già ripetuti; ma talora sul più bello sospendeva
«lì ’improvviso e con disinvoltura intonava le litanie della Madonna o cominciava
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la recita del Rosario. Capiva che, se avesse aspettato a fare questo dopo il termine
dei giochi, sarebbe facilmente rimasto solo.
La madre, per la quale Giovanni non aveva segreti, osservava, interrogava e
lasciava fare. Non lo inuzzoliva certamente con vane lodi; donna illuminata, com­
prendeva benissimo che l ’orgoglio va rintuzzato prima che prenda piede in un’a­
nima. Dopo la prima comunione vide quel portento di ragazzo ancor più infervo­
rato nel suo, chiamiamolo così, oratorio festivo dei Becchi. Il fervore di lui cre­
sceva col crescere della sua istruzione religiosa; anzi più volte egli si fece sentire
anche fuori dell’angolo ristretto, che era il teatro delle sue prime prove. Gli epi­
sodi che si narrano in proposito palesano la sua deliberata volontà d ’impedire a
ogni costo l ’offesa di Dio. Basti riferirne uno.
Recatosi a Morialdo nel pomeriggio di una festa e giunto sulla piazza del
paese, si trovò in mezzo al bailamme di un ballonzolo rusticano, mentre a quattro
passi nella chiesa si cantavano i Vespri dinanzi a pochi fedeli. Le popolazioni del-
l ’Astigiano andarono sempre matte per i loro balli al suono della monferrina. La
folla si componeva in buona parte di suoi conoscenti. Addolorato di quello scan­
dalo, si spinse avanti, aggirandosi qua e là ed esortando a smettere per andare
alle funzioni; ma non riceveva che male parole. Chi aveva mai visto, dicevano,
un garzoncello tant’alto predicare ai grandi? Si levasse di tra i piedi e tornasse
dalla mamma!
Non si diede per vinto. Aveva voce angelica e orecchio musicale. Il signor Fi-
lippello che da ragazzo menava al pascolo nel prato vicino al suo, attestò che spesse
volte Giovanni, trasportato dalla sua pietà, faceva echeggiare i colli del canto di
laudi sacre, destando l ’ammirazione degli agricoltori sparsi a ll’intorno. Prese dun­
que a cantare una popolarissima canzone religiosa, ma con sì soave melodia che
a poco a poco i più lo circondarono e lo ascoltavano a bocca aperta. Poi, sempre
cantando, si mosse verso la chiesa, salì la gradinata ed entrò, seguito dalla gente.
Sull’imbrunire il ballo fu riattaccato con frenesia, ed egli tornò a ll’assalto.
Adocchiando le persone che gli sembravano meno dissennate, si stringeva loro
ai panni, sforzandosi di persuaderle della sconvenienza e del pericolo di prolun­
gare in quell’ora il divertimento. Ma poiché nessuno gli badava, si rimise a can­
tare. Bisogna dire che dalle sue corde vocali si sprigionassero magiche note, poi­
ché si rinnovò l'affascinamento di prima.
Finito che ebbe, gli si offersero doni, affinchè continuasse. Ripigliò, ma sen-
z’accettare. I caporioni della baldoria, seccati quanto mai, gl’intimarono delle due
l ’una: o prendere dei soldi e andarsene fuor dei piedi o buscarne di sonore. Non
ci voleva di meglio, perchè Giovanni di scatto diventasse eloquente. Investì coloro
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3.10 Page 30

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con tanta forza, che molti degli astanti gli diedero ragione e si avviarono alle loro
case. I più fanatici, rimasti in pochi, finirono anch’essi con andarsene.
Mamma Margherita da tutto questo e da altro ancora capiva che la Provvi­
denza non destinava il suo Giovanni alla vita dei campi. A volte nell’andare e
venire con lui per lo stradone di Castelnuovo, accadeva che s’imbattessero in qual­
che prete, specialmente nel parroco. Egli, vinto da una specie di attrattiva, gli si
faceva da presso passandogli rasente e gli rivolgeva tutto festoso un bel saluto;
ma in risposta ne riceveva appena un segno d’attenzione distratta e sostenuta. Più
tardi, quando studiava a Castelnuovo, gli era una spina nel cuore il non poter
godere la familiarità dei preti locali. Era il costume degli ecclesiastici d ’allora; essi
concepivano generalmente così il decoro del proprio stato. Giovanni invece ne ri­
maneva male e se ne rammaricava con la madre. Questa metteva innanzi ragioni
per giustificare la condotta dei ministri di Dio; ma egli rispondeva: — Oh, io, se
sarò prete, farò diversamente. Non starò serio con i fanciulli; anzi li trarrò a me
parlando loro per il primo e darò loro buoni consigli.
Era presto detto essere prete! Bisognava andare a scuola, e Margherita pen­
sava già nel 1823 a mandarvelo; se non che parecchie difficoltà si opponevano. Ca­
stelnuovo distava cinque chilometri dai Becchi: troppa strada per un fanciullo di
otto anni. Il lasciarlo ivi a pensione importava spese, e i quattrini mancavano. Poi
c’era Antonio. Costui non guardava di buon occhio i due figli della matrigna, come
si ostinava a chiamarla, sebbene fosse da lei trattato con tutte le tenerezze materne.
Appena sentì parlare di scuola, montò in furia. Mamma Margherita, che amava
la pace in famiglia, risolse di aspettare, pregando Iddio che l ’aiutasse e non omet­
tendo di aiutarsi anche da sè.
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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CAPO IV
PRIMI STUDI E PRIMI DOLORI
Il primo periodo degli studi fu per Giovanni Bosco una via crucis di guai. Dicevo
che Mamma Margherita già nel 1823 aveva avuto l ’idea di mandarlo a scuola
e che Castelnuovo era il luogo più indicato, ma troppo lontano. Pensò dunque a
Capriglio, assai più vicino. Vi faceva la scoletta pubblica il cappellano. Antonio,
temperando la sua ostinazione, erasi piegato a un compromesso: Giovanni avrebbe
frequentato la scuola di Capriglio solo nei mesi invernali, quando cessano i lavori
agricoli. La madre, contenta come una pasqua, volò a parlarne col prete; ma que­
sti, non volendo, col ricevere uno scolaro d ’altro Comune, stabilire un precedente,
le diede una negativa. La povera donna non se la sarebbe mai aspettata. Mentre
penava in silenzio per quella contrarietà, ecco un buon contadino offrirsi per in­
segnare a suo figlio un po’ di lettura. Così nell’inverno fra il ’23 e il ’24 Giovanni
cominciò a compitare, e il suo primo maestro si acquistò una benemerenza, della
quale si gloriò poi finché visse.
Ma quante volte l ’uomo propone e Dio dispone! Il cappellano di Capriglio,
perduta la sua fantesca, assunse nel 1824 una sorella di Margherita che, amando
molto i nipotini, intervenne subito, e con buon esito, presso il padrone in favore
di Giovanni. Le scuole stavano aperte solo da Ognissanti a ll’Annunziata. Il rigore
della stagione non ispaventò il ragazzo, che cinque giorni alla settimana faceva e
rifaceva quattro volte la strada. Tutto sommato, erano circa otto chilometri di
cammino, ora per pioggia e fango, ora per freddo e neve.
Don Lacqua, il cappellano maestro, prese a volergli così bene, che oltre al­
l ’insegnamento scolastico gli impartiva anche un ’utile direzione spirituale, in­
dicandogli soprattutto i mezzi per conservarsi in grazia di Dio e istruendolo sul
3
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4.2 Page 32

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modo di ben confessarsi. Lo invogliò pure alla pratica della mortificazione e lo
venne addestrando a esaminarsi la coscienza sulle intenzioni per escludere ogni su­
perbia dall’operare. Da quanto Don Bosco scrive nelle sue Memorie, sembra che
datasse da allora il suo gusto d ’imitare i Santi con segrete penitenze.
Del resto era già per lui una ben dura penitenza il sopportare le molestie dei
suoi compagni di scuola. Per i loro pregiudizi contro quelli dei Becchi lo credevano
uno stupidetto, e gliene facevano d ’ogni colore. Ma egli prendeva le cose con
tanta pazienza, che un vecchio condiscepolo' d’allora per nome Occhiena, dive­
nuto tanti anni dopo sindaco del paese, ricordava ancora con ammirazione la com­
postezza inalterabile del novenne Bosco di fronte alle villane provocazioni.
Saper leggere e diventare appassionato lettore fu tutt’uno per lui. Leggeva nel
prato al pascolo, leggeva in cucina durante i pasti, leggeva anche di notte al lume
della lucerna. Il librino che portava sempre con sè, era il catechismo.
Al ritorno dell’inverno egli sperava di ritornare a scuola; ma bisognò fare i
conti con Antonio. La madre, prò bono pacis, non credette bene d’imporsi; solo
cercava frequenti motivi o pretesti per mandarlo dalla zia o dal nonno a Capriglio,
affinchè potesse intrattenersi con Don Lacqua, che lo esercitava nello scrivere, gli
prestava libri da leggere e gli largiva buoni consigli.
La fiamma della vocazione avvampava tanto più, quanto più imparava e quanti
maggiori ostacoli sorgevano a sbarrargli la via. — Voglio studiare e farmi prete,—
diceva d ’averlo sentito allora ripetere un certo Matta, altro suo compagno di pa­
storizia. Il fratello Giuseppe narrava, come in quegli anni il timore dei giudizi
divini e l ’orrore del peccato fossero due sentimenti a lui abituali.
Da pochi giorni aveva fatto la prima comunione, quando un felice incontro
parve dischiudergli finalmente un più lieto avvenire. Il nuovo Papa Leone XII
aveva nel 1826 esteso per sei mesi a tutto l ’orbe il giubileo romano della sua ele­
vazione. Per l ’archidiocesi torinese l ’Arcivescovo Chiaverotti ne fissò i limiti dai
primi di marzo ai primi di settembre. Predicazioni straordinarie eccitavano i fedeli
nelle città e nelle campagne all’acquisto della grande indulgenza. Una di queste
missioni fu predicata a Buttigliera, distante tre quarti d’ora dai Becchi. La gente
vi traeva numerosa dai paesi circostanti. Anche Giovanni si univa a ’ suoi conter­
ranei, che mattino e sera andavano a udire i predicatori forestieri.
Se ne tornava egli una di quelle sere, solo soletto, dietro gli altri, a casa sua
quando un vecchio prete che li seguiva a più lenti passi, raggiunto da lui e col­
pito dal suo aspetto e contegno, desiderò conoscerlo. Don Calosso di nome e chie-
rese di patria, viveva da pochi mesi a Morialdo, facendovi da cappellano. Udito
che anche Giovanni era stato alla predica, lo provocò a mostrargli quanto ne avesse
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4.3 Page 33

▲torna in alto
capito. Il giovanetto cominciò da quella del mattino e così camminando tutta
gliela cantò. Trasecolato Don Calosso gli disse di ripetergli, dell’altra di pocanzi,
il tratto che più fortemente l ’aveva impressionato. Giovanni scelse la descrizione
del momento, in cui l ’anima del dannato al suono della tromba angelica starà per
ricongiungersi al proprio corpo per andare al giudizio. Il predicatore aveva imma­
ginato fra l ’una e l ’altro un prolisso dialogo, che egli recitò alla lettera.
Nella sua lunga vita il venerando sacerdote non era stato mai testimonio di
una memoria così fenomenale. La curiosità di sapere chi fosse il ragazzo, che cosa
facesse e che intendesse di fare, gli mise sulle labbra una fila d ’interrogazioni,
alle quali egli dava risposte calme, giudiziose e interessanti. Due cose ne ferma­
rono l ’attenzione. Giovanni Bosco voleva farsi prete per avvicinare e istruire nella
religione tanti suoi compagni, che diventavano cattivi, solo perchè nessuno si pren­
deva cura di loro; ma suo fratello Antonio non voleva lasciarlo studiare. Don Ca-
losso non avrebbe mai cessato di ascoltarlo; arrivati però dove bisognava separarsi,
10 invitò a recarsi da lui il giorno appresso, perchè aveva qualche cosa da dirgli.
A ll’alba del dì dopo, Giovanni si mise in cammino per Morialdo e servì la
Messa a Don Calosso, come aveva imparato dal cappellano di Capriglio. Quindi
11 vegliardo, condottolo nel suo studio, gli disse: —>Ho bisogno di scrivere la
predica del missionario. Me la vuoi dettare? — Nella predicazione popolare si
usava comunemente il dialetto; perciò egli si scusò di non sapere le parole ita­
liane. — A ll’italiano penserò io, rispose il prete; tu detta come sai. — Dettò dal­
l ’esordio alla perorazione, come se leggesse in un libro. Don Calosso, sempre più
ammirato, gli disse di tornare la domenica seguente con la madre.
Margherita, piena di contentezza, fu puntuale. Si convenne che il degno sa­
cerdote avrebbe fatto a Giovanni un’ora quotidiana di lezione; questi poi durante
il rimanente della giornata lavorasse in campagna per contentare il fratello. Saputo
di tale accordo, Antonio diede in escandescenze, calmandosi solo quando intese
che la scuola sarebbe cominciata a ll’appressarsi dell’inverno. Ma l ’autunno vol­
geva al termine e il fratellastro s’impuntava a non volerlo lasciar andare, finché
un bel giorno Don Calosso, facendo atto di autorità, impose a Giovanni di pren­
dere i libri e cominciare.
Il nuovo maestro gl’ispirava la massima confidenza, a tal segno che Giovan­
nino gli apriva intero l ’animo suo, manifestandogli, come scrisse nelle Memorie,
ogni parola, ogni pensiero, ogni azione ” ; quegli così lo poteva amorevolmente
dirigere nella vita spirituale. Del bene ricevuto da siffatta direzione Don Bosco ci
rivela cose degne d ’essere qui testualmente riferite. “ Conobbi allora, scrive, che
voglia dire avere la guida stabile di un fedele amico dell’anima, di cui fino a quel
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4.4 Page 34

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tempo era stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto una penitenza, che io ero
solito fare, non adattata alla mia età e condizione, mi incoraggiò a frequentare la
Confessione e la Comunione, e mi ammaestrò intorno al modo di fare ogni giorno
una breve meditazione, o meglio un po’ di lettura spirituale. Nei giorni festivi
tutto il tempo che poteva lo passava con lui. Nei giorni feriali, per quanto mi
era possibile, andava a servirgli la santa Messa. Da quell’epoca ho incominciato
a gustare che cosa sia vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente
e come macchina, che fa una cosa senza saperne la ragione ” .
Nella scuola si andava a vapore. Premesso un po’ di avviamento, si mise mano
al Donato. Il Donato! Oggi, chi lo conosce più? Per molte generazioni, Donato,
il celebre grammatico del quarto secolo, maestro del grande S. Gerolamo, fu si­
nonimo d ’un tipo di grammatica latina, che insegnava i primi elementi della lin­
gua con metodo veramente piano ed efficace. Sulle prime Giovanni vi durò fatica,
e si comprende perchè. Il suo cervello non era stato ancora iniziato al lavoro men­
tale propriamente detto. Ma, una volta preso l ’abbrivio, navigò a gonfie vele.
Per lui, com’egli scrive, leggere era quanto ritenere; quindi gli bastò un mese per
avere il Donato sulla punta delle dita. A Pasqua già traduceva.
Ma Antonio bofonchiava. Che egli dovesse logorarsi a lavorare e l ’altro star­
sene a fare il signorino, era cosa per lui da andare in bestia. Per qualche settimana
Giovanni si recò a scuola per tempissimo, ritornando tosto per i lavori campestri.
Ma nondimeno accadevano scene disgustose. Una è narrata così da Don Bosco:
‘ ‘ Un giorno Antonio con mia madre e poi con mio fratello Giuseppe in tono
imperativo disse: —• È abbastanza fatto; voglio finirla con questa grammatica. Io
sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto questi libri. — Io, dominato
in quel momento e dall’afflizione e dallo sdegno, risposi quello che non avrei
dovuto. — Tu parli male, gli dissi; non sai che il nostro asino è più grosso di te
e non andò mai a scuola ? Vuoi tu venire simile a lui ? — A quelle parole Antoniò
saltò sulle furie ed io soltanto colle gambe, che mi servivano assai bene, potei
fuggire e scapparmene da una pioggia di busse e di scappellotti ” .
Nell’estate la scuola cessò, ma non cessarono motteggi, sarcasmi e sfuriate. Al
sopravvenire dell’inverno Giovanni corse nuovamente dal suo Don Calosso, che
lo aspettava a braccia aperte; ma fu cosa di breve durata. In famiglia la vita diven­
tava ogni dì più impossibile. Temendo che da un giorno all’altro scoppiasse qual­
che tragedia, mamma Margherita con lo strazio nel cuore prese la risoluzione di
allontanare temporaneamente il figlio.
Ecco dunque nel febbraio del 1828 il povero fanciullo andar ramingo in cerca
di un tetto ospitale. Secondo le indicazioni materne, si presentò prima da certi
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4.5 Page 35

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conoscenti presso Buttigliera, ricevendone buona accoglienza; ma, accortosi che
era loro di peso, tornò ai Becchi. Poco dopo si recò da altri conoscenti a Mo-
riondo. Essi lo compatirono cordialmente, ma senza potergli dare ricovero. Al­
lora si avventurò fino nel territorio di Moncucco da certi Moglia, proprietari be­
nestanti, noti a Margherita come persone di spirito molto cristiano.
Giunse ivi sul cadere del giorno, portando sotto il braccio un involto conte­
nente alcune camicie e qualche libro datogli da Don Calosso. Senz’altra raccoman­
dazione che il nome di sua madre, chiese di essere preso a servizio. Il padrone che
con tutta la famiglia stava nell’aia a preparare vimini per le viti, gli rispose che
in quella stagione chi aveva servitù, la licenziava, essendovi poco o nulla da fare.
— Accettatemi per carità, supplicava Giovanni. Non domando paga; tenetemi so­
lamente con voi. — Ma il Moglia, credendolo buono a nulla, insisteva nel con­
sigliargli di tornare a casa. Giovanni si mise a piangere e con aria umile e suppli­
chevole disse: — Prendetemi, di grazia, prendetem i!... Ecco io mi seggo qui in
terra e non mi muovo più. — E sedutosi là, cominciò a fare il lavoro che face­
vano gli altri della famiglia.
Allora la giovane sorella del padrone, alla quale pesava il governo delle
bestie, propose di affidare a lui quell’incarico, preferendo essa lavorare nei campi.
Fu esaudita. Così Giovanni ebbe la cura della stalla.
Or ecco Giovanni Bosco servitorello di campagna, il che vuol dire vivere in
casa d ’altri, esservi l ’ultimo di tutti e non poter disporre liberamente di sè. Un
giovane intelligente e sensibile che si vegga da forza brutale infranti a questo modo
i suoi ideali, se non è molto virtuoso, si abbandona alla tristezza e alla disperazione.
Egli al contrario fece di necessità virtù.
La sua vita si restrinse a tre cose: obbedire, studiare e pregare.
A ll’obbedienza parve sottrarsi una volta sola. Incaricato di custodire un pic­
cino, lo conduceva sempre seco, non istancandosi mai di badargli affettuosamente;
è il Giorgio Moglia che depose poi nei processi. Ma invitato a fare il medesimo
con una bambina di cinque anni, rispettosamente rispose: — Datemi ragazzi, e
ne governo quanti volete; ma bambine, no.
La sete dello studio non lo abbandonava. Portava sempre con sè qualche
libro di religione o la grammatica, profittando di ogni possibilità per aprire e leg­
gere. Il padrone un giorno gli domandò perchè ammattisse sui libri. — Perchè
devo essere prete — rispose.
In quel suo esilio qualche raggio di speranza venne a confortargli l ’animo. Nel
settembre del 1828 Don Moglia, zio del padrone e insegnante, ospite nella mas­
seria, gli dava lezioni; ma, trascorso il breve periodo delle vacanze, ripartì. Anche
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il parroco di Moncucco, che aveva notato l ’ingegno, la memoria e il senno del
giovane nel settembre de ’29 gli ottenne il permesso di recarsi da lui ogni tanto
e gl’insegnava un po’ di latino; rare però essendo quelle andate, il profitto fu scarso.
Per la sua assiduità alla preghiera i Moglia, dai quali provengono tutte le no­
tizie sulla dimora di Giovanni Bosco in casa loro, gli fecero da principio qualche
osservazione. Rimase indimenticabile nella famiglia una sua risposta. Invocata la loro
stessa testimonianza sulla propria inappuntabile diligenza nel lavoro, proseguì:
— Del resto, io ho più guadagnato a pregare che voi a lavorare. Se pregate, da due
grani nasceranno quattro spighe; se non pregate, da quattro ne avrete due.
Questa sua pietà aveva saldo fondamento. La fattoria si trovava in aperta cam­
pagna e la chiesa più vicina era quella di Moncucco, distante un’ora di cammino
per oscuri sentieri. Giovanni ogni sabato sera chiedeva licenza di andare là il mat­
tino seguente per ascoltare la prima Messa, che si celebrava molto presto. Ma
siccome poi interveniva pure con gli altri alla Messa parrocchiale, la padrona in­
sospettita volle spiarlo.
Una domenica dunque ve lo precedette, collocandosi in un punto della chiesa,
donde potesse vedere senz’essere vista. Ed ecco entrare il servitorello, segnarsi
divotamente con l ’acqua santa, porsi alcuni minuti in orazione, quindi confessarsi
dal parroco e durante la Messa fare la comunione. La donna allora se ne partì.
Come lo rivide, lo interrogò se alla prima Messa andasse per confessarsi e comu­
nicarsi. Egli, accortosi di essere stato scoperto, arrossì; ma l ’altra, senza più im­
portunarlo, nè dandogli tempo a rispondere, gli disse che il permesso s’intendeva
accordato una volta per sempre.
A poco a poco dalle case coloniche dei dintorni i ragazzi gli divennero amici;
perciò, quando non si lavorava, se li tirava sul fienile, dove, seduto più in alto,
insegnava loro le preghiere, il canto di laudi sacre e la dottrina, terminando col
racconto di esempi edificanti. D ’estate la riunione si faceva a ll’ombra di un gelso
assai frondoso.
Anche a Moncucco si era fatto conoscere. Lassù i fanciulli, guadagnati dalle
sua belle maniere, lo aspettavano nei giorni festivi e gli tenevano compagnia. Per
radunarli con maggior vantaggio, tanto fece, che ottenne l ’aula delle scuole comu­
nali. Insegnata loro la via crucis con i relativi canti, compiva con essi il pio eser­
cizio dopo la Messa grande, attirando anche molti fedeli. Il parroco Don Cottino,
suo confessore, lo secondava, piangendo di consolazione; anzi, partito lui, con­
tinuò poi egli stesso quelle adunate, dandovi forma di oratorio festivo.
L’ora della liberazione, come a Dio piacque, scoccò. Un zio materno per
nome Michele negli ultim i giorni del 1829, recandosi al mercato di Chieri, s’im­
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battè nel nipote, che spingeva l ’armento al pascolo. — Sei contento Giovannino ? —
gli chiese. E facile immaginare la risposta. Il brav’uomo intenerito gli disse: — La­
scia fare a me. Torna a casa. Dopo il mercato io verrò là e combineremo tutto.
Lo zio godeva di una certa autorità, che a Giovanni ispirava fiducia. Senz’altro
dunque se ne partì. I padroni sentirono il distacco; ma senza opporsi gli augurarono
di rivederlo prete. Molti anni dopo i superstiti attestavano aver egli menato sem­
pre in mezzo a loro una vita da angelo e da apostolo.
Ma intanto che pensare dei due anni perduti? Furono poi essi veramente per­
duti? Guardando le cose dai tetti in giù, si dovrebbe affermare di sì; non però
considerandole con l ’occhio della fede. A Giovanni era stato solennemente detto
che si rendesse umile per divenire atto a compiere la sua missione. Ora, se l ’umi­
liazione cristianamente sofferta è via a ll’um iltà, il biennio di vita servile fu per lui
il miglior tirocinio nella pratica di questa virtù.
Quanti bei castelli andava egli facendo nella sua immaginazione durante il tra­
gitto dai Moglia ai Becchi! Ma tutto minacciò di crollare col metter piede sulla soglia
di casa. Sua madre, spaventata, gli ordinò di tornare subito d ’onde era venuto. Con­
fuso in prima e perplesso, tosto poi persuaso ch’ella parlasse così per non sembrare
ad Antonio l ’ispiratrice del fatto, si ritirò senza dir parola, si diresse verso un luogo
a lui noto e si nascose in un fosso dietro una siepe per aspettare l ’arrivo dello zio.
Michele mantenne la promessa. Appena giunto, visitò la sorella e nei giorni
seguenti bussarono insieme a parecchie porte per trovare a Giovanni un maestro,
ma sempre indarno. Nell’attesa, Giovanni lavorava da mane a sera per non irri­
tare troppo il fratello. L’attesa durò fino al termine dell’estate.
A Don Cai osso, vecchio e acciaccoso, non si era osato ricorrere. Egli invece,
che ricordava sempre il suo discepolo, saputo del ritorno, lo mandò a chiamare
e si fece narrare la storia delle sue vicende. Commosso e udito che Antonio non
lo lasciava in pace: — Ebbene, gli disse, vieni a stare con me. — Detto fatto: in
autunno Giovanni faceva vita col cappellano, andando a casa soltanto sul tardi
per dormire. “ Niuno, scrive Don Bosco, può immaginarsi la grande mia con­
tentezza. Don Calosso era per me l ’Angelo del Signore. L ’amava più che padre,
pregava per lui, lo serviva volentieri in tutte le cose. Era poi sommo mio piacere
di faticare per lui, e, direi, dare la vita in cosa di suo gradimento. Io faceva tanto
progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una set­
tim ana. E quell’uomo di Dio mi portava tale affezione, che più volte ebbe a dirmi:
—■Non darti pena del tuo avvenire. Ti aiuterò ad ogni costo, e finché vivrò, non
ti lascerò mancare nulla; se muoio, ti provvederò ugualmente ” ,
A Giovanni sembrava proprio d ’aver toccato il cielo col dito. Ma, ahimè, la
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via crucis non aveva raggiunto ancora l ’ultima stazione. Un mattino di novembre
del 1830 Giovanni, mandato dal suo precettore a casa per una commissione, vi era
arrivato da poco, quando udì una voce che gridava il suo nome. Affacciatosi, vide
un giovanotto di Morialdo che trafelato gli diceva affannosamente: — Don Calosso
ha male... Ti chiama... Ti vuole assolutamente parlare. — Si precipitò fuori e volò
dal suo benefattore. Lo trovò sul letto e senza parola; un insulto apoplettico l ’aveva
mezz’ora prima steso a terra. L’infermo lo riconobbe, lo fissò con uno sguardo che
gli trapassò l ’anima, e faceva sforzi per significargli qualche cosa. Finalmente riuscì
a prendere di sotto al capezzale una chiave e gliela diede, indicandogli che la te­
nesse lui e che non la consegnasse a nessuno e che la roba chiusa nel cassetto di
quella chiave era sua. Giovanni, messala in tasca, non badò più ad altro che a pre­
stargli le filiali sue cure. Il caro sacerdote di lì a due giorni rese l ’anima a Dio.
Composta la salma, sorse una questione fra i testimoni della chiave, che si
sapeva essere la chiave dello scrigno. Chi diceva che il defunto aveva dichiarato
abbastanza quale fosse il suo volere: chi sosteneva che, mancando le formalità le­
gali, egli non poteva fare nulla. Giovanni troncò la controversia dicendo: — Ma
no, non voglio niente. Ho più caro il paradiso che tutti i danari del mondo. —
Nelle Memorie Don Bosco condensa tutto quello che seguì, in queste semplicis­
sime parole: Vennero gli eredi di Don Calosso e loro consegnai la chiave ed
ogni altra cosa Il forzierino racchiudeva la somma di seimila lire.
Pochi minuti dopo, mesto e col pianto nell’anima, riprese con passo vacil­
lante la strada dei Becchi, percorsa e ripercorsa nei dì innanzi con tanta gioia. Il
cielo plumbeo, le piante brulle, la terra squallida sembravano riflettere i pensieri
dolorosi della sua mente. Ruppero a un tratto il silenzio di quelle solitudini i lenti
rintocchi della campana, che annunziavano ai vicini e ai lontani il recente trapasso
e a lui spezzavano il cuore. Il colpo era stato troppo crudele. Passò il rimanente
della giornata nel raccoglimento e nella preghiera. Per più giorni il ricordo del­
l ’estinto gli strappava continue lacrime. Ne pativa anche nella salute; onde per
distrarlo la madre lo mandò a Capriglio dal nonno. Scrisse poi: Ho sempre
pregato, e finché avrò vita, non mancherò ogni mattina di fare preghiere per que­
sto mio insigne benefattore ” .
Ed ora che sarà di lui già più che quindicenne? Una sistemazione familiare
conchiusa da poco aveva, col rendere Antonio indipendente, posto fine alla sua
spietata guerra. A Castelnuovo erasi aperto ultimamente un ginnasio comunale.
Lo zio Michele, molto conosciuto nel paese, ottenne per il nipote che ad anno
inoltrato, cioè verso il Natale, vi fosse in via d ’eccezione ammesso. L’orizzonte si
schiariva.
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In principio Giovanni faceva la strada quattro volte al giorno, il che importava
la bellezza di venti chilometri. Poi per evitare perdita di tempo e diminuire i di­
sagi causati dalla stagione, rimaneva là a mezzodì. Per il pranzo si portava da casa
nella sacchetta dei libri il necessario, che deponeva presso un buon sarto di co­
gnome Roberto, dal quale tornava per rifocillarsi. Certe sere però, quando il mal
tempo imperversava, dormiva in un sottoscala, concessogli da una povera famiglia.
Più tardi la prudenza consigliò a trovargli un alloggio permanente. Si combinò
dunque che il mentovato Roberto lo tenesse a pensione, ricevendo da Margherita
il pagamento in generi alimentari, come cereali e vino. Il pane glielo portava essa
una volta per settimana. Il desiderio d ’imparare e la pietà sostenevano il povero
studente.
Vigeva allora una legge scolastica promulgata nel 1823 da Carlo Felice, la quale
imprimeva alle scuole dello Stato Sardo un carattere strettamente religioso, sicché
per questo lato Giovanni si trovò a suo agio. Per gli studi sulle prime fu un af­
fare serio; la sua preparazione fatta a sbalzi e alla meglio obbligò a ricominciare
da capo con la grammatica italiana. L’insegnante, che riuniva sei classi in una (1)
ed era per buona sorte molto abile, lo comprese, lo aiutò e lo amava assai: ma
nell’aprile del 1831, nominato parroco, abbandonò la cattedra. Gli succedette il
Don Moglia che già abbiamo conosciuto, ma che ora stenteremo a riconoscere.
Date le idee dei tempi, forse non la poteva mandare giù, che il Bosco, misero
servitorello di campagna, ardisse aspirare all’ordine chiericale; per altro, il motivo
diplomatico del suo atteggiamento era la fisima entratagli nella testa che dai Becchi
non potesse venire niente, proprio niente di buono. Anche l ’età avanzata di Gio­
vanni ne confermava, secondo lui, l ’inettezza ereditaria. Noncuranza quindi e
dileggi erano all’ordine del giorno. Giovanni, rispettoso e paziente, sopportava.
Maestro e scolaro non istettero mai di fronte meglio di una volta che l ’uno
assegnò un compito in classe e l ’altro lo pregò di lasciargli fare quello della se­
conda. La risposta fu una risata e un sacco di parole canzonatorie. Bosco non si
offese, ma insistè; il Moglia rincarò la dose. A nuove insistenze gli disse sarcasti­
camente che s ’accomodasse pure, ma che egli non avrebbe letto le sue bestialità.
Il tema era una versione dall’italiano in latino. Sollecito Bosco la fece e pronto
la consegnò. Il professore la prese e la posò là con un sorriso di compassione.
L’alunno, fermo presso la cattedra, lo pregava e ripregava di darvi un ’occhiata, e
(1) Il ginnasio si componeva allora di sei classi, che si numeravano in ordine inverso
sesta o preparatoria; quinta, quarta, terza corrispondenti alle nostre prima, seconda, terza; uma­
nità e retorica, le nostre quarta e quinta. Qui e nel capo seguente s’indicheranno le classi con
l ’odierno numero d ’ordine.
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colui a prenderlo in giro. Tutta la scuola s’incuriosì. Alcuni alzatisi lo tentavano
che leggesse forte, perchè volevano ridere anche loro. Il buon uomo, avvezzo a
lasciarsi rimorchiare dalla scolaresca, cedette. Man mano che leggeva, si faceva più-
serio. Alla fine gli lanciò in faccia un: — Ha copiato! —■e buttò il foglio. Un vi­
cino di banco ebbe il coraggio di rendergli testimonianza che aveva fatto tutto da
sè. Nondimeno Don Moglia restò sulla sua: ma anche il testimonio tenne duro e
fuori ai compagni descrisse quanto aveva veduto con i propri occhi. Ingegno e
virtù brillarono uniti quel giorno all’ammirazione giovanile.
C’era ben poco da aspettarsi sotto una guida simile. In compenso egli imparò-
varie altre cose. Infatti imparò la musica. Il sarto che lo alloggiava sapeva di canto
fermo e di musica vocale, come capo dei cantori nella chiesa parrocchiale, e volen­
tieri gl’insegnava per averlo a cantare nelle funzioni. Ma egli non si arrestò lì.
Avute le nozioni fondamentali dell’arte musicale, imparò il violino e il pianoforte,,
facendosi abile anche ad accompagnare sull’organo. Imparò dal sarto a lavorare
di ago, pagandosi in ultimo la pensione con l ’aiuto che gli prestava. Imparò a
lavorare ferramenta, frequentando la bottega di un fabbro. Tutte cose, che un
giorno gli dovevano tornare di somma utilità.
Altra sua cura fu quella di amicarsi la gioventù della scuola e del paese. Il fatto
di Don Moglia contribuì non poco ad accrescere l ’influenza che già esercitava su
di tutti. I genitori avevano piacere che i figli stessero in sua compagnia, perchè li
vedevano diventare migliori. Il cardinale Cagliero da piccolo sentiva ancora de­
cantare in casa i buoni esempi dati da lui durante il suo breve soggiorno castelno-
vese. Nella quaresima il prevosto gli affidò l ’assistenza in una classe di catechismo -
La fama delle sue prodezze acrobatiche l ’aveva preceduto a Castelnuovo, dove­
pure ebbe occasione di confermarla, e questo giovò alla sua popolarità in quel
mondo giovanile. Nelvillaggio di Montafia, celebrandosi una gran festa, si era innal­
zato altissimo l ’albero della cuccagna. A tale spettacolo i popolani del tempo si
appassionavano grandemente. Venuta l ’ora dell’assalto, una folla straordinaria gre­
miva la piazza. Vi si trovava anche Giovanni con alcuni amici. Muscoluti giovanot­
toni si stringevano uno dopo l ’altro al palo insaponato, si aiutavano di mani e di
piedi per spingersi in alto, ma, chi prima, chi poi, tutti inesorabilmente scivola­
vano a terra con loro grave scorno. L’occhio di Giovanni scorse la cagione di tanti,
insuccessi: tutti si avventavano con troppa furia e perdevano presto la lena. Si
presentò anche lui per tentare la prova. S’arrampicava lento lento; ogni tanto in­
crociava le gambe per sedersi sulle calcagna e riposare, e gli spettatori a ridere,
aspettandosi ogni volta di vederlo piombare giù come i precedenti. Invece egli gua­
dagnò sempre fino a raggiungere la cima. L’antenna paurosamente dondolava, it
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pubblico urlava frenetico ed egli staccava tranquillamente le parti migliori della le­
gittima preda. Ghermì fra l ’altro una borsetta contenente un gruzzolo di venti lire,
che gli facevano molto comodo. Poi scese a precipizio, profittò della confusione
e sparì.
Terminato quel povero anno scolastico, ritornò in famiglia per le vacanze.
Colà divideva il tempo fra lo studio e il lavoro, mettendo anche a partito l ’appreso
nei suddetti mestieri. Si lesse allora le opere ascetiche di S. Alfonso de’ Liguori
e alcuni catechismi ragionati. Alla domenica tornava dalle funzioni seguito da un
codazzo di fanciulli, che divertiva con un cane di suo fratello Giuseppe. Quella
bestia, ammaestrata da lui, gli obbediva docilmente, eseguendo una grande varietà
di gesti e di mosse, che destavano l ’ilarità degli astanti, e la bestia gli si era così
affezionata, che negli anni seguenti, quando egli studiava a Chieri e mamma Mar­
gherita ve la conduceva con sè, appena vedeva lui, gli faceva un mondo di feste
e ci voleva del bello e del buono per rimenarla via.
L’incertezza del suo avvenire lo angustiava. Sfogava talvolta la sua afflizione
con i coniugi Turco, proprietari di un podere situato nelle vicinanze dei Becchi.
Essi lo animavano a sperare in Dio, che non l ’avrebbe abbandonato; del che egli
non dubitava. Finalmente un giorno lo videro nella loro vigna spiccare salti di al­
legrezza e vollero saperne la ragione. In sogno una grande Signora gli aveva fatto
intendere che avrebbe continuato gli studi, che sarebbe divenuto prete e che si
sarebbe trovato per tutta la vita a capo di molti giovanetti da educare. Udirono
il racconto in casa i figli dei Turco, che a suo tempo ne resero testimonianza. Coin­
cide con questa testimonianza la seguente nuda linea delle M em orie: “ A 16 anni
ho fatto un altro sogno
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CAPO V
SCUOLA REGOLARE E VARIO APOSTOLATO
La santa passione per la gioventù, che dominerà la vita di Don Bosco, prende
J nel secondo periodo degli studi una forma più definita e più prossima alla
definitiva. È ben vero che egli va tuttora per una strada seminata di spine; ma
nondimeno vi cammina e pur di avanzare non lo sgomentano le trafitte che riceve.
L’abnegazione di sè e l ’abbandono in Dio, purificandolo e sostenendolo, maturano
in lui lo spirito dell’apostolato giovanile.
Chi da quelle parti desiderava avviarsi agli studi secondari, non aveva luogo
più comodo di Chieri. Questa cittadina, principal centro industriale e agricolo di
tutta la regione, era da secoli assai ricca di vita religiosa. Il suo ginnasio pubblico
fioriva per numero di alunni e per bravura d ’insegnanti. Margherita, dolente del
troppo tempo già perduto, prese l ’energica risoluzione di farvi inscrivere il figlio.
Chi vuole il fine bisogna che cerchi i mezzi, e qui i mezzi erano di natura fi­
nanziaria. Abituati a contentarsi di poco, madre e figlio non si stillarono tanto il
cervello. Giovanni con due sacchi sulle spalle andò attorno chiedendo carità di
granaglie da convertire in moneta. Il prevosto di Castelnuovo, conosciuto il suo
divisamento, raggranellò in paese una sommetta, che rimise a Margherita per le
spese più urgenti. I sacrifici della mamma aggiunsero qualcosuccia alla beneficenza
altrui. I fondi furono così bell’e pronti.
Per collocare il figlio a Chieri la madre s’intese con una Lucia Matta, sua
compaesana e vedova con un figlio pure studente. Convennero per lire ventuna
mensili, che la poveretta avrebbe facoltà di pagare solo in parte, perchè Giovanni
avrebbe compensato il resto con il disimpegno dei servizi domestici.
Il giorno 3 novembre del 1831 Giovanni Bosco partì a piedi per Chieri, da
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solo fino a Castelnuovo e di là accompagnato da un giovane Filippello, a cui era
stato dalla madre raccomandato.
Un amico di casa il dì innanzi gli aveva trasportato gratuitamente il baule del
piccolo corredo, più mezzo ettolitro di grano e dodici litri di miglio, che dove­
vano servire come anticipo della pensione. Egli camminava curvo sotto una bi­
saccia di farina e di meliga da vendersi sul posto per comperare col danaro rica­
vato libri, carta e penne. Mamma Margherita non potè raggiungerlo se non alcuni
giorni dopo per finire di accomodare le cose e per vedere come vi stesse.
Ora incipit vita nova. Non più paesano, ma cittadino: cittadino di una piccola
città, ma pur città con belle vie, belle chiese, bei palazzi e con qualche eleganza
di vita. Vi piovve sconosciuto fra sconosciuti. Sulle prime lo trasse d’imbarazzo
un buon prete, che lo notò subito, se lo avvicinò e s’interessò di lui, conducen­
dolo dal prefetto delle scuole, un padre domenicano, e presentandolo ai profes­
sori. Gli fu veramente angelo custode.
Si trattava di classificarlo. Il corredo delle sue cognizioni risultò male assor­
tito. Scrive egli stesso: “ Gli studi fatti fino allora erano un po’ di tutto, che riu­
scivano quasi a niente, avendo bensì molte utili cognizioni, ma disordinate e im­
perfette ” . Venne assegnato perciò alla classe preparatoria.
In mezzo a quegli scolaretti faceva la figura di un gigante. Buon per lui che la
bontà del maestro non poteva essergli più generosa. Anelando però di togliersi da
quella condizione, ottenne dopo due mesi di dare un esame straordinario per l ’am­
missione alla prima ginnasiale. Fu promosso molto bene. Trascorsi altri due mesi
e superato un secondo esame straordinario, passò alla seconda. Il nuovo professore,
vedendoselo comparire davanti così in ritardo e alto come lui, disse in piena scuola:
—. Costui è o una grossa talpa o un gran talento. Che ne dite? —• Bosco, a tutta
prima sbalordito per un tale linguaggio: — Qualche cosa di mezzo, rispose con
calma. È un giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e di progredire
negli studi. — La risposta piacque al professore, che con insolita affabilità rispose:
— Se avete buona volontà, siete in buone mani. Io non vi lascerò inoperoso. Fa­
tevi animo; se incontrerete difficoltà, ditemelo, chè io ve le appianerò. — Confor­
tato da queste parole, lo ringrazio di cuore e si andò a sedere nel posto indicatogli.
Non passò gran tempo, che un bei casetto fece parlare di lui. Il professore
spiegava in Cornelio la vita di Agesilao. Bosco, che aveva dimenticato a casa il testo,
stava attento alle spiegazioni, voltando le pagine del Donato quando gli altri vol­
tavano quelle dell’autore. I vicini di banco se n’accorsero e sbirciavano; qualcuno
rideva. Il professore, uomo severo, volle sapere il perchè. Nessuno fiatava. Allora,
rivolto a Bosco, che credeva disattento e causa di disattenzione, gl’ingiunse di fare
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la costruzione e poi di ripetere traduzione e commento. Egli, alzatosi in piedi e con
gli occhi sulla grammatica, costruì, tradusse e spiegò a meraviglia. Com’ebbe finito,
i compagni istintivamente proruppero in un oh! di ammirazione e gli batterono le
mani. Il professore sdegnato per tale indisciplinatezza non mai avvenuta nella sua
classe, scese e gli misurò uno scappellotto, scansato da lui col piegare a tempo il
capo. Gli scolari gridarono a ll’insegnante come stava la cosa. Quegli lo fece prose-
guire per due periodi, tenendo la mano sul Donato; Bosco tirò diritto come se
avesse sott’occhio il brano. Allo sdegno sottentrò tosto lo stupore; quindi un pa­
cato e salutare consiglio sul buon uso dell’ingegno chiuse l ’incidente.
La scuola non assorbì mai nè allora nè poi tutta la sua attività. In casa, obbe­
diente alla padrona in um ili prestazioni d ’opera, faceva da ripetitore al figlio di
lei, sebbene questi fosse della classe superiore alla sua. Il ragazzo cresceva dissipa­
ta lo ; ma egli a poco a poco lo trasformò, rendendolo studioso, docile e pio. La
madre, quando vide sì buoni effetti, ne provò tale contento, che condonò a Giovanni
la pensione. Mercè le sue assidue cure il giovane compiè egregiamente il ginnasio,
serbandoglisi sempre grato. Nel 1869 collocò a ll’Oratorio un suo figlio, che per
tre anni Don Bosco in riconoscenza tenne abitualmente a mensa con sè.
Si esercitava pure in lavori manuali. Nella bottega di certi legnaiuoli vicini
imparò a lavorare di legname. L’anno seguente in una calzoleria si addestrò, se non
a fare, a risolare e a rattoppare scarpe. Del sarto e del fabbro, come abbiamo ve­
duto, sapeva già l ’essenziale. Si direbbe che la Provvidenza lo guidasse attraverso
a tutte le esperienze, che gli sarebbero poi state utili un giorno.
Ma più d ’ogni altra cosa gli stavano a cuore gl’interessi dell’anima. Perciò sì
scelse presto un confessore che fu il canonico M aioria. Era questo ecclesiastico una
rara avis, perchè non solo accoglieva sempre con grande bontà il suo giovane peni­
tente, come avrebbe potuto fare qualunque altro, ma lo animava a comunicarsi
con frequenza, come altri non si sarebbe sentito in animo di fare. Perfino la co­
munione mensile si stimava allora un privilegio da concedersi con grande modera­
zione. Don Bosco si professa a lui debitore, se non fu dai compagni trascinato
a certi disordini non rari purtroppo, dove convengono numerosi gli studenti.
Giovanni portava scolpito nella memoria l ’ammonimento datogli dalla mamma,
allorché l ’aveva lasciato a Castelnuovo. — Sii divoto della Madonna, — gli aveva
detto a mo’ di saluto. Memore della pia raccomandazione, frequentava di prefe­
renza a Chieri la splendida chiesa di Santa Maria della Scala. Due volte al giorno,
mattino e sera, vi si recava a salutare e a pregare la sua Madre celeste.
L’anno scolastico 1831-32 terminò con poca sua soddisfazione. L ’aver fatto
tre classi in un anno era stato un guadagno di tempo, ma u n ’abborracciatura per
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gli studi. Egli ne aveva coscienza, tanto che per rimediarvi risolse di applicarsi se­
riamente nelle vacanze. Non dormiva più nella troppo angusta casa paterna, ma
in una piccola cascina là presso, abitata dal fratello Giuseppe e situata in una pro­
prietà, che Margherita aveva preso a mezzadria da un Febraro. Il luogo appartato
favoriva il raccoglimento dello studioso.
Oltre a questo, grazie ai buoni uffici del parroco di Castelnuovo, andava ogni
mattino a prendere lezione dal viceparroco, giovane prete fornito di una discreta
cultura letteraria e ben provvisto di autori classici. In compenso, Giovanni dedicava
qualche ora a governare il cavallo e la stalla del parroco. Quando il parroco non
metteva l ’animale alla carrozza ed egli doveva fargli fare moto, si spassava saltan­
dogli in groppa mentre galoppava, e standogli in piedi sul dorso durante la corsa.
Mercè lo studio di quei mesi entrò nella terza così ben preparato, che vi pri­
meggiò tutto l ’anno. Gli fioccavano richieste di ripetizioni anche per alunni della
quarta e della quinta. Egli ne accettava quante poteva. Le non laute retribuzioni
erano per il povero figliolo una vera provvidenza.
Alla fine visitò le scuole un commissario governativo, incaricato anche di pre­
siedere agli esami. Benché per la sua proverbiale inesorabilità fosse lo spauracchio
degli studenti, promosse tutti gli alunni della terza, che erano quarantacinque. Gio­
vanni però corse un serio pericolo. Aveva passato copia di una sua versione ad
altri e il presidente lo voleva rimandare. Lo salvò la benevolenza del suo profes­
sore, che riuscì a ottenergli la grazia di un secondo esperimento.
Nel settembre le sue vacanze furono allietate da una cara festa, a cui non
aveva mai assistito: una Messa novella a Castelnuovo. Neolevita era il castelnovese
Don Cafasso, che egli già conosceva adorno di segnalate virtù e che tanta parte
doveva avere agli inizi della sua vita secerdotale. Vi partecipò con tutta l ’anima.
Il terzo anno di Chieri lo obbligò al cambiamento di pigione. Dalla casa di
prima si dovette ritirare, perchè non poteva più godervi il beneficio della pensione
gratuita, avendo il figlio della padrona terminato il ginnasio. Mamma Margherita
lo allogò presso un caffettiere e liquorista per nome Pianta, suo cugino, il quale
gli dava l ’alloggio gratuito e la minestra, mentre a Giovanni per compenso toccava
fare da garzone di bottega.
Ma quale alloggio! Sopra il forno delle paste si apriva un vano, tutto apertura
e poco sfondo. Là gli fu accomodata la cuccetta per dormire. Venuta l ’ora, lo stu­
dente di umanità appoggiava alla parete una scala a piuoli, si spingeva dentro car­
poni e s’adagiava in modo da non allungarvisi del tutto, affinchè le estremità in­
feriori non isporgessero dall’orlo. Poi c’era l ’appetito da saziare, appetito di un
adolescente provvisto di buono stomaco. Le ripetizioni gli fruttavano qualche cosa,
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5.9 Page 49

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qualche cosa gli portava la madre; ma l ’occorrente per la scuola e per vestirsi gli
lasciava poco margine per la bucolica. I compagni che lo amavano e avevano sen­
tore delle sue privazioni, cercavano modo di soccorrerlo. Degno di particolare
menzione è Giuseppe Blanchard, suo coetaneo, il quale s’ingegnava di procurargli
sovente pane e frutta; del che Don Bosco gli professò riconoscenza fino a ll’estremo
della vita.
Il tenue beneficio poi del caffettiere gli costava ben caro. Doveva perfino stare
inchiodato nella sala del biliardo per notare le puntate. Portava sempre un libro;
ma parole blasfeme o lascive gli ferivano spesso l ’orecchio e ne disturbavano la
lettura assai più che i colpi secchi delle palle d ’avorio e il vociare dei giocatori. A
volte richiamava i colpevoli, che non sempre erano disposti ad ascoltarlo in pace
e talora fecero istanza che quel ragazzo venisse allontanato, perchè dava soggezione.
Anche nella nuova dimora si ricordò del proverbio che dice: Impara l ’arte e
mettila da parte. Quando venne via da quella casa, egli sapeva non solo far cucina,
ma confezionare i liquori e i dolci di pasta che si spacciavano nella bottega, a
segno che il padrone lo circuì con lusinghiere profferte, perchè si associasse a lui
nel condurre il suo esercizio.
L’anno della quarta fu coronato da splendida promozione. Il commissario go­
vernativo lo interrogò in greco sopra un periodo di Tucidide, scrittore che presenta
non lievi difficoltà di lingua e di stile; ma egli se la cavò con onore. Poi gli aperse
a caso i Paradossi di Cicerone, invitandolo a tradurre. Bosco, visto il punto, co­
minciò dal titolo greco e recitò tranquillamente a memoria tutto quel paragrafo.
L’esaminatore ascoltava stupito e quando il candidato passava al paragrafo seguente:
— Basta, esclamò, dammi la mano. Voglio che siamo amici. —- Quindi si mise a
conversare familiarmente con lui di cose estranee a ll’esame. Le loro relazioni con­
tinuarono parecchi anni dopo.
Giovanni trascorse l ’ultimo anno di ginnasio nella casa di un tal Cumino sarto,
dal quale era stato già a dozzina il giovane Cafasso. Il novello vicario di Castel-
nuovo, Don Cinzano, amante delle belle lettere, lo soccorreva, parte da sè, parte
per mezzo di signori del paese. Il nostro studente dovette per alcuni mesi adattarsi
a stare al piano terreno in una rimessa, che aveva fatto anche da stalla. Don Ca­
fasso, che si conservava in buoni rapporti col padrone, quando lo seppe, gli ot­
tenne un appartamento meno disagiato e più decente.
Nelle prime settimane dell’anno scolastico gli accadde un fatto clamoroso.
Aveva per compagno di scuola, non di classe, un giovane quindicenne per nome
Luigi ComoIlo, che solo a vederlo sembrava un angelo, tanta era la sua compo­
stezza, modestia e affabilità. Apparteneva alla quarta, ma una medesima aula riu-
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niva quarta e quinta, sotto il medesimo professore. Chi non sa quello che può suc­
cedere in una scuola durante il tempo dell’ingresso, se non ci si trovi chi sorvegli?
Il Comollo senza badare agli schiamazzi altrui soleva attendere alle cose sue, leggendo
e studiando. I più insolenti non gli risparmiavano molestie; ma egli anche per na­
turale timidezza non tentava mai la menoma difesa. Una volta alcuni cattivacci vol­
lero passare dalle parole ai fatti, percotendo lui e un altro, che era la semplicità
in persona. Qui cedo la penna a Don Bosco, il quale così descrive e giudica un suo
atto: “ Vedendo quegli innocenti maltrattati, io volli intervenire in loro favore, ma
non si voleva badare. Guai a voi, dissi allora ad alta voce, guai a chi fa ancora ol­
traggi a costoro! Un numero notabile dei più alti e dei più sfacciati si misero in at­
teggiamento di comune difesa e di minaccia contro di me, mentre due sonore ceffate
caddero sulla faccia del Comollo. In quel momento io mi dimenticai di me stesso
ed eccitando in me non la ragione, ma la mia forza brutale, non capitandomi tra
mano nè sedia nè bastone, strinsi colle mani un condiscepolo alle spalle e di lui mi
valsi come di bastone a percuotere gli avversari, pronti a continuare le offese. Quat­
tro caddero stramazzoni a terra, gli altri fuggirono gridando e dimandando pietà ” .
In quell’istante entra il professore. Vedendo quell’agitarsi di braccia e di gambe,
alzò la voce e dispensava ceffoni a destra e a sinistra. Il grosso della tempesta a mo­
menti si rovesciava su Bosco; ma il professore intuì a tempo nel parapiglia la na­
tura dell’accaduto. Invitò alla calma e volle che si rinnovasse quell’esperimento
di forza. Rise egli, risero gli allievi e la disciplina fu ristabilita. Nella sentenza finale
il professore fu allora con Bosco di gran lunga meno severo che non sia stato poi
Don Bosco con se stesso. Da parte dei compagni, crebbe a mille doppi il riveren­
ziale timore che già si aveva della sua gagliardìa e del suo coraggio.
Nonostante le divagazioni estrascolastiche di vario genere, che vedremo me­
glio fra breve, egli studiò molto quell’anno. Data la sua ferrea memoria, gli bastava
l ’attenzione in classe per far tesoro delle cose insegnate. Poi, abituato dalla madre
a dormire poco, impiegava ordinariamente i due terzi della notte in letture. Fat­
tosi amico di un libraio ebreo, pigliava a prestito da lui i volumi dei classici, che
divorava presto e restituiva, pagando un soldo per volume. L’anno della quarta
aveva letto così un’intera collezione popolare di autori italiani; nella quinta s’attaccò
ai latini, cominciando da Cornelio e poi passando via via a Cicerone, Sallustio,
Curzio, Livio, Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio e altri. Più volte l ’ora del levarsi
lo trovò ancora immerso nella lettura delle deche liviane.
A proposito dei classici latini merita di essere rilevata la seguente sua osser­
vazione: “ Io leggevo quei libri per divertimento e li gustava come se li avessi ca­
piti interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non era vero ch’io li gustassi,
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perciocché, fattomi sacerdote e messomi a spiegare ad altri quelle classiche cele­
brità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva
a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro ” .
Superati egregiamente gli esami, si congedò dai professori per far ritorno ai
patrii lari. A detta di autorevoli testimoni, è incredibile quanto egli avesse saputo
guadagnarsi il cuore del prefetto degli studi, del direttore spirituale e di tutti gli
insegnanti, che gli serbarono affezione perenne. Non parliamo dei compagni, che
lo portavano in palma di mano.
Veramente al suo primo apparire in mezzo a quella scolaresca non sembrava
destinato a cattivarsene le simpatie. Uno studente stagionato che dovrebbe per
l ’età essere nella quinta ginnasiale e fa il suo ingresso tra i mocciosi di una classe
preparatoria, è una figura abbastanza buffa. Ma, come si dice che il sangue non
è acqua, così suole avvenire che la vera bontà unita a ll’intelligenza non tarda a
rivelarsi e a farsi ben volere.
Egli per altro andò con piè di piombo a stringere relazioni, tanto più quando
s’accorse che una catena di tristanzuoli delle classi superiori minacciava di serrar-
glisi intorno. Conosciuto un po’ l ’ambiente, divise i suoi compagni in tre cate­
gorie: buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi si prefisse di evitarli ad ogni costo;
con gl’indifferenti trattenersi per cortesia e per bisogno; con i buoni contrarre ami­
cizia, ma familiarità solo con gli ottimi, qualora ne incontrasse di veramente tali.
La serietà della sua condotta ebbe per effetto che genitori di studenti lo ri­
chiedessero, come dicevamo, per ripetizioni ai loro figli. Poi la sua superiorità
intellettuale, scevra di ostentazione, faceva sì che molti ricorressero a lui nelle dif­
ficoltà scolastiche. Per tal modo si trovò a poco a poco circondato da numerosa
clientela, avida di partecipare alle sue ricreazioni e di ascoltare i suoi racconti.
Venne così il giorno, in cui credette bene di dare a quell’accozzaglia una forma or­
ganica e uno scopo preciso. Allora fu che nacque un ’associazione, a cui diede il
nome di Società dell’Allegria. La genialità del titolo nascondeva in germe quello
che sarebbe stato poi il suo programma educativo.
Non meno significativo fu il regolamento della Società. In un primo tempo
non c ’erano regole; ognuno dei soci si obbligava semplicemente a cercar libri e
a introdurre conversazioni e trastulli, che servissero a stare allegri, considerando
causa di malinconia tutto quanto fosse contrario alla legge del Signore. In seguito
si formulò la legge dell’Associazione in due soli articoli, ma sostanziali: evitare
ogni parola, ogni azione che disdicesse a un buon cristiano, e adempiere con esat­
tezza i doveri scolastici e religiosi.
Avevano inoltre varie pratiche e divertimenti in comune, suggeriti dal presi­
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dente in modo che fossero dai soci spontaneamente accettati. Tutti i giorni festivi
andavano in gruppo alla chiesa dei gesuiti, dove si faceva un catechismo con esempi
attraentissimo. Lungo la settimana si adunavano nella casa d ’uno della Società per
discorrere di cose belle e buone, ammettendovisi anche estranei che lo desiderasi
sero. Scrive Don Bosco: “ Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie
conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli e nel notarci a
vicenda quei difetti personali, che ciascuno avesse osservato o dei quali avesse da
altri udito parlare ” . Inoltre andavano spesso e insieme ai Sacramenti e a prediche,
delle quali vi era dovizia in una città così popolata di comunità religiose. L’anima
di tutto, ben si capisce, era Giovanni Bosco.
Nè egli limitava la sua azione alla Società dell’Allegria, ma in certe circostanze
gradiva che vi si unissero pure altri compagni. Così faceva quando eseguiva giochi
di prestigio, dei quali erano tutti molto curiosi, e quando, formate discrete caro*
vane, le conduceva a qualche divota chiesa della Madonna, o all’assalto di colline
circostanti, a cogliere funghi per i boschi di Superga o a visitare il santuario della
Consolata in Torino. Nel mese di maggio dava la caccia ai più discoli, attirandoli
con le sue ingegnose trovate a Santa Maria della Scala per farli confessare.
Nelle ferie estive introdusse la Società dell’Allegria fra i suoi amici di Morialdo,
che ogni anno, saputo del suo ritorno da Chieri, gli movevano incontro a gran
distanza dal paese e lo accompagnavano in trionfo alla casa paterna. Durante quei
mesi nei dì festivi radunava ragazzi quanti più poteva, insegnava loro il catechismo,
li ammaestrava nel leggere e scrivere; ma non prodigava loro gratuitamente que­
st’ultimo beneficio. La retribuzione da lui richiesta consisteva nel confessarsi e
comunicarsi una volta al mese. Nelle vacanze dopo la quinta ginnasiale aveva
ormai una specie di oratorio festivo con una cinquantina di fanciulli, dei quali
scrive: “ Mi amavano e mi obbedivano come se fossi stato loro padre ” .
Nell’aiutare i condiscepoli in cose scolastiche non era accettatore di persone:
la carità non guarda in faccia a nessuno. Perciò egli non trascurava neppure gli israe­
liti. Ne conosceva alcuni di altre classi. Quando al sabato il professore assegnava
un cómpito per la sera, Giovanni notava che essi, facendolo, agivano contro co­
scienza per il divieto della propria legge, e non facendolo venivano berteggiati dai
compagni, giacché a quei tempi erano comunissime fra ragazzi le gazzarre contro
i figli del ghetto. Per evitare ciò, egli, avuto il tema, lo dava loro bell’e fatto.
La carità opera miracoli. Giovanni stando dal Pianta, si era amicato un giovane
ebreo di nome Giona, che andava spesso al gioco del bigliardo. Vago di aspetto,
aveva una voce incantevole e gustava assai d ’intrattenersi ivi con Giovanni a can­
tare, a sonare il piano, a leggere, a chiacchierare. Così sensim sine sensu il non meno
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simpatico guardiano della sala gli s’insinuò nell’animo, catechizzandolo a poco a
poco e così bene, che gli fece nascere il desiderio di essere cristiano. Un giorno la
madre di Giona, rifacendogli il letto, scoperse il catechismo, che egli leggeva di
notte e poi nascondeva in un angolo fra il materasso e il pagliericcio. Quella donna
diventò una furia. Corse dal rabbino, mise sossopra il parentado, minacciò a Gio­
vanni il finimondo. Ma Giona stette saldo, nè ci fu violenza che valesse a smuo­
verlo, tanto che ricevette con grande solennità il battesimo e il suo esempio gua­
dagnò alla Chiesa parecchi correligionari. La sua riconoscenza per Don Bosco durò
imperitura, nè lasciò mai di visitarlo di quando in quando nell’Oratorio.
La generosità nel mettere il suo sapere a disposizione del prossimo procurò
a ll’apostolo delle vocazioni tardive una nuova esperienza. Nel duomo egli aveva
frequenti incontri col sagrestano maggiore, certo Palazzolo, che nonostante i suoi
trentacinque anni, il corto ingegno, la mancanza di mezzi e le non poche occupa­
zioni, smaniava di farsi prete. Un giorno dunque pregò Giovanni che gli facesse
scuola. Per due anni questi spese quotidianamente il tempo necessario per dargli
lezione, finché l ’ebbe preparato a ll’esame della vestizione chiericale. Ebbene, diede
l ’esame e fu promosso. Entrato poi Giovanni nel seminario, il Palazzolo andava
a prendere da lui lezioni di filosofia e di teologia, presentandosi regolarmente agli
esami. Celebrò la prima Messa nello stesso giorno che Don Bosco, il quale lo
aiutò ancora con ripetizioni di morale. Fu buon prete, buon confessore e buon
rettore del santuario di S. Pancrazio a Pianezza.
Neppure perdeva di vista i giovanetti popolani. Li cercava per piazze e strade
e bel bello li spingeva al catechismo. Dove accorrevano in molti a giocare, egli
compariva in mezzo a loro, giocava con essi e s’ingegnava di avviarli alla chiesa o
d ’interessarli con piacevoli e utili racconti.
A Chieri finalmente il ginnasta e giocoliere dei Becchi affinò la sua arte e ar­
ricchì il suo repertorio. Scrive: “ Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle,
salti, corse, erano divertimenti di sommo mio gusto, in cui, se non era celebre,
non era certamente mediocre. Se nei prati di Morialdo ero piccolo allievo, in quel­
l ’anno ero divenuto un compatibile maestro ” . Perciò egli dava spesso privati e
pubblici spettacoli. In quei trattenimenti cantava anche, sonava e improvvisava
versi. Favorito dalla memoria, aveva familiarissimi Dante, Petrarca, Tasso, Parini,
Monti e tanti altri poeti, sicché se ne valeva come di roba sua e gli riusciva fa­
cilissimo trattare estemporaneamente qualunque argomento. In tempi di così poche
distrazioni i suoi giochi sembravano cose dell’altro mondo.
Nel 1834 un suo saggio di abilità ginnastica riempì Chieri della sua fama. Da
alcune domeniche un saltimbanco gli portava via buona parte dei ragazzi nelle ore
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delle sacre funzioni. Egli tentò bene di fargli adottare un orario più ragionevole;
ma l ’altro gli rise in faccia, anzi ne prese occasione per ischernire gli studenti chie-
resi, dicendo che, se non erano marmotte, venissero a misurarsi con lui. La pro­
vocazione li ferì, sicché ne fecero una questione di corpo. Si volle forzarlo a ri­
mangiarsi la parola, nè c’era altri che Bosco capace di farsi loro paladino. Troppi
motivi gli consigliavano di contentare i suoi amici; quindi si dichiarò pronto a
scendere in lizza con qualunque esercizio ginnastico. Quel tale, più che sicuro di
poterlo prendere di sottogamba, non esitò ad accettare la controsfida.
La notizia dell’imminente incontro destò una grande curiosità nella cittadi­
nanza. Si fecero le cose a modo: specificazione della gara, scelta del terreno, desi­
gnazione dei giudici, premio del vincitore. Dovevano fare alla corsa; la posta era
di venti lire. Per Giovanni, in caso di perdita, la Società dell7Allegria avrebbe rac­
colto la somma. Accorse mezza città. Giovanni si segnò, pregò un istante e fu dato
il segno. Nel primo tratto il rivale, scagliatosi come una saetta, aveva il vantaggio;
ma poi, rallentatosi per istanchezza, venne sorpassato dal giovane competitore,
che avanzò sempre con passo eguale, finché gli arrise la vittoria.
L’avversario allora lo sfidò al salto con la scommessa di quaranta lire. Biso­
gnava slanciarsi da un margine all’altro di un fosso largo e pieno di acqua corrente,
1 quale aveva dalla parte opposta un parapetto. Il ciarlatano colle punte dei piedi
toccò di balzo il muricello; più in là non restava un centimetro di spazio. Come
cavarsela? Gli spettatori stavano sospesi. Giovanni fa il salto della gora e senza toc­
care terra pianta le mani sul muro e con rapida mossa vi si lancia oltre, rimanendo
ritto in piedi a guardare i compagni plaudenti.
Insofferente dello smacco, il vinto propose un gioco di destrezza. Scelsero il
bilico della bacchetta, scommettendo ottanta lire. Giovanni prende la bacchetta, vi
sovrappone il cappello e la fa scorrere dalla palma sinistra nella destra, poi sulle
punte delle dita dal mignolo al pollice, dalle nocche al gomito e alla spalla; indi
sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte; infine per ritroso calle la ritorna sulla
palma di prima: naturalmente senza mai rimetterla dritta con qualunque delle mani.
Gli spettatori tenevano il fiato. Un grido di soddisfatta ammirazione salutò la mossa
finale. Don Bosco settantenne il 25 luglio 1885 a Mathi Torinese, raccontate piace­
volmente ad alcuni intimi queste e altre sue prodezze giovanili, fece roteare per
alcuni minuti il bastone poggiato soltanto sulla punta del pollice destro.
L’emulo aveva accettato di buon grado quella prova, perchè diceva essere il
suo forte; ma per la terza volta non ebbe fortuna, poiché, spiegata mirabile de­
strezza fino alle labbra, si urtò nel naso e addio! L’umiliazione di dover soccom­
bere a uno studentucolo l ’indusse allora a un estremo tentativo. Senza tanto ri­
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flettere: —■Cento lire, disse, chi giungerà a posare i piedi più vicino alla vetta di
quest’olmo! —■Giovanni accettò. Salì colui per primo: uno scoiattolo non sarebbe
più rapidamente arrivato fin dove sembrava possibile arrivare. Quella volta gli
amici di Giovanni videro perduto il loro campione.
Ma se con arte e con ingegno s’acquista mezzo regno, dice il proverbio, con
ingegno e con arte s’acquista l ’altra parte. S ’arrampicò fin dove potè; quindi, af­
ferratosi al tronco, lanciò in alto il corpo, sicché i piedi gli andarono un bel po’
più su del punto dove l ’altro aveva posato i suoi.
Il pover’uomo restò là col danno e con le beffe. Gli era toccato sborsare
240 lire. Ma Bosco giovane aveva il cuore di Don Bosco uomo fatto. Propose al
malcapitato la restituzione del danaro a patto che pagasse un pranzo a ’ suoi amici.
La proposta venne accettata senza discussione. Giovanni e ventidue suoi fautori
parteciparono a ll’allegro banchetto, che costò appena quarantacinque lire. Il ciar­
latano ne rintascò 195 e la sera stessa portò altrove le sue carabattole.
Il campanaro del duomo, amico di Giovanni che incontrava sovente nella
chiesa, sonò per tutta la vita a campane doppie sui fatti di quell’epica giornata.
In un caso speciale faceva capolino fin d ’allora una caratteristica disposizione
pedagogica di Don Bosco. Scorgendo crocchi di condiscepoli o di conoscenti, dove
gli paresse che il conversare varcasse i limiti della decenza, vi s’introduceva abil­
mente e per distrarre gli animi proponeva giochi curiosi, come prendere da terra
un soldo con l ’indice e il mignolo della stessa mano, piegarsi a ll’indietro fino a
toccare col capo il suolo, congiungere bene i piedi e chinarsi a baciare la terra
senz’appoggiarvi le mani. Dopo una serie di simili sforzi gli tornava facile volgere,
come piacesse a lui, la conversazione.
Per avere u n ’idea di quanto fosse desiderato nei ritrovi giovanili a motivo della
sua valentia di prestigiatore, basti sapere le sorprese che procurava al padrone di
casa, uomo di colombina semplicità. Questi nel suo onomastico aveva preparato
per i dozzinanti un pollo in gelatina; ma, posato sulla mensa il vassoio coperto,
lo scoperchiò e ne saltò fuori, starnazzando le ali, un gallo. Più volte riempita di
vino una bottiglia, la trovava n ell’atto di mescere piena d ’acqua. Talora bei con­
fetti si convertivano in fette di pane, le monete della borsa in pezzi di latta, il cap­
pello in cuffia, noci e nocciuole in lapilli. I suoi occhiali gli sparivano e poi se li
trovava in tasca, dove pure aveva frugato e rifrugato; il portafoglio e altri oggetti a
un cenno di Giovanni divenivano irreperibili. Una volta ripose una chiave in parte
che credeva nota a sè solo; ma Giovanni scommise che l ’avrebbe fatta comparire
sulla tavola, ed eccola, finito di scodellare la minestra, in fondo alla zuppiera.
Il dabben uomo per un poco rise; ma poi s ’impensierì e sospettò che c ’entrasse
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il diavolo. Confidò il suo timore a un prete vicino di casa e questi ne parlò al­
l ’arciprete del Duomo, che era anche delegato delle scuole. Un giorno pertanto il
rispettabile ecclesiastico mandò a chiamare Bosco. Questi mangiò la foglia, e fece i
suoi piani. L’arciprete, ricevutolo mentre diceva vespro e pregatolo di lasciarlo
finire, menò prima un po’ il cane per l ’aia, finché affrontò lo scabroso argomento.
Giovanni ascoltava senza scomporsi. Interrogato categoricamente, finse di restare
qualche minuto sopra pensiero; quindi gli chiese l ’ora precisa. Non trovò più
l ’orologio! Gli chiese una moneta da venticinque centesimi. Non trovò più il bor­
sellino! — Servo del diavolo! — gli gridò in faccia, balzando dal seggiolone. Poco
mancò che non desse di piglio a un randello. Minacciò per altro di denunciarlo.
Se non che la calma sorridente del giovane lo richiamò a più miti consigli. Rimes­
sosi a sedere, venne alle buone e gli chiese spiegazioni.
Fu presto spiegato. Di parola in parola egli si ricordò che poc’anzi rincasando
aveva estratto il borsellino per fare limosina e poi l ’aveva posato sopra un inginoc­
chiatoio; si ricordò pure, che aveva lasciato l ’orologio sopra un tavolino. A quel
punto: — Ecco l ’uno e l ’altro, — disse Giovanni, sollevando dal tavolo un para­
lume. Il buon ecclesiastico rise di cuore, volle vedere alcuni giochi, gli fece un
regaluccio e lo accomiatò dicendo — Va’, va’, di’ a tutti che ignorantia est adirti-
rationis magistra.
Da tutto il narrato fin qui si rileva come l ’ascendente goduto dal Bosco sulla
gioventù chierese fosse quello di un vero dominatore. Tuttavia il lato più interes­
sante di questo suo dominio morale stette nella sagacia, con cui escogitava, e nello
zelo, con cui metteva in opera i mezzi più adatti a fare del bene tra i giovani.
È di quel tempo un fatto che non può non colpire l ’attenzione di un osserva­
tore. Giovanni Bosco nella quinta ginnasiale ebbe venticinque compagni. Orbene
di essi ventuno entrarono nella carriera ecclesiastica. La lunga e familiare consue­
tudine con lui non sarà valsa a nulla per mantenere vivo in loro il fuoco sacro
della vocazione?
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CAPO VI
SCIENZE SACRE E PRESBITERATO
Giovanni Bosco, quando finì il ginnasio, avena vent’anni sonati. Era venuto il
momento di muovere i primi passi nella carriera sacerdotale; ma la voca­
zione che sembrava additargli con precisione la strada, lo mise improvvisamente
a un bivio. L ’idea di farsi prete che lo accompagnava dallo sbocciare della ragione,
restava immutata; sul modo per altro di tradurla in atto gli si era affacciata una
seria incertezza. Doveva essere prete secolare o prete regolare?
Nelle vacanze della terza ginnasiale la prima Messa di Don Cafasso lo richiamò
per la prima volta a riflettere positivamente sulla scelta dello stato, che fino al­
lora aveva vagheggiato piuttosto in astratto. Dal pensiero vago del sacerdozio scen­
dendo al concreto, si sentì assalire da forti dubbi. Lo sbigottivano la sublimità del­
l ’ufficio e della missione, l ’umile sentimento della propria miseria e la gravità degli
obblighi. Il peggio è che non aveva a chi ricorrere per consiglio. Il confessore ba­
dava a fare di lui un buon cristiano senza volersi punto impicciare di vocazione.
C ’erano i sogni, ma Giovanni non vi prestava fede. Venne dunque, com’egli scrive,
alla conclusione di dire a se stesso: “ Se io rimango chierico nel secolo, la mia vo­
cazione corre gran pericolo di naufragio. Abbraccerò lo stato ecclesiastico, rinun­
cerò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così
nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la superbia, che nel
mio cuore aveva messo profonde radici ” . Decise pertanto di farsi francescano.
Lo seppero il parroco e la madre. Mamma Margherita gli dichiarò senza am­
bagi: “ In queste cose io non c’entro, perchè Dio è prima di tutto. Non prenderti
fastidi per me. Io da te non voglio niente: niente aspetto da te. Ritieni bene: se
ti risolvessi allo stato di prete secolare e per tua sventura diventassi ricco, io non
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verrò a farti neppure una sola visita. Ricordalo bene! ” . Il parroco al contrario si
adoprò energicamente per distornarlo.
Giovanni non gli diede retta, ma nelle vacanze pasquali del 1834 presentò for­
male domanda di entrare nei Frati Minori, detti allora Riformati. Subì infatti l’esame
a Torino nel loro convento di Santa Maria degli Angeli, fu ammesso e doveva
andare per il noviziato nel convento chierese della Pace. Mancavano pochi giorni
a entrarvi, quando in uno stranissimo sogno s’intese dire: — Altro luogo, altra
messe Dio ti prepara. — Ma non vi fece caso. Senonchè, recatosi ai Becchi per rice­
vere la benedizione materna prima d’indossare il saio, una circostanza da nulla gli
attraversò la via. Quel tal fabbro castelnovese, che lo amava e ammirava e aveva
intùito più fino che non portasse la sua arte, tanto insistette che lo indusse a so­
spendere ogni cosa e a consigliarsi prima con Don Cafasso. Il santo prete, come
l ’ebbe ascoltato, lo dissuase dal farsi frate e quasi divinamente ispirato gli disse:
— Andate avanti tranquillo. Entrate in seminario e secondate ciò che la Divina
Provvidenza vi sta preparando. — Proprio allora per la terza volta risognò quello
che aveva sognato a nove anni; leggiamo infatti nelle memorie: “ Il sogno di Mo-
rialdo si ripetè nel mio diciannovesimo anno di età e altre volte in seguito ” . Senza
tuttavia rinunciare alla vita religiosa, soprassedette e riprese con lena gli studi.
Angustie di spirito lo riassalirono verso la fine della quinta ginnasiale. In quel­
l ’anno aveva stretto intima amicizia col santo giovane Luigi Comollo ; a lui quindi
confidò la sua perplessità sulla scelta del seminario o del chiostro. Pregarono fer­
vorosamente insieme. Parve che il volere del cielo si manifestasse in tre consigli,
indipendenti fra loro, ma tutti concordi. Venivano essi da Don Comollo, zio di
Luigi, dal suo nuovo parroco Don Cinzano e da Don Cafasso, a cui si era di bel
nuovo rivolto. A una conformità di sentimenti così impressionante, deposta l ’idea
del convento, diede l ’esame di quinta e poi quello della vestizione chiericale; indi
si applicò in cose che potessero giovargli a prepararsi per ricevere l ’abito sacro.
Prepararsi spiritualmente, s’intende; chè della preparazione materiale si occupò
il parroco Don Cinzano. Espose questi le necessità del suo parrocchiano a Don
Cafasso, il quale pensò senz’altro al teologo Guala. Don Guala dirigeva il Convitto
ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi in Torino, scuola di perfezionamento per i
novelli sacerdoti nello studio della teologia morale. Quanto ricco altrettanto ca­
ritatevole, egli godeva tutta la fiducia dell’Arcivescovo Fransoni, da cui ottenne per
il Bosco un anno almeno di trattamento gratuito nel seminario archidiocesano di
Chieri. L’ingresso nel sacro luogo giungeva proprio a tempo per l ’esenzione dal
servizio militare, da cui le leggi d’allora dispensavano gli alunni del santuario.
Fatto il più, gli restava da fare il meno, che però, date le sue condizioni, non
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era poco; voglio dire il provvedersi degli abiti chiericali. Una parola di Don Cin­
zano ad alcuni della parrocchia fu sufficiente, perchè gli procurassero chi la talare,
chi il cappello, chi il colletto e la berretta, chi scarpe, calze e altro. Il parroco gli
donò il proprio soprabito. Per la prima volta Don Bosco sperimentò una cosa che
in seguito sarebbe divenuta per lui ordinaria, avere egli cioè bisogno di tutti.
Lo vestì Don Cinzano nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo la domenica
25 ottobre 1835. Dalle terre intorno sciami di giovani accorsero con gioia alla
cerimonia. Dopo, quand’egli uscì sul sacrato, essi, vedendolo avanzarsi sorridente,
ma dignitoso sotto le nuove spoglie, si appressavano a lui peritosamente e sgranando
gli occhi; ma tosto compresero che potevano trattarlo con la solita confidenza.
Nel pomeriggio lo aspettava una lezione inattesa. Il parroco per festeggiare la
vestizione lo condusse alla sagra di Bardella, borgata di Castelnuovo. Il chierico
presentì che vi si sarebbe trovato fuori di posto, facendovi la figura, dice egli, “ d ’un
burattino vestito di nuovo che si presenta al pubblico per essere veduto ” . Inoltre
dopo più settimane di pia preparazione all’atto di quel giorno, gli ripugnava doversi
trovare fra gente in gozzoviglia. Tuttavia per non causar dispiacere, vi si lasciò tra­
scinare. Ne tornarono a tarda ora. Egli appariva pieno di malinconia. Il parroco,
al vederlo taciturno, gli domandò perchè si fosse mostrato tanto ritenuto e pensie­
roso. Sinceramente rispose che la funzione del mattino gli era parsa discordare in
genere, numero e caso, con la baldoria della sera; anzi, scrive d ’aver soggiunto:
“ L ’aver veduto coloro che meno avrei creduto, fare i buffoni in mezzo ai convitati,
pressoché brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in avversione la mia vocazione.
Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei meglio deporre quest’abito
e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano, ovvero ritirarmi dal mondo e
farmi Certosino o Trappista Formò allora in cuor suo il fermo proposito di
non prendere parte mai più a simili festini.
Nei dì seguenti mise in carta un programma di vita ruminato già da parecchio.
“ Negli anni addietro, dice riportandolo nelle Memorie, non era stato uno scellerato
ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giochi, salti, trastulli ed altre cose
simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore ” .
Quindi non più giochi, non più violino, non più caccia, ma ritiratezza, temperanza,
pie letture, vigile custodia della castità e ogni giorno qualche racconto edificante
o qualche massima utile alle anime altrui. “ Ciò farò, scrisse, coi compagni, cogli
amici, coi parenti e quando non posso con altri, lo farò con mia madre ” . Le cose
deliberate andò a leggerle dinanzi a u n ’immagine di Maria, promettendo formal­
mente alla Madonna di osservarle a costo di qualunque sacrificio.
Al mattino del 30 ottobre si chiusero dietro di lui le porte del seminario. Che
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da uccello di bosco diventare a un tratto uccello di gabbia, massime nell’età e col
temperamento di Giovanni, non fosse allegro trapasso, dovette essere là entro una
delle sue prime impressioni. Infatti, ispezionando con un amico e condiscepolo il
massiccio e severo edificio, s’arrestò dinanzi a una meridiana recante questo esa-
metro: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae. L ’applicazione fattane da lui rispon­
deva forse a una sua interna preoccupazione. “ Ecco, disse, il nostro programma:
stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo ” . Ma una cosa che gli rese piace­
volissimi, com’egli ci assicura, i sei anni di seminario, fu la costante esattezza nel­
l ’adempimento di tutti i suoi doveri.
Pene non gli mancarono; una ce la descrive così a vivi colori: “ Io amava
molto i miei superiori ed essi mi hanno sempre usato molta bontà; ma il mio cuore
non era soddisfatto, perchè essi difficilmente si rendevano accessibili ai chierici.
Il rettore e gli altri superiori solevano visitarsi all’arrivo dalle vacanze e quando si
partiva per le medesime. Niuno andava a parlare con loro, se non nei casi di rice­
vere qualche strillata. Uno dei superiori veniva per turno a prestare assistenza ogni
settimana in refettorio e nelle passeggiate, e poi tutto era finito. Fu questa l ’unica
pena che ebbi a provare in seminario. Quante volte avrei voluto parlare echiedere
loro consiglio o scioglimento di dubbi e non poteva! Anzi, accadendo che qualche
superiore passasse in mezzo ai seminaristi, senza saperne la cagione ognuno fuggiva
precipitoso a destra e a sinistra, come da una bestia nera. Ciò accendeva sempre
più il mio cuore del desiderio di essere presto prete per trattenermi in mezzo ai
giovanetti, per assisterli, venire a conoscerli bene, sorvegliarli sempre, metterli
nell’impossibilità di fare il male ed appagarli in ogni occorrenza ” .
Gli rincresceva poi grandemente che la comunione fosse concessa solo nei dì
festivi. Per frequentarla nei giorni feriali bis gnava con u n ’infrazione del regola­
mento andare di soppiatto durante la mezz’ora della colazione nell’annessa chiesa
pubblica, fare la comunione e poi raggiungere digiuno i compagni tornanti allo
studio e alla scuola. Su tale irregolarità però i superiori chiudevano un occhio.
“ Con questo mezzo, leggiamo nelle Memorie, ho potuto frequentare assai più la
Santa Comunione, che posso chiamare con ragione il più efficace alimento della
mia vocazione ” .
Trovò di suo gusto l ’ordinamento degli studi. Non costandogli fatica seguire
e ritenere le lezioni dei professori, utilizzava fuori della scuola ogni briciolo di tempo.
In ricreazioni più lunghe i volonterosi, raccogliendosi intorno a lui nel refettorio,
facevano un circolo, che equivaleva a una ripetizione scolastica. Nelle loro discus­
sioni usavano la lingua latina. Bosco vi era considerato come presidente e giudice
inappellabile.
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Quanti ritagli di tempo uno studioso di buona volontà può mettere a profitto
nel corso della giornata! Egli nel primo anno di filosofia si lesse così le voluminose
opere del Bartoli e del Cesari. Nel secondo conobbe per caso il De imitatione Christi,
di cui ignorava l ’esistenza. Gli cadde sotto gli occhi un capo del quarto libro sul­
l ’eucaristia. Ne rimase così rapito e invaghito, che si disamorò delle letture pro­
fane e si diede a leggere le Antichità giudaiche e la Querra giudaica di Flavio Giu­
seppe, i Ragionamenti sulla religione del Marchetti, le Conferenze del Frayssinous,
il Balmes, le Storie Ecclesiastiche dell’Henrion, del Fleury e del Bercastel, il Cavalca,
il Passavanti, il Segneri. Negli anni di teologia maneggiava S. Agostino, S. Girolamo
e specialmente S. Tommaso, del quale mandò a memoria lunghi tratti su gli argo­
menti di maggiore importanza; lesse tutta la Bibbia nei commenti dell’Alapide e del
Tirino, e la Storia del Vecchio e del Nuovo Testamento del Calmet; studiò la geo­
grafia dei Luoghi Santi e prese larga conoscenza dei Bollandisti. Erano le opere
che poteva somministrargli la biblioteca del seminario.
Tante letture non costituivano per lui un ingombrante sovraccarico intellet­
tuale? No. “ La mia memoria, scrive, continuava a favorirmi, e la lettura e spiega­
zione dei trattati fatte nella scuola mi bastavano per soddisfare ai miei doveri. Quindi
tutte le ore stabilite per lo studio io le potevo occupare in letture diverse. I su­
periori sapevano tutto e mi lasciavano libertà di farlo ” .
Infatti primeggiò sempre nelle varie classi. A ll’esame semestrale si soleva as­
segnare un premio di sessanta lire a chi superava i compagni nei voti di studio e
di condotta. Orbene in tutti i sei anni di seminario fu sempre Bosco il favorito.
Nel secondo annodi filosofia un competitore di grandissimo ingegno gli si agguagliò.
I superiori proposero loro di fare a metà del premio. Giovanni acconsentì; ma
l ’altro, benché di famiglia molto ricca, nicchiava, volendo forse tutto per sè, più
che il denaro, l ’onore. Furono quindi sottoposti a una seconda prova, nella quale
Giovanni riportò la palma.
Le vacanze, che duravano quattro mesi e mezzo, gli offrivano tutto l ’agio d ’im­
mergersi in studi prediletti. In quelle del 1836 ebbe una buona ventura. Gli stava
molto a cuore approfondirsi nel greco, appreso discretamente nel ginnasio supe­
riore, e non gli si poteva porgere occasione migliore di farlo. Il colera minacciava
Torino. I gesuiti anticiparono per questo la partenza dei loro convittori dal col­
legio del Carmine, conducendoli alla villeggiatura di Montaldo Torinese; ma il
personale insegnante non potè allontanarsi dalla città, dovendo continuare l ’inse­
gnamento agli esterni, sicché bisognò andare in cerca di professori per gli altri. Don
Cafasso, consultato, propose lui per una classe di greco. Tale congiuntura lo ob­
bligò a occuparsi seriamente di questa lingua, aiutato dalla preziosa compagnia di
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un Padre che era profondo grecista e sotto la cui direzione tradusse quasi tutto il
Nuovo Testamento, due libri di Omero e parecchie odi di Pindaro. Il medesimo
Padre per altri quattro anni si tenne in cprrispondenza con lui, rivedendogli ogni
settimana e rimandandogli corretta qualche sua versione o composizione greca. Il
10 febbraio 1886 a Torino, Don Bosco fu udito recitare lunghi brani di S. Paolo
in greco, che molto probabilmente non aveva più riletti dopo d’allora.
A Montaldo, essendo pure assistente di una camerata, avvicinò giovani di
ragguardevoli famiglie, la conoscenza dei quali gli tornò molto utile in seguito.
Appressandosi il tempo di rientrare in seminario, egli non aveva ancora pò-
tuto studiare una parte della metafisica non spiegata in classe e obbligatoria per
l ’esame di novembre. Ci si mise negli ultimi giorni, superando poi felicemente la
prova, il che gli procurò il condono di mezza pensione, solito a concedersi ai più
studiosi e più poveri.
A due altri studi che gli erano cari, si dedicò nelle diverse ferie, ad appren­
dere cioè gli elementi delle lingue ebraica e francese. Della seconda imparò quanto
gli bastava per intendere e farsi intendere. Della prima acquistò le nozioni suffi­
cienti per una buona esegesi scritturale. Nel 1884 a Roma, presente Don Lemoyne,
discusse con un professore d’ebraico sul valore di certe frasi bibliche, confron­
tando a memoria luoghi paralleli nel testo originario.
Avaro del tempo per sè, n’era prodigo per gli altri, vale a dire per i compagni
seminaristi e per i giovani esterni.
I compagni, ed egli non ne fa mistero, non erano tutti farina da far ostie; non
pochi anzi avevano la testa piena di mondanità, sicché qual prima qual poi se n’an­
davano. Nel 1874 uscì a Torino una specie di romanzucolo, che pigliava di mira
Don Bosco chierico e giovane sacerdote: una vera canagliata, il cui autore sotto lo
pseudonimo malamente celava vecchi livori di seminarista fallito. Da tale genia
dunque gli era forza tenersi bene in guardia. Nondimeno, richiesto di servizi, non
faceva distinzioni. L’aspetto ilare, le maniere piacevoli, la condiscendenza cordiale
invogliavano chicchessia a incomodarlo. Quindi fare berrette, radere barbe, tosare
capelli, rammendare abiti, rattoppare scarpe, assistere e medicare infermi, cavare
denti, sciogliere difficoltà scolastiche, ripetere lezioni, sunteggiare trattati, impre­
stare libri, rasserenare volti rannuvolati, tutto faceva con animo generoso in ogni
occasione. Non avendo approvato Don Cafasso il suo proponimento di astenersi
affatto dai giochi di prestigio, rallegrava talora con essi le ricreazioni. Non ci fa
meraviglia pertanto che egli scriva: “ In seminario ho sempre goduto l ’affezione
de’ miei compagni ” .
Familiarizzava però solo con una piccola cerchia composta degli ottimi. Con
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questi si strinse in lega per promuovere l ’osservanza delle regole e l ’adempimento
dei doveri di pietà e di studio. Di tre in particolare, Garigliano, Giacomelli e Co-
mollo, scrive che furono per lui “ un tesoro ” .
Anche i giovani esterni si disputavano un po’ del suo tempo. Gli amici del
ginnasio riempivano nei giovedì il parlatorio, portandogli a rivedere quaderni e
compiti. Nel primo anno era dei più assidui Comollo. Si stimava poi fortunato
quando i superiori lo mandavano al duomo per il catechismo dei fanciulli. Ad
alcuni Salesiani raccontò un giorno che nel primo anno di filosofia si vide in sogno
già prete, vestito di cotta e stola e intento a lavorare in una sartoria, non già cu-
cendo cose nuove, ma rattoppando roba logora e accozzando insieme svariati pezzi
di panno. In quel sogno, rimastogli fisso nella memoria, intravvide più tardi la sua
speciale missione a vantaggio dei giovanetti sviati per effetto delle condizioni sociali.
Durante le vacanze nei giorni festivi, lasciati da parte i libri, radunava ragazzi
quanti più poteva per il catechismo. La smania d ’imparare, che cominciava a dif­
fondersi anche nelle campagne, ne spingeva a lui anche di grandicelli, ai quali in­
segnava a leggere e scrivere, ponendo per condizione soltanto assiduità, attenzione
e confessione mensile.
Due episodi accaduti in tempo di vacanze dimostrano qual concetto egli si
fosse formato del decoro chiericale.
Una volta andò a Croveglia di Buttigliera, invitato a servire e a cantare nella
festa di San Bartolomeo. Tutto procedette bene, tanto in chiesa che al pranzo, ser­
vito da un suo zio, priore della solennità, e onorato dalla presenza del parroco.
Levate le mense, fu pregato di fare una violinata, ma vi si ricusò. Insistettero; ri­
spose che non aveva portato il violino. Era questo il suo strumento prediletto, al
quale però aveva rinunciato. In un lampo gliene procurarono uno. Si scusò ancora,
finché un musicante gli propose che facesse a lui l ’accompagnamento. “ Misera­
bile! esclama contro di sé nelle Memorie. Non seppi rifiutarmi ” . Mentre sonava,
udì un bisbiglio e un calpestìo. Fattosi alla finestra, vide nel cortile una folla di gente
che a quel suono danzava. Invaso dallo sdegno: Come! disse agli astanti. Io che
grido sempre contro ai pubblici spettacoli, io ne sono divenuto promotore? Ciò
non sarà mai più ” . Restituito il violino altrui, tornò a casa, prese il suo, se lo
mise sotto i piedi e lo fece in cento pezzi. D ’allora in poi insegnò bensì il modo
di sonare quello strumento, ma senza ma più toccarlo con le proprie mani.
U n ’altra volta, vista scappare una lepre, afferrò il fucile e la inseguì per campi,
vigne e valli. Finalmente l’ebbe a tiro e la colpì. “ La povera bestia, scrive egli,
cadde, lasciandomi in sommo abbattimento al vederla estinta ” . Allo sparo accor­
sero i compagni congratulandosi del bel colpo. Ma il chierico, dando uno sguardo
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alla sua persona, s’avvide di essere senza sottana, in maniche di camicia, con un
cappello di paglia in testa, lontano assai da casa sua. Gli parve allora di fare la
figura del contrabbandiere e si sentì mortificatissimo. Chiesto scusa ai compagni
del malo esempio e andatosene a casa, rinnovò la già fatta rinuncia a ogni sorta
di caccia. “ Con l ’aiuto del Signore, dice, questa volta mantenni la promessa. Dio
mi perdoni quello scandalo ” .
Da questi incidenti cavò una lezione sulla necessità di maggiore ritiratezza. Os­
serva infatti: “ Chi vuole dedicarsi schiettamente al servizio del Signore bisogna
che lasci del tutto i divertimenti mondani. È vero che spesso questi non sono pec­
caminosi; ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la foggia di vestire, di par­
lare, di operare, contengono sempre qualche rischio di rovina per la virtù, spe­
cialmente per quella delicatissima della castità ” .
I
suoi studi teologici cominciarono nell’autunno del 1837. La dogmatica, la
morale e la storia ecclesiastica furono le tre discipline, in cui maggiormente s’in­
golfò: il consueto circolo divenne, per dir così, il macinatoio che tritava le lezioni
in modo da renderne la materia digeribile a tutti gli stomachi.
Accanto a questo circolo, affinchè non fossero trascurati gli studi letterari,
creò u n ’accademia di dodici o quattordici seminaristi, che si adunavano in giorni
di vacanza a ragionare di letteratura e anche di galateo. I soci leggevano composi­
zioni proprie in prosa e in verso. Si facevano pure esercizi di sacra eloquenza. Li­
bertà a ognuno di esprimere il suo giudizio. L ’ultima parola spettava sempre a Gio­
vanni. U n vecchio condiscepolo ricordò che egli non transigeva su cose di natura
delicata. Una volta in un lavoro ben condotto biasimò garbatamente qualche frase
che sapeva di galanteria nei riguardi delle donne, giudicando un tale linguaggio scon­
venevole in bocca a un chierico. Il censurato, divenuto prete, incappò nell’eresia.
Nelle vancaze del primo anno di teologia, benché semplice chierico, inaugurò
la sua predicazione. Cinque volte montò in pulpito. La prima predica sul Rosario
e la seconda sull’Assunzione, fatte ad Alfiano per invito di quel parroco, furono
ben preparate; ma le due seguenti a Cinzano e a Pecetto le fece all’improwiso,
perchè, mancato per caso il predicatore, nessuno dei preti là presenti s’arrischiava
di sostituirlo così su due piedi.
Dopo la quinta a Capriglio ebbe un disinganno salutare. Dappertutto dov’era
stato, si levava a cielo la sua abilità oratoria, “ sicché, scrive egli, la vanagloria
m ’andò guidando ” . U n giorno dunque volle interrogare sulPultima uno de’ suoi
più intelligenti lodatori e cascò dalle nuvole al sentirlo magnificare quella stupenda
predica sulle anime del Purgatorio, mentr’egli aveva parlato della Natività di Maria.
Sconcertato e desideroso di vederci chiaro, interrogò pure il parroco di Alfiano.
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Questi francamente gli rispose che pochissimi avevano capito le sue prediche e lo
esortò a rendersi popolare tanto per la forma quanto per il contenuto. Questo
paterno consiglio, scrive nelle Memorie, mi servì di norma in tutta la vita. Conservo
ancora a mio disdoro quei discorsi, in cui presentemente non iscorgo più altro che
vanagloria e ricercatezza ” . Justus prior est accusator sui, dice la Scrittura.
La questione finanziaria, risolta fino allora in vari modi, se la trovò bell’e
sciolta sul principio del secondo anno di teologia, perchè fu fatto sagrestano•della
cappella, ufficio che lo liberava dal pagamento di metà della pensione, mentre alle
rimanenti spese provvedeva la carità di Don Cafasso.
Nell’aprile del 1839 un grave dolore lo afflisse in morte di Luigi Comollo. Que­
sto angelico giovane da circa tre anni viveva in cordiale intimità con lui. Erano in
un certo senso due caratteri opposti, ma avevano due anime fatte per intendersi.
Comollo, per esempio, nella pietà si abbandonava dolcemente a trasporti, che da­
vano nell’occhio, Bosco invece sapeva contenere in sè il fervore dello spirito evi­
tando quanto avesse apparenza di singolarità e destasse ammirazione; uno tutto
quiete e dedito ad austere penitenze, l ’altro calmo, sì, e mortificato, ma insieme
di buona compagnia e misurato anche nelle astinenze. Orbene “ questo meravi­
glioso compagno fu la mia fortuna ” , ci fa sapere Don Bosco, e ce ne spiega il
come. “ A suo tempo sapeva avvisarmi, correggermi, consolarmi con bel garbo e
con tanta carità, che in certo modo era contento di dargliene motivo per gustare
il piacere di esserne corretto. Trattava famigliarmente con lui, mi sentiva natural­
mente portato a imitarlo; e sebbene fossi mille miglia da lui indietro nella virtù,
tuttavia se non sono stato rovinato dai dissipati, e se potei progredire nella mia
vocazione, ne sono veramente a lui debitore ” .
Gracile di complessione, un chierico di sì belle speranze soccombette in età
di 22 anni alle fatiche dello studio e all’intenso lavorio interiore. Un fatto strepi­
toso accadde in seminario la notte dopo il dì della sepoltura. Nella reciproca loro
confidenza i due amici si erano vincolati a una promessa: il primo che morisse
avrebbe portato all’altro notizie del suo stato. Confesso, dichiara Don Bosco
nella sua biografia del Comollo, che ci fu molta leggerezza nè mai sarei per con­
sigliare altri a fare tale promessa; ma tuttavia tra di noi si ritenne sempre sul serio
come sacra e da mantenersi ” . E fu mantenuta. Sullo scoccare della mezzanotte,
mentre egli stava in letto sveglio fra venti compagni che dormivano, rombò in fondo
al corridoio un fragore come di cannone, che però si prolungava, avvicinandosi
come se venisse una locomotiva, e scotendo pareti, volta e pavimento. I seminaristi
svegliati tremavano come foglie. “ Io era impietrito ” , dice Don Bosco di sè. Poi
la porta si spalancò. U n misto di rumori secchi e violenti intronava gli orecchi,
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ma non si vedeva nulla fuorché una luce languida, che sembrava variare col vibrare
delle detonazioni. Lo strepito tacque all’improvviso, la luce brillò più viva e risonò
distinta la voce del Comollo che disse: — Bosco! Bosco! Bosco! io sono salvo. —
Seguì un bagliore accecante, poi uno schianto formidabile, indi silenzio e buio.
I chierici, scappati di letto, e corsi chi qua e chi là all’impazzata, si erano ap­
pollaiati in un angolo intorno all’assistente. Più nessuno dormì, ma tutti aspetta-
rono l ’alba liberatrice. Bosco, seduto sul suo letticciuolo, si sforzava di tranquil­
larli. Il suo spavento era stato tale che lì per lì avrebbe preferito morire. “ Fu la
prima volta, scrive, che a mia ricordanza abbia avuto paura ” . Uno spiritello di
chierichetto lo faceva a volte trasalire, awicinandoglisi dalle spalle e gridandogli
improvvisamente all’orecchio: — Bosco, sono salvo! — Ebbe principio da quel
punto un malessere che lo condusse all’orlo della tomba, nè si riebbe del tutto se
non parecchi anni dopo.
Ognuno immagina il gran parlare che se ne fece. Forse la bontà di Dio aveva
voluto con quel mezzo scuotere da mortifero torpore coscienze indurite. Don Giu­
seppe Fiorito, che era quel tale assistente, e altri testimoni oculari narrarono poi
più volte nell’Oratorio il fatto, di cui Don Bosco inserì una particolareggiata de­
scrizione solo nell’edizione seconda della biografia comolliana, uscita nel 1884,
quando alcuni di quelli vivevano ancora.
Dopo le successive vacanze l ’aria nativa non lo restituì sano al seminario. Co­
minciò infermiccio l ’anno scolastico 1839-40 e languì più o meno fino al termine.
Ebbe anzi un periodo di crisi che lo costrinse ad andare nell’infermeria. Inappetenza
e insonnia ostinate facevano fare ai medici sinistri pronostici. Giaceva a letto da
un mese, quando la madre, ignara del suo stato, venne a visitarlo, portandogli una
bottiglia di quello buono e un pane di miglio. Nel partire voleva ripigliarsi il pane,
ma Giovanni la pregò di lasciarglielo. Come fu solo, provò tale una smania di man­
giare quel pane e di bere quel vino, che tutto mangiò e bevve e poi si addormentò.
Sembrava un assopimento, dal quale non si dovesse più destare. Ma dopo aver
dormito due giorni interi e la notte intermedia si svegliò quasi perfettamente sano.
I guai si dice che non vengono mai soli. Dopo la scossa descritta un’altra ne
subì. L’ultimo giorno dell’anno scolastico, mentre affacciato alla finestra stava os­
servando il cielo minaccioso, un fulmine cadde sul davanzale, ne svelse alcuni mat­
toni e glieli scagliò contro il petto, gettando lui a terra fuori dei sensi. Soccorso
prontamente e rinvenuto, risentì a lungo gli effetti di quella scarica.
Nonostante tutto, nelle vacanze gli balenò un’idea. L’intero corso teologico
aveva la durata di un quinquennio. Non avrebbe egli potuto fare in quei mesi il
quarto anno? Era cosa che rarissime volte si concedeva; nondimeno volle tentare.
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Andò direttamente dall’Arcivescovo Fransoni, che gli passò buona la ragione del­
l ’età (aveva ormai ventiquattro anni) e informatosi degli esami precedenti, gli ac­
cordò il favore, con l ’obbligo di portare in novembre tutti i trattati del quarto anno.
Il parroco Don Cinzano ricevette speciale mandato per l ’esecuzione. Questo dotto
ecclesiastico ne diresse lo studio e alla fine gli diede l ’esame, chiamando ad
assistervi i giovani chierici del paese, fors’anche perchè fossero testimòni della
serietà dell’esito.
Fatto ritorno al seminario, venne preposto ai seminaristi come prefetto, re­
sponsabile cioè della loro condotta; tale incarico gli conferiva il diritto alla pen­
sione gratuita. Nell’esame semestrale lo attendeva u n ’umiliazioncella: invece del
solito optime conseguì un fere optime. La ragione del non pieno voto fu che, in­
terrogato da Don Lorenzo Gastaldi sopra un canone del Concilio Tridentino, di
cui non ricordava il tenore, improvvisò un testo, diremmo così, di fortuna. L ’esa­
minatore gli chiese se dicesse proprio a quel modo il Concilio. Egli rise e fece ri­
dere anche lui, che però non rise più al momento della votazione. Giovanni per
altro si prese la rivincita nell’esame finale, riportando un plus quam optime.
Partì definitivamente dal seminario nel maggio del 1841 per andarsi a prepa­
rare con un ritiro spirituale al presbiterato. Con quali sentimenti compagni e supe­
riori gli dessero l ’addio, si arguisce anche da loro testimonianze pervenuteci attra­
verso i processi. Otto dei compagni ne lodano l ’assennatezza e morigeratezza, la
pietà e l ’obbedienza, la studiosità e il sapere, l ’esemplarità in tutto, la compostezza
e regolarità, l ’abilità in fare da paciere, la santità della vita. D i due professori su­
perstiti uno ne ricorda la bonarietà che sotto ordinarie apparenze nascondeva grandi
avanzamenti nella perfezione, l ’altro ne encomia il dignitoso contegno e l ’esattezza
nell’adempimento de’ suoi doveri scolastici e religiosi. Nello scrutinio finale del
1841 i superiori, soliti a formulare un giudizio sommario su ognuno degli uscenti,
avevano sotto il nome di Giovanni Bosco fissato questa nota: “ Zelante e di buona
riuscita ” . Nelle Memorie egli fa menzione così di quella partenza: “ I superiori mi
amavano e mi diedero continui segni di benevolenza. I compagni mi erano affezio­
natissimi. Si può dire che io viveva per loro, essi vivevano per me. Perciò mi tornò
dolorosissima quella separazione da un luogo dove ero vissuto per sei anni, dove
ebbi educazione, scienza, spirito ecclesiastico e tutti i segni di bontà e di affetto
che si possono desiderare ” .
Doveva essere ordinato prete il 5 giugno. Il 26 maggio entrò negli esercizi a
Torino presso i Signori della Missione. Terminato il ritiro scrisse nove proponi­
menti, in capo ai quali pose una sentenza ripetuta in seguito da lui ogni volta che
parlò a chierici o a sacerdoti riuniti: Il prete non va solo al cielo, nè va solo al­
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l’inferno I proponimenti racchiudono un programma di genuina vita sacerdotale:
“ 1° Non mai far passeggiate, se non per grave necessità, visite a malati, ecc. -
2° Occupar rigorosamente bene il tempo. - 3° Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre,
quando trattasi di salvar anime. - 4° La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales
mi guidino in ogni cosa. - 5° Mi mostrerò sempre contento del cibo, che sarà ap­
prestato, purché non sia cosa nocevole alla sanità. - 6° Beverò vino adacquato e sol­
tanto come rimedio : vale a dire solamente quando e quanto sarà richiesto dalla
sanità. - 7° Il lavoro è un’arma potente contro i nemici dell’anima; perciò non darò
al corpo più di cinque ore di sonno ogni giorno. Lungo il giorno specialmente dopo
il pranzo, non prenderò alcun riposo. Farò qualche eccezione in caso di malattia.
- 8° Ogni giorno darò qualche tempo alla meditazione ed alla lettura spirituale. Nel
corso della giornata farò breve visita, o almeno una preghiera al SS. Sacramento.
Farò almeno un quarto d’ora di preparazione ed altro quarto d’ora di ringraziamento
alla S. Messa. - 9° Non farò mai conversazioni con donne, fuori del caso di ascol­
tarle in confessione o di qualche altra necessità spirituale
Ricevette l ’ordinazione dalle mani di Monsignor Fransoni e celebrò la prima
Messa a S. Francesco d’Assisi nella festa della SS. Trinità sull’altare dell’Angelo
Custode. Scelse quella Chiesa, perchè vi risiedeva il suo benefattore Don Cafasso;
nè fu senza intenzione la scelta di quell’altare secondario. Lo aspettavano ansiosa­
mente in patria a celebrare la prima volta; ma preferì celebrare a Torino “ senza
rumore ” , dice, soggiungendo poi semplicemente: “ Quello posso chiamarlo il
più bel giorno della mia vita ” .
Una peculiare domanda si sentì egli mosso a fare nel divino sacrificio. Condi­
videndo la pia credenza che Dio conceda indubbiamente la grazia domandata dal
nuovo sacerdote nel celebrare la prima Messa, chiese con fervore “ l ’efficacia della
parola per poter fare del bene alle anime ” . Aquarantatrè anni di distanza confessava
candidamente: “ Mi pare che il Signore abbia ascoltata la mia umile preghiera
Non ebbe fretta di recarsi al paese, volendo prima soddisfare a doveri di pietà
e di gratitudine. Il lunedì celebrò alla Consolata “ per ringraziare la Gran Vergine
Maria degli innumerevoli favori che gli aveva ottenuti dal suo Divin Figliuolo
Gesù Il martedì andò a Chieri per celebrare nella chiesa di S. Domenico, presso
la quale viveva ancora il suo vecchio e amato professore di terza ginnasiale, Padre
Giusiana, che lo attendeva con paterno affetto e che pianse durante la celebrazione.
Passò con lui tutto quel giorno, che non esita a chiamare giorno di paradiso ” .
Il mercoledì lo destinò al duomo, a quella chiesa di S. Maria della Scala, dove
quotidianamente si era recato per quattro anni a pregare dinanzi alla immagine
di Nostra Signora delle Grazie.
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Finalmente il giovedì, solennità del Corpus Domini, appagò il desiderio della
madre, dei parenti e dei paesani. Scrive: “ Tutti presero parte a quella allegrezza,
perciocché io era molto amato da’ miei concittadini e ognuno godeva di tutto
quello che aveva potuto tornare a mio bene ” . La sera, da Castelnuovo, si restituì
in famiglia. Vicino a casa, mirando il luogo del primo sogno, non potè frenare il
pianto e dice d ’aver pensato fra sé: “ Quanto mai sono meravigliosi i disegni della
divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un povero fanciullo per col­
locarlo coi primari del suo popolo ” .
La madre che non aveva potuto durante il giorno intrattenersi da sola con lui,
gli diede nella quiete delle pareti domestiche la buona notte con parole destinate
a illuminargli tutta la vita. Egli non le dimenticò mai più, e amò ricordarle in più
occasioni. Mamma Margherita gli parlò così: Sei prete: dici la Messa: da qui
avanti sei dunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a
dire Messa vuol dire cominciare a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a
poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pre­
gherai per me, sia ancora io viva o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi
pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me ” .
Tanta madre era degna di tanto figlio.
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CAPO VII
TEOLOGIA PASTORALE E SACRO MINISTERO
Don Bosco, fatto prete, cominciò immediatamente a fare il prete. Mancando
a Castelnuovo il viceparroco, esercitò egli per cinque mesi quell’ufficio.
Vi era in lui con l ’ardore del neofìto una carità che non conosceva limite, quando i
bisogni spirituali o materiali del prossimo potevano avvantaggiarsi dell’opera sua.
“ Provai il più gran piacere a lavorare ” , scrive di quel tempo. Ma la sua predile­
zione lo inclinava di preferenza verso i fanciulli. Da Morialdo ne andavano spesso
a visitarlo; portandosi ai Becchi, ne aveva sempre d ’attorno uno stuolo. Quelli
di Castelnuovo non tardarono a farglisi amici, sicché non usciva mai dalla canonica
senza che una schiera di ragazzi lo accompagnasse. Dovunque mi recassi, scrive,
era sempre attorniato dai miei piccoli amici che mi festeggiavano
Ma la precaria occupazione castelnovese finì; per novembre egli doveva fissarsi
in qualche luogo. Tre lucrosi impieghi gli vennero proposti. L ’esca del lucro signi­
ficava la grande stima, non la giusta comprensione che avevano di lui i propo­
nenti. Chi decise la questione, fu, come altra volta, Don Cafasso, dal quale andò
per consiglio. Il santo prete, udite le varie esibizioni, senza nemmeno prenderle in
esame gli disse in tono autorevole e reciso: — Voi avete bisogno di studiare la
morale e la predicazione. Rinunciate per ora a tutto il resto e venite al Convitto.
Poche istituzioni furono così indovinate come il Convitto Ecclesiastico di To­
rino. Sotto la dominazione napoleonica lo spirito papale nel clero piemontese
aveva avuto i suoi eroi, ma anche i suoi obliatori. Inoltre un rigorismo dottrinale
e pratico, residuo delle importazioni giansenistiche d ’oltr’alpe, serpeggiava an­
cora in scuole teologiche e fra i pastori di anime con danno incalcolabile della
vita cristiana; poiché assiderava la pietà specialmente col rimuovere i fedeli dalla
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frequenza dei sacramenti. Se si voleva apprestare un rimedio efficace al doppio
male, non giovava nulla il tentar di reagire contro la mentalità dei vecchi, ma con­
veniva appigliarsi ai giovani.
Animato da tale intendimento, un ricco, dotto e santo prete, Don Luigi Guala,
Rettore della Chiesa di S. Francesco d’Assisi in Torino dacché il governo francese
ne aveva espulsi i Minori Conventuali, cominciò nel 1808 a radunare in casa sua
novelli sacerdoti per instillare in essi sani principii di teologia morale mediante
apposite conferenze. L’iniziativa, apprezzata in alto, attecchì. Infatti, dieci anni
dopo, essendo stato sgombrato il convento dalla soldatesca straniera, vi istituì un
Convitto avente per iscopo di formare alla vita pastorale giovani preti usciti ap­
pena dal seminario, e formarli con un programma ispirato ai criteri che egli già
privatamente cercava di attuare. Il re Carlo Felice nel 1822 eresse la fondazione in
ente morale; l ’Arcivescovo Chiaverotti nel 1823 ne nominò Rettore il Guala, di
cui approvò il regolamento, e nel 1824 assegnò a protettori dell’istituto S. Fran­
cesco di Sales e S. Carlo Borromeo.
I sacerdoti convittori avevano mattina e sera una conferenza di morale e nella
settimana lezioni di predicazione; inoltre la biblioteca assai ben fornita sommini­
strava loro opere di consultazione e di lettura.
Imperava nelle scuole di morale l ’Alasia, tendente più o meno al rigorismo
gianseniano. Combatterlo a viso aperto o anche solo escluderlo sarebbe stato un
tirarsi addosso le ire di coloro che ufficialmente reggevano nell’archidiocesi le sorti
dell’istruzione e quindi provocare odiose misure a danno del Convitto. Perciò la
prudenza di Don Guala si attenne a una via di mezzo, conservando il testo ala-
siano, ma nello spiegarlo abbondando in riferimenti a S. Alfonso, le cui opinioni
penetravano così alla chetichella nelle menti degli uditori; ognuno poi le approfon­
diva per conto proprio con ricerche personali
Braccio destro di Don Guala era Don Cafasso, primo suo supplente, poi,
quando l ’età e la salute non permisero più al fondatore di continuare, suo degnis­
simo successore nelle conferenze. Questi due uomini non insegnavano solo sui
libri, ma edificavano con la santità della vita i futuri direttori di coscienze.
Don Bosco entrò nel convitto il giorno dopo i Morti. Non si era limitato
Don Cafasso a dargli il consiglio di venirvi, ma gli aveva anche ottenuto dal Ret­
tore la gratuita permanenza.
II tempo passato da Don Bosco nel Convitto esercitò un influsso decisivo
nel suo orientamento posteriore. Perfino le pratiche di pietà da lui introdotte nella
sua congregazione corrispondono a quelle del regolamento di Don Guala, che con
molta saggezza le aveva regolate in modo da potersi poi continuare comodamente
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anche dopo cessata la vita comune. Poterono moltissimo sul nostro Santo la di­
rezione spirituale di Don Cafasso, il suo insegnamento e l ’esercizio del sacro mi­
nistero sotto la sua guida.
Don Cafasso fu il confessore di Don Bosco fino al 1860, anno della sua morte.
In lui Don Bosco trovò il maestro di spirito, del quale abbisognava. Nella Chiesa
anche uomini ricchi di carismi eccezionali aprono la loro coscienza al ministro
di Dio, mettono la loro anima nelle sue mani e si sottopongono alla sua auto­
rità. L ’individualismo è ben protestantico, ma punto evangelico. In tre momenti
particolari il savio direttore intervenne a troncare aspirazioni di Don Bosco, che,
se vi si fosse abbandonato, avrebbe frustrato la sua missione. Aspirò egli a riti­
rarsi alcun tempo in un convento solitario per ispecializzarsi nella conoscenza della
storia ecclesiastica e dedicarsi intensamente a questo ramo della cultura sacra.
Vagheggiando ancora la vita religiosa, aspirò a farsi degli oblati di Maria Vergine,
istituiti dall’abate Lanieri. Aspirò infine più che mai ad andare nelle Missioni tra
gl’infedeli. Ogni volta consultò Don Cafasso, al quale nulla teneva celato. Questi
nel primo caso semplicemente sorrise come a pura fantasia; nel secondo rispose
con un — No! — secco; nel terzo gli disse risoluto: — Voi non dovete andare
nelle Missioni.
Quanto agli studi, non si trattava più tanto di teoria quanto di pratica appli­
cazione. In questo Don Cafasso possedeva il dono della chiarezza, unita alla pre­
cisione e all’arte di rendere gradevoli le materie più ardue. Spirava poi dal suo
contegno e dal suo linguaggio un misto di pietà, scienza e prudenza, che eccitava
non solo a conoscere la morale, ma anche a praticarla. Mirando soprattutto a
formare buoni confessori, che sono a loro volta i veri formatori della coscienza
cristiana, si adoperava a radicare nei giovani sacerdoti un alto concetto della con­
fidenza che si ha da avere nella bontà di Dio.
Impartiva pure lezioni di sacra eloquenza, assegnando ogni quindici giorni un
tema di predica da svolgere per iscritto. Egli leggeva e annotava gli elaborati, sce­
gliendone in iscuola qualcuno, la cui lettura potesse giovare a tutti. Voleva che
si attingesse a fonti sacre, che si usasse uno stile accessibile agli uditori e che non
si entrasse in polemiche. Una predica, che non fosse animata da afflato apostolico,
per lui non era predica.
Tutto l ’insegnamento del Cafasso quadrava a capello con il pensiero domi­
nante di Don Bosco e glielo illuminava. Scrivendo di lui, il Santo rileva una cosa
che si direbbe nota come la betonica e quindi non meritevole che se ne faccia gran
caso; ma l ’averla sottolineata significa che egli vi attribuiva special valore. L ’osser­
vazione è che dei giovani sacerdoti Don Cafasso formava “ ministri capaci di dare
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a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio ” . Nei tempi grossi che
si avanzavano e che egli visse, ecco la bussola con la quale Don Bosco si orizzontò
senza mai smarrirsi.
Il corso era di due anni. Soltanto alla fine del secondo i convittori davano
l ’esame di confessione: ma per Don Bosco l ’Arcivescovo fece un’eccezione affatto
insolita, autorizzandolo a dare un esame provvisorio dopo il primo anno. Dedica­
tosi allora anche al ministero della confessione, prese e scrisse questo proponi­
mento: Quando sarò richiesto ad ascoltare le confessioni dei fedeli, se vi è pre­
mura, interromperò il santo ufficio e farò anche più breve la preparazione ed il
ringraziamento della Messa a fine di prestarmi ad esercitare questo sacro ministero
Spirato il biennio regolamentare, un privilegio più unico che raro venne con­
cesso a Don Bosco. Il Rettore Don Guala gli accordò un terzo anno, costituendolo
ripetitore straordinario per alcuni convittori tardigradi.
I preti del Convitto non affogavano in mezzo ai libri, nè menavano vita cenobi­
tica, ma erano pure avviati ad esercitare le varie funzioni dell’ufficio sacerdotale
fuori di casa. Oltreché a ministeri occasionali di predicazioni e simili, Don Bosco
venne particolarmente designato alle carceri, agli ospedali e ai catechismi.
Dalla sua prima visita alle carceri tornò col cuore sanguinante. Troppi, troppi
giovani dai dodici ai diciotto anni aveva trovato in quel luogo di pena! D’onde
mai una sì precoce depravazione? Appresso vide che tanti, usciti col proposito di
vita migliore, vi erano poco dopo ricondotti. Gli parve che la causa dell’uno e del­
l ’altro male stesse nell’essere eglino abbandonati a se stessi, e si domandava: Se
fuori incontrassero un amico che si prendesse cura di loro, che li assistesse, che
nei giorni festivi li istruisse nella religione, non potrebbero essere preservati dal
cadere o dal ricadere o non si diminuirebbe almeno il numero dei caduti e dei
recidivi? Ogni volta che vi si recava, ne usciva confermato vieppiù nella sua idea.
Ne fece parola al Cafasso, con i lumi del quale si diede a studiare il modo di
portar rimedio a sì grave calamità sociale.
II primo ospedale visitato dopo che entrò nel Convitto, fu la Piccola Casa
della Divina Provvidenza. Aveva già conosciuto da chierico il canonico Cottolengo
nell’accompagnargli un prete, che gli doveva parlare. Quegli, finito il colloquio,
si era volto a lui e sorridendo gli aveva detto: — Oh! Tu sei giovane! Ma io sono
vecchio... Vedi, figlio mio (e in così dire gli prese l ’orlo della manica tastandolo
colle dita), questo panno è troppo fine. Quando sarai prete dovrai cangiarlo con
uno più consistente, perchè ti tireranno da tutte le parti. Se la sottana non sarà
forte, si straccerà. — Poi l ’aveva riveduto nei primi mesi del convitto. Il Cotto­
lengo, squadrandolo e chiestogli come si chiamasse, gli aveva detto: — Avete
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faccia da galantuomo. Venite a lavorare nella Piccola Casa; lavoro non ve ne man­
cherà. — Mandato dai Superiori, vi andava di frequente.
Chi non conosce questa immensa città del dolore? Nel 1841 ricoverava già
poco meno di duemila infelici, che erano fra i più derelitti. Il Padre stesso guidò
nella visita Don Bosco. Ogni angolo gli presentava la carità accanto al dolore;
ma le corsìe dei giovani che sui visi emaciati portavano lo stigma del vizio, lo la­
sciarono costernalo. Il bisogno che tanta povera gioventù aveva di chi la premu­
nisse e salvasse, gli si rivelava sempre più grave e stringente.
Aggirandosi per le vie della città, altre scene gli ribadivano nella mente lo stesso
pensiero. Da botteghe e officine lo colpivano parolacce e canzonacce di fanciulli,
che lavoravano con uomini sboccati; per le strade e per le piazze vedeva torme di
ragazzi smunti, laceri e sguaiati; alla periferia osservava gruppi di giovinastri oziosi
e petulanti. Ecco, diceva fra sè, quante scuole di malfare!
Mosso da questi sentimenti, profittava di tutte le occasioni per avvicinare
giovani e giovanetti, nè andò molto che schiere di fanciulli lo seguivano per città
e fin nella sagrestia del Convitto. Da parecchi anni Don Cafasso, nel tempo estivo,
aveva fatto ogni domenica il catechismo a garzoni muratori in una stanzetta presso
quella sagrestia; ma al riaprirsi del Convitto non poteva più continuare. Nel no­
vembre del 1841 vi sottentrò Don Bosco.
Da cosa nasce cosa. Che era mai quella scoletta di fronte alla moltitudine di
fanciulli bisognosi di assistenza? Una goccia d ’acqua dolce nel gran mare. Ci vo­
leva u n ’opera di maggior portata; ci volevano, in una parola, oratorii festivi ben
organizzati. Pregò Iddio, chiese consiglio e decise di lanciarsi. Raccomandato da
Don Guata e da Don Cafasso, espose il suo disegno all’Arcivescovo. Il buon pa­
store, tocco dal suo linguaggio caldo a un tempo e misurato, gli largì la più ampia
benedizione. Data da quel punto il favore, anzi la familiarità di quel prelato con
il suo zelante sacerdote.
Ma lo zelo di Don Bosco era illuminato. L ’approvazione del superiore lo as­
sicurava che, così facendo, non andava contro la volontà di Dio; ma conveniva
prima di tutto studiare il modo di ben cominciare. Mentre invocava i lumi celesti,
una circostanza apparentemente insignificante gli aperse la via.
Il
fatterello accadde l ’8 dicembre del 1841. Sebbene non ci fosse ancora defi­
nizione dogmatica, anche nel Piemonte si festeggiava con solennità in quel giorno
la Concezione Immacolata di Maria. Quel mattino, mentre Don Bosco si stava
preparando per celebrare, un giovanetto entrò nella sagrestia e s’andò a rincantuc­
ciare in un angolo. Il sagrestano, vedutolo, gli fe’ cenno di prendere il messale e
servire la Messa. Il ragazzo rispose che non sapeva. Allora l ’uomo, incollerito, gli
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si scagliò contro brandendo una canna e a furia di botte e di male parole lo scacciò.
La rapidità delPassalto e della fuga non tolse a Don Bosco la possibilità del suo
tempestivo intervento. Ingiunse tosto al sagrestano di richiamare il giovane, per­
chè era un suo amico. Fu obbedito. Il poverino gli si accostò pieno di paura. Don
Bosco gli domandò con tutta la sua amorevolezza, se avesse già ascoltato la Messa.
Udito che no, gli disse di ascoltare la sua e poi di aspettarlo. — Ho da parlarti,
conchiuse, di una cosa che ti farà piacere.
Dopo la Messa e il ringraziamento lo condusse in un coretto e gli mosse una
serie di domande. L’importanza dell’interrogatorio si può giudicare anche dalla
cura che ebbe Don Bosco di trascriverlo nelle sue Memorie.
— Mio buon amico, come ti chiami?
— Bartolomeo Garelli.
— Di che paese sei?
— Di Asti.
— Vive tuo padre?
— No, mio padre è morto.
— E tua madre?
— Mia madre è anche morta.
— Quanti anni hai?
— Ne ho sedici.
— Sai leggere e scrivere?
— Non so niente.
— Sei già promosso alla santa comunione?
— Non ancora.
— Ti sei già confessato?
— Sì, ma quand’ero piccolo.
— Ora vai al catechismo?
— Non oso.
— Perchè?
— Perchè i miei compagni più piccoli di me sanno il catechismo e io non
so niente. Ho vergogna a stare nelle classi.
— Se ti facessi io un catechismo a parte, ci verresti?
— Ci verrei molto volentieri.
— Verresti volentieri qui, in questa cameretta?
— Verrò molto volentieri, purché non mi diano bastonate.
— Sta’ tranquillo, caro Garelli, nessuno ti maltratterà: tu sarai mio amico
e avrai da fare con me e con nessun altro. Quando vuoi che cominciamo?
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— Quando piace a lei.
— Stasera?
— Sì.
■—■Anche adesso ?
— Sì, anche adesso e con molto piacere.
Don Bosco, inginocchiatosi, disse di cuore u n ’Ave M aria, affinché la Ma­
donna lo aiutasse a salvare quell’anima; poi, cominciando dal segno della croce,
gl’insegnò le primissime verità della fede. Mezz’ora passò presto. Gli diede una
medaglia, si fece promettere che sarebbe tornato la domenica seguente con dei
compagni e lo condusse fuori, lasciandolo imparadisato dalle sue belle maniere.
Egli, narrando ripetute volte l ’episodio dell’8 dicembre 1841, chiamava sto­
rica quella data, perchè inizio degli oratorii festivi. Anche in documenti solenni
moveva da quel giorno per narrare le origini della sua istituzione.
Il
Garelli fu di parola. La domenica 12 gli condusse una mezza dozzina di
poveri ragazzi, ai quali se ne aggiunsero due raccomandati da Don Cafasso. Ogni
domenica Don Bosco diceva agl’intervenuti che non tornassero soli; così di set­
timana in settimana il numero cresceva.
Cresceva ancor più il numero per un altro motivo. Dal Biellese e dal Milanese
accorrevano numerosi a Torino i ragazzi, che vi facevano da manovali ai muratori.
Lontani dalle loro famiglie, nelle feste girovagavano per la città, non pensando
nemmeno ai doveri religiosi e dimenticando il poco che sapevano di catechismo.
D i questi tali specialmente andava Don Bosco in cerca per attirarli a S. Francesco
d ’Assisi. Non meno premuroso era di raccogliervi gli usciti dal carcere.
A siffatte adunanze il nome di oratorio venne da sè. Allorché Don Bosco ne
concepì l ’idea, pensava alle istituzioni di S. Filippo Neri e di S. Carlo Borromeo,
così appunto denominate; egli vi aggiunse poi l ’appellativo indicante che le riu­
nioni non si limitavano a una piccola parte della giornata, ma riempivano il dì
intiero della festa.
Con l ’aumentare del numero Don Bosco previde che egli non sarebbe più
bastato a tutto. Quindi si affezionò alcuni studenti di scuole medie, che addestrò
a mantenere la disciplina, a fare lettura in pubblico, a cantare laudi sacre e col
tempo anche a insegnare i primi elementi della dottrina cristiana. Nelle Memorie
li chiama “ maestrini ” . Quasi a titolo di compenso ricevevano da lui durante la
settimana utili ripetizioni nelle loro materie scolastiche.
Questi “ maestrini ” gli furono di aiuto anche in u n ’altra cosa. Egli non tardò
a sperimentare quanto l ’analfabetismo rendesse più difficile l ’insegnamento della
dottrina e della storia sacra. Quindi per le sere delle domeniche e, nel tempo in­
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vernale, anche per quelle dei giorni feriali mise su una specie di scuola, in cui,
coadiuvato da quei giovanotti, insegnava il leggere e lo scrivere a chi avesse la
buona volontà d’imparare.
Amante com’era e intenditore di musica, adocchiò i giovani che avevano
voce migliore, li istruì nel canto e con l’appoggio di essi suscitò cori che esegui­
vano àrie popolari in chiesa e fuori, dando alle adunanze gaiezza di vita. Per il
Natale del 1842 aveva composto, musicato e insegnato un dimetro di quattro quar­
tine in versi ottonari e decasillabi, che incominciava così: “ Ah! si canti in suon
di giubilo - Ah! si canti in suon d’amor ” . La patetica composizioncella piaceva
ai ragazzi, che nel periodo natalizio la cantavano a perdifiato, e commoveva fino
alle lacrime i pii fedeli.
Ho detto fuori, intendendo dire non fuori di chiesa, ma fuori di casa. Don
Guala e Don Cafasso erano di manica larga con lui in questo; ma i superiori più
immediati non tolleravano disturbi nel recinto del Convitto. Quindi, per insegnare
la sua canzoncina a otto o dieci dei più intonati, doveva menarseli in giro per istrade
men popolose e così a voce bassa e camminando provare e riprovare. Condusse
poi quelli a cantarla le due prime volte a S. Domenico e alla Consolata, dirigendo
egli e accompagnando con l ’organo. Non essendosi mai udito nelle chiese risonare
voci bianche, i torinesi ne andavano in visibilio.
All’aperto fece con la sua musica piccina la prima comparsa in forma ben
curiosa. Un giorno regalò a’ suoi ragazzi una gita fino alla Madonna del Pilone.
Bisognando tragittare il Po, noleggiò tre barconi. Verso il bel mezzo del maestoso
fiume intonò una lode, che quelli sapevano ottimamente. Caso volle che lungo
la riva opposta si trovassero a passare alcuni sonatori di banda, i quali, afferrato
il motivo, diedero fiato alle trombe, facendo l ’accompagnamento. A quell’inso-
lito richiamo sbucò gente da ogni parte, sicché all’approdo un migliaio di per­
sone videro il non meno insolito spettacolo del giovane prete in mezzo all’allegra
turba dei ragazzi, e seppero che egli si chiamava Don Bosco.
Queste giterelle erano una vera necessità. Tanti giovani non sarebbero potuti
stare volentieri con Don Bosco senza correre e ricrearsi. Il cortile del Convitto
concesso qualche rara volta da Don Guala, era troppo stretto. Si riversavano ben
sul piazzale della chiesa; ma davan noia ai passanti e disturbavano i fedeli. Onde
per divertirli bisognava procurar loro passeggiatine.
Tuttavia per i ragazzi l ’attrattiva delle attrattive era Don Bosco stesso. A me­
moria d’uomo nessuno dei contemporanei aveva mai visto un prete farsi, come
lui, piccolo con i piccoli. Quanta affabilità ne’ suoi modi! Quanto affetto nel chia­
marli a sé per le vie e le piazze e invitarli all’oratorio! Quanta sollecitudine per
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trovare ad essi lavoro presso buone persone! Visitava poi quelli di sua conoscenza
nei cantieri, nelle officine, nelle fabbriche, interessandosi paternamente delle loro
condizioni. Tali visite facevano bene anche ai padroni.
L’effetto del suo fascino si rivela mirabilmente in questo tratto delle Memorie:
“ In poco tempo mi trovai circondato da giovanetti, tutti ossequenti alle mie am­
monizioni, tutti avviati al lavoro, la cui condotta, tanto nei giorni feriali quanto
nei festivi, io poteva in certa maniera garantire. Dava loro uno sguardo, e vedeva
l ’uno ricondotto ai genitori, da cui era fuggito; l ’altro, dato prima all’ozio e al
vagabondaggio, collocato a padrone e laborioso; questi, uscito dal carcere, dive­
nire modello dei compagni; quello, prima ignorantissimo delle cose riguardanti
la fede, ora tutto in via di istruirsi nella Religione ” . Sono cose che ci spiegano
come, ottenuta che ebbe la facoltà di confessare, i giovani andassero da lui assai
più volentieri che da qualsiasi altro confessore.
Ma là entro, compressa com’era, l ’opera sarebbe inevitabilmente venuta a
languire. Don Bosco sentiva imperiosa la necessità di una chiesa propria, di locali
autonomi e di uno spazio all’aperto che fosse ampio e indipendente.
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CAPO Vili
LA LOTTA PER L ’ESISTENZA
La ricerca di una sede, ove l ’oratorio festivo avesse la sua chiesa, i suoi locali,
é il suo cortile fu una vera lotta per l ’esistenza: lotta dura e lunga, che avrebbe
stancato e vinto la pazienza di ogni uomo anche dotato di ferrea tempra, ma non
sorretto da eroica fede.
Premeva a Don Cafasso fermare a Torino il suo discepolo. Dal Convitto egli
stava ormai per uscire, il che poneva le sue sorti nelle mani dell’Arcivescovo, po­
tendo essere da lui confinato chissà dove. Don Cafasso fece due cose. Prima scan­
dagliò l ’animo di Don Bosco e poi gli cercò una nicchia almeno temporanea. Vide
che egli, pur manifestando la sua propensione a occuparsi della gioventù, si rimet­
teva interamente al suo consiglio, nel quale avrebbe riconosciuto la volontà di Dio.
Accertatosi bene su questo punto, si die’ d ’attorno per trovargli un posticino.
Viveva nella metropoli piemontese una gran dama venuta di Francia, Giulia
Colbert, vedova del marchese Tancredi Falletti di Barolo e donna veramente piena
operibus bonis et eleemosynis, quas faciebat, come è detto della vedova ioppese Tàbila
negli Aiti apostolici. Fra le sue opere benefiche primeggiava un gruppo di quattro
istituzioni, di cui tre minori mettevano capo a una principale. Era questa un rico­
vero capace di duecento zitelle, cadute e pentite; si chiamava Rifugio, perchè posto
sotto il patrocinio di Maria Refugium peccatorum. Vi sorgeva accanto un monastero
per una settantina di quelle fra le ricoverate che desiderassero consacrarsi a Dio
per tutto il rimanente dei loro giorni. Ivi presso una terza casa accoglieva le infelici
creature pervertite in età inferiore ai quattordici anni. Dalla loro celeste protettrice
la marchesa denominò le prime Maddalene, le seconde Maddalenine. Finalmente
nel 1844, l ’anno a cui siamo giunti, la munificenza della signora conduceva a ter-
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mine, sempre nelle stesse adiacenze, un ospedaletto dedicato a Santa Filomena per
bambine storpie e inferme. In mezzo a questa oasi della carità, che ingemmava la
squallida regione di Valdocco a nord di Torino, sostò alquanto Don Bosco, finché
non prese possesso del luogo assegnatogli dalla Provvidenza.
La direzione del Rifugio era affidata a Don Borei, selante sacerdote, che co­
nosceva già Don Bosco specialmente per averlo adoperato in vari ministeri; con
lui trattò Don Cafasso, suo amicissimo, perchè lo volesse associare provvisoria­
mente a sè. Quegli acconsentì; anzi fece di più. Non avendo ancora la marchesa
un cappellano per l ’ospedaletto in preparazione, le propose senz’altro il raccoman­
dato di Don Cafasso.
La signora, come lo vide, gradì talmente la proposta, che, quantunque ci vo­
lessero ancora sei mesi a mettere in punto l ’ospedaletto, gli assegnò subito l ’annuo
stipendio di lire seicento. Per alloggio Don Borei gli cedette una delle sue stanze
al Rifugio. Quivi la Barolo gli accordò pure la licenza di radunare i suoi giovani.
Di tutto aveva dato l’Arcivescovo il proprio benestare. È vero che sì delicati uffici
esigono sacerdoti maturi d’anni e d’esperienza; ma egli conosceva Don Bosco.
Una pena per altro angustiava quest’ultimo. Il Rifugio sorgeva nella malfa­
mata regione di Valdocco, poco lungi dalla riva destra della Dora, fuori della
cinta daziaria e in aperta campagna; inoltre la sua abitazione bastava appena per
lui, e sotto non c’era un’area disponibile. In località così fuor di mano, fra quattro
anguste pareti, non sapeva proprio come avrebbe potuto continuare l ’oratorio
festivo. Assalito da tale incertezza, nella notte sulla seconda domenica di ottobre,
nel qual giorno avrebbe dovuto annunciare ai giovani il trasferimento da S. Fran­
cesco d’Assisi, fece un sogno, che nelle Memorie egli considera come “ appendice
di quello fatto la prima volta ai Becchi, quando aveva circa nove anni ” . Invero
è la stessa apparizione di svariati e furiosi animali; la stessa comparsa di una in­
coraggiante Signora, vestita questa volta da nobile pastorella; la stessa repentina
metamorfosi di bestie feroci in mansueti agnelli.
Vi si mescolarono tuttavia anche elementi nuovi. Prima si vagò per tre sta­
zioni o fermate, finché si giunse in un prato, dove quegli animali, il cui numero
si era venuto ingrossando da una stazione all’altra, trasformati o no, saltellavano
o brucavano pacificamente insieme. Di là ripreso il cammino, s’arrivò in un vasto
cortile cinto di porticato, alla cui estremità s’innalzava una chiesa. Degli animali,
moltiplicatisi favolosamente, i quattro quinti s’eran cambiati in agnelli. Ecco al­
lora uno, due, tre, molti pastorelli aiutare Don Bosco a prendersene cura, poi
dividersi, andare altrove, raccogliere altri strani animali e menarli in altri ovili.
— Guarda a mezzodì, — gli disse la pastorella. Guardò e vide un campo messo a
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granturco e a ortaglie. — Guarda u n ’altra volta, — gli ordinò la guida. Tornò
a guardare e vide là u n ’altra chiesa assai più grande, nella quale i musici sull’or­
chestra aspettavano lui a cantare Messa. Una fascia bianca all’ingiro portava la
scritta: Hic domus mea, inde gloria mea. Domandò spiegazioni; ma gli fu risposto
come la prima volta, che a suo tempo avrebbe compreso tutto.
Diffidando di sè, poca o niuna fede prestò al sogno; ma lo svolgersi degli
avvenimenti gli diede poi la chiave per la interpretazione.
Quella domenica dunque avvertì i suoi oratoriani che per la prossima volta
li aspettava al Rifugio e indicò dov’era il luogo così denominato. Nel pomeriggio
della domenica seguente u n ’onda, per non dire u n ’orda, di ragazzi irruppe con
grande schiamazzo in quei dintorni, cercando dove fosse l ’oratorio, dicevano essi,
dove fosse Don Bosco; queste due parole dominavano il loro vociare, senza che
nessuno di quanti le udivano, potesse immaginare che fra non molto quelle parole
avrebbero riempito Valdocco e Torino.
Don Bosco, intese le grida, mosse incontro ai venienti. I ragazzi, appena lo
videro, si slanciarono verso di lui, che se li condusse in casa. In quel bugigattolo
ogni cosa misero a soqquadro; i più gremirono i vani di passaggio. Tuttavia un p o ’
di dottrina, un esempio edificante e il canto di una lode mariana ci furono. La do­
menica dopo, essendosi aggiunti altri dal vicinato, il problema della sera divenne
più grave. Camera, corridoio, scala n ’erano stipati. D on Borei condivise la fatica.
Per la Messa e la benedizione la cosa tornava spiccia, perchè D on Bosco al mat­
tino, confessati quanti si presentavano, guidava il battaglione alla Consolata o al monte
dei Cappuccini o a Sassi o alla Crocetta; nel pomeriggio dopo il catechismo s’andava
alla cappella delle scuole di Santa Barbara, diretta dai Fratelli delle Scuole Cristiane.
Ma così non si poteva durarla a lungo. L ’Arcivescovo, informato della diffi
coltà, scrisse alla marchesa, pregandola di procurare un locale più ampio. Essa con­
cedette di ridurre a cappella due spaziosi ambienti nell’ospedaletto, ma solo fino
all’agosto del 1845, nel quale mese la nuova opera verrebbe inaugurata. L ’8 dicembre
Don Borei benedisse la cappella, dedicandola a S. Francesco di Sales, del quale la
marchesa aveva fatto dipingere l ’immagine sulla porta dell’edificio. Quella fu dun­
que la prima chiesa dell’oratorio. Degno di nota è che questa denominazione di ora­
torio ricorre già fin d ’allora nei documenti ufficiali della curia, che vi si riferiscono.
Oltre al vantaggio della chiesa, c’era colà anche un tratto di terreno per la
ricreazione; ma per le classi del catechismo e per le scuole serali bisognava accon­
ciarsi come si poteva nel quartierino occupato da D on Borei e da Don Bosco. I
ragazzi, affezionati a Don Bosco, non facevano alcun conto del disagio. Ciò che
più di tutto attrae i giovanetti, scrive egli, sono le buone accoglienze ” .
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Non ho detto nulla dei mezzi materiali; non si creda che non ne occorressero
o che piovessero dal cielo. Don Cafasso e D on Borei davano a D on Bosco; ma dis­
ponevano di poco. Avevano tuttavia, massime il primo, preziose conoscenze in
città; gli fecero quindi come da battistrada presso agiate famiglie, disponendo gli
animi in suo favore, quando si presentasse per elemosinare. Dura parola questa
per Don Bosco! Nulla gli ripugnava più del picchiare alle porte dei ricchi. A To­
rino poi non si vedevano preti girare per le case chiedendo; redditi fissi e benefi­
cenze alimentavano le Opere pie. Nondimeno vi si piegò, non prevedendo certo
quanta parte della sua vita avrebbe dovuto impiegare a stendere la mano.
Nel corso della settimana spendeva molto del suo tempo a confessare le rico­
verate del Rifugio e i fedeli in S. Francesco d ’Assisi, a predicare in varie chiese o
istituti della città, a studiare per allestire le sue prime pubblicazioni. Faceva anche
scuola di canto a un coro di Maddalenine e dava lezioni di aritmetica ad alcune
delle suore che le dirigevano, perchè si preparassero a divenire maestre.
Non dismise le visite settimanali alle carceri; qui anzi sperimentò fruttuo­
samente una tattica tutta sua. Si guadagnava alcuni più influenti, che poi d ’ac­
cordo con lui durante le istruzioni o le conversazioni sollevavano difficoltà e ri­
volgevano domande su cose opportune, e riflettenti idee storte dei loro compagni,
dando luogo a dialoghi conditi di piacevolezze e ascoltati con interesse. Tanti
di quei disgraziati, rimessi in libertà, cambiavano vita, serbandogli schietta grati­
tudine.
Assisteva anche i condannati a morte; non li accompagnava però al pati­
bolo, perchè il cuore non gli reggeva: anzi la vigilia dell’impiccagione rimaneva
presso di loro nel confortatorio solamente fino a mezzanotte, cedendo allora il
posto a Don Cafasso, che in questa forma di sacro ministero fu non insuperabile,
ma inarrivabile. Una volta nondimeno s’indusse a montare sul carro di un giusti­
ziando, ma perchè si trattava di un giovane, e quel giovane voleva lui, e D on Ca­
fasso gli disse di contentarlo. Col giovane andavano alla forca anche suo padre e
un terzo disgraziato. La sentenza si dovette eseguire ad Alessandria. Quivi ogni
carro ne portava uno col suo confortatore accanto. Durante il ferale tragitto le ruote
giravano lente per la gran ressa lungo la strada. Don Cafasso che si trovava sull’ul­
timo carro col padre, vide nel carro anteriore Don Bosco bianco come un cencio
lavato. A gran voce lo chiamò e gl’ingiunse di cambiare con lui. Fu fatto. Sulla
piazza delle tre forche un movimento della folla separò il terzo carro dagli altri
due, sicché Don Bosco raggiunse il luogo del supplicio, quando il primo e il se­
condo pendevano già dal capestro. Fino sul palco ci arrivò; ma lì perdette il lume
degli occhi e si pose a sedere. Come si riebbe, venivano già trasportati alla Miseri-
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cordia i tre cadaveri che egli seguì, ascoltando anche la Messa funebre. Dopo d ’al-
lora Don Cafasso non lo invitò mai più alle esecuzioni capitali.
Fra la primavera e l ’estate del 1845 l ’oratorio fece parlare di sè in basso e in
alto, lungi dal recinto che prima occupava. La marchesa non vedeva di buon oc­
chio il tumultuare di tanta ragazzaglia sotto le finestre de’ suoi istituti. Don Bosco
10 comprese e per l ’apertura dell’ospedaletto si aspettava l’ordine di sgombrare.
Pensò dunque a premunirsi. Vicino alla Dora, in una zona solitaria, sorgeva la
chiesa di S. Pietro in Vincoli, già cappella cimiteriale. Il cappellano aveva sola­
mente, si può dire, la cura di guardare le tombe dei morti più o meno illustri;
chè di vivi ben pochi amavano bazzicarvi. Don Bosco, intesosi con lui, nel po­
meriggio della domenica 25 maggio condusse ivi tutta la sua numerosa brigata.
Molto probabilmente il buon prete non supponeva che fosse così grossa la
turba dei monelli; quindi egli e la sua perpetua ne furono atterriti, e questa ab
irato, quello autoritativamente vietarono a Don Bosco di farvi ritorno. Per timore
tuttavia che le parole non bastassero, il cappellano fece ricorso al braccio seco­
lare, inoltrando una denuncia motivata alla Ragioneria, che era su per giù la nostra
Giunta Municipale, ma con maggiori poteri.
Intanto una tragedia inaspettata funestò la tranquilla dimora. Nella notte del
28 morì improvvisamente il cappellano e due giorni dopo la fantesca lo seguì nella
tomba. Ho detto inaspettata la tragica fine, ma forse non per tutti. U n tal Me-
lanotti di Lanzo, giovane giudizioso che stava a fianco di Don Bosco, mentre gli
si facevano le due intimazioni, non potè mai dimenticare che egli la prima e la
seconda volta aveva espresso i suoi dubbi, se per la domenica seguente la donna e
11 suo padrone fossero per essere ancora in vita. La notizia della doppia fulminea
scomparsa terrificò il popolino. D on Bosco riunì di nuovo i giovani all’ospedaletto.
Don Cafasso credette buono il momento per tentare un colpo. Mancato ai
vivi il cappellano, fece subito qualche passo per ottenere dalla Ragioneria, da cui
dipendeva la chiesa, che vi si nominasse Don Bosco. Ma la Ragioneria, dando
maggior peso alla denuncia in extremis che alla sua raccomandazione, emanò un’or­
dinanza, con cui comminava a Don Bosco l ’arresto immediato, se avesse ricondotto
i ragazzi in quei paraggi.
Don Bosco, messosi nelle mani della Provvidenza, attese l ’immancabile ordine
di sfratto dalFospedaletto, il quale ordine venne in luglio. Mentre angosciato stu­
diava il modo di rimediarvi, ecco un sogno analogo ai precedenti. In un prato cen­
tinaia di giovani battagliavano fra loro bestemmiando. Una Signora lo mandò in
mezzo ad essi; ma senza un locale e senza aiutanti non conchiudeva nulla, e lo disse
alla Signora. •— Mio Figlio e gli Apostoli, rispose essa, non avevano un palmo di
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terra. —■Si rimise all’opera; ma senza un edificio, dove ricoverare i più derelitti,
era fatica buttata. Poi la Signora gli fece vedere una chiesa piccola e bassa; poi una
chiesa più grande con una casa vicina; poi, indicandogli dinanzi a questa un campo
coltivato, gli disse che là erano stati martirizzati Avventore e Ottavio (1) e posò il
piede nel punto preciso del martirio. Tosto crebbe il numero dei giovani, crebbero
i mezzi, e sul terreno dei Martiri sorse di botto una grandissima chiesa. Contem­
poraneamente chierici e preti si univano a lui, gli davano un po’ d’aiuto, ma un
dopo l ’altro lo abbandonavano. La Signora gl’insegnò un segreto per trattenerli: le­
gar loro la fronte con un nastro che portava scritto obbedienza.. L’effetto fu mirabile :
un crescente drappello di aiutanti si stringeva intorno a lui, mantenendoglisi fedele.
Incoraggiato dal sogno, mosse in cerca di un nuovo rifugio. Presso i Molini
Dora, che chiudevano allora da quella parte la piazza Emanuele Filiberto, più nota
sotto la denominazione popolare di Porta Palazzo, scovò in un vicolo una chie­
setta dedicata a S. Martino, che gli parve facesse proprio per lui. Pregò l ’Arcive­
scovo di ottenergliela dal Municipio. Monsignore acconsentì di scriverne a chi di
ragione. La sua lettera venne recapitata con un memoriale di Don Borei, che,
come cittadino assai conosciuto, rappresentava in quegli anni Don Bosco dinanzi
alle autorità. Questa volta la Ragioneria, che, appurate le cose, aveva rilevato l ’in­
fondatezza della passata denuncia, non si oppose.
Don Bosco respirò. Nelle ore pomeridiane della domenica 13 luglio si diede
l ’addio all’ospedaletto. I giovani sbucarono fuori in massa, portando sulle spalle
mobili, paramenti e attrezzi di gioco.
La loro gazzarra servì di pubblicità all’oratorio. Come si raggiunse la mèta e
ognuno depose il suo carico dove fu indicato, si fece l ’ingresso nella chiesa. Cantata
una lode, Don Borei prese la parola. “ Quel degno ministro del santuario, scrive
Don Bosco nelle Memorie, con una popolarità più unica che rara espresse questi pen­
sieri: —•I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati, non fanno bella e grossa
testa. Così possiamo dire del nostro oratorio ” . Dalla quale similitudine pigliò le
mosse per un felicissimo discorsetto. La teoria dei cavoli piacque tanto a Don Bosco,
che non la dimenticò più; infatti dopo lunghi anni la volle ricordare espressamente
nel suo scritto, e certo l ’avrà commentata allora qualche volta anche lui ai giovani.
Dopo la funzione, si terminò la giornata con un umoristico dialogo, composto da Don
Bosco e recitato da alcuni ragazzi dinanzi ai loro compagni nel cortile dei Molini.
Purtroppo però, trascorsi appena due mesi, i cavoli si dovettero nuovamente
(1) Il terzo Martire torinese della Legione Tebea, Solutore, ferito e fuggito, era morto
a Eporedia (Ivrea).
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trapiantare. Spiaceva che mancassero stanze per le scuole del leggere e scrivere e
per lezioni di musica vocale; ma il peggio fu la levata di scudi contro quei poveri
ragazzi. E la cosa è spiegabile. La piazza Emanuele Filiberto era ed è un immenso
mercato generale e perpetuo, e si sa bene che in luoghi simili i monelli sono trat­
tati come i cani in chiesa. Bisognava sentire le invettive delle rivendugliole! Anche
il personale dei M olini scagliava fulmini contro quella canaglia, come dicevano.
Ma poiché gli attacchi verbali lasciavano il tempo che trovavano, fu presentato al
Municipio un memoriale collettivo, in cui D on Bosco era dipinto come un ar-
rolatore di giovinastri, capace da un giorno all’altro di diventare una minaccia
per lo Stato. Le Autorità si commossero. Don Bosco, chiamato a rispondere, in­
vocò u n ’inchiesta. Il perito che ebbe l ’incarico, non trovò traccia dei vandalismi
denunciati. Forse per questo la denuncia fu messa a dormire.
Intanto la salute di D on Bosco deperiva, destando inquietudini; fatiche e dis­
piaceri ne avevano talmente estenuate le forze, che fu necessario costringerlo al
riposo. Quindi nei primi giorni d ’ottobre, scelti sette giovani dei migliori, se li
condusse a Castelnuovo e ai Becchi, dove sperava che l ’aria nativa l ’avrebbe pre­
sto rinfrancato. Stava così male, che, giunto a Chieri dovette sospendere momen­
taneamente il viaggio e coricarsi. Nove giorni dopo, scrivendo dal paese a Don
Borei, che faceva le sue veci nell’oratorio, non potè per la debolezza terminare la
lettera; anzi poco appresso non si reggeva in piedi nemmeno per dire la Messa.
Tuttavia accudiva da lontano alla stampa di una sua Storia Ecclesiastica, che uscì
verso la fine del mese, quand’egli rientrava a Torino.
Qui nuove croci lo attendevano. Il segretario della Società dei M olini Dora
aveva steso e inviato al Municipio un secondo memoriale assai più grave del pre­
cedente. Don Bosco non ebbe modo di parare il colpo. Il 18 novembre un ordine
cortese, ma tassativo della Ragioneria imponeva a D on Bosco di lasciare libero il
luogo di piazza Emanuele Filiberto col primo dell’anno. Don Bosco si rimise u n ’al­
tra volta alla Provvidenza, che parve ben severa col maggior responsabile. “ Il se­
gretario, leggiamo nelle Memorie, di nome *** (non mai da pubblicarsi) autore della
famosa lettera, scrisse l ’ultima volta, giacché fu colpito da un tremolìo violento
alla destra, dietro a cui, passati tre anni, andò alla tomba. Dio dispose che il figlio
di lui fosse abbandonato in mezzo ad una strada e costretto a venire a chiedere
pane e ricetto nell’Ospizio che si aprì poi in Valdocco ” .
I
giovani toccavano i trecento. D i abbandonarli non cadde in mente a Don
Bosco neanche la menoma idea. Nelle domeniche ancora concessegli dava loro
convegno sulla piazzetta della chiesa e, messosi alla testa della schiera, la guidava a
una delle chiese dei dintorni, dove, ottenuti i debiti permessi e procuratosi qualche
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sacerdote per le confessioni, celebrava la Messa e spiegava il Vangelo. A S. Mar­
tino gli assidui mal tolleravano la presenza di tanti ragazzi alla loro Messa; inoltre
occupavano gran parte dello spazio, nè chi disponeva della chiesa permetteva che
vi si celebrasse una seconda volta.
Nel dopo mezzodì, fatto il catechismo a S. Martino, si passava la Dora e fin
verso il tramonto i campi incolti lungo il fiume offrivano ogni comodità alle ricrea­
zioni, che Don Bosco sorvegliava da un rialto. Ma faceva freddo ed egli non si
sentiva bene; perciò l ’ultima domenica dell’Avvento avvertì che a S. Martino non
si sarebbe più tornati e che intanto avrebbe cercato un altro luogo.
Fra quella domenica e la seguente ricorreva il Natale. I giovani si riversarono
dov’erano sicuri d ’incontrarlo, cioè all’ospedaletto, di cui dall’agosto aveva la di­
rezione spirituale. Che fare? Li condusse ad ascoltare le tre Messe in una chiesa
vicina, e punto fermo. Che differenza dal Natale dell’anno avanti! Gli piangeva il
cuore, pensando che i giovani finissero con stancarsi di seguirlo. Perciò con aria di
mistero: — Vedrete, vedrete, disse loro. Avremo una bella chiesa, una grande casa e
un cortilone. Quante belle cose faremo! —•Descriveva queste mirabilia con tanto ca­
lore, che i giovani lo ascoltarono a bocca aperta e gli credettero a occhi chiusi.
Dal Rifugio le sue ricerche un giorno lo portarono giù per un sentiero cam­
pestre, che poi divenne la via Cottolengo. Andando, scorse a sinistra una casa
isolata nel sito dove sorge oggi la chiesa succursale della parrocchia di Maria Au-
siliatrice. Avanzatosi per la stradicciuola che vi conduceva, osservò che la casa non
sembrava interamente occupata. N ’era proprietario un tal prete Moretta, al quale
tanto disse, che ne ottenne in affitto tre ambienti. Li arredò subito in modo da
trasformarli in tre aule per le scuole serali, sospese da circa sei mesi. V i potevano
capire un duecento ragazzi.
A buon conto un riparo dalla neve e dalla nebbia era trovato. Mancandovi
la cappella, si andava per la Messa alla Consolata o a S. Agostino. L ’inclemenza
della stagione non par metteva le ricreazioni all’aperto; quindi egli divertiva i gio­
vani con il gioco dei bussolotti. Validamente lo aiutava allora Don Càrpano, gio­
vanissimo sacerdote, ricco e amico dei fanciulli; gliel’aveva mandato Don Cafasso.
Non si creda che Don Bosco limitasse a’ suoi monelli il proprio apostolato
giovanile. Avendo amici fra gl’insegnanti delle scuole pubbliche, ve li sostituiva
con frequenza per l ’insegnamento religioso. Ogni sabato andava in due scuole
private assai note in Torino. Erano un ginnasio inferiore e un ginnasio superiore,
tenuti da due professori, dei quali faremo più avanti la conoscenza. I loro allievi,
che appartenevano a famiglie distinte, facevano festa al suo apparire. Confessava
pure sovente gli alunni dei Fratelli delle Scuole Cristiane, con i quali religiosi col-
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tivava amichevoli rapporti. Don Rua, loro allievo, dice nei processi che, quando
egli entrava in cappella per predicare, i giovanetti scattavano dal loro posto, come
se una corrente elettrica li scotesse, gli si stringevano intorno e gli afferravano le
mani per baciarle. Quando i superiori annunciavano che tra i confessori c’era Don
Bosco, volevano confessarsi tutti da lui.
Michelino Rua aveva allora otto anni. A i Molini Dora l ’incontro di quel ra­
gazzino, tutto lindo e ben composto, fu per Don Bosco una fortuna che lo com­
pensò largamente di tanti sacrifìci. Il piccolo rimase preso per sempre dalle sue belle
maniere; neanche Don Bosco lo perdette più di vista.
Ma per Torino si mormorava di Don Bosco. Certi conservatori subalpini,
com’erano allarmati per le ferrovie, così si adombravano per quella novità di scuole
serali e domenicali. Poc’anzi nel 1844 la venuta dell’abate Aporti col suo nuovo
metodo d ’insegnamento li aveva messi in apprensione. Nell’opera e negli atteg­
giamenti di Don Bosco essi fiutavano un che di rivoluzionario e financo di ereticale;
il fatto è che subornarono ecclesiastici influenti, perchè lo tenessero d ’occhio.
Dominati da simili timori, anche sacerdoti gravi si dicevano fra i denti: — Guai
a noi e alla Chiesa, se D on Bosco non è un prete come si deve! —■Alcuni ten­
tarono di riempire le orecchie anche a Don Cafasso; ma egli invariabilmente ri­
spondeva: — Lasciatelo fare.
U n primo ribollire di questi umori scoppiò in una delle consuete conferenze
sacerdotali. Venutosi ivi a parlare del catechismo dei fanciulli, il curato del Car­
mine ruppe il ghiaccio. Don Bosco disturbava la vita parrocchiale! Quando mai
si era visto sottrarre così i giovani ai propri parroci? Don Borei presente non durò
fatica a dimostrare che i giovani raccolti da Don Bosco nè conoscevano nè avreb­
bero mai conosciuto alcun parroco a Torino, essendo i più forestieri e gli altri
ignorantissimi e senza freno. La maggioranza gli diede ragione.
Tuttavia la questione fu rimessa con maggior solennità sul tappeto in u n ’adu­
nanza generale dei parroci urbani. La discussione per altro finì bene, cioè con un
voto d ’incoraggiamento a Don Bosco, perchè, mentr’era sentito il bisogno di si­
mili oratorii, come poteva ogni parroco aprirne uno per conto suo?
Scongiurato un pericolo, ecco sorgerne un secondo, e questo non più scon-
giurabile. G l’inquilini di Don Moretta ebbero pazienza per due mesi, ma poi non
ne poterono più. Quei diavoletti di ragazzi erano troppo numerosi e troppo ru­
morosi; le scuole serali specialmente non lasciavano dormire. Perciò, ant aut: o
Don Moretta licenziava Don Bosco o essi disdicevano l ’afEtto. Il buon prete tutto
mortificato fece presente a D cn Bosco il proprio imbarazzo; ma Don Bosco non
aveva aspettato tanto a prevedere e a provvedere.
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A quattro passi dalla casa di Don Moretta, dove oggi domina sui tetti un alto
fumaiolo rossigno che porta a disperdersi nell’aria le esali zioni della sottostante
fonderia, stendeva il suo verde un prato appartenente a certi fratelli Filippi. Lo
cingeva una siepe; verso il centro un casotto sembrava messo là a montare la
guardia. Don Bosco, già prima del licenziamento, aveva stipulato con i proprie­
tari un contratto di affitto, sicché allora non fece altro che trasportare in quella
specie di baita i poveri penati del suo oratorio e avvertire i giovani del mutamento.
Che quei quattrocento giovani potessero sentir gusto a passare le domeniche
in un prato, quando per giunta assidera il freddo dell’inverno torinese, sembrerà
inverosimile al lettore odierno; ma contro il fatto ragion non vale. Del resto non
guardiamo a un secolo fa con gli occhi di oggi. Al presente il tenore della vita
è più elevato nel popolo; allora invece i figli del popolo crescevano in gran parte
analfabeti, nè esistevano le molteplici istituzioni nostre di assistenza giovanile, sic­
ché non solo ai margini della città, ma anche nell’interno il divertimento dome­
nicale di moltissimi consisteva in far monellerie d’ogni sorta. Non per nulla i ra­
gazzi dell’oratorio festivo furono battezzati i birichini di Don Bosco. Con regalucci,
merenduole, passeggiatine e belle maniere Don Bosco se li tirava dietro dovun­
que volesse.
L’oratorio dunque nel prato si svolgeva così. Don Bosco di buon mattino vi
precedeva la sua turba, che arrivava a stormi. In un dato momento egli, seduto
sopra una scranna in mezzo a qualche decina d’inginocchiati sull’erba, ne ascoltava
le confessioni, mentre in altre parti sotto la sorveglianza di aiutanti si cantarellava,
si giocava, si ascoltava una lettura o un racconto. A un dato momento il rullo di
un tamburo chiamava a raccolta, uno squillo di tromba imponeva silenzio, e Don
Bosco diceva in quale chiesa si sarebbe andati per la Messa e la comunione. Quindi,
ora a squadre, ora a mo’ di processione e ordinariamente cantando, l ’esercito si
metteva in marcia. Fatte le divozioni, i ragazzi si disperdevano verso le loro case.
Dopo il pranzo, nuova adunata nel prato e animati divertimenti. Don Bosco
da un capo e Don Borei dall’altro con l ’aiuto di alcuni grandicelli stavano in vi­
gile sorveglianza, finché mediante i soliti segnali cessavano i giochi e i chiassi, i
giovani si dividevano secondo l ’età e l ’istruzione e ascoltavano il catechismo ; dopo
di che o Don Bosco o Don Borei, montato su d’una sedia, teneva un sermoncino.
Il canto delle Litanie suppliva alla benedizione. Poi si ripigliavano i trastulli fin verso
l ’imbrunire. Naturalmente, quando pioveva, si lasciava piovere e veniva modifi­
cato il programma della giornata.
In quei primi mesi del 1846 Don Bosco organizzò una prima scampagnata a
Superga, la quale fu poi seguita da tante altre fino al 1864. Nel modo come si svolse,
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vediamo darsi la mano lo zelo dell’apostolo e l ’istinto dell’educatore. Sentiva egli
che per rallegrare la marcia ci voleva il suono della banda o almeno di una fanfara,
che non c’era; vi supplì con il portentoso strepito di un tamburo, di una tromba,
di un violino e di una chitarra. Ai piedi della salita lo attendeva un cavallo fanta­
sticamente bardato. Glielo mandava, secondo l ’intesa, Don Borei, da lui spedito
innanzi a fare i preparativi; un biglietto del medesimo sacerdote gli diceva di sa­
lire tranquillamente con i cari giovani, perchè era pronto per tutti il pranzo. Don
Bosco, montato in sella e creato un momento di generale aspettazione, lesse ad alta
voce il messaggio fra il giubilo della già allegra carovana.
A Superga il re Carlo Alberto aveva nel 1833 eretta u n ’Accademia ecclesia­
stica per la formazione di u n ’eletta del clero agli alti studi religiosi. La presiedeva
allora il dotto Don Audisio. Questi e il parroco si prestarono volentieri a quanto
potesse occorrere per rifocillare e far stare allegra la brigata.
Finito il pranzo, Don Bosco chiamò attorno a sè i giovani e sulla spianata
della basilica narrò loro in modo piacevolissimo la storia del monumento; poi li
condusse a visitare la sala dei Papi, la chiesa e le tombe sabaude; li fece salire da
ultimo sulla cupola, donde si gode la vista di un panorama dei più incantevoli che
vi siano al mondo. Seguì la benedizione, nella quale un coro di voci bianche, da
lui accompagnate sull’organo, cantò il Tantum ergo con grande sorpresa degli ac­
cademisti e del popolo accorso, avvezzi a udire soltanto voci virili.
Dopo la funzione vennero innalzati alcuni palloni aerostatici. Infine Don Bo­
sco, a titolo di ringraziamento da parte dei suoi birichini, ebbe il coraggio di pian­
tare sotto le finestre del preside i suoi quattro suonatori e fargli lacerare gli orec­
chi con una serenata in suo onore! Uomo di spirito, quegli avrà ripetuto senza
dubbio il sit voluisse satis, o il suo equivalente laudando, voluntas.
A Torino quella sera con la descrizione della giornata il nome di Don Bosco
riempì le famiglie popolane; Don Bosco incominciava a divenire sinonimo di
quella novità che i ragazzi avevano imparato a chiamare oratorio.
Povero, bersagliato oratorio! Vi sono momenti storici, nei quali il dar colore
politico a u n ’istituzione anche ottima suol essere il mezzo più efficace per gettarla
a terra. S’entrava allora in un periodo di grandi rivolgimenti, in cui non tutto era
puro. Tre aspirazioni incontravano il favore popolare: svecchiare sistemi di go­
verno troppo ligi al passato, fiaccare la prepotenza dell’Austria sulle cose italiane
e far trionfare il principio di nazionalità. Anche cattolici d ’un sol pezzo potevano
in coscienza partecipare a moti di tal natura. Ma capi occulti miravano anche, se
non soprattutto, a ben altro. Miravano a colpire le libertà ecclesiastiche, l ’opera
della Chiesa nell’istruzione, l ’influenza del clero e l ’esistenza degli Ordini religiosi.
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I settari, impotenti a fare da soli, trassero nella propria orbita i liberali, molti dei
quali si lasciarono rimorchiare nella speranza di potere a tempo e luogo infrenare
i violenti. Il cittadino onesto, che non disponesse di aderenze e non amasse spin-
gersi tant’oltre, doveva navigare fra scogli assai pericolosi.
Don Bosco lo conobbe per prova nella primavera del 1846. Tutti vedevano,
com’egli riuscisse a farsi ubbidire da giovani d ’ogni risma. Gli uni lo ammiravano,
ma altri in tanta popolarità credettero di ravvisare u n ’arma sospetta. La pensava
così anche il marchese Michele Benso di Cavour, padre di Gustavo e di Camillo
e vicario di Torino, capo cioè del potere urbano, qualcosa più del nostro sin-
daco. Egli stesso un giorno, scorgendo un prete seduto sull’erba nei prati della
cittadella fra un gruppo di giovani e sentendo che si chiamava Don Bosco, aveva
esclamato: — Costui o è pazzo o è uomo pericoloso. — Quando pertanto le male
voci arrivarono fino a lui, lo chiamò issofatto ad audiendum verbum.
Il
colloquio, se non fosse stata la calma di Don Bosco, sarebbe finito tem­
pestosamente. Egli tentava di spiegare, di ragionare, di mostrare che i suoi assem­
bramenti non avevano nè potevano avere scopi politici; ma il marchese non per­
metteva discussioni e badava a ripetergli: — Lasciate in libertà quei mascalzoni! —
Infine gliela cantò chiara: — Io sono assicurato che le vostre radunanze sono pe­
ricolose, e perciò non le posso più tollerare.
Rientrato in casa, Don Bosco trovò la giunta alla derrata. Una lettera dei fra­
telli Filippi lo diffidava a ridare libero il prato entro quindici giorni. Essi non avreb­
bero mai immaginato che i suoi ragazzi dovessero pestare il terreno in modo da
farne addirittura una soda e sterile aia! Tutto congiurava contro l ’oratorio.
Della sua chiamata al vicariato Don Bosco informò subito l ’Arcivescovo, che
lo incoraggiò e gli promise protezione. Visitò pure il senatore conte Provana di
Collegno per raccomandargli i suoi giovani; questi, essendo Ministro al Controllo
generale, noi diremmo delle Finanze, godeva gran credito anche a Corte. Quando
potè ritenere che uno scambio d ’idee ci fosse stato fra il conte e il marchese, pregò
quest’ultimo di accordargli u n ’udienza. Ivi con parola pacata s’ingegnò di levargli
dall’animo i suoi preconcetti. Era un pestar l ’acqua nel mortaio.
Ma che cosa importa a lei di questi mascalzoni? conchiuse irritato il vi­
cario. Non si prenda di queste responsabilità!
Meno male che non insistette sull’ordine di scioglimento. Il marchese, buon
cattolico, non si sarebbe mai messo in conflitto con l ’Arcivescovo. La questura
però dai primi di marzo aveva avuto l ’ordine di sorvegliare Don Bosco; quindi
ogni domenica guardie di città e carabinieri facevano la ronda intorno al prato e
seguivano a distanza i birichini, quando erano condotti alla Messa o a qualche gita.
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Ora scendono in campo gli amici. Quel non sapersi staccare dai ragazzi, quel
cercarne sempre di nuovi, quel visitarli sul lavoro parvero sintomi di monomania
acuta. Amici sinceri ne aveva Don Bosco nel clero cittadino. Egli che da loro avrebbe
preferito un qualche aiuto più che non cinquanta consigli, doveva ascoltare da essi
raccomandazioni di non compromettersi facendo cose tanto contrarie alla tradizio-
naie gravità del clero torinese, di attendere prudentemente tempi migliori, insomma
di non voler tentare l ’impossibile. Don Bosco lasciava che dicessero, ma nelle sue
risposte affermava costantemente la certezza che avrebbe avuto un giorno chiesa,
casa, scuole, officine, maestri d ’arte, chierici, preti... A poco a poco s’ingenerò la
persuasione che egli perdesse ogni dì più la testa. I veri amici n ’erano addolorati; gli
indifferenti crollavano il capo; gli emuli ridevano. Intorno a lui si faceva il vuoto.
Le dicerie sull’impazzimento di Don Bosco si diffusero a segno, che la curia
arcivescovile, temendo l ’avverarsi di fatti lesivi della dignità sacerdotale, deputò
un prudente ecclesiastico a esaminarne le condizioni psichiche. Quegli agì con
estrema delicatezza; ma anche a lui la gran fidanza di Don Bosco parve indizio
certo di allucinazione mentale.
Il
caso fu presentato e discusso in una delle periodiche conferenze di morale
per il clero. Tutti convennero su due punti: che bisognava impedire in tempo
una dolorosa catastrofe e che la cura sollecita di un alienista avrebbe forse po­
tuto scongiurare ogni pericolo. Così s’arrivò alla conclusione che era necessario
internare Don Bosco nel manicomio e si avvisò ai mezzi opportuni. Don Pon­
zati, parroco di S. Agostino, e il giovane Don Nasi, amici entrambi di Don Bosco,
accettarono l ’incarico di eseguire la caritatevole missione.
Vennero presto sbrigate le pratiche preliminari. Un pomeriggio pertanto i due
messi, portatisi alPospedaletto e ricevuti da Don Bosco, si profusero da prima
in convenevoli; poi, venuti a dire delle sue fatiche per l ’oratorio, deplorarono
che si rovinasse la salute; intanto una boccata d ’aria gli avrebbe fatto bene e, se
gradiva, si offrivano di accompagnarlo fuori con la carrozza.
Chi troppo s’assottiglia, si scavezza. Per fortuna la follia di Don Bosco era
ancora abbastanza ragionante da argomentare che cosa covasse sotto i complimenti
degl’improvvisati diplomatici. Facendo l ’ingenuo, aderì all’invito e discese con
essi. La carrozza c ’era veramente, e carrozza chiusa. Uno dei due aprì nervosa­
mente lo sportello e accennò a Don Bosco di accomodarsi. — Mai! rispose. Prima
loro! — Deferenti, montarono. Mentre con la schiena rivolta a lui concertavano
dove lasciargli il posto, egli, un colpo allo sportello e: — Di trotto, al mani­
comio — disse al cocchiere, guardandolo con intelligenza. L ’uomo sferzò, sferzò,
sferzò; dopo non più di due minuti la carrozza infilava rumorosamente il portone
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■già spalancato, che in fretta e furia si richiuse dietro. I custodi che aspettavano un
prete solo, vedendone due che si agitavano per uscire e non sapendo quale fosse
il designato, non vollero sentir ragioni, ma li spinsero entrambi in una cella, ser­
rarono e andarono per istruzioni. Dopo circa un quarto d’ora, comparve il diret­
tore spirituale a metterli in libertà. Della pazzia di Don Bosco da quel giorno più
nessuno fece motto.
Tutto è bene quello che finisce bene; ma qui il proverbio si applica soltanto
all’episodio narrato, poiché bene non finirono allora per Don Bosco le maldicenze.
“ Tutti i miei collaboratori, scrive egli, mi lasciarono solo in mezzo a circa quat­
trocento ragazzi ” . Anche Don Cafasso? Don Cafasso “ consigliava di temporeg­
giare ” . Anche Dòn Borei? Don Borei “ taceva ” . El’Arcivescovo “ lasciava fare ” .
Triste spuntò per lui il 5 aprile 1846, domenica delle Palme, ultima del prato.
Confessati i ragazzi, s’incamminò con loro alla Madonna di Campagna, romita
chiesetta dei Cappuccini al di là della Dora. Aveva avvertito i giovani che vi si
recherebbero in pellegrinaggio per ottenere la grazia di trovare presto un altro
luogo. La recita del rosario e il canto delle litanie lauretane occuparono tutto il
tempo. Come dalla strada maestra s’imboccò il vialetto che mette al convento,
le campane sonarono a distesa. Mai in passato i giovani vi avevano incontrato sì
festosa accoglienza. E il bello si fu che il guardiano, uomo tanto serio che era
confessore del Re, per quanto indagasse, non venne mai a capo di scoprire chi
avesse ordinato o fatto quello scampanìo. Per questo si sparse la voce che le cam­
pane avessero sonato prodigiosamente da sè.
Alla sera, tutto come le altre volte; ma non come le altre volte appariva Don
Bosco. Qui egli solo può dirci che cosa gli passasse dentro. “ In sulla sera di quel
giorno rimirai la moltitudine dei fanciulli che si trastullavano; considerava la co­
piosa messe che si andava preparando pel sacro ministero; mi sentii vivamente
commosso. Era senza aiutanti, sfinito di forze, e di sanità male andata, senza sa­
pere dove avrei in avvenire potuto radunare i miei ragazzi. Pertanto, ritirandomi
in disparte, mi posi a passeggiare da solo, e forse per la prima volta mi sentii com­
mosso fino alle lacrime. Passeggiando e alzando gli occhi al cielo: — Mio Dio,
esclamai, perchè non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi
fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare ” .
La preghiera che, nata dal dolore, si levava a Dio sulle ali della speranza,
non fu vana.
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CAPO IX
LA TERRA PROMESSA
N el Communio della Messa di S. Giovanni Bosco il celebrante legge queste parole,
che S. Paolo nella lettera ai Romani scrive del patriarca Abramo: Contra spem
in spem credidit, ut fieret pater multarum gentium. Anche D on Bosco il 5 aprile 1846,
contro le umane speranze, credette e sperò di dover essere padre a molti e molti figli.
Egli pregava ancora piangendo in un angolo del prato e già dalla parte opposta
moveva verso di lui chi era mandato a tergergli il pianto. Il Rifugio, i Molini, la
casa col prato limitrofo non erano state se non le tre stazioni indicategli come
le tappe verso la sua terra promessa. Il messaggero della Provvidenza, povero orec­
chiante, aveva proprio preso Roma per toma: veniva a offrirgli un luogo per la­
boratorio. — Oratorio, non laboratorio — corresse Don Bosco. Ma per colui era
tutt’uno. Del resto anche a Don Bosco non importava il nome, ma la cosa.
E la cosa, a dir vero, aveva nome tettoia e distava appena duecento metri
dal prato delle lacrime. U n tal Pinardi proprietario gliela cedeva in uso per lire
trecento all’anno. — Ve ne sborso trecentoventi, rispose Don Bosco, se mi date
anche quella striscia di terreno per far giocare i miei ragazzi e se per la prossima
domenica mi mettete tutto in ordine. — Si addivenne tosto al contratto. L ’istru-
mento reca la data retrocessa del 1° aprile e la firma di Don Borei; la locazione
durava fino al 30 aprile del 1849.
Dopo il primo incontro col Pinardi, Don Bosco affrettò giubilante il passo
verso il prato per comunicare la lieta novella ai giovani, che, consci poc’anzi della
sua trepidazione, improvvisarono allora una dimostrazione di pazza gioia, prova
manifesta dell’attaccamento che ormai avevano alla sua persona.
Mettere tutto in ordine in una settimana voleva dire fare per lo meno un mezzo
miracolo. Bisognava abbassare di cinquanta centimetri lo sterrato della tettoia
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perchè questa avesse internamente maggiore altezza, fare l ’assito del pavimento,
riattare i cannicci del soffitto e i muri. Il padrone ci s’era impegnato e il miracolo
fu fatto. L’Arcivescovo dal canto suo aveva accordato a Don Borei la facoltà di be­
nedire la cappella, dedicata a S. Francesco di Sales. Questa predilezione di Don
Bosco per il Vescovo di Ginevra aveva il suo gran perchè; lo rivelerà egli stesso
fra breve nel regolamento degli oratorii, dove dirà che, se da questo genere di oc­
cupazione si vogliono cogliere buoni frutti, è necessario proporsi a modello il Sa-
lesio nella carità e nelle buone maniere. La domenica 12 aprile dunque, solennità
di Pasqua, non mancava nulla a prendere possesso della cappella. “ Una vera me­
schinità ” , scrive Don Bosco; eppure quella meschinità servì per sei anni.
Il senso di sicurezza che ne derivò, fece crescere presto fino a settecento il nu­
mero dei giovani; la bontà poi inesauribile di Don Bosco a escogitare continue novità
ne incatenava i cuori. I sacerdoti già suoi aiutanti ritornavano, altri se ne aggiunge­
vano: segnalato fra tutti 1’“ intrepido ” Don Borei. È Don Bosco che onora di que­
sta qualifica il pretino dalle umili sembianze, ma tutto fuoco di zelo sacerdotale. Di
siffatto lavorìo si toccavano con mano i frutti. Scrive Don Bosco: “ I giovani da
quel punto furono più assidui e meglio custoditi. Era meraviglioso il modo col
quale si comandava una moltitudine poco prima a me sconosciuta, della quale in gran
parte poteva dirsi con verità che era sicut equus et mulus, quibus non est intellectus ” .
I sacramenti, la Messa e il catechismo furono i tre capisaldi, su cui si reggeva
l ’ingranaggio dell’oratorio di S. Francesco di Sales. Aperta di buon mattino la
chiesa, chiamiamola così, Don Bosco sedeva al confessionale fin verso le nove,
quando saliva all’altare. A quelle ore preti non ne potevano venire in suo aiuto,
perchè tutti occupati nei loro ministeri domenicali; quindi guidavano le orazioni
e preparavano i compagni alla comunione i più giudiziosi fra i grandi, che conti­
nuavano l ’assistenza anche nel cortile. Dopo la Messa Don Bosco in un primo
tempo spiegò il vangelo ; appresso vi sostituì la narrazione della storia sacra e della
storia ecclesiastica, che gli porgeva il destro alle più svariate applicazioni. La spe­
rimentò di tanta utilità, che seguitò così per vent’anni. Il catechismo si faceva alle
quattordici e mezzo. Vi precedeva un’ora e più di ricreazione e vi tenevano dietro
un sermoncino e la benedizione. A poco a poco s’introdusse pure il vespro della
Madonna. Il rimanente della giornata veniva impiegato in vario modo: insegna­
mento delle preghiere a chi non le sapeva, lezioni di catechismo a più adulti che
non avevano ancora fatta la prima comunione, scuola di canto a quelli che posse­
dessero una bella voce, esercizio di lettura per gli analfabeti. La gran massa si ab­
bandonava ai divertimenti, mentre Don Bosco si aggirava qua e là sedando risse,
dicendo buone parole, sorvegliando e studiando tutto il suo piccolo mondo.
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L ’ora della separazione dava luogo ogni volta a scene senza precedenti negli
annali dell’educazione popolare. Cadeva la notte e bisognava ritirarsi. I giovani sa­
lutavano e risalutavano Don Bosco; poi tornavano indietro a gridargli la buona
sera e scorrazzavano avanti e indietro, come fa lo sciame dei moscerini svolazzanti
intorno alla fiammella. Ma il bello veniva alla fine, quando la massima parte se
n ’era andata. I più robusti, strettisi alla persona di Don Bosco, improvvisavano
con le braccia uno scanno, sul quale lo forzavano ad assidersi e fra il gaio vocìo
degli altri lo portavano in trionfo fino al rondò vicino, dove egli scendeva e into­
nava le prime strofe di alcune lodi sacre. Il canto della giaculatoria “ Lodato sem­
pre sia — il nome di Gesù e di Maria ” era il segnale del termine. Allora si fa­
ceva silenzio generale. Egli augurava loro la buona sera e una buona settimana e
con un affettuoso “ Arrivederci domenica ” prendeva congedo.
Che un prete si accaparrasse la benevolenza di tanta gioventù, dava nei nervi
a certa gente, che montò di nuovo la testa al Marchese di Cavour. Il vicario, chia­
mato Don Bosco u n ’altra volta nel suo ufficio, gli fece u n ’intemerata che mai la
più solenne. D on Bosco tentò ogni via per ispiegare la propria condotta; ma
l ’altro gli chiudeva sempre la bocca e non ci fu verso di placarlo.
Fallitagli già la speranza di avere l ’Arcivescovo dalla sua, il marchese risol­
vette di spuntarla per mezzo della Ragioneria. La convocò pertanto in seduta
straordinaria, alla quale ottenne che intervenisse pure l ’Arcivescovo. Se ne dissero
di cotte e di crude contro quei poveri ragazzi di Don Bosco. La votazione stava
per essere un disastro; ma sul più bello scoppiò la bomba.
Era presente il summentovato Conte di Collegno, che ripetute volte aveva
parlato delPoratorio al re Carlo Alberto, del quale Don Bosco scrive: “ M i ha
più volte fatto dire che egli molto stimava questa parte di ecclesiastico ministero,
paragonandola al lavoro delle Missioni straniere ed esprimendo vivo desiderio che
in tutte le città e paesi del suo Regno fossero attivate simili istituzioni ” . Anzi
per strenna del Capo d ’anno gli aveva mandato un sussidio di trecento lire con la
dedica: “ Ai monelli di Don Bosco ” .
Orbene il conte, rimasto fino all’ultimo silenzioso, quando la discussione
s’avvicinava alla chiusura, domandò la parola. Avutala, disse che aveva l ’onore­
vole incarico di comunicare all’assemblea un augusto volere. Sua Maestà glie-
l ’aveva espresso in questi termini: “ È mia intenzione che queste adunanze festive
siano promosse e protette; se vi è pericolo di disordini, si studi la maniera di pre­
venirli e d ’impedirli Più nessuno interloquì, e l ’adunanza fu sciolta.
Il
marchese s’allontanò corrucciato. Volle rivedere Don Bosco, al quale, pur
non mettendone in dubbio le buone intenzioni, ripetè i suoi timori, il proposito
II
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11.10 Page 110

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di farlo sorvegliare e la minaccia dei rigori della legge al primo atto compromet­
tente. Ma da quel giorno parecchi ragionieri si fecero di Don Bosco amici e be­
nefattori.
Le guardie pedinavano realmente le persone dell’oratorio e spiavano ogni cosa;
nè facevano per burla, perchè volta per volta dovevano presentare i loro bravi
rapporti. Uomini ordinariamente ben poco di chiesa e costretti a piantonare anche
le funzioni, ascoltavano certe prediche!... Don Bosco il 27 dicembre 1877 disse
che allora predicando batteva forte sui novissimi, apposta per far breccia in loro,
e con quali effetti! Or l ’uno or l ’altro gli si accostava dopo, pregandolo di confes­
sarlo. S’immagini quali fossero poi le loro relazioni sull’andamento dell’oratorio.
Don Bosco non ignorava essere cosa che fa ruminar fiele il restare sotto l ’im­
pressione di una sconfitta; quindi volle ad ogni costo rabbonire il marchese.
Grazie ai buoni uffici di una persona accetta, impetrò di poterglisi ripresentare. La
conversazione si svolse serena, sicché quegli fini col dichiararsi pienamente soddi­
sfatto. Rimaneva nondimeno un punto per lui alquanto oscuro, dove cioè trovasse
Don Bosco i fondi per sostenere tante spese. Rispose che egli confidava unica­
mente nella divina Provvidenza ; ma la risposta dovette essere data con sì avvincente
amabilità, che il marchese si commosse e gli donò duecento lire. In seguito Don
Bosco non cessò di visitarlo, accolto sempre da lui con vera cordialità, massime
nel lungo e doloroso periodo dell’ultima sua malattia.
Nelle autorità costituite Don Bosco distingueva fin d’allora le persone dai loro
atti. Alle persone portava rispetto nè tollerava che i suoi dipendenti, secondo il
malvezzo comune, le denigrassero; degli atti giudicava alla stregua delle leggi divine
ed ecclesiastiche. Se era necessario, vi si opponeva; ma necessario non giudicò mai
il venir meno per questo alle esigenze della carità e della moderazione cristiana.
Aveva vinto il marchese di Cavour, ma non potè vincere la marchesa di
Barolo. Era stata essa otto mesi a Roma per far approvare da Gregorio XVI le re­
gole de’ suoi istituti. Al ritorno parecchie cose le dispiacquero. Le dispiacque che
il suo cappellano avesse dato a ridire nelle sfere municipali e che ciò nonostante
si ostinasse a distrarre la propria attività dalle opere del Rifugio per correre dietro
ai giovani; le dispiacque non meno che egli avesse causato, secondo lei, dicerie
sulle condizioni del suo cervello. A tutto questo ella non vedeva che un rimedio:
distaccarlo da quei benedetti ragazzi.
E il momento le parve propizio. La salute di Don Bosco declinava a vista
d’occhio. Un riposo di alcuni mesi lontano da Torino, rimettendolo in forze, gli
avrebbe fatto dimenticare la sua ragazzaglia. Gliene parlò seriamente alla presenza
di Don Borei e gli offerse cinquemila lire, perchè andasse fuori e si sottoponesse
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a una certa cura. Don Bosco la ringraziò di cuore, ma francamente le disse che egli
non si era fatto prete per curare la sua salute.
Caritatevole in sommo grado, ma autoritaria, l ’aristocratica signora si sentì
ferita da simile risposta; tuttavia volle rinnovare il tentativo. Irremovibili entrambi
nelle loro decisioni, non si sarebbero mai potuti intendere sull’oggetto in con­
trasto. Finalmente la dama gli annunciò che egli era congedato; ben compren­
dendo per altro che il licenziare un prete così su due piedi avrebbe fatto nascere
cattivi sospetti, gli concesse ancora tre mesi di tempo.
Nell’attesa tornò varie volte all’assalto. U n giorno gli mandò Silvio Pellico,
suo segretario, perchè si adoperasse a smuoverlo dal proposito. Poi un abbocca­
mento con Don Cafasso la indusse a spiegarsi meglio per iscritto. A i pensieri di
lei il Pellico diede forma squisita in una lunga lettera a Don Borei, nella quale la
più luminosa espressione è là dove la marchesa afferma che nel suo primo incontro
con D on Bosco trovò in lui quell’aria di raccoglimento e di semplicità propria
delle anime sante ” . Non accennava però a recedere dalla sua deliberazione; ma
neanche Don Bosco si lasciò espugnare. Tutto ciò avveniva nella prima metà di
maggio del 1846; in tre mesi Don Bosco aveva tempo di fare tante cose.
Una di queste, anzi la più urgente, era di procurarsi un tetto. La cappella
dell’oratorio s’incorporava a una casa del Pinardi, appigionata nelle sue varie parti
a gente di fama molto equivoca. Don Bosco decise di conquistarsi a poco a poco
l ’intero edifìcio. Perciò, divenute vacanti tre stanze, le affittò pagando subito, ma
limitandosi a prenderne le chiavi per evitare contatti coi pessimi inquilini.
Certi uomini grandi si direbbe che hanno il cervello a scompartimenti o a settori
isolabili, sicché possano metterne in azione parecchi nel medesimo tempo, senza
che si producano collisioni o interferenze. Occupazioni e preoccupazioni della
natura di quelle descritte fin qui non distrassero punto Don Bosco da lavori di
pensiero e in cui si vede com’egli intendesse di non camminare a ritroso dei tempi.
Correvano gli anni dei congressi agrari. E vero che tali riunioni facevano da
paravento a segrete intelligenze politiche; pure determinarono in Italia una buona
corrente d’idee e di opere, che davano impulso al progresso agricolo della penisola.
Don Bosco volle recarvi il suo contributo. Figlio di una fra le più vinicole regioni
d ’Italia, compose e pubblicò un manuale intitolato L ’Enologo Italiano, in cui trat­
tava ampiamente della produzione, della conservazione e del commercio dei vini.
U n altro argomento di pubblica utilità richiamò la sua attenzione. Col 1850
doveva andar in vigore un regio editto del 1845 sull’uniformità dei pesi e delle
misure, fondata sul metro. Il provvedimento imposto da esigenze economiche e
sociali sconvolgeva le vecchie abitudini del popolo piemontese, esponendo anche
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gl’ignari a pericoli d’inganno da parte di malvagi speculatori. Per illuminare le
menti, popolarizzare la novità e rendere più difficili le frodi, egli compilò un trat-
tatello sul Sistema metrico decimale, diffondendolo a migliaia di copie per soli dieci
centesimi la copia. Gliene piovvero encomi dalla stampa e dalle autorità.
Don Bosco ebbe anche una genialissima trovata. Compose otto dialoghi, che
fece recitare a mo’ di dramma, nel quale otto coppie di attori esponevano succes­
sivamente i principii fondamentali del sistema e tutte le relative applicazioni. Sul
palco l ’apparato scenico variava secondo l ’impostazione dei singoli dialoghi. Il
preparare i giovani ad eseguire tale rappresentazione gli dovette costare chi sa
quante fatiche; ma i signori che vi assistettero, la gustarono assai. Il celebre peda­
gogista Aporti disse: — Don Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace
per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo s’impara ridendo.
Ma chi troppo tira, l ’arco si spezza. In luglio l ’instancabile lavoratore fu a un
pelo di cadere sulla breccia. La sera di una domenica, tornato a casa dalle solite
fatiche, ebbe uno svenimento. Riavutosi, dovette mettersi a letto. Si manifestò in
breve una fiera bronchite. Il male prese rapidamente una forma di gravità così
allarmante, che di lì a poco gli furono amministrati gli ultimi Sacramenti. Le spe­
ranze di salvarlo si attenuavano di giorno in giorno.
Lo spettacolo dei giovani si fece allora commovente. Ne assediavano dì e notte
la dimora. Sì, anche di notte, perchè gli uni, smaniosi di vederlo e respinti ine­
sorabilmente dall’infermiere, pazientavano là fin molto tardi nella speranza di
poter entrare, e altri si prestavano a gara per l ’assistenza notturna. Quante preghiere
e quante comunioni facevano per il caro infermo! Taluni vi aggiunsero voti scon­
siderati, come di digiunare per parecchi anni. Don Bosco attendeva tranquillo la
sua ultima ora, che sembrava ormai prossima a scoccare.
L’inconsolabile Don Borei riteneva per fermo che, se Don Bosco pregasse
anche lui per la propria guarigione, Dio l ’avrebbe esaudito. Una notte, veden-'
dolo agli estremi, cercò d’indurvelo. Egli tacque. L’altro insistette. Gli rispose con
un fil di voce: —- Lasciamo che si compia la volontà di Dio. — Finalmente, per
fargli piacere, mormorò queste parole: — Sì, o Signore, se vi piace, fatemi gua­
rire. —■Don Borei si sentì allargare il cuore, come narrò tante volte negli anni se­
guenti. Infatti non restò deluso; il dì appresso i medici, che temevano di trovarlo
morto, lo dichiararono fuori di pericolo.
A sì lieta novella i giovani nell’oratorio spiccavano salti e mettevano grida di
gioia. Una domenica sera eccolo avanzarsi appoggiato al bastoncello. Che delirio
nel cortile! Alcuni più aitanti, afferrato un seggiolone, gli corsero incontro, ve lo
fecero adagiare e lo portarono in mezzo alla turba festante. In cappella Don Borei
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parlò della grazia ottenuta; poi intonò il T e D eum . Prima di andar via, D on Bosco,
informato di quei tali voti, ne fece la commutazione; distribuì inoltre piccoli re­
gali e promise che avrebbe comperato nuovi giochi. Dopo partì per la convalescenza.
Era la seconda settimana di agosto. Ben crollato da un somarello, com ’egli scrisse
a Don Borei, accompagnato da un giovane studente oratoriano, giunse a Castel-
nuovo. La filiale affezione dei ragazzi per la sua persona giovò grandemente a Don
Borei per tenere in vita l ’oratorio, durante la sua assenza.
Quest’assenza si protrasse per tre mesi. Egli scriveva di tratto in tratto al suo
rappresentante, da lui ricevendo pronte risposte. Col tempo i giovani, riunendosi
in squadre, andavano a trovarlo. Abbreviavano bensì il cammino, prendendo
scorciatoie; ma fra andata e ritorno era sempre una bella passeggiata.
Lo dice anche il Vangelo che, dov’è il cuore, ivi è il nostro tesoro. Si aveva
un bel raccomandare a Don Bosco di vivere tranquillo ai Becchi per qualche anno!
Il cuore di Don Bosco era a Valdocco ed egli aspettava Ognissanti per farvi ritorno.
Una sola cosa lo impensieriva, l ’affare dell’alloggio. Appena partito lui da
Torino, la marchesa aveva dato ordine di sgomberarne l ’appartamento per instal­
larvi il nuovo cappellano. Allora Don Borei fece trasportare i pochi oggetti di Don
Bosco nelle camere affittate, arredandone due molto economicamente con mobili
acquistati per incarico di lui sul mercato delle robe usate. Ma abitavano ancora
nella casa pigionali, che era indecoroso per un prete e pericoloso per altri avere
vicini. Dico per altri, giacché Don Bosco, non avendo più come prima chi lo ser­
visse, doveva necessariamente prendere con sé qualche persona che accudisse alla
cucina, alla pulizia e a tutto il resto. Ora m entr’egli studiava una soluzione, Don
Cinzano un giorno gl’insinuò che avrebbe potuto condurre con sé la madre.
Fu proprio l ’uovo di Colombo. Ma come rimuoverla a quell’età dal suo pic­
colo regno dei Becchi? E per condurla dove? In un mondo tu tt’affatto diverso
e fra sacrifici d ’ogni sorta. Pensando e ripensando, si rappresentò pure la santità
di quella donna e le fece la proposta. Ella misurò di primo tratto il certo che la­
sciava e l ’incerto a cui andava incontro; poi conchiuse dicendo: — Se ti pare che
questa cosa possa piacere al Signore, io sono pronta a seguirti. — Don Bosco be­
nedisse Iddio, ringraziò la madre e si accinse ai preparativi della partenza.
Che strappo al cuore di mamma Margherita nel dire addio a quella casuccia,
che era per lei una reggia e un nido di memorie! Il mattino del 3 novembre scese
per l ’ultima volta la scaletta di legno che le scricchiolava quasi gemendo sotto i
piedi, si voltò indietro per impartire ancora qualche ordine, e fra le lacrime dei
figli, dei nipotini e dei conoscenti volse il passo giù verso il noto sentiero. Don
Giovanni si unì a lei, e uno dietro l ’altra si misero per il viottolo. Ogni pianta, ogni
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pietra, la fontana sembravano aver occhi e dare a Margherita un ultimo sguardo
di muta tenerezza. Eccoli sulla strada maestra. Un’occhiata ancora al colle vestito
dei primi raggi del sole, un’altra occhiata alla biancheggiante via da percorrere, e
avanti. La madre portava infilato al braccio un canestro di biancheria con altri
effetti più indispensabili e camminava un po’ inclinata sul fianco opposto; il figlio
le andava a sinistra, reggendo con la mano un involto che conteneva alcuni qua­
derni, un messale e il breviario. Viaggiarono così a piedi fino a Torino.
Al rondò di Valdocco s’imbatterono in un prete, Don Vola, il più giovane
dello stesso nome. Egli trasalì al vedere com’erano stanchi e impolverati; sgranò
gli occhi, quando seppe che la donna era la madre di Don Bosco. Dopo la presen­
tazione, la prima domanda fu perchè avessero fatta tanta strada a piedi. Capì che
venivano alla mercè della Provvidenza. Commosso fino alle lacrime, si frugò nelle
tasche; ma, non trovando altro, si staccò l ’orologio e lo mise nelle mani dell’amico.
Don Bosco disse alla madre: — Ecco che la Provvidenza pensa a noi.
Pochi minuti dopo erano dinanzi alla nuova dimora. La povertà vi regnava
sovrana. “ Al vederci in quelle camere, scrive Don Bosco, sprovvisti di tutto, mia
madre disse scherzando: — A casa aveva tanti pensieri per amministrare e coman­
dare; qui posso stare più tranquilla, perchè non ho nulla da maneggiare e nessuno
da comandare Alcuni ragazzi dell’oratorio, accortisi che c ’era Don Bosco e
venuti sotto la finestra, li udirono cantarellare la lode all’Angelo Custode, che co­
mincia col verso: “ Angioletto del mio Dio Don Bosco se l ’era fatta comporre
da Silvio Pellico e applicatavi l ’aria di una canzonetta popolare, l ’aveva insegnata
ai giovani. Chi sa quante volte nel passato ottobre, dedicato agli Angeli Custodi,
mamma Margherita l ’aveva sentita dai ragazzi di Morialdo attorno a suo figlio!
Corsa la voce del suo arrivo, una fiumana di giovani la domenica seguente
inondò l ’oratorio, essendosi ai vecchi uniti dei nuovi, attratti dalla curiosità di
vedere quel Don Bosco, del quale avevano udito tanto parlare. Per la sera Don
Cafasso aveva preparato una festicciuola in suo onore. Don Bosco, seduto sopra
un’umile sedia presso la cappella e mirando dinanzi a sè la folla dei giovani, ascoltò
qualche canto religioso. Poi Don Càrpano gli lesse alcuni suoi versi, che vennero
cantati da un coro su musica di Don Nasi. Un giovane che da tempo seguiva Don
Bosco quasi come l ’ombra il corpo, Giuseppe Buzzetti, conservò la poesia. Non
è un capolavoro; ma ha una finale che proclama Don Bosco: L’uomo saggio, l’uomo
pio, - L ’uomo adomo di virtù.
Il concetto è ingenuamente espresso; ma rispondeva senza dubbio all’opinione
che si formava di Don Bosco chi allora lo conosceva e lo comprendeva. Quanto
a sè, egli scrive: “ Ritornando all’Oratorio, ho continuato a lavorare come prima ” .
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CAPO X
L ’OPERA DEGLI ORATORII
T T olere o no, c ’era stato sempre fin qui un p o ’ di caotico nell’ammassamento
▼ di tanti giovani. Instabilità di sede e quindi vita errante, sempre angustie
di spazio e difetto di locali, scarsezza di aiutanti e in quel certo caso diserzione
generale, due assenze di Don Bosco, una lunghetta e l ’altra assai più lunga, ave­
vano impedito il coordinamento dei mezzi e la continuità metodica, due coeffi­
cienti essenziali per una buona disciplina. Certo, la disciplina di un oratorio fe­
stivo, che agglomera solo periodicamente giovani d’ogni fatta, non è la disciplina
di un collegio; ma anche là un ordine ci vuole. Una mente creatrice suol essere pure
una mente organizzatrice ossia ordinatrice. Don Bosco, messo piede in terra ferma,
stimò giunto il momento di dare assetto all’Oratorio così com ’egli lo concepiva.
E lo concepiva in una forma differente dal passato. Oratorio aperto non già
poche ore della domenica, ma gl’interi giorni festivi; giovani accettati sempre, pur­
ché non troppo piccoli, e non licenziati mai, purché non fisicamente o moralmente
pericolosi; sacerdoti familiarizzanti con loro, occupati in farli divertire, a istruirli
nella dottrina cristiana e assuefarli alle pratiche religiose; autorità paterna del di­
rettore su di essi e paterno interessamento per il loro bene spirituale e materiale
durante la settimana. Egli intendeva per tal modo di reagire contro l ’avversione al
prete, che si andava inoculando nel popolo, di ovviare alla crescente trascuratezza
delle famiglie nell’allevare cristianamente i figli e soprattutto di mettere al sicuro
la gioventù abbandonata, esposta al vizio e al disonore.
Per dare corpo all’idea, la prima cosa fu reclutare e agguerrire un personale.
Oltre a Don Borei, suo braccio destro, altri preti gli si offrivano per aiutanti; ma
egli contava assai sopra quelli che oggi chiameremmo giovani di Azione Cattolica.
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Li pescava, come ho già accennato, nelle scuole secondarie, cosa allora relativa-
mente facile, non essendo laicizzato il pubblico insegnamento. Questi suoi cate-
chisti ricevevano da lui direttive pratiche e opportuni incitamenti in conferenze,
a cui li convocava nei giorni di vacanza. I più intelligenti e abili lo aiutavano pure
nelle scuole serali. In queste riserbava a sé una classe di baffuti, che divenne
sempre più numerosa e gli procurò vere consolazioni.
Seconda cosa, formulare un regolamento. Non lo estrasse da libri, non se lo
stillò dal cervello, ma lo scrisse sotto dettato, il dettato dell’esperienza. È un do­
cumento insigne di pedagogia popolare cristiana, che racchiude in germe gli ele­
menti primi della Società Salesiana e dello spirito che la doveva informare.
Terza cosa, essere in casa sua. Stare a pigione è stare in modo precario e non
poter fare tutto ciò che si vuole. Ci pensava egli, ma aspettò l ’ora della Provvidenza.
Scoccata quella, comperò dal Pinardi casa e terreno adiacente. Chi oggi ammira
il grandioso prospetto iconografico annesso da Don Giraudi al suo Oratorio di Don
Bosco, se ignora la storia, non sogna certo che all’irradiazione di tanti imponenti
fabbricati fu punto di partenza il rustico casolare di un predio suburbano. D ’allora
in poi Don Bosco non si arrestò più, finché non ebbe lentamente, ma progressi­
vamente assicurato il suolo necessario per il centro della sua futura Opera mondiale.
Provvide anche a libri per la scuola e per la chiesa. Due testi scolastici erano
la sua Aritmetica, di cui ho già parlato, e una sua Storia Sacra, la prima che me­
ritasse davvero l ’appellativo di popolare. Mancava un manuale di pietà, che fosse
adatto alla gioventù e ai tempi. Colmò anche questa lacuna, pubblicando nel 1847
il notissimo e fortunatissimo Qiovane Provveduto, così rispondente al bisogno, che
in quell’anno stesso se ne fecero due ristampe con un totale di ventimila copie.
La musica vocale, destinata a mantenere l ’allegria nell’Oratorio e a rendere
piacenti le funzioni, richiamò pure la sua solerte attenzione. Da prima ne fu egli
stesso il maestro. Il suo metodo d’insegnamento levò rumore nel mondo musicale
della città, dove non si conosceva il metodo simultaneo. Ogni allievo di canto ri­
ceveva lezioni individuali; poi allievi così istruiti si facevano scritturare nei cori.
Don Bosco invece insegnava a decine di allievi contemporaneamente. Quindi mae­
stri di cartello per più settimane assistettero quasi ogni sera alle sue lezioni. “ Io
non sapeva un milionesimo di quanto sapevano quelle celebrità, scrive egli; tut­
tavia la faceva da maestro in mezzo a loro ” .
Allorché in seguito dalle esercitazioni scolastiche passò alle esecuzioni, non
sapeva dove mettere le mani per trovare composizioni facili e acconce alla qualità
de’ suoi cantori; ed eccolo improvvisarsi compositore. Compose Messe, compose
Tantum ergo e altro. Intrecciando con qualche raro motivo suo arie di laudi sacre
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conosciute e tratti di canto gregoriano talora un po’ variati, e facendo egli da di­
rettore d ’orchestra, otteneva effetti utili al suo scopo. Nel 1887 a Lanzo, in riva
alla Stura, ricordò una sera e canticchiò con commozione sua e di chi l ’udiva un
proprio Tantum ergo di quei tempi eroici.
Così le feste religiose, parte importante nelPOratorio di Don Bosco, riusci­
vano più belle. A rallegrarle contribuivano pure colazioni, giochi speciali, piccole
lotterie, luminarie, palloni aerostatici e per S. Luigi processione e fuochi pirotec­
nici. Dopo il Qesuita M oderno del Gioberti, edito nel 1847, era di moda dileggiare
San Luigi. Don Bosco, senza perdere tempo in polemiche, con la pompa e l ’al­
legria dell’annua festa ne imprimeva nelle menti giovanili un’idea simpatica. Af­
finchè servisse di preparazione, scrisse e diffuse largamente un opuscolo con un
cenno biografico del Santo, più sei letture per la pratica delle sei domeniche in
suo onore e le preghiere per la novena. Inoltre istituì la Com pagnia di S . Luigi
approvata nel ’47 dall’Arcivescovo, il quale consentì di essere iscritto in capo
alla lista dei soci. V i si inscrisse pure il marchese Gustavo di Cavour, fratello
maggiore di Camillo. Pare a taluno cosa incredibile, ma è invece cosa attestatis­
sima che i due fratelli parteciparono alla processione, incedendo ai lati della
statua e tenendo un cero acceso. Camillo, studioso di fenomeni sociali, era come
pochi in grado di apprezzare la bersagliata opera di Don Bosco.
Le feste manifestavano e insieme infervoravano la pietà degli oratoriani. Tutta
una sapiente coordinazione di mezzi disponeva in tali circostanze i giovani a con­
fessarsi e a fare la comunione. Fra le spossanti fatiche sostenute per preparare e
dirigere quelle celebrazioni (e chi ha pratica di oratorii festivi salesiani sa ciò che
qui si dice) Don Bosco gustava una gioia di paradiso, vedendo i suoi giovani acco­
starsi compatti al tribunale di penitenza e alla mensa eucaristica.
Nè si creda che egli badasse soltanto al grosso del suo esercito. N o; nella massa
distingueva i soggetti che mostravano migliori attitudini e li curava a parte in tre
modi: aggregandoli alla Compagnia di S. Luigi, abituandoli a farsi apostoli in mezzo
ai compagni, e procurando loro la comodità degli esercizi spirituali. Quanto a
questi esercizi, dopo tre esperimenti anteriori, nel 1850, scelti 109 giovani di cui si
conservano i nomi, li condusse a una settimana di ritiro nel piccolo seminario di
Giaveno, regalandoli dopo di una deliziosa gita alla Sagra di San Michele. Erano
le buone occasioni, nelle quali gettava le reti per pescare vocazioni ecclesiastiche.
Il fiorire dell’Oratorio risollevò il problema parrocchiale. I parroci viciniori
tornarono a domandarsi se fosse proprio un bene sottrarre tanta gioventù alle cure
dei loro legittimi pastori. Quello del Carmine presentò nuovamente la questione
ai colleghi; ma poi accettò da Don Bosco l ’invito di fare un sopraluogo e sul suo
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esempio vi si recarono altri. Tutti dovettero convenire sulla giustezza di un’espres­
sione dell’Arcivescovo che aveva definito l ’Oratorio, la Parrocchia dei fanciulli
abbandonati.
L’Arcivescovo guardava realmente con favore l ’Oratorio. Il giorno di San
Pietro del 1847 lo onorò della sua presenza. Don Bosco si fece in quattro per ac­
coglierlo come si conveniva. Al suo ingresso gli rivolse alla presenza di tutti un
saluto, leggendo un suo indirizzo riboccante di affetto. La povera cappella era ve­
stita a festa. Monsignore disse la Messa, distribuì la comunione e amministrò la
cresima. All’uscita i giovani ricevevano pane e companatico, procurato loro dal
caritatevole Pastore. Infine assistette nel cortile a un trattenimento diviso in due
parti. La prima era a mo’ di accademia, la seconda di teatrino: accademia e tea­
trino, che aprirono la serie a un’infinità di simili saggi, passati in uso presso gl’isti­
tuti salesiani. Monsignore non vi ricercò pregi formali, ma ben ne afferrò tutto il
valore ideale. Le acclamazioni che lo salutarono al partire finirono col fargli toc­
care con mano una speciale opportunità dell’Oratorio di Don Bosco, quella di
affezionare la gioventù alla persona del Vescovo, in momenti nei quali l ’autorità
vescovile veniva qua e là fatta segno a odiose misure.
A pubblici saggi i giovani non erano nuovi. Sul principio dell’anno ne ave­
vano dato uno sopra il catechismo, la storia sacra e la geografia palestiniana; cosa
modesta in sè, ma rilevante per gli spettatori, fra cui il celebre pedagogista abate
Aporti e il professor Rayneri, ordinario di pedagogia nella Regia Università. Que­
st’ultimo disse agli studenti del suo corso che, se volevano vedere della buona pe­
dagogia in pratica, andassero a osservare ciò che faceva Don Bosco nell’Oratorio.
Poco dopo venne la volta delle scuole serali, che sostennero la loro prova dinanzi
a una commissione municipale. Vi fu senza dubbio del merito, se la relazione
dei commissari fruttò a Don Bosco lo stanziamento di lire trecento annue sul ci­
vico bilancio, come sussidio in favore della sua opera.
Le api di un alveare, quando si moltiplicano troppo, sciamano. Così fecero
nel 1847 i giovani dell’Oratorio di Valdocco. Erano arrivati a circa settecento»
piuttosto più che meno, e non si sapeva come farveli stare tutti. Un’indagine sulla
loro provenienza diede per risultato che molti abitavano nella metà opposta di
Torino. Di qui rampollò in Don Bosco l ’idea di aprire un secondo oratorio da
quelle parti. L ’Arcivescovo approvò il divisamente.
Detto fatto: Don Bosco, cercando, scoprì il luogo opportuno sul viale del Re,
oggi corso Vittorio Emanuele II, tra la stazione ferroviaria di Porta Nuova e il
parco pubblico del Valentino. La regione somigliava allora a Valdocco: una vasta
campagna con poche casupole sparse. Egli pose gli occhi sopra una di queste, che
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13.1 Page 121

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aveva accanto una tettoia e davanti un cortile. La proprietaria nel contrattare per
la pigione stava sul tirchio e le trattative minacciavano di arenarsi, quando una for­
midabile scarica elettrica la riempì di terrore. Infuriava uno di quegli uragani che
paiono il finimondo. Se Dio la scampava dal fulmine, si disse pronta a diminuire
le sue pretese. Ed ecco tosto cessare lampi e tuoni e venir giù una pioggia torren­
ziale. Il contratto fu stipulato a lire 450 annue. Licenziati sul tamburo gl’inquilini,
i muratori prepararono rapidamente la cappella, che venne benedetta verso la
fine dell’anno e dedicata a S. Luigi Gonzaga. L ’oratorio però, del quale Don Bosco
aveva affidata la direzione a Don Càrpano, vi si era inaugurato nella festa del­
l ’immacolata. Don Rua, che giovanetto e chierico vi fece il catechismo, dice nei
processi che i giovani vi superavano i cinquecento.
Due anni dopo si aggiunse un altro oratorio. Veramente preesisteva già, seb­
bene piuttosto sotto forma di ricreatorio. Nel 1840 Don Cocchi, il futuro fonda­
tore dell’istituto degli Artigianelli, l ’aveva aperto nella parrocchia dell’Annunziata,
in un sobborgo detto di Vanchiglia, presso il Po; ma nel 1849 lo dovette chiudere.
Eppure se c ’era quartiere che avesse bisogno di un’opera consimile, era proprio
quello. L ’infestava una masnada di giovinastri denominata cocca di Vanchiglia,
terrore non solo della gente pacifica, ma anche della forza pubblica. A Torino si
chiamavano cocche certe perverse associazioni giovanili, distinte fra loro dal nome
dei borghi, dove compievano le loro prodezze; quella di Vanchiglia passava per la
più famigerata di tutte. Conscio del gran bisogno, Don Bosco riaperse a sue spese
quel porto di salute nell’ottobre del medesimo anno, ma lo trasformò, applican­
dovi il suo regolamento. Lo pose sotto il patrocinio dell’Angelo Custode e fino
al 1866 vi mandò da Valdocco ogni domenica il personale occorrente.
Poco prima che avvenisse quella chiusura del ricreatorio a Vanchiglia, la pru­
denza di Don Bosco aveva scansato un pericolo. A certi suoi amici molto autore­
voli era parso che gli oratorii esistenti e futuri si dovessero confederare sotto il
governo di una commissione, che ne tutelasse gl’interessi e facesse da giudice nelle
eventuali controversie. Il disegno mirava ad assicurare la stabilità degli oratorii. Il
canonico Lorenzo Gastaldi a nome dei suddetti signori non omise tentativo di sorta
per guadagnare Don Bosco alla loro causa; gli prospettava anche il miraggio di
buoni sussidi. Ma Don Bosco non si sarebbe mai costretto in quella cappa di
piombo, che gli avrebbe tolta ogni libertà di iniziativa, riducendolo a essere sem­
plice direttore dell’Oratorio di Valdocco. E poi quale stabilità assicurare, dove non
sarebbe stata possibile l ’unità di spirito? Gli uni, per esempio, vagheggiavano di
mischiarsi in politica, ed egli mai e poi mai. Se essi avevano il loro piano, egli pure
teneva il suo, dichiarò francamente: ognuno andasse per la propria strada. Essere
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a lui necessaria l ’autonomia per avere intorno a sè molti giovani, ed anche preti
e chierici interamente sotto la sua dipendenza. Il signor Durando, superiore della
Missione, ciò udendo da lui in un’adunanza, gli domandò trasecolato se mirasse
a fondare una Congregazione; e arguendo dalla sua risposta essere tale il suo pen­
siero, disse che non era più il caso di ragionare, e se ne andò. Cosi cadde un pro­
getto buono nell’intenzione, ma in sè non bene ponderato.
Altri ecclesiastici, nonché parecchi laici del patriziato torinese, seguivano da
vicino e con interesse lo svolgersi della sua attività a prò dei giovani. Partecipa­
vano essi volentieri a riunioni settimanali da lui tenute per iscambiare consigli e
pareri sui mezzi più efficaci a far progredire l ’azione giovanile.
Inoltre, attirati dalla fama, personaggi di prim ’ordine si recavano a Valdocco
per osservare con gli occhi propri quello che vi si faceva. Una domenica vi capi­
tarono due venerandi sacerdoti, che apparivano forestieri. Don Bosco, essendo a
corto di catechisti, li pregò con tutta semplicità di accettare uno la classe dei più
grandi, e l ’altro quella dei più sbarazzini. Con pari semplicità essi aderirono al­
l ’invito. Ispezionando poi le classi, egli s ’accorse che facevano un catechismo coi
fiocchi, quello dei grandi specialmente. Dopo invitò quest’ultimo a dire due pa­
role dal pulpitino e il suo compagno a dare la benedizione. Obbedirono come
due novizi. Infine seppe che quegli era l ’abate Rosmini e questi il canonico De-
gaudenzi, vercellese, poi Vescovo di Vigevano.
A non lungo andare si occupò delPOratorio anche il senato del regno. L ’oc­
casione fu insignificante: una domanda di sussidio che un influente amico di Don
Bosco senza dirgli nulla inoltrò al Ministero per mezzo dell’alta Camera. Questa,
prima di raccomandare la cosa al Governo, deliberò di nominare una commis­
sione investigatrice, che sul posto raccogliesse informazioni. La componevano i
senatori conte Sclopis, marchese Pallavicino e conte di Collegno. In un pomerig­
gio del gennaio 1850 i tre gentiluomini scesero a Valdocco, dove vollero vedere
tutto, tutto vollero sapere e presero conoscenza anche degli altri due oratorii. Nella
seduta senatoriale del 1° marzo il Pallavicino fece la sua relazione favorevole. Il
senatore Giulio si levò a combatterne le conclusioni. Il relatore ribattè due volte;
altri due senatori lo appoggiarono. Chiusa la discussione, il Senato approvò. Il
fatto non sortì altro effetto, ma giovò grandemente a mettere in buona vista agli
occhi di tutta la cittadinanza l ’opera degli oratorii di Don Bosco.
Il quale Don Bosco nelle sue fatiche e tribolazioni riceveva conforti non solo dagli
uomini, ma anche da Dio, nè più semplicemente per via di sogni, ma con autentici
prodigi. Le testimonianze rese da chi vide e così passate nella domestica tradizione
ebbero da Don Bosco stesso negli ultimi anni della sua vita conferme inequivocabili.
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Nel 1848 si festeggiava la Natività di Maria. Alla Messa di Don Bosco circa
650 giovani si disponevano a fare la comunione. Giunto il momento, la pisside del
tabernacolo fu trovata quasi vuota; Giuseppe Buzzetti, che aveva l ’incarico di pre­
pararne una piena e porla sull’altare, se n ’era scordato. Fu un istante di angoscia
indescrivibile per Don Bosco. Pure con la solita calma cominciò a distribuire le
poche particole rimaste e la distribuzione continuò, continuò fino a che vi fu un
ragazzo da comunicare. Un giorno, interpellato da Salesiani sull’avvenimento, ri­
spose che il Signore aveva voluto dimostrare con quel miracolo quanto gradisse
le comunioni frequenti.
L ’anno seguente per la domenica fra l ’ottava di Ognissanti Don Bosco aveva
promesso ai giovani le castagne dopo una visita al camposanto. Mamma Mar­
gherita, pensandosi che egli intendesse unicamente premiare alcuni dei giovani, ne
mise a bollire solo una parte di tre sacchi comperati. Il Buzzetti che aveva nel ri­
torno preceduto i compagni per far trovare tutto pronto al loro arrivo, cadde
dalle nuvole quando vide che le castagne erano un terzo del bisogno ; tuttavia versò
le lesse in un cesto, che pose dinanzi alla porta della cappella. Don Bosco, arri­
vato con la moltitudine, prese senz’altro a distribuire e ignaro dell’accaduto, riem­
piva a ognuno il berretto, benché il Buzzetti gli ripetesse che ne dava troppe. Sol­
tanto quando era per toccare il fondo, conobbe come stessero le cose. Fu un altro
istante critico come quello delle ostie. Allora senza scomporsi dà di piglio a una
mestola bucherellata, la cala e ricala nel cesto e traendola ogni volta ricolma, la
versa nei berretti protesi. Così circa quattrocento giovani ebbero ancora la loro
porzione, anzi ne restò una mestolata per lui. La voce della moltiplicazione pigliò
l ’aire. Tentò bene egli di arrestarla; ma sarebbe stato più facile fermare il vento.
Il concetto che egli fosse un santo cominciava a penetrare nell’animo degli oratoriani.
In quel medesimo anno accadde alcunché di ben più strepitoso. Era morto il
figlio quindicenne del trattore del Qelso Bianco in via del Carmine 11. Prima di mo­
rire non faceva che chiamare Don Bosco, suo confessore, che però si trovava fuori
di Torino. Confessatosi dal suo viceparroco, non cessò fino all’ultimo di dire che
gli chiamassero Don Bosco. Don Bosco, appena fu di ritorno, volò a quella casa.
Tutti piangevano, perchè il giovane era morto. Egli invece: — No, diceva, dorme.
Lo condussero nella stanza, dove tutto vide pronto per la sepoltura; ma egli
pensava alla sorte di quell’anima. A un tratto, sempre ripetendo che dormiva, pregò
che lo lasciassero solo. Fatta orazione, lo benedisse e lo chiamò forte: — Carlo,
Carlo, àlzati!
Secondo la consuetudine del tempo, un lenzuolo cucito a sacco avvolgeva il
corpo; un pannolino velava la faccia; ardeva accanto al letto una lucerna. Alla chia­
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mata rispose un movimento del capo e delle braccia. Don Bosco, rimosso il lume,
lacerò l’involucro. Come chi si desta dal sonno, Carlo si stropicciò gli occhi, girò
intorno lo sguardo smarrito, si tirò su un poco e: — Oh Don Bosco! esclamò
riconoscendolo. L’ho cercato tanto! Ho proprio bisogno di lei. È il Signore che
lo manda. Ha fatto bene a svegliarmi. — Il poverino chiese di confessarsi. Dopo
disse alla madre che Don Bosco lo salvava dall’inferno.
La durò un paio d’ore in quello stato. Però, sebbene egli agisse come vivo,
le sue membra conservavano una freddezza cadaverica. Don Bosco gli domandò
se, trovandosi allora in grazia di Dio, avesse più caro di andare in paradiso o di
rimanere con i suoi. Rispose che desiderava andare in paradiso. — Dunque a ri­
vederci lassù, — gli disse Don Bosco. In quella Carlo chiuse gli occhi, cadde ri­
verso sul guanciale e non diede più segno di vita.
Questi ed altri particolari provengono da Don Bosco, il quale con frequenza
trattando della sincerità in confessione, portò questo esempio, ma accennando a
un sacerdote che non nominava. Se non che, già vecchio, in tre circostanze dis­
tinte, durante la narrazione, si tradì, passando inawertentemente dalla terza alla
prima persona: —■Io gli domandai... Egli mi rispose...
Allora però qualche cosa era trapelata. Infatti Don Rua nei processi depose
che fino da’ suoi teneri anni ne aveva sentito parlare e soggiunse che era cosa nota
ai più anziani dell’Oratorio.
Nel 1851 l ’opera degli oratorii compiè il primo decennio della sua fondazione.
Quante traversie, parte narrate sopra e parte da narrare nel capo seguente! Cele­
brandosi in quell’anno una festicciuola, i giovani, al solito, trasportati dall’entu­
siasmo, presero Don Bosco e lo alzarono in trionfo. Allora uno studente vicino
a essere chierico gli augurò che potesse abbracciare con una sola occhiata tutte le
parti del mondo e vedere in ciascuna di esse tanti oratorii. Un professor Raineri,
che frequentò l ’Oratorio dal 1846 al 1853, scrisse: “ Don Bosco (parmi vederlo)
volse intorno lo sguardo maestoso, soave, e rispose: — Chi sa che non debba ve­
nire il giorno, in cui i figli dell’Oratorio siano sparsi per tutto il mondo!
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13.7 Page 127

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CAPO XI
IL Q U A R A N T O T T O
1e Regole della Società Salesiana nella loro forma primitiva, mandata nel 1864
J a Roma per ottenere il decreto così detto di collaudo della Società stessa,
contenevano un comma formulato così: “ E principio adottato e che sarà inalte­
rabilmente praticato, che tutti i membri di questa Società si terranno rigorosamente
estranei ad ogni cosa che riguarda la politica. Onde nè colla voce, nè cogli scritti
o con libri o colla stampa non prenderanno mai parte a questioni che anche solo
indirettamente possano compromettere in fatto di politica ” . Roma osservò essere
più prudente sopprimere queste parole. Don Bosco spiegò lo scopo di quel pa­
ragrafo scrivendo che con esso si mirava a prevenire vessazioni da parte di certi
laici, che si adombrassero alla vista delle Regole; tuttavia lo soppresse. Ma poi
nel 1870, trattandosi di ottenere l ’approvazione definitiva della Società e dovendosi
perciò riprendere in esame le Regole, egli, come se nulla fosse stato, inserì nuova­
mente l ’articolo, che a Roma fu senz’altro nuovamente cancellato. Egli nondimeno,
persuaso sempre della sua importanza, allorché nel 1874 si procedette all’approva­
zione delle Regole e quindi le si riesaminarono parte per parte, introdusse da
capo il divieto di fare della politica, che ancora gli venne cassato e quella volta
con la motivazione che, sebbene tale proibizione fosse ammissibile, pure ai nostri
tempi l ’entrare in politica poteva essere un obbligo di coscienza, essendo spesso
le cose pubbliche inseparabili dalla religione; non esserne perciò approvabile l ’esclu­
sione fra i buoni cattolici. Finalmente nel 1877 al primo Capitolo generale Don
Bosco dichiarò che fuori dei casi di vera convenienza bisognava attenersi al prin­
cipio di non intrigarsi in cose politiche e che questo sarebbe oltremodo giovevole.
L ’esperienza del ’48 gli era stata maestra.
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13.8 Page 128

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Quando si dice il Quarantotto, s’intende il punto culminante d’un periodo co-
minciato prima di quell’anno e continuato dopo. Le idee di riforme, di progresso,
di libertà e d’indipendenza, che erano fermentate in Italia durante il pontificato
di Gregorio XVI, esplosero nel giugno del 1846 subito dopo l ’elezione di Pio IX.
La sua generosa amnistia per i condannati politici e talune riforme amministrative,
a cui contemporaneamente pose mano, diedero per tutta l ’Italia occasione a di­
mostrazioni generali, clamorose, incessanti, in suo onore; a lui inneggiavano per-
fino uomini poc’anzi ostilissimi alla Chiesa e al Papa. Il grido di Viva Pio IX risonava
non solo fra cattolici, ma anche fra protestanti ed ebrei. Carlo Alberto, come se
non aspettasse altro che l ’avvento di un Papa così fatto, rotti gl’indugi, entrò riso­
luto nella via delle innovazioni. Roma e Torino furono le due città italiane che ve­
devano ripetersi più insistenti e deliranti le manifestazioni di gioia popolare. Era
insomma un’ebbrezza universale, accompagnata da frenetica smania di cose nuove.
Non pochi del clero o insofferenti di disciplina o scaldati dalla lettura degli scritti
giobertiani o ingenui e illusi, si abbandonavano all’onda del comune entusiasmo.
Anche nell’Oratorio si gridavano assordanti gli evviva a Pio IX. I giovani più
assidui avevano udito tante volte Don Bosco magnificare il Vicario di Gesù Cristo,
che non sembrava loro vero di assistere ad un plebiscito così impressionante in
favore del Ramano Pontefice. Una domenica però Don Bosco insegnò a non gri­
dare più Viva Pio IX, ma Viva il Papa e ne fece capire la ragione. Certa gente in
Pio IX scindeva l ’uomo dalla sua dignità sovrumana, osannando bensì alla per­
sona, ma lasciando da parte o peggio detestando l ’ufficio dalla persona rappresen­
tato; ossia, come si esprimeva l ’Arcivescovo, quei tali plaudivano a Pio IX non
per quello che egli era, ma per quello che avrebbero voluto che fosse. I giovani
impararono così bene la lezione, che in un’altra domenica avvenne questo bel
caso. Alcuni pezzi grossi, presentatisi all’Oratorio per una visita di cortesia e ma»
nifestata pubblicamente la loro soddisfazione, conchiusero eccitando con enfatiche
parole i ragazzi a gridare tutti insieme Viva Pio IX ; i ragazzi invece risposero gri­
dando a una voce Viva il Papa. Quei signori si guardarono in faccia come per
domandarsi: — Ohè! in che mondo siamo? — Erano nel mondo di Don Bosco,
e se fossero tornati la domenica appresso, avvrebbero veduti appesi qua e là car­
telli stampati a grossi caratteri con motti evangelici e patristici sull’autorità di
S. Pietro e de’ suoi successori nella Chiesa.
Più d’una volta verso la fine del 1847 Don Bosco si schermì da autorevoli
e pressanti inviti a simili manifestazioni di carattere politico.
Il primo fu per la così detta emancipazione degli ebrei e dei valdesi. Gli ere­
tici valdesi sono in Italia una specialità del Piemonte. Abitano le valli di Pinerolo.
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Ad essi, come agli Ebrei, le leggi circoscrivevano il luogo di dimora e limitavano
l ’esercizio dei diritti civili. Orbene, in nome della libertà, il marchese Roberto
d ’Azeglio, fratello di Massimo, mandava in giro una supplica per raccogliere firme
da presentarsi al Sovrano onde ottenere che quelle leggi d ’eccezione fossero abo­
lite. La domanda implicava il riconoscimento di un principio non ammesso dalla
legislazione piemontese, il principio della tolleranza religiosa. U n centinaio di
membri del clero, che il più delle volte non avevano ponderato abbastanza i termini
della petizione, la sottoscrissero. Don Bosco pure venne sollecitato a farlo da per­
sone altolocate; ma egli se la cavò, dicendo che avrebbe firmato non appena ve­
desse ivi il nome dell’Arcivescovo.
Gli si ripetevano inoltre gl’inviti a dimostrazioni collettive. Vedendo che dis­
poneva di tanta gioventù, sarebbe parso ai politicanti un bel guadagno averlo con
loro ad ingrossare le file nelle pubbliche manifestazioni che per ogni nonnulla ru­
moreggiavano nelle vie e sulle piazze; quindi lo blandivano in vari modi, perchè
vi prendesse parte. Ma egli non si lasciava smuovere. U n giorno il Brofferio lo
avvertì che a piazza Castello era fissato il posto per lui e per i suoi giovani in un’ova­
zione al Re. Rispose che egli non aveva alcuna posizione ufficiale; essere sue occu­
pazioni predicare, confessare e fare il catechismo; la sua autorità sui giovani re­
stringersi tutta fra le quattro pareti di una povera cappella, come, chiunque vo­
lesse, poteva facilmente andare a vedere.
Il suo atteggiamento destò ammirazione maggiore, dopoché Carlo Alberto l ’8
febbraio del 1848 promise e il 4 marzo successivo largì la Costituzione; tanto più
che un’irrequietezza febbrile si era appigliata pure a non pochi del ceto ecclesia­
stico. Non parlo dei seminaristi, che, ridendosi dei divieti e delle minacce dei loro
superiori, uscivano a passeggiare per la città con coccarde tricolori al petto e in
certe occasioni facevano le chiassate alla maniera degli studenti universitari. Ma
le agitazioni politiche penetrarono anche in parecchie case religiose, dove il rumore
di tante feste con musiche, sbandieramenti, acclamazioni stuzzicava la curiosità
ed esaltava le fantasie, specialmente nei più giovani.
U n forte assalto dovette Don Bosco sostenere dal marchese Roberto d ’Aze­
glio, che si sforzava, come tanti altri, di conciliare il suo cattolicismo con le
teorie liberali. Egli scese all’Oratorio apposta per vincere quelle resistenze del
direttore. Mise a tal uopo in campo l ’interesse del sapersi elevare all’altezza dei
tempi e il pericolo del volersi appartare; Don Bosco invece ripeteva sempre il suo
ritornello, che egli badava a fare il prete.
Anche le autorità municipali premevano su di lui; ma, vedendolo irremovi­
bilmente legato all’Arcivescovo e temendolo fautore di qualche moto reazionario,
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fecero il tentativo d’indurlo a un atto che significasse adesione al partito liberale.
Con una parola men ponderata si sarebbe potuto assai compromettere. Un no
categorico l ’avrebbe fatto dichiarare nemico d’Italia con tutte le relative conse­
guenze; un sì esplicito l ’avrebbe coinvolto in una rete di compromessi, trascinan­
dolo chi sa dove. Perciò nelle sue risposte batteva la campagna. All’intimidazione
fattagli col dire che stesse bene all’erta, perchè la sua esistenza era nelle loro mani,
finse di non capire. Di scarso comprendimento dava indizio anche il suo esteriore;
poiché era comparso là mal calzato e mal vestito e usava maniere così da bonomo,
che coloro, conoscendolo solo di nome, lo presero per uno scagnozzo qualunque
e lo lasciarono andare per i fatti suoi.
Il prete ordinariamente non deve impicciarsi di politica. La politica divide i
cittadini in partiti, che si avversano fra loro, mentre il prete è senza distinzione
debitore a tutti del suo ministero. Che se un prete ha una missione religiosa e so­
ciale di gran portata, crescono per lui gli obblighi di tenersi assolutamente au-dessus
de la mêlée. Si sarebbe potuto osservare che nel caso c ’era di mezzo una caterva
di giovani, che non bisognava straniare dalla vita del paese. Don Bosco amava sin­
ceramente la sua patria. Ma per le sue relazioni e soprattutto per le conferenze che
aveva frequentissime con l ’Arcivescovo, vedeva quello che altri non vedevano,
quali armi cioè sotto l ’egida del patriottismo si affilassero contro la Chiesa; il suo
riserbo dunque s’ispirava a ragioni profonde. Del resto gli sembrava di fare abba­
stanza, raccogliendo giovani abbandonati per renderli alla patria buoni cittadini.
I fatti non tardarono a giustificare la sua condotta. La cacciata tumultuosa dei
Gesuiti e delle Dame del Sacro Cuore da Cagliari, da Genova e da Torino e le
prime avvisaglie contro l’Arcivescovo Fransoni e contro altri prelati piemontesi
aprivano gli occhi ai ben pensanti. Per Don Bosco poi ci fu in più un attentato
alla vita. Una domenica sera durante l ’ora del catechismo egli stava con i più grandi
nel coro della cappella, quando una detonazione improvvisa e vicina scosse i suoi
uditori. Una palla di fucile aveva forato il vetro della finestra accanto. Il colpo
era stato ben diretto, poiché per poco il proiettile non gli trapassava il cuore. Gli
rasentò invece il fianco e per disotto all’ascella sinistra andò a scalcinare la parete
opposta, sollevando un’ondata di polvere; a lui aveva appena bucata la sottana.
Una sua piacevolezza ne rivelò la calma e calmò i giovani; quindi proseguì nella
spiegazione della dottrina cristiana è compiè tutto il resto come al solito. Dopo
la benedizione tutti nel cortile aspettarono che uscisse, guardandolo esterrefatti;
ma con il suo sorriso e con qualche barzelletta rasserenò gli animi.
L’effervescenza pubblica non conobbe più limiti dopo il 23 marzo, nel qual
giorno Carlo Alberto bandì la guerra contro l ’Austria. Nessuna guerra al mondo
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fu giammai più popolare. Era una guerra di liberazione e d ’indipendenza. Que­
s t’idea elettrizzò l ’Italia. Il Piemonte, stretto intorno al suo Re, si accingeva ai più
ardui sacrifici. A Torino il fuoco avvampava; tutto qui fremeva guerra. Le case,
i teatri, le vie risonavano di canti marziali. I giovani sulle piazze manovravano a
schiere e fuori dell’abitato organizzavano finte battaglie. Le notizie dei primi fatti
d ’armi diedero alla città momenti di parossismo. Dalle chiese si levavano al cielo
solenni supplicazioni. — Chi non vide e non visse il Quarantotto, dicevano i no­
stri vecchi, non saprà mai che cosa fu quell’anno.
Anche Don Bosco, se non volle restar solo, dovette mettere l ’Oratorio in
assetto di guerra. Nulla di cambiato nella parte religiosa: anzi introdusse la V ia
Crucis nei venerdì della quaresima. Nel cortile però furoreggiavano piemontesi
contro austriaci. Egli stesso armò i belligeranti di fucili avuti dai depositi mili­
tari; ma alle canne vi sostituì bastoni.
Attraversò per altro un brutto quarto d ’ora. La discordia penetrò anche nelle
file del clero. V i erano preti che liberaleggiavano senza scrupolo, e questi nutri­
vano antipatia per Don Bosco. Egli non aveva più l ’Arcivescovo che lo sostenesse.
Mons. Fransoni, costretto dal Governo a volontario esilio, erasi allontanato dalla
diocesi e dimorava nella Svizzera. La sua colpa era stata di opporre un petto apo­
stolico a certi arbitrii contro la libertà della Chiesa.
Il disordine cominciò a sconvolgere l ’oratorio di S. Luigi; cosa tanto più la­
crimevole, perchè quei giovani avevano sgominato i valdesi. Costoro dopo l ’eman­
cipazione si erano piantati come in quartiere generale presso il viale del Re, e li
avevano indarno circuiti per tirarseli dietro. La responsabilità ricadde tutta su al­
cuni preti, che vi prestavano l ’opera loro sotto la dipendenza di Don Bosco. Let­
tori assidui della Qazzetta del Popolo e dell ’Opinione, due giornali che, sorti allora,
propinavano sotto l ’etichetta del patriottismo l ’odio anticlericale, quei coadiutori
di Don Bosco spoliticavano essi e riempivano di politica le teste dei giovani.
Tanto tonò che piovve. Un sabato chiesero licenza a Don Bosco di condurre
il dì appresso con bandiera e coccarde gli oratoriani a una rumorosa dimostrazione.
Egli, studiatosi inutilmente di dissuaderli, ne fece loro formale divieto; ma essi
disobbedirono. Allora Don Bosco nel pomeriggio, lasciato Don Borei a Valdocco,
andò a Portanuova, dispensò il direttore e gli altri dalla loro collaborazione e fece
la predica, parlando delle verità eterne senza lontanamente alludere all’accaduto.
Accadde però di peggio la domenica dopo. Ricomparve Don Bosco nell’ora
dell’altra volta. Quelli tentarono d ’impegnare con lui una viva discussione. Egli
si studiò di eluderla, finché fu troncata dal campanello del catechismo. Don Bosco
pensava che per il momento fosse tutto finito; invece il più scalmanato arringò in
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cappella i giovani con una sua declamazione tribunizia e con i soliti paroioni da
comizio. Dopo le funzioni Don Bosco addolorato avrebbe voluto fargli intendere
la ragione; ma colui, appena tutti furono fuori, lanciò una voce e sventolando il
tricolore si mosse a passo di carica, seguito da un centinaio fra dirigenti e diretti,
che cantavano a squarciagola l ’inno di Mameli. Scorrazzato alquanto, prima di
separarsi decisero di fare scisma, se non venissero riammessi nell’oratorio con
onore. Nella settimana Don Bosco scrisse ai più fanatici che li ringraziava della
loro cooperazione, ma che li dispensava dal continuarla.
Essi invece, spingendosi oltre nella ribellione, s’accordarono per allontanare
i giovani da entrambi gli oratorii. Perciò, recatisi prima a case o a botteghe, e poi
la domenica appostatisi nei punti di passaggio, attrassero quasi tutti i più grandi.
Anche i catechisti e i maestri di Valdocco abbandonarono Don Bosco, chi chia­
mato alle armi, chi portato via dai mettimale, chi trattenuto da rispetto umano.
Dal seminario nessun aiuto poteva venire, perchè chiuso; dal convitto nemmeno,
perchè occupato dalla truppa. Nella diserzione generale non gli rimasero per al­
cune domeniche se non tre decine di piccoli; gli altri si raccozzavano or qua or
là a sbizzarrirsi con i loro caporioni.
Ma un bel gioco dura poco; peggio poi, quando il gioco non è punto bello.
M olti cominciarono a disgustarsi di quei gonfianuvoli, i quali dal canto loro, non
gustando nel puntiglio una soddisfazione che li compensasse delle noie e delle
spese, si presentavano sempre più di mala voglia nei luoghi di ritrovo. Anche i
disastri della guerra smorzavano gli ardori suscitati dai primi successi; onde alle
pubbliche dimostrazioni succedevano il raccoglimento e la preghiera. L ’Oratorio
dunque tornava a popolarsi. Don Bosco per altro non riammetteva oves et boves,
ma esigeva che i reduci si presentassero a lui uno per uno; così ne scandagliava
l ’animo, diceva ai singoli la sua buona parola e teneva lontani i riottosi. I più
compromessi non si fecero più vivi.
Per parecchio tempo egli si trovò a dover cantare, come si dice, e a portare la
croce. Solo Don Borei non l ’aveva mai abbandonato. Degli altri coadiutori, alcuni più
non si rividero; altri, tornati all’ovile, rioccuparono le male abbandonate mansioni.
I migliori elementi furono destinati all’oratorio di S. Luigi, che era proprio a terra.
A Valdocco la vita ripigliava. Dai primi di giugno in poi, le cose s’erano ve­
nute rimettendo tanto bene, che si potè celebrare solennemente la festa di S. Luigi
e all’Assunta vi fu la distribuzione dei premi, accompagnata dal pubblico saggio
sulla storia sacra, del quale s’è detto sopra. Aggiungo qui che Don Bosco v ’inter­
calò opportunamente il canto di due inni, uno a Carlo Alberto e l ’altro a Pio IX .
I premi consistettero in semplici proclamazioni di lode al merito, perchè i pre-
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miandi rinunciarono volentieri a più tangibili guiderdoni, affinchè il denaro in tal
guisa risparmiato fosse devoluto a beneficio delle famiglie dei militari bisognose.
Durante l ’armistizio conchiuso il 9 agosto Don Bosco riebbe un aiutante prov­
videnziale. Tornava dal campo e veniva all’Oratorio in divisa militare un tal Giu­
seppe Brosio, che i giovani presero a chiamare il Bersagliere, perchè aveva mili­
tato in quel corpo. Don Bosco gli permise di formare un battaglione dei più arditi,
che, militarmente addestrati, eseguivano evoluzioni, prestavano servizi d ’ordine e
divisi in due campi si davano battaglia. Questi divertimenti d ’attualità e l ’introdu­
zione della ginnastica militare rianimarono talmente le adunanze festive da far di­
menticare la passata crisi.
Durante tali trambusti Don Bosco trovò in sè tanta calma da attendere a due
lavori letterari. Scrisse anzitutto in compendio una V ita di S. Vincenzo d e’ Paoli,
dove si leggono con particolare interesse alcune pagine sulla dolcezza. Ci si sente
che l ’autore attinge alla propria esperienza; si sa infatti che, come S. Vincenzo
e come il Salesio, egli non aveva sortito da natura un temperamento al latte-miele.
Il libro poi gli serviva per un suo scopo. Egli caldeggiava la fondazione delle Con­
ferenze di S. Vincenzo a Torino, quali fiorivano dal 1846 a Genova. Con quello
scritto aperse loro la via; furono difatti inaugurate col suo intervento nel 1850
presso la chiesa parrocchiale dei Santi Martiri. Contemporaneamente rimaneggiò
la sua Storia Ecclesiastica per una seconda edizione, nella quale senz’aver l ’aria di
farlo apposta insinuò talune verità difficili a dirsi intorno a scottanti questioni di
quel momento storico.
Il Quarantotto purtroppo fini male. La rivoluzione romana costrinse Pio IX
a battere la via dell’esilio. La capitale piemontese rigurgitava di fuorusciti politici,
fomentatori di lotte contro la Chiesa. Licenza di giornali, insulti al clero, violenze
contro i Vescovi erano all’ordine del giorno. L ’A rm onia, nuovo quotidiano catto­
lico, lottava con ardore; ma voleva lettori non privi di cultura. Mancava un anti­
doto per la classe meno istruita. Don Bosco ideò allora un bisettimanale “ poli­
tico- religioso ” intitolato l ’A m ico della gioventù. Presentarlo solo come “ religioso ”
sarebbe stato condannarlo a morire prima che nascesse. Quanti sacrifici costò a
Don Bosco tale pubblicazione! Ma i cattolici non ne compresero l ’utilità e quindi
non la sostennero. Dopo il 61° numero il periodichetto si fuse con l ’Istruttore del
popolo, sorto nel febbraio del 1849. Avvenuta la fusione, Don Bosco lo sorvegliò
non solo perchè non tralignasse, ma anche perchè durante l ’esilio del Papa ne so­
stenesse l ’autorità. Ritornato Pio IX il 12 aprile 1850, egli si ritirò dalla redazione
e il foglio cadde in mano a liberali.
A cominciare dall’inverno fra il ’48 e il ’49 l ’Oratorio di Valdocco vide una
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novità: un rudimento di seminario. Il seminario diocesano si era dovuto chiudere.
L ’Arcivescovo nell’istante che montava in carrozza per esulare nella Svizzera, aveva
raccomandato a Don Bosco i chierici, che non si erano lasciati frastornare dalla
politica. Egli dapprima li invitò a prendere da lui stesso lezioni di teologia; ma in
seguito osservò che ci voleva ben altro a preservarli. Quindi nella rinnovazione
dell’affitto indusse il Pinardi a stanare dalla casa gli ultimi inquilini, che continua-
vano a tenervi un covo di mala vita e lo obbligavano a stare sempre con tanto
d’occhi per rimuovere pericoli di scandalo. A tacitare simile genìa dovette buttare
somme non indifferenti; ma alla fine rimase padrone del campo. Allora nei locali
sgombri aperse un asilo per quanti più chierici vi potè accogliere. Li teneva alla
sua mensa. Dai poveri non esigeva nulla; i benestanti pagavano una retta. Li man­
dava a scuola in casa di professori del seminario; non di rado, anche per cono­
scerli meglio, dava loro accurate lezioni di geografia biblica.
Nel tempo che la condizione di Pio IX esule commoveva il mondo cattolico,
l ’Oratorio di Don Bosco fece una cosa, per cui passò alla storia. Urgeva soccor­
rere l ’augusta povertà del Pontefice. L’episcopato francese con i suoi appelli ai
fedeli diede origine a un’istituzione permanente, che è il così detto Obolo di San
Pietro. In quasi tutte le nazioni si costituirono comitati per questa colletta mondiale.
Anche il Piemonte si segnalò per lo zelo dei cattolici a contribuirvi. I giovani del-
l ’Oratorio conoscevano benissimo la sorte del Vicario di Gesù Cristo, perchè
Don Bosco ne li teneva informati; perciò, poveretti com’erano, s’imposero sacri­
fici per mettere insieme anch’essi qualche somma. Furono raggranellate trentatrè
lire. Don Bosco volle che la consegna rivestisse un istruttivo carattere di solennità.
Pregò quindi il Comitato torinese che delegasse alcuno de’ suoi membri a riceverla.
Venne il marchese Gustavo di Cavour con un canonico.
Don Bosco aveva fatto trovare radunati tutti i giovani, uno dei quali lesse
un discorsetto composto da lui; quindi un coro cantò un inno a Pio IX. I due de­
legati presero in consegna il denaro, dissero alcune parole e portarono con sè il
testo del discorso e della poesia; anzi il marchese pubblicò nell'Armonia un lungo
articolo sull’Oratorio di Don Bosco e sulla cerimonia. Il Rohrbacher registrò poi
il fatto nel volume quindicesimo della sua Storia Ecclesiastica.
Il Nunzio Apostolico, che trasmetteva le offerte a Gaeta, segnalò a parte l ’omag­
gio filiale dell’Oratorio. Il Santo Padre commosso ne tenne parola con vari perso­
naggi e diede ordine di mandare per tutti i giovani tante corone del Rosario. Ne
giunsero sessanta dozzine, che non bastarono, sicché se ne dovettero acquistare
altre. Per la distribuzione venne preparata una festa detta delle corone. Don Bosco
ne perpetuò il ricordo in una piccola monografia.
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Anche le condizioni delPArcivescovo stavano per aggravarsi oltremodo. Il suo
esilio si protrasse per due anni, poiché ritornò a Torino il 15 marzo 1850; ma vi
fu ricevuto molto male. I suoi avversari decisero di stancarlo tanto da costringerlo
a dimettersi. Fischi, urla e minacce lo assalivano dovunque passasse. Don Bosco
mandò più volte i suoi giovani ad aumentare il numero dei buoni che lo applau­
divano; ma i turbolenti li sopraffacevano, sempre indisturbati.
Dopo l ’infausta giornata di Novara e la conseguente abdicazione di Carlo
Alberto in favore di suo figlio Vittorio Emanuele, il Parlamento Subalpino, senza
tener conto del Concordato che aveva con la Santa Sede, legiferava da sè in ma­
terie che toccavano la giurisdizione della Chiesa. La soppressione del foro e del­
l ’immunità ecclesiastica mise i Vescovi in gravissimi impicci, l ’Arcivescovo Fran-
soni più di tutti. La sua fermezza adamantina nell’impartire le direttive al clero
di fronte alla nuova legislazione gli procurò l ’onore di essere tradotto in cittadella.
Don Bosco fu dei primi a portargli conforto nel carcere; poi dispose che i suoi
giovani, divisi in gruppi, andassero per turno a visitarlo. Apertasi una pubblica
sottoscrizione per l ’omaggio di un bastone pastorale, il nome di Don Bosco fi­
gurò subito nella prima lista.
Il coraggioso Pastore, liberato il 2 giugno, venne di bel nuovo arrestato il
7 agosto e manu militari scortato al forte di Fenestrelle. Finalmente una sentenza di
tribunale, sull’imputazione di abuso nell’esercizio del suo ministero, lo condannò
al bando perpetuo dagli Stati Sardi; onde il 28 settembre andò a stabilirsi in Lione,
governando di là, come poteva, l ’archidiocesi fino al 1862, anno della sua morte.
Gli occulti istigatori di queste e di altre violenze non dimenticarono Don Bo­
sco. Era loro troppo noto com ’egli fosse unito di mente e di cuore con il suo Ar­
civescovo. Sobillarono dunque la solita plebaglia contro di lui, dipingendolo come
un pericoloso nemico della patria. Nella vigilia dell’Assunta un branco di facino­
rosi doveva dar l ’assalto all’Oratorio, distruggere la casa e scacciare il direttore.
Ma lo impedì un visibile intervento della Provvidenza. Gli aggressori, dopo aver
fatto il diavolo a quattro contro gli Oblati di Maria alla Consolata, si dirigevano
a Valdocco, quando per istrada uno e poi un altro del bel numero, montati sopra
un paracarro, dimostrarono che Don Bosco non era un prete come gli altri e che
meritava un trattamento ben diverso. Parlarono con tanta foga che la ciurmaglia
diede lor ragione e tornata su’ suoi passi, andò a fare il baccano sotto le finestre
dei Domenicani e dei Barnabiti.
Se tali avvocati incontrava in basso, Don Bosco aveva pure in alto i suoi buoni
protettori, in primis Camillo di Cavour. Il grande uomo di Stato, che entrò appunto
nel 1850 a far parte del Ministero per l ’Agricoltura, Industria e Commercio, volle
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sempre bene a Don Bosco. Gli piacevano le sue doti di uomo superiore, ma an­
che la sua semplicità e schiettezza. È probabile che egli, se la morte non gliel’avesse
impedito, disegnasse di valersene a suo tempo, come seppero fare suoi succes­
sori, nei delicati è difficili rapporti con Roma. Gli uomini di Stato valutano le
lóro relazioni alla stregua dell’utilità ; è quindi del tutto inverosimile che le cor­
tesie del Cavour per Don Bosco fossero ispirate da puro sentimento. E quali cor­
tesie gli usava! L’avrebbe voluto spesso a mensa; anzi arrivò a dirgli che non gli
avrebbe più dato udienza se non nell’ora della colazione e del pranzo. Don Bo­
sco seguiva la norma data dall’Ecclesiastico per le relazioni col potente: “ Non
farti vicino per non essere allontanato e non andar lontano per non essere dimen­
ticato ” . Andava da lui solamente quando aveva bisogno. Così diceva egli stesso
molti anni dopo, senza però mai lasciare intendere quali affari suoi o altrui lo con­
ducessero presso il potente ministro.
L ’esperienza di quell’agitatissimo periodo lo confermò nella persuasione che,
se voleva far del bene, gli bisognava mettere da banda la politica. Sembrerebbe
che questo suo astensionismo gli dovesse nuocere più che giovare presso coloro
che facevano la pioggia e il bel tempo; egli invece, come confidò a Monsignor Bo­
ncinelli, trovò aiuti anche là dove meno se l ’aspettava. Per essere e mostrarsi
buon cittadino il prete ha dal fedele esercizio del suo ministero quanto gli occorre,
senza bisogno di abbandonarsi a quarantottate.
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CAPO XII
OSPIZIO E CHIESA
Gioventù povera e abbandonata era un’espressione che tornava con frequenza
alle labbra e alla penna di Don Bosco. Chi la volesse usare oggi, dovrebbe
applicarvi una variazione di significato. Giovani poveri se ne incontrano anche pre­
sentemente: pauperes semper habetis vobiscum senza distinzione di età. Ma nell’ab­
bandono ve n ’erano assai più in passato. Ai nostri tempi nei paesi civili esistono
tante forme di assistenza giovanile privata e pubblica, che la gioventù abbandonata
non costituisce più, come allora, una piaga sociale. Quanti poveri giovani, aves­
sero o non avessero i genitori, menavano, specialmente nelle grandi città, vita ran*
dagia, o si univano in combriccole, finché, acciuffati dalla polizia, venivano rinchiusi
in carcere o in case di corrigendi, donde uscivano peggiori di prima! Fu per Don
Bosco una straziante rivelazione quello che vide con i propri occhi nelle prigioni
di Torino, dove constatò quanto fosse necessaria u n ’opera di preservazione ante­
riore e di posteriore ausilio. Stabilitosi poi a Valdocco, gli si presentavano casi
che esigevano provvedimenti immediati. Dinanzi a bisogni così impellenti la sua
carità gli fece allargare le braccia, procurando ai più derelitti ricovero, pane e lavoro.
Per il ricovero, se il cuore era grande, la casa era piccola. Nel 1847 egli aveva
sette ricoverati, nel ’48 quindici, nel ’50 una quarantina. Il loro numero cresceva
a misura che si prendevano in affitto nuovi appartamenti, dove collocare i lettucci;
chè, provveduto al dormire, il resto della vita si svolgeva senza gran difficoltà.
Di refettorio per parecchi anni non si parlò. Quando facèva bel tempo, ognuno
andava a consumare il suo pasto qua e là per il cortile; altrimenti si sedevano sui
gradini della scala o presso la cucina. Il vitto era semplice. Al mattino Don Bosco
distribuiva venticinque centesimi a testa, perchè ognuno si comprasse il pane: a
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mezzogiorno mamma Margherita, aiutata dal figlio, preparava la polenta con
qualche intingolo e alla sera cuoceva la minestra; per bere, la pompa gettava acqua
fresca in abbondanza. Condiva quelle frugali vivande l ’allegria di Don Bosco, che
assisteva alle refezioni, affaccendandosi con la madre ad apparecchiare e servire.
Per il lavoro andavano fuori presso padroni di botteghe o di officine, dai quali
imparavano il mestiere più confacente ai loro gusti e alle loro attitudini. Don Bo­
sco, oculato nella scelta dei luoghi, non lasciava i giovani in balìa di se stessi, ma
li seguiva passo passo, visitandoli ogni tanto e informandosi dei loro andamenti.
Nemmeno li abbandonava all’arbitrio dei principali; poiché stringeva con questi
precise convenzioni scritte e firmate, di cui rimangono esemplari. Al loro ritorno
poi dal lavoro sapeva farli cantare, di modo che, se riportavano sinistre impressioni,
egli ne veniva a conoscenza e vi poneva rimedio. Col tirocinio professionale essi
accoppiavano l ’istruzione elementare, frequentando con gli esterni le scuole serali.
Ma qui non era tutto, anzi era il meno. In cima ai pensieri di Don Bosco stava
l ’educazione cristiana de’ suoi ricoverati. Per prima cosa, appena entrati, insegnava
loro a pregare e a confessarsi. Come degli esterni, così degli interni egli era il con­
fessore ordinario. Ogni sabato sera stava a disposizione di tutti, talora fin verso
le dieci o le undici; ogni mattina dava in particolare comodità agl’interni prima di
celebrare la Messa, durante la quale, come tuttora si costuma, si dicevano le ora­
zioni, si recitava la terza parte del rosario e chi volesse, poteva fare la comunione.
Dopo le preghiere della sera c ’erano sempre due parole paterne di buona notte.
Per stimolare a tener buona condotta introdusse un’usanza durata a lungo
n ell’Oratorio, cioè la premiazione dei migliori, designati come tali dal voto dei
compagni. Nella settimana precedente alla festa di S. Francesco di Sales, distribuiti
foglietti bianchi, diceva che vi scrivessero segretamente i nomi di sei, otto, dieci
o più, reputati meritevoli del premio; nel giorno poi della festa, fatto lo spoglio,
premiava coloro che avevano riportato maggior numero di suffragi.
Del resto, la vita di famiglia che si conduceva nella casa, favoriva assai la
formazione religiosa e morale dei giovani. Don Bosco li trattava da papà ed essi
lo amavano da figlioli, usando con lui la più schietta confidenza e la più grande
apertura di cuore, sicché egli, conoscendoli bene ed essendo oltremodo sagace,
trovava con facilità le vie per arrivare ai loro animi. Sua madre pure, chiamata da
tutti mamma, vi sosteneva una parte non indifferente; giacché, esercitando sui ra­
gazzi un’autorità indiscussa, che le derivava sia dalla sua abituale prudenza nel-
l ’operare sia dalle sue cure materne verso ognuno, li poteva agevolmente ed effi­
cacemente riprendere, correggere, consigliare.
Da quei primissimi alunni Don Bosco ebbe tosto la possibilità di presceglierne
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15 Pages 141-150

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15.1 Page 141

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quattro più intelligenti e più pii, che tolse al lavoro manuale per insegnar loro il
latino, e nel febbraio del 1851 con pubblica solennità, previa licenza dell’Arcive­
scovo, li fece vestire chierici. Si chiamavano Bellia, Buzzetti, Gastini e Reviglio,
nomi che furono sempre cari agli anziani dell’Oratorio.
Ma se il denaro è il nerbo della guerra, non è meno strumento indispensa'
bile nelle opere di pace. I tre oratorii e più ancora l ’ospizio esigevano continue
spese, che gravavano tutte su Don Bosco. Egli confidava nella Provvidenza, ma non
la tentava; infatti, vinta l ’innata ripugnanza a chiedere l ’elemosina, tendeva la
mano a chiunque sperasse di poter muovere in suo aiuto. Dio solo ne contò i
passi fatti, le lettere scritte, le umiliazioni subite per tale scopo.
Aveva poi, in questo, come vedremo, espedienti inesauribili. Così dopo le
accennate vestizioni volle che i quattro chierici scrivessero ciascuno la sua sup­
plica al re Vittorio Emanuele per ottenere un sussidio, che venne accordato.
Era disagiata l ’abitazione dei giovani; ma stava a disagio anche il Signore in
quella “ vera meschinità ” di cappella, che non poteva nascondere la sua sagoma
originaria di capannone. U n tratto della Provvidenza infuse a Don Bosco il co­
raggio di metter mano a costruire una chiesa. Aveva dato al Pinardi la sua parola
per la compera immediata della casa e con immediato pagamento. Un prestito di
ventimila lire fattogli dall’abate Rosmini gli forniva i due terzi del prezzo pattuito;
ma per il resto non sapeva a quale Santo raccomandarsi. Ci pensò la Provvidenza.
M entr’egli faceva castelli in aria, ecco giungere all’Oratorio Don Cafasso, che,
ignaro del bisogno, si affrettava a recargli diecimila lire per incarico della contessa
Casazza-Riccardi. Per l ’istrumento occorrevano ancora tremilacinquecento e più
lire, che gli donò il senatore Cotta, quando nella sua banca fu stipulato il con­
tratto. Orbene, conchiuso tanto felicemente questo affare, cominciò a dire che vo­
leva innalzare una chiesa in onore di S. Francesco di Sales. Gli penetrava sempre
più nell’anima la persuasione che in opere destinate sicuramente alla maggior glo­
ria di Dio non sarebbe venuto giammai meno l ’aiuto del Cielo. Era questa, com ’egli
scriveva al Rosmini, la prima chiesa che in Piemonte s ’innalzasse a favore della
gioventù abbandonata. Per implorare l ’assistenza della Santa Vergine pellegrinò
verso la fine di maggio all’insigne santuario di Oropa sui monti biellesi.
Nel giugno dunque del 1851 si diede principio ai lavori. Mentre da una parte
i muratori attendevano a gettare le fondamenta, Don Bosco operava in altra parte
e in altro senso, metteva cioè in opera il suo ingegno per la ricerca dei mezzi. An­
zitutto scrisse ad amici, a ricchi e caritatevoli signori, ad autorità cittadine; scrisse
ai Vescovi del Piemonte; scrisse financo al Re. Dalla Reggia ricevette in due volte
undicimila lire con l ’assicurazione che Sua Maestà guardava con favore la sua at­
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15.2 Page 142

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tività a bene della gioventù. I Vescovi gli fecero belle risposte; parecchi lo conob­
bero soltanto allora, altri lo conobbero meglio; ma poco o nulla, date le strettezze
dei tempi, gli poterono inviare: però da Biella il Vescovo Losana, tenuto conto
dei duecento garzoni muratori biellesi assidui all’Oratorio, gli mandò mille lire.
Grande pubblicità egli procacciò all’impresa, quando si fece la posa della pie­
tra angolare. Non si era mai vista in quei paraggi una folla così numerosa e varia.
Un rappresentante dell’esule Arcivescovo compiè la parte sacra della cerimonia;
il senatore Cotta, caritatevolissimo uomo, collocò la pietra; il sindaco vi distese
la prima calce. Sacerdoti, patrizi e dame torinesi facevano corona. In un’accade-
miola finale sei giovanetti con un brevissimo dialogo di Don Bosco distribuirono
i ringraziamenti. Quindi i ginnasti del Bersagliere, che avevano mantenuto il buon
ordine, eseguirono dinanzi alla gran massa dei loro compagni e sotto gli occhi dei
forestieri alcune evoluzioni. Gl’intervenuti partirono con l ’impressione che Don Bo­
sco andava aiutato, mentre gli alunni interni cominciavano a provare un po’ di
qn^Ha ingenua fierezza che s’impadronisce delle anime semplici nel sentirsi parte di
un’opera grandeggiante. Il chierico Reviglio non si tenne dal manifestare a Don Bo­
sco il proprio entusiasmo. — Oh questo non è ancora nulla! — gli rispose il Santo.
Don Bosco domandava e riceveva, ma non abbastanza; la crisi economica,
effetto della recente guerra, riduceva di molto le possibilità. A prevenire pertanto
il caso di dover sospendere i lavori per mancanza di denaro, escogitò un esperimento
nuovo e ardito: bandire una lotteria. Ci aveva studiato su a lungo, prima di comuni­
care al pubblico l ’idea; quindi rapidamente la organizzò in forma grandiosa e perfetta.
Una commissione di 46 promotori e 86 promotrici si obbligava a occuparsene;
per questo gli uni e le altre furono scelti da diverse classi sociali. Un comitato dì
diciotto membri, oltre a Don Bosco e a Don Borei, attendeva a dirigere l ’azione
comune; ne facevano parte anche sei consiglieri comunali e vi fungeva da tesoriere
il banchiere Cotta, senatore del Regno. Tutti questi signori sottoscrissero la do­
manda per ottenere la legale approvazione governativa, che fu concessa il 9 di­
cembre del ’51. Don Bosco stese un appello ai cittadini, nel quale esponeva l ’ori­
gine, la natura e lo scopo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, dava notizia della
ideata lotteria e invitava a donare oggetti per la sua effettuazione. Nel documento
parlavano i promotori e le promotrici, che vi apposero tutti la loro firma; mi­
gliaia di copie ne furono spedite in ogni dove. La Corte reale e la nobiltà torinese
risposero in modo confortante, a segno che la somma dei doni arrivò alla cifra
di 3521. Don Bosco in un fascicolo di 158 pagine, messo in vendita a beneficio
dell’Oratorio, ne stampò l ’elenco coi nomi degli oblatori, premettendovi il piano
della lotteria e il suo appello, unitamente alla lista della commissione promotrice
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15.3 Page 143

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e del comitato ordinatore. Il conte Camillo di Cavour a sua richiesta aveva fatto
esentare dalle spese di posta l ’invio di circolari, di doni e di biglietti.
Per fissare il numero di questi ultimi bisognava che risultasse il valore comples-
sivo dei doni. L ’estimatore ufficiale, uomo del commercio, presentò una perizia
inaccettabile per gli oggetti d ’arte; ma Don Bosco ottenne un secondo perito di
maggior competenza. Ebbe così l ’autorizzazione a emettere centomila biglietti di
una lira. La distribuzione fu affidata principalmente ai promotori e alle promotrici.
Don Bosco pure ne smaltì una gran parte; nel che lo favorirono anche i Vescovi
piemontesi, a ciascuno dei quali ne spedì duecento.
Altra esigenza legale era la pubblica esposizione degli oggetti. A tale effetto il
Municipio concesse l ’uso di una sala molto vasta dietro la chiesa di S. Domenico.
Vi affluirono i visitatori; ci venne pure il Cavour, ricevuto e accompagnato molto
rispettosamente da Don Bosco.
L ’estrazione dei biglietti fu con le formalità prescritte eseguita nel Palazzo di
Città il 12 luglio 1852. A conti fatti, Don Bosco incassò settantaquattromila lire.
Le pratiche legali ed estralegali per tutti gli atti di una lotteria importano una
somma tale di brighe, che qui non è possibile descrivere; Don Bosco vi si sotto­
pose con calma e solerzia dal principio alla fine e senza che ne lo disanimasse una
croce assai penosa. Fra i preti suoi aiutanti ve n ’era uno, che si rivelò seminatore
di zizzanie. Quanti fastidi non gli arrecò! Finalmente una favilla fu bastante a de­
stare un incendio. Nel citato appello si parlava dell’Oratorio come di un’opera
destinata ad allontanare dalla cattiva strada tanti “ giovani oziosi e malconsigliati ”
che “ vivendo di accatto o di frode sul trivio e sulle piazze ” erano “ di peso alla
società e spesso strumento d ’ogni misfare ” . Ora il sopra innominato ricamò su
questo passo un’esegesi incredibile. A sentire lui, Don Bosco vi alludeva ai gio­
vani catechisti dell’Oratorio, quasi fossero dei convertiti da una vita di disonore;
bisognava dunque esigere una solenne riparazione. Più incredibile dell’interpreta­
zione fu la balordaggine di coloro che se la bevvero. Ne nacque un putiferio del­
l ’altro mondo, una vera ira di Dio. Quei giovani, ritenendo intaccato anche l ’onore
delle loro famiglie, si ammutinarono e accadde allora a Valdocco su per giù lo stesso
che nel 1849 a Portanuova. I sediziosi si trascinarono dietro i giovani più grandi
dando loro tumultuosi convegni domenicali a S. Martino dei Molini Dora e con­
ducendoli poi per la maggior parte della giornata a spassarsela fuori di città. Si
spendeva a profusione in vino, in merende e in banchetti. L ’innominato dispo­
neva di molto denaro anche perchè, sparlando con finto zelo di Don Bosco e
spacciando che era necessario fondare oratorii con altri indirizzi e metodi, guada­
gnava alla sua causa i benefattori di lui. Un giorno Don Bosco disse al servo di
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15.4 Page 144

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Dio Don Leonardo Murialdo che per colpa di quel tale aveva dovuto cercarsi
altri benefattori.
Il pericolo che incombeva sull’Oratorio di Valdocco, minacciava la quiete
•dei due di Portanuova e di Vanchiglia, quando comparve in buon punto un atto
autorevole, che fece aprire gli occhi a chi era in buona fede. L ’Arcivescovo, infor­
mato di tante indegnità, dopo avere scritto dal luogo del suo esilio a Don Bosco
incoraggiandolo a continuare, emanò il 31 marzo 1852 un decreto, col quale uf­
ficialmente lo costituiva direttore e capo dei tre oratorii. Ecco perchè nella sua
corrispondenza epistolare, anche scrivendo a illustri personaggi, Don Bosco amò
poi qualificarsi scherzevolmente dopo la firma “ capo dei birichini” .
Il prestigio di lui ne uscì salvo non solamente, ma ingrandito. I promotori
dello scisma, essendo preti, dovettero abbassare la cresta e, vedendo crollata la loro
ambizione di supremazia, si dileguarono. Non però ammutolirono; le loro deni­
grazioni sparsero germi, che col tempo produssero per Don Bosco amari frutti.
E i catechisti ? I catechisti non ritornarono più a fare quello che facevano prima ;
compresero tuttavia in seguito da che parte stesse la ragione e da che parte il torto,
e si mantennero amici di Don Bosco, che, dimenticando il passato, li colmava in
ogni occasione di gentilezze. Ma intanto egli dovette fare come il ragno, che, la­
ceratagli una tela, ne tesse subito un’altra. Il Bersagliere, rimastogli fedele, molti­
plicava se stesso per far divertire i ragazzi con le sue manovre militari, spingendosi
anche lungi dalTOratorio per attirarne altri. I quattro chierici menzionati, alcuni
seminaristi, parecchi alunni interni più capaci subentrarono nei posti lasciati va-
canti dai disertori. Don Bosco aveva detto a Gastini: —■Tutti mi abbandonano,
ma Dio è con me. — Infatti le cose si ricomposero meglio di prima.
Dopoché la tristizia degli uomini aveva tentato invano di minare la vita del-
l ’Oratorio, una forza cieca mise improvvisamente a repentaglio l ’esistenza del­
l ’ospizio e la persona stessa di Don Bosco. La mattina del 26 aprile si trovava
egli nella sala della sua esposizione, quando un cupo rombo intronò gli orecchi,
e tutto l ’edificio tremò come per una scossa di terremoto. Disceso nella via per
iscoprirne la causa, lo assordò un secondo fragore e nell’attimo stesso ecco dal­
l ’alto cadérgli vicino un pesante sacco di avena e con tanto impeto che per pochi
centimetri soltanto non lo aveva schiacciato al suolo. Erano saltati in aria due ma­
gazzini assai grandi in una fabbrica di polvere da mine e da caccia, situata presso
S. Pietro in Vincoli, a mezzo chilometro dall’Oratorio.
Egli volò immediatamente a Valdocco, dove trovò la casa con fresche scre­
polature, ma vuota, perchè tutti erano fuggiti all’aperta campagna. Accorse quindi
sul luogo del disastro, passando fra mucchi di rovine. Là, in mezzo alla polvere
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15.5 Page 145

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e al fumo, vide l ’eroico sergente Sacchi, vogherese, che dà tuttora il nome a una
via di Torino, rischiare la vita, lavorando di mani e di piedi per soffocare il fuoco
già presso a lambire un terzo magazzino maggiore degli altri due e contenente ot­
tocento barili di esplosivo. Perchè il milite ardimentoso potesse attingere acqua da
gettare nelle fiamme, gli lanciò il suo cappello. Gli sforzi del Sacchi permisero ai
pompieri di arrivare in tempo per arrestare l ’incendio.
Nel calamitoso frangente brillarono tratti di misericordia divina. La prossima
Piccola Casa del Cottolengo patì rilevanti danni materiali, ma fra i suoi milletre­
cento abitatori non deplorò vittime. Lo stesso dicasi dei non lontani istituti della
Barolo, che pure soffersero assai dal formidabile spostamento d ’aria e dagli enormi
proiettili. Vicinissimo all’ospizio di Valdocco piombò un trave infocato della lun­
ghezza di circa sette metri, che, se avesse raggiunto la mal costrutta casetta, vi
avrebbe aperto una larga breccia e appiccato il fuoco. Alla nuova chiesa, già co­
perta e disarmata, ma ancora senza porte e finestre, l ’urto non cagionò danno.
Si comprese allora una minaccia misteriosa proferita l ’anno innanzi da un ri­
coverato sedicenne dell’Oratorio, per nome Gabriele Fassio, fabbro ferraio, gra­
vemente infermo al Cottolengo. Dopo gli ultimi Sacramenti era stato udito escla­
mare: —■Guai a Torino, guai a Torino il 26 aprile!... Pregate S. Luigi che pro­
tegga l ’Oratorio e quelli che vi abitano. — M orì poco dopo. I suoi guai avevano
prodotto in tutti grande impressione. Allora fu che Don Bosco alle orazioni del
mattino aggiunse una preghiera a S. Luigi con l ’invocazione che si continua a ri­
petere nelle case salesiane: A b omni malo libera nos, D om ine. Avvenuta poi la ca­
tastrofe, egli fece stampare in cinquemila copie una pittoresca immagine con
questa scritta: I figli dell’Oratorio di S. Francesco di Sales a M aria Consolatrice.
Bastarono dodici mesi, perchè la chiesa fosse condotta al punto da poterla
convenevolmente officiare. “ Giorno di grande consolazione ” disse Don Bosco
il 20 giugno nella sua lettera di invito ai benefattori per la benedizione rituale da
darsi in quella domenica. Alla cerimonia egli volle che andasse accompagnata la
maggiore esteriorità possibile. Colpiva i numerosi cittadini accorsi il tripudio gio­
vanile, di cui per largo spazio risonava l ’aria all’intorno. Nonostante i mille impicci
di quei giorni, Don Bosco aveva buttato giù, dato alle stampe in migliaia di esem­
plari e distribuito ai giovani una filza di quartine musicate per ordine suo da un
prete amico. Quel mattino dunque i settecento oratoriani, sparsi a gruppi per
l ’ampia distesa dei prati e dei campi circostanti, cantavano quali una strofa, quali
un’altra, riempiendo l ’aria di note gaie e festive.
La festa si riprese nel pomeriggio con maggior numero di intervenuti e con
maggior entusiasmo dei giovani. I militi del Bersagliere gareggiavano con una schiera
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15.6 Page 146

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della guardia nazionale per mantenere l ’ordine e crescere decoro alla celebrazione.
Dopo le funzioni, promotori e promotrici della lotteria, membri del clero e del
patriziato e quanti avevano preso parte attiva alla costruzione della chiesa furono
invitati nella vecchia cappella, trasformata in salone, dove nobili benefattori ave­
vano apparecchiato un signorile rinfresco. Qui Don Bosco parlò, toccando le corde
più delicate e rivelandosi sempre meglio per quello che era. Segui un canto, nel
quale un giovanetto spiegò una voce angelica, che commosse i cuori. A notte il
popolare divertimento dei fuochi d’artificio chiuse la faustissima giornata, di cui
la stampa diffuse l ’eco fuori di Torino.
Due idee per tal modo si facevano strada: essere una necessità sociale il prov­
vedere all’educazione religiosa e civile della gioventù povera e abbandonata, e nu­
trire Don Bosco in sè una volontà fattiva di attendere a tale apostolato. Questa
duplice comprensione andò tosto producendo i suoi effetti. Da un lato disponeva
favorevolmente verso del prete il popolo beneficato, i signori benefattori e le autorità
responsabili; dall’altro animava Don Bosco a fare sempre più e sempre meglio.
La nuova chiesa veniva a risolvere il problema dell’Oratorio festivo; infatti
non solo era sufficiente a contenere il gran numero dei giovani e si prestava degna­
mente al culto, ma permetteva anche di adoperare la primitiva cappella per le
scuole diurne e serali. Insoluto restava però il problema dell’ospizio. La casa, pic­
cola al bisogno, scomoda all’uso e danneggiata allora dallo scoppio della polveriera,
esigeva provvedimenti. Allestita dunque una dimora per il Signore, Don Bosco
rivolse il pensiero a prepararne un’altra per i suoi figli.
Ne ordinò subito il disegno. Portava questo un edificio a tre piani con portico
e sotterraneo, lungo quaranta metri, largo undici e mezzo, alto sedici. Il fabbricato,
movendo dalla chiesa, avrebbe occupato lo spazio della casa demolienda, si sarebbe
quindi proteso per circa egual. tratto più oltre e sarebbe terminato con un braccio
di metri dodici e mezzo per sei, parallelo alla chiesa.
Naturalmente non si poteva abbattere senz’altro la casa vecchia, unico ricetto
dei ricoverati. Pochi giorni dopo la descritta benedizione i muratori lavoravano
già a costrurre su terreno sgombro la seconda metà della fabbrica progettata. Si
vedevano crescere rapidamente i muri; ma purtroppo le vicende di questi lavori
non furono sempre liete. Un primo incidente accadde il 20 novembre. La rottura
di un ponte causò la rovina di un muro dall’altezza del terzo piano. Avvenne ben
di peggio nella notte del 1° dicembre. La costruzione era giunta al comignolo e
già si stava per collocare le tegole; ma una pioggia strabondevole, incessante e ta­
lora violenta obbligò a sospendere i lavori, mentre l’acqua agiva negli interstizi
della muratura. Se la goccia scava la pietra, quella doccia faceva tanto più facil­
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mente il vuoto fra pietra e pietra, finché le muraglie a tre riprese si sfasciarono e si
ridussero in cumuli di rovine. Don Bosco che al crollo parziale si era rassegnato
come Giobbe, dopo quello totale disse come Giobbe avrebbe potuto dire: — Il
demonio ha voluto darci un calcio; ma Dio è più forte di lui. — In una sua let­
tera del 6 dicembre al prevosto di Capriglio si leggono le seguenti parole: “ Ho
avuto una disgrazia: la casa posta in costruzione rovinò quasi interamente, mentre
era già quasi tutta coperta. Tre soli furono lesi gravemente, niuno morto, ma uno
spavento, una costernazione da far andare il povero Don Bosco all’altro mondo.
Sic Domino placuit Andò tanto poco all’altro mondo, che scriveva quella lettera
per pregare il prevosto di mandar a prendere in casa sua alcuni testi greci e di
spedirglieli al più presto, avendone bisogno per una scuola che faceva.
Frattanto, à la guerre comme à la guerre. La vecchia casa, per questa nuova
scossa, in alcuni punti appariva malsicura ; perciò Don Bosco ridusse a dormitorio
la cappella abbandonata. Poi trasferì le scuole diurne e serali nella chiesa nuova
che mentre nella prima ora d ’ogni mattino e negl’interi giorni festivi serviva alle
pratiche religiose, nel resto del tempo diventava aula scolastica, dove le diverse
classi occupavano il coro, il presbiterio, le due cappelle laterali e diversi punti del
corpo centrale. Al disagio inevitabile si aggiungeva il rigore dell’inverno; ma regis
ad exem plum totus componitur orbis. La serenità di Don Bosco che conduceva la vita
in mezzo a ’ suoi giovani, rasserenava l ’ambiente, e lo scaldava la sua carità.
Queste condizioni durarono fino alPottobre del 1853, quando la fabbrica
crollata risorse dalle rovine. Tale risurrezione fu rapidamente possibile, grazie alla
generosità d ’insigni benefattori, che non si mostrarono sordi all’implorare di Don
Bosco. Gli fruttò discretamente anche una piccola lotteria messa su in un batter
d ’occhio. Il premio era uno solo, consistente in una “ cassa di ferro con vari se­
greti ” ; gliel’avevano regalata a questo scopo. Già nell’autunno, scuole, dormitori,
refettorio e cucina passavano nel nuovo edificio. I ricoverati erano settantacinque.
U n doppio progresso provenne dalla recente sistemazione. Primo progresso,
due laboratori interni. Nonostante tutte le cautele, il lavorare lontano dall’Ora­
torio non era per i giovani senza inconvenienti; perciò Don Bosco inaugurò l ’inse­
gnamento professionale nell’ospizio. Egli non aspettò a fare, quando avesse a sua
disposizione tutto il necessario, perchè l ’opera riuscisse compiuta; ma, pur di co­
minciare, si contentò d ’inizi rudimentali. E cominciò da laboratorietti, che più
facilmente potevano aver lavoro. In un corridoino allineò alcuni bischetti forniti
degli attrezzi più indispensabili per lavori di calzoleria, e cambiò in sartoria la vec­
chia cucina. Nei primordi egli stesso fu il maestro dei sarti, nè disdegnava di se­
dersi accanto agli allievi calzolai per addestrarli nel maneggio dei loro strumenti;
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ma non indugiò a scegliere due capi d’arte esterni, che dei giovani fossero anche
vigili custodi. Non basta. Presentò loro un regolamento di nove articoli, che essi
dovevano tenere esposto nei due laboratori e leggere pubblicamente ogni quindici
giorni “ a chiara voce ” , come ivi è detto. Ecco dunque le cellule primordiali delle
sue scuole d’arti e mestieri e il nocciolo della relativa sapiente regolamentazione.
Secondo progresso: classi ginnasiali. L ’occhio di Don Bosco sapeva discernere
fra ricoverati e ricoverati. Ve n’erano di famiglie un tempo agiate, ma poi deca­
dute, quindi non fatti per lavori manuali; altri apparivano dotati di sì bell’ingegno,
che sembrava disdicevole condannarli a rudi mestieri. Egli quindi coltivava a parte
questi tali, applicandoli allo studio. Nel 1850 ne aveva dodici, più del doppio nel
1853; poi andarono sempre aumentando di anno in anno.
Fino all’anno scolastico 1851-1852 era stato egli stesso il loro insegnante; ma
dopo, non potendo più continuare, ricorse alla benevolenza di due bravi profes­
sori privati, che godevano grande credito in città. Erano il cavaliere Giuseppe Bon-
zanino e il sacerdote Matteo Picco, il primo dei quali reggeva le tre classi del gin­
nasio inferiore e il secondo le due del superiore, frequentate le une e le altre da
figli di ragguardevoli famiglie. Essi non solo accettarono volentieri gli alunni di
Don Bosco, ma li dispensarono anche da ogni minervale, come allora si diceva
l ’onorario.
Parecchie e notevoli furono le benemerenze da loro acquistatesi con tanta
generosità. Aiutarono anzitutto efficacemente Don Bosco in cosa di somma im­
portanza, quale quella di avviare alle professioni liberali o allo stato ecclesiastico
una bella schiera di suoi ricoverati, che altrimenti sarebbero stati costretti a sep­
pellire i loro talenti o ad abbandonare la loro vocazione. Inoltre misero i poveri
giovani dell’Oratorio in contatto con signorini che poi fecero carriera o fortuna e
che mantennero con quelli divenuti salesiani i cordiali rapporti degli anni giova­
nili, prestandosi a favorirli comunque potessero. Nomineremo qui i conti Cra-
vosio, Roasenda, Bosco di Ruffino, Ceresa di Bonvillaret, Marchetti e con questi
i figli del BrofFerio e di Sineo che fu poi ministro, i due figli del ministro Santorre
di Santarosa, i fratelli Cesare e Coriolano Ponza di San Martino, poi generali e il
secondo anche ministro. Don Bosco a sua volta non tralasciava di dar prove di ri-
conoscenza per sì segnalati benefici. Infatti sapeva a tempo e luogo far gradire ai
professori qualche ricompensa pecuniaria e impartiva con assidua cura nelle loro
scuole l ’insegnamento settimanale della religione, gustato moltissimo dagli allievi,
che ne divenivano visibilmente migliori e più studiosi.
Sono fin qui, se si vuole, cose piccole in complesso; ma è la travagliosa e
promettente piccolezza delle cose grandi, quando nascono.
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15.9 Page 149

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CAPO XIII
LE “ L E T T U R E C A T T O L I C H E ”
Quando una diga si rompe, la piena delle acque ha insita la forza che la porta a
dilagare, a travolgere, a menar guasti dovunque arriva; la subitaneità del
caso coglie alla sprovvista, di modo che non è possibile sul momento porvi riparo.
Così fu in Piemonte per la legge sulla libertà di stampa. Caduti i vecchi argini, la
libertà, per opera di uomini già da lunga pezza preparati, degenerò in una licenza
che non conobbe più ritegno; i buoni invece, repentinamente sorpresi, non ave­
vano nulla di pronto per una efficace e sollecita reazione. Pullularono ben tosto
giornali di partito, seminatori di avversione alle cose e alle persone ecclesiastiche,
fossero essi recisamente settari o semplicemente liberali dalle varie tinte; predomi­
nava la diffusissima Qazzetta del Popolo. I protestanti dal canto loro non indugia­
rono a profittare della legge di emancipazione, ma presero subito a imperversare,
conducendo una nefasta propaganda contro la Chiesa e il clero mediante giornalu-
coli e libercoli, che diffondevano a larga mano, facendoli penetrare in seno alle fa­
miglie e serpeggiare in mezzo alla gioventù. A sostenere l ’idea cattolica sorse bensì
il 1° luglio 1848 l ’A rm onia, della quale fu poi anima il Margotti; ma la fazione av­
versa teneva il campo, come più agguerrita, più audace e inoltre sostenuta da gover­
nanti; V A rm onia inoltre non era fatta per il popolino. Gli assalti ora violenti ora
subdoli si ripetevano quotidianamente; dogma, culto, autorità ecclesiastiche, Or­
dini religiosi, nulla si risparmiava. S ’andò poi di male in peggio, allorché dopo la
guerra contro l ’Austria ci fu maggior libertà d ’ingaggiare la lotta contro il Papato.
D on Bosco vedeva e faceva. Nel 1849, come abbiamo detto, il suo periodico
A m ico della Qioventù, che gli costò denari e sacrifìci, ebbe vita non lunga, ma ono^
rata. Nel 1851, quando i valdesi divenivano invadenti, diede alle stampe un opu­
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15.10 Page 150

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scolo opportunissimo, che intitolò Avvisi ai Cattolici. Fissati alcuni punti fermi
sui doveri dei cattolici verso i loro pastori e verso il Pastore dei pastori, illustrava
in sei paragrafi con grande semplicità e chiarezza i “ Fondamenti della Cattolica
Religione ” , cioè le dottrine dai protestanti più combattute. Di questa pubblica-
zioncella in due anni si smerciarono duecentomila copie. La soverchia prudenza
di taluni avrebbe voluto distoglierlo dal cimentarsi così a visiera alzata con l ’eresia,
esponendosi a manifesti pericoli. Infatti [l’idra si contorse e schizzava veleno,
segno evidente che il libriccino, “ sebbene visibile appena ” , come l ’autore lo qua­
lifica in una lettera, le assestava colpi micidiali. Ma ai timidi consiglieri egli di­
chiarò che non paventava le ire dei nemici della fede e che per la fede sarebbe
stato ben lieto di dare anche la vita.
Mosso da questo zelo, Don Bosco meditava da tempo intorno a una pub­
blicazione periodica popolare, che incalzasse l ’errore nelle sue più riposte latebre.
Ne ragionò col Vescovo d’Ivrea, che con quello di Mondovì i presuli subalpini
nel 1849 avevano deputato a preparare un disegno di associazione per la diffusione
della buona stampa. Com’ebbe abbozzato un programma, lo sottopose all’ap­
provazione dell’Arcivescovo Fransoni, ottenuta la quale, ne informò l ’episcopato
piemontese per averne il consenso. Egli annetteva tanta importanza a questa ini­
ziativa, che, come per la fondazione dell’ospizio, così per la vagheggiata impresa
andò nel luglio del 1852 a implorare, come già altra volta, l ’aiuto della Madonna
nel suo celebre santuario di Oropa.
Dopo pratiche molte e laboriose, finalmente nel gennaio del 1853 erano ter­
minati i preparativi; si poteva dunque lanciare l ’annuncio col piano di associazione,
il che egli fece nel mese di febbraio. La pubblicazione avrebbe portato il titolo ge­
nerale di Letture Cattoliche. I libri sarebbero “ di stile semplice e dicitura popo­
lare ” e avrebbero contenuto materia che riguardasse “ esclusivamente ” la reli­
gione cattolica. In origine i fascicoli dovevano essere mensili; ma Don Bosco per
compiacere al Vescovo d’Ivrea consentì che se ne dessero due al mese, senza però
aumentare il numero complessivo delle pagine. Si continuò a questo modo per
tre annate; dopo le quali si rivenne all’idea primitiva di un fascicolo al mese. Il
prezzo di associazione era di lire due e ottanta centesimi all’anno. L’editore tori­
nese De Agostini rispondeva della stampa; l ’Oratorio provvedeva alla spedizione.
L ’annata cominciò in marzo. Per sei mesi consecutivi figurava primo fascicolo
parte di un’opera intitolata II cattolico istruito nella sua religione. Tra.lenimenti di
un padre di famiglia coi suoi figlioli, secondo i bisogni del tempo. Don Bosco aveva
preparato da un anno questo suo lavoro e l ’aveva fatto esaminare al Vescovo
d’Ivrea che gliene die’ lode. È un vero trattatello De vera religione in forma acces­
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16 Pages 151-160

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sibile a chi sia non solo digiuno di teologia, ma anche fornito di scarse lettere.
Da capo a fondo l ’autore mirava a raddrizzare le idee storte, che i protestanti spar­
gevano ai quattro venti.
Nel mese di maggio anche il secondo fascicolo apparteneva a Don Bosco. Ri­
correndo in quell’anno il quarto centenario del miracolo del Santissimo Sacra­
mento, accaduto in Torino il 6 giugno 1453, egli raccolse nel volumetto le notizie
storiche intorno al prodigio. L ’apologia antivaldese compariva negli accenni alla
presenza reale di Gesù neireucaristia e in un dialogo di appendice sui miracoli.
Tutti questi scritti spaventavano ogni volta più i revisori ecclesiastici. Invero
nè egli nè altri intingevano la penna propriamente in acqua di rose, ma scrivevano
di buon inchiostro, scevro tuttavia di qualsiasi acredine. Nella curia però si co­
noscevano troppo gli umori di certa gente, che si sapeva come fosse capace di tutto
contro tutti. Perciò gl’incaricati della revisione da prima evitarono di scoprirsi,
non apponendo la loro firma sotto la consueta formula: Con approvazione della
Revisione arcivescovile. Si tirò avanti così fino al sesto fascicolo; ma dopo non vi
fu più nessuno che volesse saperne di pigliarsi quella gatta a pelare, essendo persua­
sione comune che ne andasse la vita. E avevano ragione, come vedremo. Del
resto, vi sono circostanze in cui l ’eroismo non si può imporre.
Don Bosco certamente non aveva di queste paure. Desiderando rispettare le
leggi della Chiesa, espose il caso all’Arcivescovo, che da Lione pregò il suo suffra-
ganeo eporediese di provvedere. M ons. Moreno delegò il vicario generale, auto­
rizzandolo tuttavia a non mettere sotto l ’approvazione il proprio nome.
Quei fascicoli mitragliavano addirittura il campo nemico. I protestanti con
giornali e specialmente con le loro Letture evangeliche movevano al contrattacco ;
ma con ciò in ultima analisi facevano la pubblicità alle Letture Cattoliche. Quindi
cambiarono tattica. Di quando in quando alcuni dei più istruiti, recandosi da Don
Bosco nell’Oratorio, cercavano di tirarlo in discussioni, nelle quali ritenevano di
poterlo confondere per poi cantare vittoria e colmarlo di discredito. Ma ignora­
vano con chi avessero da fare. Don Bosco vide subito che il loro forte consisteva
nell’alzare la voce e nel saltare di palo in frasca; onde con opposto metodo dava
le sue risposte sempre calmo e li inchiodava inesorabile all’argomento.
Un giorno accadde un comico incidente. Si presentò a lui il ministro Meille,
molto noto in Torino; lo accompagnavano due capi valdesi. Fu accolto con la mas­
sima cortesia. La disputa durò sette ore filate. Uno degli accoliti, dibattendosi la
questione del purgatorio, appellò da un testo latino all’originale greco. Don Bosco
trasse dalla sua libreria la Bibbia greca e gliela porse. Colui la sfogliava adagio
e con sussiego, come per cercare il passo voluto. —■Ma che fa? l ’interruppe
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Don Bosco. Vólti così il volume. — E glielo capovolse, poiché lo teneva a ro­
vescio. L ’altro confuso buttò il libro sul tavolo e le controversie ebbero termine.
Anche personaggi autorevoli insistettero per far desistere Don Bosco da pub­
blicazioni che mettevano sossopra il mondo protestante, con pericolo di gravi con­
seguenze. Ma egli crollava il capo, e i fascicoli si succedevano puntuali ogni primo
e ogni sedici del mese. Anzi, perchè i giovani dell’Oratorio e altri con loro capis­
sero meglio, inscenò una commediola in due atti dal titolo: Una disputa tra un avvo­
cato ed un ministro protestante. Fattala rappresentare più volte, la diede poi alle stampe.
Finora non si era che alle prime avvisaglie. Vinti sul terreno della discussione,
gli avversari, anziché deporre le armi, ingaggiarono una lotta più accanita e con
mezzi più sbrigativi. Una domenica d’agosto del 1853 Don Bosco, uscendo da fare
la predica, si trovò a faccia a faccia con due signori, che cercavano di lui. Li invitò
a salire nella sua camera. Qui spiegarono il motivo della loro visita. Posto che di­
cessero il vero, li portava l’ammirazione per l ’abilità sorprendente di cui egli dava
prova nello scrivere popolare. Peccato, soggiungevano, che non rivolgesse una sì
preziosa dote a comporre buoni libri scolastici, invece di sciuparla nelle Letture
Cattoliche! Quelle essere cose fritte e rifritte, che non gli procuravano nessun
vantaggio. Desse retta a loro, scrivesse per le scuole: ne ricaverebbe anche utilità
materiale per l ’istituto affidatogli dalla Provvidenza. Gradisse intanto una loro of­
ferta che non sarebbe l ’ultima nè la maggiore; gli servirebbe per cominciare. Così
dicendo, gli porgevano quattro biglietti da mille.
Il Santo li pregò di tenersi quel danaro, scusandosi di non poter seguire il
loro consiglio. Allora i due sconosciuti gli fecero osservare che le sue Letture non
solamente erano inutili, ma potevano anche tornargli nocive e magari esporre la
sua persona a pericoli molto seri. Qui il diavolo scopriva la coda; ma Don Bosco
aveva già capito dove andassero a parare e: — Per amore della verità, disse, io non
temo nessuno. — Coloro, alzandosi da sedere, non seppero dissimulare quanto
si sentissero contrariati dalle sue parole, e con mal piglio lo avvertirono di stare
in guardia, perchè, uscendo di casa, non sarebbe sicuro di rientrarvi.
Dal di fuori uno scalpitìo, seguito da una spinta all’uscio, rivelò la presenza
di gente. Don Bosco, accortosi al par di loro che non si era soli, prese animo e
parlò alto: — Se loro conoscessero i preti cattolici, non scenderebbero a simili
minacce. I preti cattolici, finché sono in vita, lavorano volentieri per Iddio; se poi
nel compimento del proprio dovere avessero da soccombere, riguarderebbero la
morte come la più grande fortuna e la massima gloria.
Il suo coraggioso linguaggio irritò quei signori, che gli si avvicinarono con
atteggiamento ostile. Ma egli, afferrata la sedia: — Se volessi, disse, far uso della
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forza, vedrebbero quanto costi cara la violazione del domicilio di un libero citta­
dino. Ma la forza del sacerdote sta nella pazienza... Oh, finiamola, e partano di
qua! — Nell’intimar loro di andarsene, fece un mezzo giro intorno alla sedia e ser­
vendosene come di scudo, si accostò all’uscio, lo aprì e, veduto Buzzetti, gli disse
di condurre quei signori al cancello, perchè non erano pratici della scala. I due si
guardarono e uno brontolò: — Ci rivedremo in momento più opportuno.
Il
Buzzetti non era là per caso. Avendo notato prima nel fare dei visitatori
alcun che di sospetto, aveva preso con sè alcuni giovani interni e montava la
guardia. Ascoltando il dialogo e udendo le parole minacciose, si era fatto sentire.
Devo aggiungere che egli ed altri, accortisi già che il lunario segnava tempesta,
vigilavano da qualche tempo intorno a Don Bosco.
La sua attività in difesa della fede insidiata, non che restringersi, s’allargava.
I protestanti da due anni inondavano il Piemonte di un loro almanacco intitolato
L 'A m ico di casa, pieno zeppo di errori, manipolati però con arte sopraffina. Egli
preparò l ’antidoto. Compilò anche lui il suo almanacco, che intitolò II (galan­
tuomo, arricchendolo di nozioni pratiche e di notizie utili e rendendolo attraente con
curiosità di vario genere. Il sottotitolo Alm anacco Nazionale era pur esso significa­
tivo tanto per il momento storico quanto per il confronto col rivale, d ’ispirazione
esotica. Uscito nel gennaio del 1854, fu mandato come strenna agli associati delle
Letture Cattoliche. Piacque tanto che non se ne smise più l ’annuale pubblicazione.
Sul conto delle Letture Cattoliche anche i critici vollero dire la loro. Nell’ot­
tobre del 1853 una quarantina di ecclesiastici torinesi, radunatisi sotto la presidenza
dell’abate Peyron, professore di lingue orientali nella Regia Università, studiavano
le questioni del giorno riferentisi più da vicino all’esercizio del sacro ministero.
C ’erano pure Don Bosco e il Teologo Leonardo Murialdo. Si venne a ragionare
anche della necessità di pubblicazioni educative per il popolo. Che bella occasione
per Don Bosco di raccomandare le sue Letture Cattoliche! E non si fece pregare;
male però gliene incolse. Il presidente con parole caustiche stigmatizzò la cattiva
lingua con cui erano redatte quelle scritture. Al fondatore dei Giuseppini rincrebbe
assai la brutta figura fatta fare a Don Bosco dinanzi all’assemblea, tanto più che
alcuni degli astanti non lo riguardavano con simpatia. Egli per altro, benché punto
nel vivo, rispose umile e calmo che pregava i presenti di volerlo aiutare e consi­
gliare e che faceva invito a chi ne avesse il modo, di rivedere le bozze dei fascicoli
per migliorarne la forma letteraria. Il Murialdo respirò. Non ignorando la suscet­
tibilità degli scrittori verso chi si attenta a menomarne il merito, aveva temuto
qualche scatto di fierezza; invece, come confessò nel 1890, da quell’atto eroico di
Don Bosco arguì che egli certamente era un santo.
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Quella tal minaccia di agosto non fu mero sfogo di collera; poiché ben tosto
seguirono fatti che non si possono non mettere in relazione con la descritta visita.
Una sera, mentre Don Bosco faceva dopo cena la solita scuola serale, vennero
a chiamarlo in fretta per confessare un moribondo. Andò subito, ma accompa­
gnato da alcuni giovani più grandi, fra cui Buzzetti, che essendosi dovuto far am­
putare l ’indice della mano destra, aveva deposto l’abito chiericale. Venne condotto
a una casa detta Cuor d ’Oro, poco distante dall’Oratorio. I giovani rimasero fuori.
Egli entrò in una stanza al pian terreno, dove sei o sette buontemponi avevano
consumato, a quel che si vedeva, un’abbondante cena e stavano masticando ca­
stagne secche. Gli fecero un’accoglienza chiassosa, offrendogli castagne e vino, men­
tre s’andrebbe ad avvisare l ’infermo. Don Bosco ringraziò e non volle niente.
Allora uno riempì i bicchieri, ma per Don Bosco in segno d’onore mescè da
una bottiglia speciale. Egli, prese il bicchiere, brindò alla salute di tutti e poi lo
ripose. Si levarono forti proteste, quasi fosse un insulto per loro quel suo modo
di agire; due quindi lo afferrarono e tentavano di farlo bere per forza. Resistere
sarebbe stato causa di peggio. Disse dunque che, se volevano che bevesse, lo la­
sciassero in libertà,, perchè, tenendolo essi così, la mano gli tremava e il vino si
sarebbe versato. Gridarono tutti che aveva ragione. Lasciato libero, con una mossa
fulminea indietreggiò fino alla porta, la tirò a sé e fece entrare i suoi giovanotti.
La loro comparsa annientò i forsennati.
Don Bosco chiese allora dove fosse l ’ammalato. Lo menarono al piano superiore.
Qui un cotale, coricato, gli mugolò di sotto alle coperte che si sarebbe confessato
un’altra volta; ma non riuscì a nascondere il vero essere suo: Don Bosco ravvisò
in lui uno dei due venuti a chiamarlo nell’Oratorio. Tuttavia, come suggerì la pru­
denza, non se ne dette per inteso, ma gli rivolse qualche parola, quindi scese e uscì.
In seguito, alcuni giovani, indagando, scopersero che un ignoto aveva pagato
a quei figuri una succulenta cena, a condizione che facessero bere a Don Bosco
di un certo vino. Il Santo sullo scorcio della vita, uscendo talvolta a passeggio
e passando vicino a quella casa, soleva indicarla a chi lo accompagnava e dire:
— Ecco la casa delle castagne.
Un’altra sera di agosto, verso le diciotto, Don Bosco presso il cancelletto che
chiudeva l ’Oratorio, discorreva familiarmente con un gruppetto di ragazzi, quando
uno gridò: — Un assassino, un assassino! — Infatti un tale Andreis veniva di
corsa brandendo un coltellaccio e urlando: — Voglio Don Bosco, voglio Don Bo­
sco! — I giovani atterriti fuggirono. Era fra essi il chierico Reviglio. L’assassino,
credendolo Don Bosco, lo inseguì, finché, avvedutosi dell’errore, ritornò su’ suoi
passi; ma Don Bosco stava già barricato nella sua camera, dopo aver chiuso il
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cancello di ferro a pie’ della scala. Quell’omaccione, non riuscendo a forzarne la
serratura, si aggirò là sotto per tre ore. Sembrava o meglio si fìngeva pazzo e ogni
tanto a m o’ di sfida chiamava fuori Don Bosco. I giovani, perduta la pazienza, si
armarono di tutto ciò che cadde loro sotto le mani e stavano per irrompere uniti
contro di lui, quando dal ballatoio Don Bosco ingiunse loro di tornare indietro.
La questura, benché subito avvertita, mandò soltanto alle ventuna e mezzo due
guardie, che menarono via legato quell’energumeno.
Il curioso venne poi. Con procedimento insolito, la mattina dopo il questore
fece interrogare Don Bosco, se perdonava. Come cristiano e come sacerdote egli
perdonò; ma come cittadino e capo d ’istituto richiese guarentigie. Ebbene, quel
giorno stesso il malandrino fu rimesso in libertà e prima di notte si fece vedere
nuovamente in atto minaccioso attorno all’Oratorio. Due altre volte nella primavera
del 1854 ritentò il colpo, sventato l ’una e l ’altra volta dal giovanetto Cagliero, che
diede in tempo l ’allarme. Si ripetè la denuncia. Don Bosco in questura disse e ri­
disse che non intendeva sporgere querela, ma che invocava il suo diritto a essere
tutelato. Tanto, l ’istruire un processo contro il malfattore sarebbe stato peggio
che inutile; data la probabile acquiescenza delle autorità, sarebbe ricaduta sul prete
tutta l ’odiosità dell’azione giudiziaria.
Fu così che quel cattivo soggetto riebbe la sua piena libertà. Allora il commen­
datore Dupré, consigliere comunale e amico di Don Bosco, volle scoprire il mo­
vente di sì ostinato furore, e vi riuscì. Potè infatti sentire direttamente dal fur­
fante, che l ’avevano pagato e che se gli si desse quanto altri gli davano, avrebbe
levato l ’incomodo. Ciò saputo, Don Bosco fece saldare certi debiti che colui aveva,
disponendo per l ’anticipo di una somma in suo favore. Quell’offerta valse final­
mente ad acquetarlo.
Una perfida trama gli fu ordita, sempre nel 1853. Una domenica sul far della
notte un individuo corse a pregarlo di andar a confessare un’ammalata dinanzi
al Rifugio. Don Bosco, chiamati due giovani, fra cui l ’immancabile Buzzetti, si
mise in cammino. — Basto io ad accompagnarla, disse l ’uomo, non disturbi i gio­
vani. — Egli, facendo orecchie di mercante, ne chiamò altri due, un Arnaud e un
Cerruti, segnalati nell’Oratorio per forza e coraggio. Come fu al luogo accennato,
i due primi stettero in vedetta a pie’ della scala, gli altri due salirono con lui al
primo piano, appostandosi fuori dell’uscio.
Don Bosco, entrato nella camera, trovò una donna che ansava forte. A tal
vista invitò quattro giovinastri ivi seduti ad allontanarsi. — Prima di confessarmi
disse la donna, voglio che quel mascalzone là ritiri le sue calunnie contro di me. —
Fra lei e l ’interpellato sorse prima un battibecco, poi uno scambio di villanie, che
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diede luogo a un alterco generale con diluviare d’imprecazioni e di bestemmie;
pareva di essere nell’anticamera dell’inferno.
A un tratto, spento improvvisamente il lume, cominciò nel buio una tempesta
di legnate dirette verso il punto dove stava ritto Don Bosco. Indovinata la trista
manovra, egli dà di piglio a una scranna, se la pone sulla testa, perchè gli faccia
da paracolpi, e d’un balzo guadagna l ’uscio. Ma lo trova chiuso a chiave. In quella
i giovani con una spallata lo sfondarono e Arnaud, slanciatosi dentro e afferrato
per un braccio Don Bosco, lo trascinò fuori. Circondato dalla sua guardia del
corpo, Don Bosco si allontanò da quella casa di perdizione. Il suo capo era inco­
lume; solo gli doleva il pollice della mano sinistra. Una botta gli aveva portata
via l ’unghia e ammaccata la falange. Gliene rimase la cicatrice per tutta la vita.
Ai giovani raccomandò che non dicessero nulla a nessuno, ma che pregassero per
il ravvedimento di quei disgraziati.
Fu sempre convincimento di Don Bosco che tante violenze avessero una causa
sola, le Letture Cattoliche. Ogni numero sciorinava al pubblico verità sacrosante,
che disturbavano gli affari ai corifei dell’eresia. La forma era costantemente pacata
e cortese; anche dei fascicoli non suoi Don Bosco rivedeva le bozze, sopprimendo
ogni frase troppo vivace; ma si sa bene che veritas odium parit.
Del resto nel gennaio del 1854 una prova palmare gli confermò che non pren­
deva abbaglio sulla causa delle aggressioni. In un pomeriggio domenicale, mentre
i giovani stavano ancora in chiesa, due signori piuttosto eleganti picchiarono alla
sua porta e furono introdotti con la massima cortesia. Un giovane intelligente e
pieno di vita, Giovanni Cagliero, che aveva letto loro in volto un’aria poco rassi­
curante, si era andato a nascondere nella stanza attigua, origliando all’uscio interno.
Non potè afferrare la prima parte del colloquio; poi, al tono di certe botte e ri­
sposte, gli parve che coloro volessero per forza alcunché da Don Bosco e che egli
opponesse rifiuti. Da ultimo i due si scaldarono e Cagliero udì che dicevano: — In
fin dei conti, che importa a lei che noi predichiamo una cosa o l ’altra ? Che interesse
lei ha di darci contro? — Don Bosco rispose con pari energia essere suo dovere
difendere con tutte le sue forze la verità e la religione. — Dunque non desisterà
di scrivere le Letture Cattoliche? —- gli domandarono arrogantemente. Un No ri­
soluto fu la risposta. Il giovane intese allora come un fremito di minaccia, ma
non colse distintamente le parole; onde sferrò all’uscio un gran pugno e volò a
chiamare Buzzetti. Di lì a un istante erano entrambi alla porta di Don Bosco e fa­
cevano per entrare, quando uscirono i due forestieri con faccia tetra e moti con­
vulsi. Don Bosco li seguiva col berretto in mano, salutandoli tranquillo e cortese.
Nessuno avrebbe mai immaginato che cosa fosse accaduto nel momento del
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pugno, se molti anni dopo Don Bosco stesso non l ’avesse raccontato. Uno di
quei tali, estratte due pistole, minacciava di sparare, se Don Bosco non si piegasse.
— Tiri pure — aveva egli risposto, piantando a lui negli occhi il suo sguardo fermo
e penetrante. Il rimbombo improvviso consigliò di riporre in fretta le armi; il
quasi immediato rumore dei passi fece il resto. Forse la loro intenzione era stata
solo d ’intimidire.
L ’isolamento della casa di Don Bosco si prestava troppo bene agli agguati;
egli tuttavia non portò mai armi. Quando per ragioni di ministero rincasava tardi,
alcuni giovani più grandi andavano ad aspettarlo dove cominciava allora la soli­
tudine pericolosa di Valdocco; a volte anche lo accompagnavano buoni cittadini;
talora egli stesso richiedeva un milite al comandante del picchetto di Porta Pa­
lazzo. In altri casi lo soccorse la Provvidenza con un mezzo sui generis.
Questo mezzo fu un cane. Nessuno potè mai sapere donde venisse o dove
andasse, ma arrivava sempre a tempo. M olti lo videro, molto se ne parlò, molte
volte Don Bosco ne raccontò le prodezze. La cosa ha della leggenda; ma vi sono
impegnate l ’autorità di testimoni fededegni e la veracità di un Santo.
Il
misterioso animale fece da sè la sua presentazione l ’anno prima delle Let­
ture Cattoliche. Don Bosco sul tardi ritornava tutto solo a casa. U n cane gli si ac­
costò alPimprovviso. Era un bel cagnone grigio, come raramente se ne vedono.
Al primo vederlo Don Bosco si spaventò; ma tosto notò che si comportava con
lui da vecchio amico. Procedettero in festevole compagnia fino all’ingresso dell’Ora-
torio, dove si separarono.
Il
gran da fare cominciò per il caro bestione nel 1853. Allora Don Bosco,
tutte le sere che percorreva da solo il tratto deserto dal manicomio in giù, se lo
rivedeva a fianco ; se poi era accompagnato e chi andava con lui prendeva commiato
prima che si fosse al termine della zona malfamata, il Grigio (è il nome datogli
da Don Bosco) subito ne pigliava il posto. Una sera invece gl’impedì l ’uscita,
sdraiandosi presso il cancello. Non ci fu verso di farlo muovere; anzi, se Don
Bosco tentava di passare rasente gli stipiti, il cane lo arrestava, cacciandoglisi fra
i piedi. La madre a tal vista lo scongiurava di non uscire. Egli per non lasciarla
in pena rientrò. Ma non trascorse un quarto d ’ora che un vicino corse a dirgli
di non andare fuori, perchè sapeva di sicuro esservi gente in agguato per lui.
U n ’altra sera se la vide brutta. A mezza via fra Porta Palazzo e il rondò di Val­
docco un tale gli correva dietro con un randello in mano. Prese anche lui la corsa
per non essere raggiunto; ma nella discesa, dove ora mette capo la via Cigna, ecco
parecchie facce proibite che si avanzavano con l ’evidente intenzione di prenderlo
fra due fuochi. Urgeva liberarsi dal primo, che era già a pochi passi. Don Bosco
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si ferma, lo attende, gli punta il gomito nel petto e lo manda supino e senza fiato
in terra. Messo quello fuori di combattimento, si volta, e già gli sono addosso
gli altri coi bastoni alzati. Si sente perduto, ma eccogli accanto il Grigio che latra
e ringhia e si avventa con tanto furore contro i malandrini, che sarebbero morti
di spavento, se Don Bosco non avesse chiamato la bestia. Lasciati liberi, se la bat­
terono, e il cane scortò lui fino alla porta della cucina, dove mamma Margherita
ebbe appena tempo di fargli una carezza, che quello se n’andò.
Gli attentati si succedevano sotto varie forme. Non molto dopo, per il mede­
simo viale, uno scherano, appostato dietro un vecchio olmo, gli sparò contro due
colpi di pistola, che andarono falliti. Allora gli si slanciò addosso per ferirlo di
coltello; ma sbucò non si sa donde il Grigio, che lo assalì, lo mise in fuga e poi
accompagnò Don Bosco secondo il consueto.
Nel novembre di quel tragico anno, scendendo dalla Consolata verso la Pic­
cola Casa, Don Bosco avvertì fra il buio e la nebbia il rumore dei passi di due
uomini che lo precedevano. Non c ’era dubbio che fossero due male intenzionati,
perchè misuravano sul suo il loro andare. Fece per ritornare indietro e riparare
in qualche casa; ma quelli, agili come leopardi, gli balzano addosso e lo imba­
vagliano con un mantello. Egli si dibatte, essi maggiormente lo stringono; egli fa
per gridare, uno gli tura la bocca. Ma un improvviso e violento abbaiare lo fa
avvisato che c ’è il Grigio. Ritornato padrone dei suoi movimenti, gitta il mantello
e vede il cane che addenta l ’uno e lo atterra, mentre l ’altro alza i tacchi; ma non va
lontano che la bestia lui pure rovescia nel fango, e poi si avventava or contro l ’uno
or contro l ’altro, finché alle loro disperate implorazioni Don Bosco fe’ cenno al
suo fido difensore, che all’istante ristette, e i ribaldi se la diedero a gambe. Al
povero Don Bosco quella volta, dallo spavento sofferto, venivano meno le forze;
onde entrò al Cottolengo e chiese un qualche ristoro. Il Grigio, aspettatolo fuori,
lo ricondusse fieramente a casa.
Non posso descrivere qui le piacevoli scene, quando il Grigio scherzava coi
giovani nel cortile o mostrava le sue tenerezze per Don Bosco nel refettorio, senza
però mai accettare pane o altro. Fino al 1855 fu il suo provvidenziale, dirò così,
canis ex machina. Appresso si fece ancora vedere in momenti critici; ma allora lo
spauracchio delle Letture Cattoliche non armava più il braccio dei sicari.
Terminato col febbraio del ’54 il primo anno delle Letture, Don Bosco si sen­
tiva così poco scoraggiato per tante persecuzioni, che, quasi nulla fosse, indirizzò
agli associati una lunga circolare, nella quale, dopo aver reso conto del gran bene
già ottenuto con quelle pubblicazioni e del sempre maggior male operato dai pro­
testanti, non che della benedizione particolare inviatagli da Pio IX, conchiudeva
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dicendo: “ Intanto annunciamo che l ’associazione continua Aggiungeva anzi
che di tutti i fascicoli pubblicati era in corso di stampa la traduzione francese per
la Savoia, unita ancora al Piemonte, e per la valle d ’Aosta.
Ma continuare sarebbe stata una vana parola, se fosse mancata la sua tenacia
invitta e la sua sapiente e laboriosa direzione. Procurare collaboratori ecclesiastici
e laici, crescere il numero degli associati, scovare in ogni città e villaggio chi si
facesse centro per la diffusione, scrivere infinite lettere e circolari, regolare l ’ammi­
nistrazione, trattare con l ’editore e sorvegliare la stampa furono, in mezzo a mille
altre occupazioni, cure sue assidue. Certe volte in tipografia si aspettava d ’urgenza
l ’originale da comporre ed egli, che non aveva ancora nulla di pronto, preparava
da un giorno all’altro il fascicolo, impiegandovi anche la notte intera. Nei primi
quindici anni o per i numeri usciti dalla sua penna o per l ’attento esame degli al­
trui lavori che completava e correggeva, si può asserire che la collana fu opera sua.
Così nacquero le Letture Cattoliche di Don Bosco. I profani avrebbero giurato
che, nate sotto cattiva stella, non sarebbero vissute a lungo; Don Bosco invece
dal vedersi per quelle accanitamente preso di mira, argomentava che la Provvi­
denza le voleva, essendo cosa ordinaria che un’impresa quanto più ridonda a gloria
di Dio e a bene delle anime, tanto più vada soggetta a dure prove. Per questa
sua creazione egli si appassionò fino all’estremo della vita. Se l ’umile periodico
non ha cessato ancora di esistere, ciò si deve attribuire in gran parte a un delicato
senso di rispetto per la memoria di tanto suo amore.
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CAPO XIV
PAGINA D’ORO NELLA STORIA DELL’ORATORIO
E una pagina di storia, che ad altri forse piacerà meglio chiamare canto di
poema; chè realmente un gran poema stava Don Bosco elaborando, di­
vino poema della carità.
Nell’estate del 1854 un grave flagello era alle porte. Il colera, scoppiato a Ge­
nova in luglio e diffusosi rapidamente nella Liguria, minacciava sul cadere del mese
la città di Torino. Le notizie che giungevano dai luoghi infetti, impaurivano la
gente, e durante simili morìe non c ’è la peggior cosa che star con paura. Don Bosco
non volle che questa avanguardia del contagio gli portasse la perturbazione in casa;
perciò diede egli stesso ai giovani dell’ospizio l ’annuncio che il tristo malanno si
approssimava. Suo scopo era di mantenerli tranquilli, e vi si adoperò con argomenti
di fede. Parlò dunque loro in questo senso. — Sapete voi qual è la cagione ditali
calamità? Una sola, il peccato. Se voi tutti non commetterete neppure un peccato
mortale, non temete, il colera non vi toccherà. Porterete pure al collo una me­
daglia di Maria Santissima, che io benedirò e vi distribuirò; direte inoltre ogni
giorno un Pater, A v e e Qloria con l ’Oremus di S. Luigi, aggiungendo la giacula­
toria: A b omni malo libera nos, D om ine.
Stabilita la calma negli animi, prese le precauzioni imposte dall’igiene: dare
il bianco alle muraglie, diminuire il numero dei letti nei dormitori e quindi riat­
tare altre camere per quest’uso, provvedere biancheria, migliorare il vitto. Erano
spese che lo dissanguavano. L ’aveva bensì rifornito di denaro una terza lotteria,
fatta con gli oggetti rimasti dalla prima, i quali non dovettero essere pochi, se si
estrassero 214 premi; ma fu come neve al sole. E la carità pubblica, oltreché per
l ’avanzarsi dell’epidemia, diminuiva sempre più per il rincaro dei viveri causato
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dagli scarsi raccolti e dalla guerra russo-turca. Nondimeno l ’Armonia del 10 agosto,
quando si denunciavano già parecchi casi al giorno in Torino, stampò un calo­
roso appello alla cittadinanza, perchè si venisse in aiuto a Don Bosco nelle sue
strettezze.
Un aiuto d’altro genere gli giunse allora, imperiosamente richiesto dalle cir­
costanze. Dice un proverbio che Dio manda il freddo secondo i panni; ma tal­
volta bisognerebbe dire che Dio manda i panni secondo il freddo. Per governare
da solo e bene un’ottantina di ragazzi interni Don Bosco faceva una vita sacrifica­
tissima; nelle immimenti difficoltà poi, volendo arrivare a tutto, gli sarebbe stato
necessario il dono abituale della bilocazione. Ed ecco proprio allora inviarglisi dalla
Provvidenza un valoroso collaboratore nella persona di un umile sacerdote, Don
Vittorio Alasonatti, maestro elementare ad Avigliana, sua terra natale. Don Bosco
l ’aveva incontrato a S. Ignazio sopra Lanzo durante un corso di esercizi spirituali;
quindi a poco a poco se l ’era guadagnato talmente, che gli rese accetto l ’invito
a dividere con lui le fatiche dell’Oratorio interno. I patti furono chiari: da parte
di Don Alasonatti, molto lavoro e poco riposo, e da parte di Don Bosco, vitto, ve­
stito e paradiso. A sì inaudite condizioni il 14 agosto quel buon prete venne a
stabilirsi nell’Oratorio, assumendovi sotto l ’obbedienza di Don Bosco l ’incarico
della disciplina e dell’amministrazione.
Il colera cominciava a infierire. Nella parrocchia di Borgo Dora il Municipio
impiantò due lazzaretti, di uno dei quali affidò a Don Bosco l ’assistenza spirituale.
Egli per altro, non meno che Don Alasonatti, accorreva dovunque fosse richiesto.
I giovani di fronte alla terribile apparizione, col relativo incalzarsi di lugubri
notizie, sarebbe stato già molto se non si fossero dati in preda a panico timore.
Invece la loro grande preoccupazione era di vivere in grazia di Dio; onde ogni sera
dopo le preghiere assediavano Don Bosco per averne consigli e soluzioni di dubbi,
ed egli, benché affaticato, li ascoltava a lungo senza dar segno di tedio. Ma questo
non è nulla a petto di quello che si dirà.
Costava poco al Municipio aprire lazzaretti; ma il busilli stava nel trovare
infermieri. Non c ’era paga che valesse ad accaparrarne un numero sufficiente. Preti,
religiosi e suore si dedicavano al caritatevole ufficio, ma al bisogno bastavano solo
in parte. Quanti infelici languivano e morivano nell’abbandono! Don Bosco de­
scrisse ai giovani le infinite miserie, di cui era quotidianamente spettatore, e rap­
presentò loro l ’urgenza di avere chi fosse disposto a sacrificarsi per amore del
prossimo. Non predicò al deserto. Alla sua promessa d’incolumità credevano; la
condizione imposta veniva adempiuta. Orbene quattordici dei più robusti diedero
subito il nome alla commissione sanitaria, mettendosi a sua disposizione, per il
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servizio dei colerosi; pochi giorni dopo trenta altri ne seguirono l ’esempio. Erano
poveri giovani dai quindici ai sedici anni; erano consci del terrore che metteva in
fuga dal letto degli appestati anche gli stretti parenti; erano testimoni dello squal­
lore che regnava in città; eppure non esitarono a entrare in azione.
Andavano ordinariamente dove giorno per giorno Don Bosco li destinava, o
in pubblici lazzaretti o in case private. Qui, attenendosi per sè alle norme profilat­
tiche dal medesimo insegnate, apprestavano ai colpiti le cure che da lui pure ave­
vano apprese. Le prime impressioni erano state, a dir vero, poco incoraggianti. Il
contorcersi delle vittime, il cadaverico lividore delle loro facce, gli occhi infossati,
lo spirare fra spasimi atroci causarono da principio anche qualche svenimento;
si pensi che spesso per cacciar via dagli infermieri prezzolati la paura, occorreva
inebriarli di liquori. Tuttavia non uno si ritrasse dall’opera santa. L ’esempio e la
parola di Don Bosco influirono su di essi più che qualsiasi stimolante, sicché
riempiva di ammirazione il vedere con quali premure servissero ognuno il proprio
infermo.
A ll’Oratorio tornavano solo per pigliare un boccone. Ne arrivavano a ogni
ora, secondochè potevano sospendere il servizio. Mamma Margherita li sfamava
e li ascoltava. Udendo di necessità estreme, cavava biancheria dalla guardaroba,
finché giunse a vuotarla. U n giovane le disse del suo malato, che non aveva più
un cencio per coprirsi; essa, non avendo più che prendere, gli diede una tovaglia
da tavola. Un altro le riferì di parecchi sofferenti che si trovavano nelle stesse
condizioni; essa ottenne dal figlio licenza di dare una tovaglia d ’altare, un amitto
e un camice.
Divulgatasi in Torino la fama dell’abnegazione di quei giovani, piovevano a
Don Bosco domande per averne come infermieri; anche il Municipio ricorreva
a lui, perchè ne mandasse in luoghi indicati. L ’Arm onia del 16 settembre ne scrisse
alti elogi. “ Questi giovani, diceva, animati dallo spirito del loro padre più che
superiore, si accostano coraggiosamente ai colerosi, inspirando loro coraggio e
fiducia, non solo colle parole, ma con fatti, pigliandoli per le mani, facendo le
fregagioni, senza dar vista del menomo orrore o paura. Anzi, entrati in casa di un
coleroso, si volgono tosto alle persone esterrefatte, confortandole a ritirarsi se
hanno paura, mentre essi adempiono a tutto l ’occorrente, eccettuato che si tratti di
persone del sesso minore, che in tal caso pregano che alcuno di casa resti, se non
vicino al letto, almeno in luogo conveniente. Spirato il coleroso, se non è donna,
compiono intorno al cadavere l ’estremo ufficio ” . Anche il Tommaseo, stabilitosi
a Torino in maggio, conobbe, ammirò ed encomiò tanto eroismo. In una sua let­
tera del 3 ottobre con la quale pregava Don Bosco di prestargli due volumi del Ro­
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smini, non si potè trattenere dallo scrivere: “ So della generosa carità esercitata
da Lei e dai suoi nella malattia che minacciava specialmente i poveri della città;
e anche di ciò le debbo ringraziamenti vivissimi come cristiano
Nessuno seppe mai, se non molto tempo dopo, che il morbo fatale era pene-
trato nella camera di Don Bosco. Una notte, quando già ferveva l ’opera di assi-
stenza, egli si svegliò artigliato dal male. Aveva piedi e gambe assiderati e aggran­
chiati ; impeti di vomito gli squassavano le viscere. Per non mettere in agitazione
la casa, decise di liberarsene da sè solo. Fece anzitutto una preghiera alla Madonna.
Quindi intraprese una veementissima ginnastica degli arti superiori e inferiori, la
quale gl’immerse tutto il corpo in un profluvio di sudore. Spossato, s’addormentò,
svegliandosi al mattino in condizioni normali.
Verso il medesimo tempo un altro episodio di natura ben differente afflisse
dapprima e poi consolò il cuore di Don Bosco. Uno de’ suoi più animosi giovani
infermieri era il sedicenne' Giovanni Cagliero. Egli l ’aveva menato all’Oratorio da
Castelnuovo nelPautunno del 1851. Nell’esercizio della grande carità Cagliero con-
trasse un’infezione tifoidea, che sul finire di settembre lo ridusse agli estremi. I
medici dichiararono il caso disperato. L’amico Buzzetti lo avvertì del pericolo e
Don Bosco si recò da lui per disporlo a ben morire. Ma quale sorpresa ve lo at-
tendeva! Appena messo piede sulla soglia della camera, vide una colomba lumi­
nosa, che, recando nel becco un rametto d’olivo, fece un volo tondo e posatasi
sul capezzale sfiorò con la frondicella le labbra dell’infermo, lasciandogliela poi
cadere sul capo; infine folgorò d’un lampo abbagliante e sparì. Don Bosco s’a­
vanza; ma ecco una seconda visione. Scomparse le pareti, figure strane di selvaggi si
accostano al letto, fissano lo sguardo nel morente e sembrano invocare soccorso.
Spiccano sul gruppo due individui curvi sul giovane, uno deforme e nerastro,
l’altro di statura e membra atletiche e dal colore di rame. Poi tutto si dileguò.
Entrambe le scene si svolsero rapidamente come le proiezioni sullo schermo cine­
matografico, nè alcuno dei presenti si accorse di nulla.
Per allora Don Bosco credette di comprendere chiaramente che la morte non
sarebbe venuta, e confusamente argomentò che la vita del suo alunno sarebbe
stata una vita di apostolato. Quindi, avvicinatosi al giovane, gli domandò se pre­
ferisse andare subito in paradiso o guarire e aspettare. — Quello che è meglio
per me — fu la risposta. E Don Bosco: — Per te sarebbe meglio andare in para­
diso ora che sei giovane. Ma il Signore ha disposto diversamente. Ci sono molte
cose da fare. Guarirai, diverrai prete e col tuo breviario sotto il braccio ne avrai
da fare dei giri!
Cagliero, che si sentiva la coscienza tranquilla, disse che dunque si sarebbe
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confessato quando fosse fuori di letto, nè si parlò più di sacramenti. Stava per
entrare nella convalescenza, quando un grappolo d ’uva recatogli da parenti lo ri­
piombò nel male con sintomi peggiori di prima. Di nuovo però contro ogni spe­
ranza si riebbe. La guarigione volle il suo tempo, ma fu perfetta. Di qui innanzi
avremo più volte occasione d ’incontrarlo.
Al cessare dell’epidemia, l ’ospizio dell’Oratorio albergava trentasei ricoverati
■di più, senza dover piangere neppure un decesso.
L ’aumento era effetto del colera. Fanciulli poveri in buon numero, resi im­
provvisamente orfani, movevano a pietà. Don Bosco in un giorno solo ne raccolse
ben sedici, che condusse con sè e allogò nella sua casa. Il Municipio, che aveva
•dovuto improvvisare un orfanotrofio presso la chiesa di S. Domenico, cercava chi
volesse curare l ’istruzione degli orfanelli. Don Bosco vi si profferse e ne fu con
gratitudine incaricato, sicché in seguito divideva il suo tempo fra l ’Oratorio, i co­
lerosi e l ’orfanotrofio municipale. Chiuso poi questo in dicembre e distribuiti i
fanciulli in vari istituti di beneficenza, venti dei più piccoli toccarono a Don Bo­
sco, che ne formò una classe a parte.
Non si può dire certamente che fosse benignità del colera la preservazione
dell’Oratorio. Torino, secondo il censimento del 1847, contava appena 125.268
abitanti; il numero dei morti di colera, se pure la cifra non riuscì alquanto addo­
mesticata, sommò a 2456. Uno dei quartieri più flagellati fu proprio quello di
Valdocco; basti osservare che nelle sole quattro case situate là nei pressi dell’Ora­
torio, perirono quaranta persone. E abbiamo visto con che santa imprudenza i
giovani si slanciassero nel pericolo. Se dunque alla promessa di Don Bosco rispose
la realtà, era da saperne grado a una causa superiore.
La condotta dei giovani di Don Bosco impressionò vivamente la cittadinanza,
formando oggetto di prolungati e simpatici commenti, massime fra le persone che
erano in grado di apprezzarne il merito. Il fatto poi che nell’invasione generale del
morbo una casa come l ’Oratorio fosse rimasta quasi un’oasi privilegiata, non
parve a tutti spiegabile con un semplice e comodo ricorrere al caso. Ne conseguì
naturalmente una più estesa conoscenza dell’Opera e un progressivo moltiplicarsi
di benefattori.
In ottobre la mortalità ebbe termine. Don Bosco per la festa del Rosario con­
dusse ai Becchi i giovani maggiormente bisognosi di svago e di aria pura. Dio ve
lo aspettava per fargli un magnifico regalo. A M ondonio, villaggio confinante con
Castelnuovo, viveva un giovanetto, il quale mostrava in sè più dell’angelico che
dell’umano. Don Bosco appena lo vide intuì i tesori di grazia che si nascondevano
in quell’anima, e lo accettò fra i suoi alunni. Così al principio del nuovo anno
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scolastico entrò nell’Oratorio Domenico Savio, che sotto la direzione del Santo
doveva fare mirabili ascensioni e rallegrare la casa con l ’olezzo delle sue virtù, nè
già di virtù ordinarie e comuni, ma di virtù portate al grado eroico, siccome la
Chiesa ha autorevolmente dichiarato.
Rimaneva un dovere a compiere, perchè il fortunoso periodo potesse consi­
derarsi definitivamente chiuso: bisognava ancora rendere grazie a Dio per l’im­
munità dal contagio. Venne scelto per questo un giorno solennissimo fra i solenni:
l ’8 dicembre, quello storico 8 dicembre 1854, nel quale Pio IX dal Vaticano
proclamava Urbi et Orbi dogma di fede l ’immacolato Concepimento della Madre
Santissima di Dio.
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CAPO XV
“ PER IL BENE DEL RE E DELLA CHIESA”
Come ogni buon piemontese, Don Bosco amava cordialmente i suoi Sovrani.
Anche motivi di gratitudine lo animavano verso di essi, giacché non ricor­
reva mai invano alla loro munificenza. Per altro il suo attaccamento non aveva nulla
della cortigianeria interessata; la sua era u n ’affezione, dirò così, sacerdotale, che
gli faceva voler bene alle anime, fossero queste di re o di sudditi, di ricchi o di
poveri, di grandi o di piccoli. Ciò gli conferiva una evangelica libertà, con la quale
sapeva dire a ognuno caritatevolmente il vero e siffatta carità del vero egli rendeva
a tutti in cambio della carità materiale ricevuta.
Dal 1850 i partiti anticlericali con diatribe parlamentari, con attacchi giorna­
listici e con voti di consigli provinciali e comunali venivano creando la cosiddetta
pubblica opinione in favore di due leggi : legge di soppressione degli ordini religiosi
e legge d ’incameramento dei beni ecclesiastici. Il colera fece sospendere la campagna;
cessato il flagello, la lotta si riaccese. Il 28 novembre 1854 Urbano Rattazzi, guarda­
sigilli, presentò ai deputati un suo disegno di legge per la soppressione dei conventi.
Poco prima della presentazione era entrato in scena Don Bosco. In novembre,
quando sull’argomento già ardevano le polemiche, egli non potè esimersi dal chia­
rire le idee ai giovani, che, stando a contatto continuo e vivo con l ’esterno, co­
noscevano la grossa controversia. Lo fece in un sermoncino dopo le orazioni della
sera, ricavando la morale non da una favola, ma da un curioso documento sto­
rico, che riguarda l ’abbazia di Altacomba.
Questo celebre monastero cistercense, proprietà di Casa Savoia, sorge sulla
riva savoiarda del lago Bourget. Lo fondò il duca Amedeo III nella prima metà del
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■secolo XII. Usurpato durante l ’occupazione francese, lo ricuperò il re Carlo Fe­
lice nel 1824; ma, essendo stato ridotto a un ammasso di rovine, ci vollero anni
molti per la sua ricostruzione. Le opere di abbellimento durarono fin oltre il 1860.
■Quindi il nome di Altacomba correva allora nel Piemonte.
Orbene nelle carte di fondazione si leggono scritte, non si sa da qual duca
•sabaudo, bibliche maledizioni sul capo di chiunque dei discendenti avesse mai l ’ar­
dire di sopprimere l ’abbazia o di usurparne i beni, come appunto sarebbe avve­
nuto in forza della nuova legge. Eccone la traduzione: “ Se mai alcuno dei nostri
•eredi o qualsiasi altra persona attenterà a questa nostra donazione e in qualsivoglia
modo la violerà, resti maledetto e come Adamo, facendo contro la volontà del
Signore, fu sbandito dal Paradiso, così anche colui venga segregato dal consorzio
•di tutti i fedeli e gli rimanga chiuso in perpetuo l ’ingresso al Regno celeste e gli si
aprano invece le porte dell’inferno, dove sia dal diavolo tormentato senza fine,
e appresso questa donazione duri stabile in eterno ” .
Don Bosco nel rievocare questo documento ebbe il doppio scopo di mo­
strare come la pensassero gli avi dei regnanti in materia di Ordini religiosi e a quali
pericoli si esponessero i violatori di questi.
Uno degli ascoltanti, il chierico Angelo Savio, giovane pieno di ardore, ne
riportò sì forte impressione, che divisò di scrivere al Re. Don Bosco non trovò
nulla a ridire. Il chierico, avuto il testo del documento, lo trascrisse, si firmò debi­
tamente e spedì. Vigevano ancora fra Casa Reale e popolo torinese i legami quasi
patriarcali d’un tempo, sicché scrivere al Sovrano non significava per sé agire con
soverchia confidenza. A Vittorio Emanuele II la lettera spiacque. Per iscoprirne
l ’autore interrogò il marchese Fassati, che godeva intera la sua fiducia. Questi,
essendo nell’Oratorio come di casa, perchè vi faceva il catechismo, indovinò su­
bito la provenienza del foglio, ma prudentemente tacque. Venne però a lagnar­
sene con Don Bosco, incitandolo a riprendere con severità il Savio. Don Bosco
al contrario ne giustificò l ’operato, dimostrando che l ’atto di lui rendeva testi­
monianza della sua devozione verso la reale famiglia.
Di lì a poco egli fece un sogno misterioso. Vide entrare nell’Oratorio uno
staffiere di Corte. Ne riconobbe subito la qualità dalla caratteristica livrea rossa.
— Grande notizia! gridò quegli a Don Bosco, ritto presso la fontana fra un gruppo
di giovani. Annuncia: gran funerale in Corte. — Ciò detto, si allontanò, prima
che Don Bosco avesse tempo di chiedergli spiegazioni.
Questo sogno lo riempì di tristezza; vi ravvisava un mònito dall’alto. Quindi,
stese la minuta di una lettera al Re, narrandogli semplicemente la cosa e scongiu­
randolo di non permettere la presentazione del progetto di legge; poi incaricò
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Savio di copiare e spedire. Egli seppe in seguito da persone ben informate che il
Re aveva letto, ma senza punto curarsene.
Cinque giorni appresso Don Bosco fece un altro sogno. Gli parve che, mentre
sedeva al tavolino scrivendo, risonasse improvviso nel cortile lo scalpitare di un
cavallo e che un minuto dopo gli entrasse in camera il medesimo staffiere gridando :
—■Annuncia: non gran funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte. — Poi lo
vide con la rapidità del fulmine uscire, scendere, montare in sella e via. Allo spun­
tare dell’alba scrisse tutto al Re. Nessuno dei Reali era infermo: Don Bosco però
ritenne che nei due sogni si minacciasse la morte per più d ’uno. Lo disse ai chie­
rici, raccontando loro ogni cosa, affinchè nella casa si pregasse molto per il Re
e per la famiglia reale.
Vittorio Emanuele prima si turbò, poi s’incollerì e rimise entrambe le lettere
al marchese Fassati. Il marchese tornò a rimproverare gravemente Don Bosco;
ma Don Bosco, manifestandogli il suo vivo rincrescimento per il dispiacere cagio­
nato al suo Re, soggiunse che l ’aveva fatto, che l ’aveva dovuto fare per il bene
del Re e della Chiesa.
Intanto il disegno Rattazzi fu presentato al Parlamento. Iniziatasene la discus­
sione, il Ministero nella seduta del 9 gennaio 1855 presentò ai deputati anche il
secondo disegno su ll’incameramento dei beni ecclesiastici. Il paese si divise in due
campi fieramente avversi, scavandosi sempre più l ’abisso di quel fatale dissidio
religioso, che doveva disunire gl’italiani e tenerli disuniti fino alla venuta del grande
Pontefice che l ’avrebbe rotta con un passato di settantacinque anni.
Si combatteva nel Parlamento, si battagliava nel paese. Alla lotta impose
tregua un lutto repentino. Il 12 gennaio dopo breve malattia cessava di vivere la
regina madre Maria Teresa, universalmente venerata e amata per le sue grandi virtù_
Prima che la salma della defunta si avviasse a Superga, il Re ricevette una lettera
senza indicazione di sorta. Vi si diceva: “ Persona illuminata ab Alto ha detto: Apri
l ’occhio; è già morto uno; se la legge passa, accadranno gravi disgrazie nella tua fa­
miglia. Questo non è che il preludio dei mali. Erunt mala super mala in domo tua ” . Il
Re ne fu tanto più scosso, perchè, come riferisce il Tavallini nel suo La vita e i tempi
di Qiovanni Lanza, aveva già detto al generale Alfonso La Marmora: — Mia madre e
mia moglie non fanno che ripetermi che esse muoiono di dispiacere per causa mia.
Suggellata appena la tomba di Maria Teresa, nel giorno stesso 16 gennaio venne
portato il Viatico alla regina Maria Adelaide. Questa notizia addolorò tutto il
Piemonte, non solo perchè in Piemonte le sventure del Re erano sventure del
popolo, ma anche per l ’affetto che ogni ordine di cittadini portava a ll’augusta So-
vrana. Quattro giorni dopo, alla sera del 20, essa rendeva la sua bell’anima a Dio»
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Terminati i giorni del lutto ufficiale e riapertasi il 3 febbraio la Camera, la
discussione della legge fu nuovamente sospesa per dar luogo all’esame del trattato
di alleanza sottoscritto dal Cavour il 10 gennaio con la Francia e l ’Inghilterra
contro la Russia ; in forza di esso il Regno sardo avrebbe partecipato alla guerra con
l ’invio di 15.000 uomini in Crimea. Si giunse all’approvazione il 10 febbraio con
procedimento accelerato, perchè si potesse riprendere tosto la sospesa discussione
precedente. Ma ecco sopraggiungere una terza inaspettata sospensione: nella notte
dal 10 sull’l l morì Ferdinando Duca di Genova, unico fratello del Re.
La ragion politica, più forte di qualsiasi altra considerazione, trascorso il pe­
riodo di lutto, fece riattaccare la discussione del progetto Rattazzi, che la Camera
dei Deputati approvò il 2 marzo. Il ministro lo presentò subito al senato, che lo
mise all’ordine del giorno per il 23 aprile. Fra queste due date Don Bosco diede
fuori in due fascicoli delle Letture Cattoliche un lavoro del barone Nilinse intito­
lato: I beni della Chiesa, come si rubino e quali siano le conseguenze; con breve appen­
dice sulle vicende del Piemonte. Nel bollor delle polemiche il libro sollevò scal­
pore. La polizia ne avrebbe voluto il sequestro; il deputato Brofferio gridava fra
colleghi non potersi tollerare una simile provocazione e doversi cercare e severa­
mente punire l ’autore. Il chiasso finì nella decisione che fosse miglior consiglio
da parte dell’autorità affettare indifferenza.
La Chiesa in quella congiuntura si mostrò tutt’altro che intransigente. L’epi­
scopato subalpino, col beneplacito della Santa Sede e per bocca del suo rappre­
sentante senatore Calabiana, Vescovo di Casale, avvertì il Re che avrebbe proposto
un compromesso onorevole sotto ogni riguardo e lo presentò al senato. Allora
per impedire che la mossa producesse il suo effetto, gli uni aizzarono la piazza
contro l ’invadenza pretina, altri premettero sul Sovrano, quasi ne andasse l ’onore
del suo nome e la sicurezza della monarchia. Durante quei trambusti il 17 maggio
l ’ultimo figliolino di Vittorio Emanuele, nato, dodici giorni prima che morisse la
madre, benché godesse ottima salute, quasi improvvisamente si spense. Così in
quattro mesi il Re aveva perduto madre, moglie, fratello e figlio: quattro ferite
nei quattro più intimi affetti domestici.
In senato la legge passò con la maggioranza di nove voti su novantacinque
votanti. Mancava soltanto la firma reale, perchè si procedesse alla distruzione dei
conventi e al sequestro delle loro proprietà: Don Bosco volle fare un estremo ten­
tativo. Dettò al Savio una lettera al Re così concepita: “ Sacra Reai Maestà! Ieri
mi sono trovato in una conversazione, e tra le persone presenti vi era Don Bosco.
Si parlava delle cose del giorno e della legge Rattazzi passata al Senato. Don Bosco
disse: — Se io potessi parlare al Re, gli direi: Maestà, non sottoscrivete la legge
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soppressiva dei conventi, altrimenti sottoscrivereste molte disgrazie su voi e sulla
vostra famiglia. Di ciò vi avverto come suddito fedele, affezionato ed ossequente ” ,
Il chierico si firmò Savio Angelo di Castelnuovo d ’Asti.
Don Bosco non si sentiva ancora pago: gli sembrava di non dover lasciare
nulla d ’intentato, finché rimanesse un filo di speranza. Scrisse egli stesso al Re
una lettera in latino e gliela fece recapitare per mezzo di un valletto castelnovese,
suo lontano parente. Questa volta il Re prese la cosa molto sul serio, tanto che,
venuto il momento della firma, disse di sospendere, perchè desiderava prendere
tempo e pensarci su. La sua coscienza era evidentemente turbata.
Ciò vedendo, i ministri gli proposero di chiamare alcuni teologi, perchè giu­
dicassero i suoi dubbi. Il Re annuì. Convennero al palazzo alcuni preti dottori
in diritto canonico. Il Re stesso espose laconicamente lo stato della questione, co­
municò loro le lettere di Don Bosco e si ritirò. I consultori se la sbrigarono molto
in fretta. Il Re avvertito rientrò nella sala. Quanto alle lettere, si sentenziò che il
tempo delle rivelazioni era finito da un pezzo. Quanto alla legge, il relatore si ad­
dentrò in una disquisizione sui diritti dello Stato di fronte alla Chiesa, finché il
Re, che poco o nulla gli teneva dietro: —■ Insomma, lo interruppe, posso in
coscienza firmare questa legge? — I canonisti risposero che certamente sì. E quel
giorno medesimo, 29 maggio, la firmò.
Gli ecclesiastici consultori erano stati oculatamente scelti dai ministri fra i
discepoli di Nepomuceno Nuytz, che aveva insegnato diritto canonico nella Regia
Università di Torino fino al 1851. Il laico professore, nell’aria di regalismo che
allora spirava là entro, ebbe nel clero non pochi seguaci, frequentanti la facoltà
teologica universitaria. Una delle tesi da lui propugnate era che nel conflitto della
potestà civile con l ’ecclesiastica la prima dovesse prevalere.
Uno dei suddetti consiglieri, incontrato poco dopo Don Bosco, lo rimpro­
verò acerbamente per le lettere insolenti, diceva, scritte al Re; tentò poi di giu­
stificare con ragioni il proprio operato, impartendogli una lezione di diritto cano­
nico, com’egli lo intendeva. Ma il Santo ribattè i suoi argomenti, dicendogli infine
con apostolica franchezza che provvedesse alla sua coscienza. L’altro, offeso più
da questo richiamo che dalla confutazione, gli volse indispettito le spalle. Tuttavia
non andò molto che gli divenne amico, nè cessò, finché visse, di beneficarlo e con
vera generosità.
Personalmente il Re non inclinava a invadere la giurisdizione ecclesiastica;
quindi avrebbe preferito che si prendesse in considerazione la proposta dei Vescovi.
Nel dì della firma disse, visibilmente infastidito, a un generale che partiva per la
Crimea: — Fortunato lei che va a combattere i Russi! Io invece devo restare a
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combattere frati e monache. — In altra occasione rivelò il suo sentimento dicendo:
— Questa legge mi procurerà i lamenti di tutti i religiosi. Risponderò che mi fanno
pena le loro sofferenze, ma che innanzi tutto sono Re costituzionale.
Quante cose si sarebbero accomodate allora, prima e poi, se i governanti non
fossero stati sotto l ’influsso di poteri occulti, nemici acerrimi del Papato e della
Chiesa! Nel 1850, stando per entrare in porto la legge Siccardi contro il foro ec­
clesiastico, la piissima Regina madre aveva fatto di tutto per ritrarre l ’augusto suo
figlio dal sanzionarla senza intendersi col Papa, come già egli le aveva promesso
e come sarebbe stato possibile. Esiste una commovente sua lettera del 9 agosto
1850 a Vittorio Emanuele, nella quale è notevole questa coincidenza di pensiero
con le minacce di Don Bosco. “ Chi sa quanti castighi, quanti flagelli di Dio ci
attirerà per te, per la famiglia e per il paese se approvi e sanzioni. Pensa qual sa­
rebbe il tuo dolore se il Signore facesse ammalare gravemente od anche se si pren­
desse la tua cara Adelaide [Maria Adelaide] che tu con santa ragione tanto ami o
la tua Chichina [Clotilde] o il tuo Betto [Umberto]; e se potessi vedere dentro il
mio cuore, quanto sono addolorata, angustiata, spaventata dal timore che tu san­
zioni subito questa legge per le tante disgrazie, che son certa che ci porterà, se sarà
fatta senza il consentimento del Santo Padre, forse il tuo cuore che è proprio
buono e sensibile e che ha sempre tanto amato la sua povera mammina, si lasce­
rebbe intenerire ” .
Don Bosco, finché non ogni possibilità fu preclusa di scongiurare l ’irrimedia­
bile, non aveva cessato di scrivere al Re, il quale un giorno gli fece dire che le
sue lettere gli toglievano la pace. Agitato dai timori dopo i primi lutti, due volte
scese a Valdocco per vedere dove stava Don Bosco e per conoscerlo. La prima
volta era un lunedì mattina di buon’ora; egli venne a cavallo con un aiutante di
campo, girò intorno all’Oratorio e, visto il chierico Cagliero, gli accennò di avvi­
cinarsi. Chiestegli notizie di Don Bosco e udito che non istava guari bene per le
gravi fatiche della domenica, si allontanò. La seconda volta venne in carrozza con
il generale conte d’Angrona; ma neanche allora lo potè vedere. Il chierico Fran-
cesia ne fu testimonio.
Alcuni giorni dopo accadde una mezza tragedia. Il suddetto conte, infilata
senza tanti complimenti la porta della camera di Don Bosco, gli domandò alla mi­
litare, soddisfazione della sua pretesa di voler imporre al Re il modo di reggere lo
Stato. Quanto più Don Bosco si sforzava di placarlo, tanto più quegli inveiva,
usando anche termini poco parlamentari. Infine gli intimò di scrivere una lettera
sotto suo dettato. — Purché non sia una ritrattazione! — rispose Don Bosco, ac­
cingendosi a scrivere. Ma poiché l ’altro dettava espressioni con cui si disdicevano
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le cose scritte al Re, Don Bosco rifiutò di continuare. Il generale irritatissimo
portò la mano a ll’elsa della spada. — Io di lei non ho paura — gli disse allora con
tutto candore Don Bosco. Di fronte a un atteggiamento simile, il generale lo guardò
stupito e con espressione interrogativa. — Non ho paura, ripigliò Don Bosco,
perchè lei è un gentiluomo e un soldato e quindi non vorrà certo fare violenza a
un povero prete senz’armi. —• E continuò a spiegare la propria condotta con pa­
role improntate a tanta evidenza, cortesia ed anche arguzia, che l ’avversario alla
fine non era più lui. Don Bosco giunse a dirgli con tutta semplicità che sarebbe
andato a restituirgli la visita. Il conte gli rispose che si sarebbe tenuto onorato di
riceverlo. Questa visita diede poi luogo a una conversazione di un ’ora, ma in forma
così compita e cordiale, che il conte lo voleva fermare a pranzo. Poiché per altro
Don Bosco aveva già pranzato, gli fece gustare almeno il vino squisito delle sue
vigne. Da quel punto furono poi sempre buoni amici.
Nemmeno Vittorio Emanuele serbò rancore a Don Bosco. Infatti ancora due
volte, a Torino e a Firenze, cercò di rivederlo; ma a Torino Don Bosco non si tro­
vava in casa e a Firenze il Re seppe della sua presenza quand’egli era già partito.
V i ha di più. Nel 1867, a ll’Arcivescovo di Genova mons. Charvaz, già suo pre­
cettore dal 1825 al 1834, disse testualmente: —■Don Bosco è davvero un Santo.
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CAPO XVI
INIZI DELLA SOCIETÀ SALESIANA
N ella discussione parlamentare del 5 maggio 1855 sulla legge Rattazzi il Cavour
non nascose a sè e al senato il presagio che con quella legge si sarebbe aperta
la porta a un numero di congregazioni religiose maggiore delle sopprimende. I
fatti confermarono la previsione, per fare la quale del resto non occorreva essere
profeta. L’insopprimibile aspirazione alla pratica dei consigli evangelici avrebbe
cercato nella stessa legislazione liberale l ’ubi consistam per far risorgere sotto nuove
forme il vecchio istituto della vita religiosa.
Quello che il Cavour divinava, venne due anni dopo dal Rattazzi stesso con­
sigliato, anzi raccomandato. Il ministro alessandrino, entrato in relazione con Don
Bosco dal 1854, nutriva per lui grande stima, nè cessò mai più di dargliene signifi­
cative dimostrazioni. Una di queste appartiene al 1857. Un giorno, conversando
con lui, gli si mostrò preoccupato della sorte che sarebbe toccata alla filantropica
sua Opera degli oratorii, quand’egli venisse a mancare. Don Bosco lo pregò di
esporgli a pieno il suo pensiero. Allora il ministro gli suggerì di scegliersi e for­
marsi alcuni laici ed ecclesiastici, che potessero un giorno diventare suoi continua-
tori, ma legandoli in una Società che avesse norme ben determinate e desse affi­
damento di stabilità. A u n ’uscita così inattesa Don Bosco inarcò le ciglia. Non
aveva egli dinanzi a sè l ’autore della famosa legge di bando e di spogliamento con­
tro le comunità religiose? Il ministro imperturbabile riconobbe la necessità di un
vincolo religioso che unisse i membri della costituenda Società, purché la Società
si componesse d ’individui che conservassero i diritti civili, obbedissero alle leggi
dello Stato, pagassero le imposte, formassero insomma un’associazione di liberi
cittadini viventi insieme per uno scopo di beneficenza. Il Governo metterebbe tale
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società alla pari con tante altre di commercio, d’industria, di cambio, di mutuo soc­
corso e simili. Don Bosco lo ringraziò del suggerimento, riserbandosi di riflettere
e di rivolgersi in appresso all’autorità di lui per consiglio e appoggio.
Parrà strano questo linguaggio in un Rattazzi. Anche Don Cerruti, come de­
pose nei processi, cadde dalle nuvole, quando udì da Don Bosco il racconto del
fatto e quasi indignato qualificò d ’ipocrisia quel parlare. — Adagio, mio caro, gli
rispose Don Bosco. Rattazzi, opportunista in Parlamento, era sincero quando par­
lava con me. Con me diceva quel che sentiva e pensava internamente. — Inoltre
dalle labbra di Don Bosco uscì il 1° maggio 1876 questa affermazione: — Rattazzi
volle con me combinare vari articoli delle nostre Regole riguardanti il modo di
comportarci rispetto al codice civile e allo Stato. Certe previdenze per evitare di
essere molestati dalla potestà civile furono tutte sue.
Non bisogna dunque fraintendere una frase che corre per le biografie di Don
Bosco, essere state cioè per lui uno “ sprazzo di luce ” le parole del Ministro.
Quelle parole non gli fecero già concepire allora l ’idea della Società salesiana, nè
egli finse per cortesia o per politica d ’intenderle in tal senso; ma esse lo illumi­
narono realmente sul modo di costituire la Società. Il problema era di creare una
Società religiosa che di fronte allo Stato apparisse Società civile. Società di tal fatta
non ne aveva mai vedute il Piemonte. A Don Bosco premette subito di accertarsi se
fosse possibile un istituto, civile in faccia al Governo e religioso in faccia alla Chiesa;
un istituto insomma, i cui membri fossero ad un tempo liberi cittadini e legati
da voti. Consultò in proposito vari Vescovi, interpellò uomini dotti e pii, e le
risposte gli giunsero da ogni parte favorevoli.
Quanto al disegno di associarsi persone atte a coadiuvarlo e a succedergli,
non aveva bisogno di aspettare l ’ispirazione dal guardasigilli piemontese. Certo, cer­
tissimo della sua missione a prò della gioventù, egli durò incerto per alcun tempo
sulla maniera di metterla in atto. Da solo naturalmente non avrebbe potuto fare
gran che. Col progredire dell’Opera si procurava aiutanti avventizi e senza vincolo
di dipendenza; ma vedeva bene che quello era un fabbricare sull’arena. Pensò di
ascriversi a un istituto religioso già esistente, il quale gli potesse lasciare libertà di
azione e fornire soggetti che facessero all’uopo; ma non ne trovò alcuno. Arrivò
così al 1847, nel qual anno finì di comprendere che per esplicare l ’attività indica­
tagli nei sogni, una creazione ex novo s’imponeva, e che per questo gli bisognava
cercarsi da sè i compagni di lavoro e plasmarli a modo suo.
Plasmarli stava bene, ma e poi? La preparazione andava condotta in guisa che
a un dato momento gl’individui fossero disposti a vivere con lui, uniti da un qual­
che vincolo di coscienza. Ci voleva insomma una congregazione religiosa. Ma tre
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ostacoli vi si opponevano: l ’ostilità governativa, il pregiudizio popolare ed anche una
certa avversione del clero. Il primo e il terzo ostacolo per buona pezza li avrebbe po­
tuti eludere, ma non in tutto escludere al momento opportuno; il secondo ostacolo
invece era immanente. La denigrazione sistematica aveva messo in discredito tutto
ciò che sapesse di frate, come con sommaria e sprezzante denominazione si designava
chiunque professasse i voti religiosi. I ragazzi stessi venivano su imbevuti ditali sen­
timenti. Ora qui si parrà in tutta la sua finezza il tatto di Don Bosco, nel condurre
cioè i suoi prescelti dov’egli intendeva, senza svelare intempestivamente la sua mira.
Ma lungo il cammino un quarto ostacolo si levava ad arrestargli il passo:
l ’ostacolo delle delusioni. Quante fatiche, quante spese, ad esempio, per tirare su
i primi quattro chierici summentovati! Presili com ’erano, poveri ragazzi, e fattili
bonini, li aveva portati avanti negli studi fino all’esame di vestizione e li aveva
vestiti. Poi con ogni mezzo li aveva legati a sè, invogliandoli a farsi suoi aiutanti
nell’Opera degli oratorii. Insinuava pur loro che per la buona riuscita dovevano
essere nelle sue mani come il suo fazzoletto; e in così dire lo traeva di tasca, lo
piegava e ripiegava, lo stringeva nel pugno e lo spiegava al vento, lo sfilacciava e lo
carezzava. Erano i primi rudimenti della vita religiosa. Ma le belle speranze svani­
rono pressoché per intero. Gastini depose l ’abito e poi uscì dall’Oratorio; Bellia
entrò nella sua diocesi biellese; Reviglio aiutò Don Bosco fino al 1857, quando fu
ordinato prete, e quindi passò nel clero diocesano; solo Buzzetti, deposto l ’abito,
non si staccò più da Don Bosco. E questa è la storia di tanti altri che, allevati da
Don Bosco, sul più bello, quando finivano i loro studi, gli dicevano addio.
Ad allettare i giovani contribuiva molto il racconto dei sogni sull’andamento
e sull’avvenire dell’Oratorio, sullo stato morale dei singoli, su prossimi casi di
morte; tali cose impressionavano, crescevano autorità alla sua parola e affeziona­
vano alla casa. Contribuiva il metodo educativo da lui usato, come vedremo. Con­
tribuivano soprattutto le sue prediche e conferenze, nelle quali, senz’aver l ’aria
di farlo con intenzione, dipingeva a smaglianti colori le bellezze di una vita intera­
mente consacrata a Dio e dedita a ll’apostolato della gioventù. Non si lasciava però
mai sfuggire espressione che significasse incitamento ad abbracciare lo stato reli­
gioso. A quelli che scorgeva più inclinati alla pietà, ripeteva soltanto che li avrebbe
voluti sempre con sè in terra per istare poi sempre insieme nel cielo.
Inoltre a questi soli teneva speciali conferenze. In un fogliettino del giovane
Michele Rua si legge di una siffatta conferenza tenuta il 5 giugno 1852, alla quale
parteciparono fra gli altri con lui parecchi divenuti appresso insigni salesiani, come
Angelo Savio, Francesia e Cagliero. Di u n ’altra conferenza della stessa natura, ma
a giovani chierici, serbò memoria scritta il medesimo Rua con la data del 26 gen­
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naio 1854. È un documento di somma importanza, poiché ci tramanda questa no­
tizia: “ Ci venne proposto di fare coll’aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales,
una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venire poi ad una
promessa; e quindi, se sarà possibile e conveniente, di farne un voto al Signore.
Da tale sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e si propor­
ranno tale esercizio
Rua era chierico dal 3 ottobre 1852. Le vestizioni chiericali si moltiplicavano
di anno in anno. Don Bosco vi premetteva sempre u n ’accurata preparazione. Tanti
però dopo qualche tempo lo lasciavano in asso. Tuttavia rimaneva sempre di chie­
rici un certo numero, che dava nell’occhio a ecclesiastici estranei. Questi non si
sapevano render conto del perchè Don Bosco se li tenesse in casa. Che cosa ne
avrebbe fatto? chi mai glieli avrebbe ordinati? e anche divenuti preti, come avrebbe
impedito agli ordinanti di prenderli per sè? Don Bosco rispondeva a tutti evasi­
vamente e continuava.
Di voti religiosi ancora non si faceva motto: anzi Don Bosco, secondo la te­
stimonianza di Don Rua nei processi, aveva qualche difficoltà a introdurli, ma si
contentava piuttosto della promessa di perseveranza nell’aiutarlo e della pratica
di virtù rispondenti ai voti: al qual effetto consigliava voti ad breve tempus. Il chie­
rico Rua fu il primo che nel secondo anno di filosofia, a ll’Assunzione del 1855,
emise i voti ad annum.
Don Cafasso, suo confessore, lo sollecitava a gettare le basi di una Congrega-'
zione con voti regolari; ve lo stimolavano pure il fedelissimo Don Borei e altri,
che, ansiosi di veder assicurata l ’Opera degli oratorii, conoscevano in confuso le
sue intenzioni. A lui invece stava più a cuore che i predestinati acquistassero lo
spirito di sommessione, praticata non coacte, ma ex animo. Questo non si poteva
ottenere se non a costo di grande longanimità; un ’imposizione qualsiasi non avrebbe
presentato una ragione plausibile alla mente dei giovani, che ignoravano l ’abbici
della vita religiosa, nè sentivano il bisogno d ’impararlo, e quindi sarebbero stati
tentati di scuotere il giogo e andarsene: tanto più che le famiglie non sognavano
altro che di tirarli a casa, non appena fossero preti. —• Bisognava arm arsi di pru­
denti riguardi, — disse Don Bosco nel 1875, rievocando quei tempi lontani. E
proseguiva: ■—• Io vedeva che quei chierici, benché divagati, lavoravano volentieri,
erano di buon cuore, di moralità a tutta prova, e, passato quel fervore di gioventù,
mi avrebbero poi aiutato molto e molto. E debbo dire che allora erano in quel nu­
mero i vari preti della Congregazione che adesso sono fra quelli che faticano di
più, che hanno il migliore spirito ecclesiastico e di congregazione; ma allora certo
si sarebbero ritirati da me, piuttostochè assoggettarsi a certe regole restrittive.
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Questo lavorìo proseguito con costanza fra innumerevoli sacrifici e disdette
per ben dieci anni, gli procurò finalmente nel 1857 la consolazione di vedersi at­
torno un gruppetto d ’individui, sui quali poteva contare. Allora gli parve tempo
di proporre una Regola, che veniva elaborando dal 1855. Pregava dunque fervida­
mente il Signore che lo illuminasse, faceva pregare tutta la casa per una grazia im­
portante, ma non specificata, e intanto vi meditava sopra. Poiché vari Ordini e
Congregazioni, a cui ne aveva fatto richiesta, si erano rifiutati di favorirgli il testo
delle loro Regole, erasi ingegnato di trarre lume dalla storia ecclesiastica, dalle cose
manifestategli nei sogni, da scambi d ’idee e da corrispondenze epistolari con per­
sone eminenti e dalla propria esperienza. Nella sua Congregazione egli voleva in­
fondere il perenne spirito religioso sotto forme del tutto nuove, atte a ispirare
non solo fiducia, ma anche simpatia. Ecco perchè non pensò mai a seguire l ’uso
antico di chiamare i suoi religiosi dal suo proprio nome.
Nel 1857 il codice basilare della nuova Congregazione era compilato; ma
com ’ebbe terminato di scrivere la protesta finale A d maiorem Dei gloriarvi, u n ’infe­
stazione diabolica, con urli strani e terrificanti, gli sollevò nella camera un turbinìo
d ’inferno, dopo di che egli raccolse in un angolo il manoscritto così imbrattato
d ’inchiostro che era illeggibile e lo dovette rifare a memoria. Fortuna che la me­
moria lo serviva! A ltri brutti scherzi della medesima provenienza l ’avevano mo­
lestato nei giorni antecedenti, come anche nel primo anno della sua dimora sta­
bile a Valdocco, e come torneranno a molestarlo assai peggio dal 1862 in poi.
Ai chierici ben predisposti fece dunque nel 1857 le prime comunicazioni con­
fidenziali sull’ideata Società, leggendo loro e commentando certi punti delle Re­
gole, senza tuttavia prospettare nettamente il suo scopo definitivo. La cosa non
rimase tanto segreta che non se n ’avesse qualche sentore fuori dell’Oratorio, col
sospetto che si trattasse di Congregazione, ed ecco di nuovo i consigli gratuiti
dell’umana prudenza. Come mai fondare una Congregazione in tempi così tristi?
come trovare i soggetti? come sottrarli agli artigli del Governo? Orbene proprio
allora avvenne il provvidenziale abboccamento col grande soppiantatore dei con­
venti. L’ora di agire gli parve giunta.
Confortato dal parere favorevole di persone serie, scrisse a ll’Arcivescovo Fran-
soni, mettendolo a parte del suo disegno e pregandolo di dirgli che cosa ne pen­
sasse. L’Arcivescovo non solo approvò, ma per camminare sul sicuro gli racco­
mandò di recarsi a Roma e di esporre tutto a Pio IX.
Il viaggio a Roma fu fissato per il febbraio del 1858. Anzitutto egli si munì
d ’una buona raccomandazione dell’esule Pastore. Fatto quindi il suo bravo testa­
mento, partì il 18 di quel mese, prendendosi a segretario il chierico Rua. Portava
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in sè una certa preparazione spirituale; poiché per il prossimo marzo, inizio del­
l ’anno sesto delle Letture Cattoliche, aveva allestito un fascicolo contenente le bio­
grafie di cinque Papi vissuti fra la fine del secondo e il principio del terzo secolo,
per comporre la quale operetta gli era stato necessario approfondire le ricerche
intorno alla primitiva vita cristiana di Roma.
Navigò da Genova a Civitavecchia, soffrendo assai per il mal di mare. A Pale
il locandiere, presso cui sostò per rifocillarsi, basiva dalla febbre malarica e teneva
proprio l ’anima coi denti. Nel partire gli prescrisse alcune orazioni e divozioni;
quando ripassò nel ritorno, lo rivide in perfetta salute e seppe che la guarigione
era stata istantanea. A Roma fu ospite dell’amico conte Rodolfo De Maistre, figlio
del celebre Giuseppe.
Nella lunga attesa dell’udienza pontificia, impiegò le giornate in visite a per­
sonaggi, a istituti di beneficenza e a monumenti sacri. La sua fede s’infiammava
alla vista di tante venerande memorie. Entrando in S. Pietro, la prima cosa che lo
colpì, come si legge in una memoria compilata a Roma dal suo segretario, furono
le marmoree statue dei fondatori di Ordini religiosi.
Tre volte venne ricevuto da Pio IX. Nella prima udienza del 9 marzo gli fece
omaggio delle Letture Cattoliche e rispose alle molte sue domande sull’opera degli
oratorii. — Quando penso a quei giovani, gli disse il Papa, rimango intenerito per
quelle trentatrè lire inviatemi a Gaeta. — Allorché Don Bosco stava per affron­
tare l ’argomento che formava lo scopo del viaggio e prima che aprisse bocca in
proposito, il Santo Padre uscì in questa domanda: — Mio caro abate, voi avete
messo molte cose in movimento; ma se voi veniste a morire che cosa ne sarebbe
dell’opera vostra ? — L’interrogazione parve ispirata dal cielo. Don Bosco, presen­
tando la commendatizia dell’Arcivescovo, rispose: — Supplico Vostra Santità a
volermi dare le basi di una Istituzione che sia compatibile con i tempi e i luoghi t
in cui viviamo. — Il Papa, letta la lettera, esclamò: — Si vede che andiamo tutti
e tre d’accordo. —•Quindi gli disse di redigere le Regole di una Società organizzata
in modo che non potesse venire inceppata dal Governo e che legasse i membri
coi veri voti religiosi, non con semplici promesse.
Dalla prima alla seconda udienza trascorsero dodici giorni, nei quali Don Bo­
sco riprese le visite alla città dei Papi. La sera del 21 Pio IX, che aveva ponderato
bene il progetto di Don Bosco e si era convinto maggiormente della sua bontà,
spiegò meglio il concetto già accennatogli, dicendo fra l ’altro: — Mi sembra ne­
cessaria una nuova Congregazione religiosa in questi luttuosi tempi. Essa deve fon­
darsi sopra queste basi. Sia una Società con voti, perchè senza voti non si manter­
rebbe l ’unità di spirito e di opera; ma questi voti devono essere semplici e da
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potersi facilmente sciogliere, affinchè il malvolere di alcuno dei soci non turbi la
pace e l ’unione degli altri. Le Regole siano miti e di facile osservanza. La foggia
di vestire, le pratiche di pietà non la facciano segnalare in mezzo al secolo. Forse
a questo fine sarebbe meglio chiamarla Società, anziché Congregazione. Insomma
studiatevi di fare in modo che ogni membro di essa in faccia alla Chiesa sia un
religioso e nella civile società sia un libero cittadino. — Allora Don Bosco gli
umiliò il manoscritto delle costituzioni, che il Papa sfogliò alquanto e pose sullo
scrittoio. Quindi si fece raccontare minutamente come fosse nata e come si fosse
sviluppata l ’opera degli oratorii, ascoltando con vivo interesse.
Ebbe l ’ultima udienza la sera del 6 aprile. Ormai aveva finito di visitare tutto
il visitabile, tesoreggiando un ricco materiale per le Letture Cattoliche, per la cui
diffusione negli Stati Pontifici ottenne speciali agevolazioni da quel Governo. Il
Papa aveva letto da capo a fondo l ’abbozzo delle costituzioni; anzi vi aveva fatto
di suo pugno modificazioni e note. Restituendolo disse a Don Bosco di consegnarlo
al cardinale Gaude, perchè lo esaminasse. Questo dotto porporato era domeni­
cano e piemontese; Don Bosco nei giorni antecedenti aveva conferito parecchie
volte con lui su ll’affare. Pio IX avrebbe voluto che dopo la relazione del Cardinale
quelle Regole fossero senz’altro rimesse a ll’esame di una Congregazione cardina­
lizia; ma Don Bosco lo pregò che gli permettesse di farne prima un esperimento
di qualche durata, e fu esaudito. Nell’accomiatarlo, l ’amabile Pontefice, aperto lo
scrigno, ne trasse tante monete d ’oro quante ne potè stringere fra le due mani e
gliele porse dicendo: — Prendete e date poi una buona merenda ai vostri figlioli.
Il cardinale Gaude eseguì prontamente il mandato. Egli conosceva l ’Oratorio
avendolo visitato il 26 giugno del 1857. In parecchie conferenze con Don Bosco
gli suggerì alcuni ritocchi, ma fu d ’accordo con lui, che le Regole così modificate
si cominciassero a praticare alquanto per poi rinviarle a lui, che le avrebbe sotto­
poste all’approvazione della Santa Sede.
Don Bosco lasciò Roma il 14 aprile. Due giorni dopo rimetteva piede nell’Ora­
torio, tutto in festa per riceverlo. Ritornava carico di favori spirituali per sè, per
i suoi e per gli amici, e con un mondo di notizie, che per lungo tempo rallegra­
rono e talora entusiasmarono tutta la casa.
Per un anno e mezzo con quelli che egli preparava tacitamente alla Congre­
gazione, non vi fu altra novità che una maggiore frequenza delle conferenze forma­
tive, condotte in modo da orientare e avvicinare sempre più gli animi al vagheg­
giato ideale. Il velo dell’arcano cadde il 9 dicembre 1859, dopo che si era celebrata
con particolare fervore la solennità dell’immacolata. Radunati gli ammessi alle se­
grete cose e rappresentato loro tutto il bello e il buono di una Congregazione re­
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ligiosa, annunciò essere giunto il momento di dare questa forma alla loro unione:
vi sarebbero ascritti solo quelli dei presenti, che dopo matura riflessione si sen­
tissero disposti a fare col tempo i voti di povertà, castità e obbedienza. Ognuno
perciò si apparecchiasse a dichiarare la propria intenzione; il non presentarsi più
alle conferenze sarebbe per sè indizio di non voler aderire. Sciolta l ’adunanza, più
d ’uno andava mormorando: — Don Bosco ci vuole frati! — Lo stesso Cagliero,
agitato da opposti pensieri, ondeggiava fra il sì e il no; finalmente disse a un amico:
— O frate o no, tant’è, io voglio restare con Don Bosco.
Il giorno 18, alla conferenza di adesione, due soli non si fecero vivi; gli ade­
renti erano 17, compreso Don Alasonatti. Vi figuravano i nomi più cari ai Sale­
siani: il diacono Savio, il suddiacono Rua, i chierici Cagliero, Francesia, Proverà,
Ghivarello, Lazzero, Bonetti, Cerniti, Durando. Nel verbale dell’adunanza è detto:
“ Piacque ai congregati di erigersi in Società o Congregazione, che avendo di mira
il vicendevole aiuto per la santificazione propria, si proponesse di promuovere la
gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente delle più bisognose d ’istruzione
e di educazione ” . Seduta stante, si procedette all’elezione dei membri che dove­
vano costituire il consiglio direttivo. Tutti unanimi pregarono Don Bosco ini­
ziatore e promotore ” che volesse gradire la carica di Superior maggiore. Egli ac­
cettò con la riserva della facoltà di nominare il prefetto. Non opponendosi nes­
suno, designò a tale ufficio Don Alasonatti, che già lo copriva. Quindi con votazione
segreta vennero eletti direttore spirituale il suddiacono Rua, economo il diacono
Savio, consiglieri i chierici Cagliero, Bonetti e Ghivarello. Nei fasti della Chiesa
non si era mai visto un piccolo nucleo di giovincelli dar principio a una Congre­
gazione destinata a divenire mondiale. Tempi nuovi, vita nuova.
Questo consiglio, denominato poi Capitolo superiore, esercitò per la prima
volta le sue funzioni il 2 febbraio 1860, procedendo all’accettazione del giovane
coadiutore Giuseppe Rossi, fatto in seguito provveditore generale della Società per
le cose materiali e divenuto uno di quegli uomini che per l ’importanza dei loro
servizi si sogliono dire, entro una data sfera di azione, indispensabili.
Qui si può far punto con la storia delle origini. Origini umili e laboriose, ma
ben singolari. Nessun fondatore d’ordine o di congregazione aveva tentato mai
nulla di simile. Don Bosco infatti gettò le fondamenta del suo Istituto con elementi
non venutigli d ’altronde, ma sorti, per così dire, e cresciuti sotto i suoi occhi e
pazientemente elaborati dalle sue mani. Perciò le basi della costruzione riuscirono
talmente salde, che finora l ’edificio non ha sofferto incrinatura di sorta.
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19.7 Page 187

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CAPO XVII
L’OPERA PEDAGOGICA
Se e quanto Don Bosco abbia derivato da scritti altrui nello svolgimento e nel­
l ’applicazione del suo pensiero pedagogico, non incoraggiano a indagarlo i
lavori pubblicati fin qui su ll’argomento, perchè ai diligenti e acuti studiosi che vi
attesero, si possono adattare le parole del Profeta: Seminastis multum et intulistis
parum. Gran profusione di erudizione con risultati magri anziché no.
Con certezza si sa unicamente che Don Bosco frequentò le lezioni di peda­
gogia impartite dall’abate Aporti nell’Università di Torino durante il settembre del
1844; ma vi andò per un incarico speciale dell’Arcivescovo. Il re Carlo Alberto,
che da poco aveva istituito le scuole di metodo, dette poi normali e oggi magi­
strali, chiamò allora da Cremona l ’introduttore in Italia degli asili infantili, perchè
esponesse i nuovi principii da seguire nell’insegnamento elementare. Essendo egli
noto nel campo politico per la sua larghezza d ’idee, il suo nome diventò subito
segnacolo in vessillo: i liberali lo levavano alle stelle, e lo fecero fare senatore,
benché più tardi, quando nella discussione della legge Rattazzi votò contro un
emendamento settario, lo coprissero di vituperi e lo condannassero all’oblìo. Agli
osservatori non isfuggì fin dall’inizio quanto il suo sistema risentisse delle teorie del
protestante scozzese Owen, capo di una setta sansimoniana. I Cattolici si allarma­
rono. L ’Arcivescovo che n ’era impensierito, pregò Don Bosco di tener dietro a quel
corso. Don Bosco fece di più: con le sue belle maniere entrò in relazione col mae­
stro e con lui discusse certi suoi procedimenti; ma dovette convincersi che egli era
il corifeo di coloro, i quali insegnando riducevano la religione a puro sentimento.
Don Bosco però discernette anche il buono del suo metodo, basato su ll’og­
gettività nella didattica elementare; ma questa non fu per lui una rivelazione: fu al
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più al più un’esplicazione, poiché egli già lo praticava. Per mostrargli quanto ap-
prezzasse il nuovo indirizzo, invitò tre volte l ’Aporti a diversi saggi dati dai giovani
dell’Oratorio nel 1847, nel 1849 e nel 1852, ricevendone approvazione e lode.
Inoltre lo citò per lo stesso motivo nella prefazione alle due prime edizioni della
sua Storia Sacra. L’Aporti dal canto suo stimò sempre la lealtà di Don Bosco, del
quale protesse le scuole, impedendo che intromettenze burocratiche le sopprimes­
sero per la mancanza di talune formalità volute dai programmi.
Che egli insomma avesse bisogno del verbo aportiano per adottare il metodo
oggettivo nella scuola primaria, non si potrà mai dimostrare. Il suo spirito eminen­
temente pratico ve lo portava da sé, allo stesso modo che le sue naturali attitudini
l ’avevano avvicinato per tempo ai fanciulli con l ’intento di educarli e istruirli. Come
infatti altri nasce per far versi, altri per far viaggi, Don Bosco era nato per far il
prete e prete educatore. Lo dimostrò fin da ragazzo. Aggiungendosi poi alle dispo­
sizioni innate l ’affinarsi dell’intuizione psicologica e della carità, la figura di Don
Bosco educatore s’impose e mentre spesso chi più scrive di pedagogia non cava in
pratica un ragno dal buco, egli senza tanto scrivere educò parecchie generazioni di
fanciulli, incarnando nell’opera viva lo spirito della sua dottrina pedagogica. La
qual dottrina si fonda sul metodo preventivo, così chiamato perchè ha per oggetto
precipuo di prevenire nei giovani il male, anziché badare poco utilmente a repri­
merlo. Egli non pretese con questo di dar vita a un metodo nuovo, ben sapendo
quanto fosse già conosciuto; lo esplicò invece in modo novissimo.
È pure necessario non mai dimenticare che egli, come fu prete in tutte le altre
attività della multiforme sua vita, così fu prete nella pedagogia; perciò i criteri fon­
damentali della sua opera pedagogica varino ricercati nelle pagine del Vangelo e
nell’insegnamento della Chiesa. Si fece dire a Don Bosco che egli nell’educare non
aveva alcun metodo, ma fu un malinteso. Dicendo che era sempre andato avanti
come il Signore gl’ispirava e le circostanze suggerivano, egli parlava di ascetica, non
di pedagogia, come risulta da un documento pubblicato nel voi. XVIII delle Me­
morie Biografiche. In conclusione, chiunque conobbe Don Bosco, non esita ad asse­
rire che egli nè mendicò da altri un metodo nè alla maniera di altri ne elucubrò
uno tutto suo. I punti di contatto coi predecessori si riducono a mere coincidenze.
Il colera gli aveva ingrossato la famiglia e questo aumento importava la neces­
sità di una disciplina, che, senza sopraffare la vita di famiglia, desse alla casa un
ritmo più regolare. Da due anni Don Bosco gettava in carta gli articoli di un rego­
lamento organico, che nel novembre del 1854 condusse a termine e mise in vigore,
dopo averne data pubblica e solenne lettura. Un particolare dei più notevoli è
che non vi fa menzione di castighi. Tutto si basa sul timore di Dio e sulla con-
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fìdenza. Perciò l ’intonazione generale non ha nulla di autoritario, ma da un capo
all’altro spira paternità.
In questo caso certamente lo stile è l ’uomo. A ’ suoi ricoverati Don Bosco si
porgeva in ogni occasione qual padre amoroso. Padre coi buoni, di cui ricono­
sceva e rimunerava i m eriti; padre coi discoli, che circondava di cure assidue per
renderli buoni; padre coi malati, ai quali, benché povero, non lasciava mancare
niente. Il suo fare paterno influiva sopra i suoi aiutanti, che a poco a poco si assue­
facevano a riguardare e a trattare i giovani con bontà. Solo questo ci spiega come
la vita dell’Oratorio potesse trascorrere così lieta, secondo che ne fanno unanime­
mente fede coloro che la vissero. Per molti anni neppure per ombra vi si conobbero
le comodità introdotte posteriormente. Il freddo invernale non era mitigato da
fuoco di stufe. Le vivande non avevano d ’ordinario altro condimento che l ’ap­
petito. La campanella sonava la levata non mai più tardi delle cinque e mezzo.
S ’andava dentro e fuori infagottati in dismessi cappotti militari, che Don Bosco
sapeva farsi regalare dai Comandi. Eppure nella casa era nota dominante l ’alle­
gria. Una frase del canonico Ballesio, che ne fece per parecchi anni l ’esperienza»
spiega l ’arcano. “ Vivevamo di affetto ” , scrisse egli.
Nè l ’ascendente di Don Bosco sui giovani si restringeva alle turbe degli oratorii
festivi e al centinaio de’ suoi ricoverati; infatti è del 1855 un suo trionfo inaudito
nella storia della pedagogia. Visitatore assiduo dei luoghi di pena, frequentava di
preferenza una casa correzionale per minorenni aperta dal Governo nel 1845 e co­
nosciuta a Torino sotto il nome di Qenerala. Si può comprendere quali fossero gli
umori di coloro che la popolavano; naturalmente v ’imperava la forza. Don Bosco,
mosso a pietà di tanti infelici, vi si recava il più sovente che potesse per insegnare
il catechismo, predicare e confessare, trattenendosi a volte familiarmente con i
poveri corrigendi, com ’era solito fare con i suoi figli dell’Oratorio.
Ora avvenne che dopo la Pasqua predicò loro anche gli esercizi spirituali. Il
suo zelo sagace e discreto gli ridusse come in pugno quella massa di scapestrati,
sicché nell’ultimo giorno ebbe quasi per incanto un saggio notevole delle trasfor­
mazioni di bestie selvatiche in agnelli, vedute nei sogni: tutti, meno uno, si acco­
starono con edificante pietà ai sacramenti.
Intenerito a tale spettacolo, non volle lasciare senza premio tanta docilità,
nonché l ’affetto sincero da quelli dimostrato verso la sua persona. Concepì dunque
un arditissimo disegno, che a prima vista fu giudicato estremamente temerario:
procurare a tutti una giornata di libertà in sua compagnia.
Il direttore dello stabilimento, quando gli manifestò la sua intenzione, per
poco non gli diede del pazzo. Il prefetto della provincia, a cui sarebbe spettato di
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accordare il permesso, appena l ’udì, fece un balzo sulla sedia e gli rispose un no
assoluto. Il ministro Rattazzi, che era quel che era, ma aveva ingegno, saputa la cosa
dal direttore, volle vedere Don Bosco. Ragionarono a lungo, finché si venne alla de­
siderata licenza; senonchè sull’ultimo tutto minacciava di andare a monte. Il guar­
dasigilli riteneva di dover mettere a disposizione di Don Bosco un nerbo di agenti in
borghese, mentre Don Bosco sosteneva di bastare da solo. Il ministro da prima stupe­
fatto e poi curioso di vedere una prova simile, confortato dalla fiducia che gl’ispi-
rava il linguaggio sereno e sicuro del suo interlocutore, gli concesse i pieni poteri.
Allora Don Bosco si recò al penitenziario e parlamentò coi giovani, che, freschi
degli esercizi, soggiogati dalla sua bontà e tocchi dalle sue considerazioni, si mi­
sero ciecamente ai suoi ordini; anzi i caporioni si dissero pronti a menare le mani,
se alcuno avesse osato tentare la fuga.
Quanti erano? La cifra corrente sarebbe di circa trecento. È ancora possibile
però fare un calcolo sul luogo. La vecchia prigione, mutata oggi nel Riformatorio
Ferrante Aporti, presenta nel corpo di fabbrica primitivo le tracce visibilissime
delle celle, in cui durante la notte venivano isolati i singoli inquilini. Orbene, se
ne contano esattamente dugentododici, che è pur sempre un bel numero.
I poveri giovani passarono la notte fantasticando e sognando. Al mattino di
buon’ora Don Bosco era là a prendere in consegna i reclusi. Stretti intorno a lui,
varcarono l ’odiata soglia e al suo cenno volsero a sinistra per la strada che mena
a Stupinigi. L’aria libera e la compagnia di Don Bosco li misero tosto in allegria.
Il loro buon volere si manifestò quando a mezzo cammino, parendo che il condot-
tiere fosse stanco, fermarono il cavallo onusto di vettovaglie, ne lo alleggerirono
togliendosele essi sulle spalle e vi fecero montare lui, che così dall’alto più facil­
mente li divertiva con l ’intonare canti popolari e lanciare all’intorno motti arguti.
Alla mèta li aspettava il parroco, suo grande amico. Don Bosco li introdusse
nella chiesa, dove celebrò la Messa. Quindi ai margini dell’amenissimo parco reale,
il pranzo, i giochi e la merenda li occuparono e ricrearono finché venne l ’ora della
partenza. Nel ritorno, quando i loro clamori giunsero al correzionale, tutti gli
addetti alla casa corsero giù al cancello, smaniosi di vedere come la fosse andata
a finire. Tanti erano usciti al mattino, tanti risposero all’appello serale.
II ministro, benché si fidasse di Don Bosco, era stato tutto il giorno sulle
spine, non vedendo il momento di avere notizie tranquillanti. Don Bosco non era
meno impaziente di portargliele. L’uomo di Stato, ascoltate le osservazioni del prete,
riconobbe francamente che con la gioventù altro è comandare e punire, altro par­
lare al cuore la parola della religione. Alcuni anni dopo, avendo un nipote assai
discolo, che senza quel precedente avrebbe internato alla Qenerala, lo mandò al-
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l ’Oratorio, dove Don Bosco, attesta Don Rua nei processi, “ ne formò un buon
operaio e un buon cristiano
Nel fatto narrato possiamo ravvisare una luminosa conferma del principio
pedagogico tanto caro a Don Bosco, che non basta amare i giovani per averli do­
cili ai nostri voleri, ma bisogna amarli in modo che essi conoscano di essere amati,
la qual cosa si ottiene amando le cose da essi amate; allora, vedendoci amare ciò
che piace a loro, ameranno anch’essi ciò che piace a noi. Un classico esempio
domestico fu la sua condotta verso il Cagliero. Questi era un ragazzo che aveva
addosso l ’argento vivo. Durante gli anni del ginnasio, che terminò in quel 1855,
avrebbe stancato la pazienza anche del chierico Rua, suo assistente, se Rua non
fosse già stato fin d ’allora un candidato alla santità. Non mancarono proposte di re­
stituire alla sua famiglia un giovane così insofferente della disciplina. Ma Don Bo­
sco, vista la sua felice attitudine alla musica, gliene impartì le prime lezioni e poi
incaricò il chierico Bellia di continuare l ’opera. Secondato in quella sua inclinazione,
Cagliero si affezionò alla casa e a poco a poco s’indocilì, finché i progressi nell’arte
10 rivelarono a se stesso e l ’Oratorio ebbe il suo maestro di cappella, la Patagonia
11 suo Vicario Apostolico e la Congregazione Salesiana il suo primo Cardinale.
Nel suddetto regolamento l ’ospizio è considerato da Don Bosco quale sua
opera secondaria di fronte all’opera degli oratorii; ve lo presenta infatti come
“ Casa annessa a ll’Oratorio festivo di S. Francesco di Sales ” e mette fra le con­
dizioni di accettazione che il postulante “ frequenti qualcuno degli oratorii della
città ” , perchè la casa “ è destinata a sollevare i figli degli oratorii ” , Ma la rino­
manza dell’ospizio e del suo fondatore fecero sì che autorità, parroci e privati rac­
comandassero sovente poveri fanciulli, nè fosse possibile il più delle volte rispon­
dere negativamente; donde la necessità di passare sopra a ll’accennata restrizione.
Lo spesseggiare poi di casi dolorosi, a cui mancava il mezzo di provvedere
per l ’insufficienza dei locali, indusse a continui ampliamenti, cosicché si invertirono
la parti, passando la funzione principale a ll’ospizio, che trasse a sè anche la deno­
minazione di Oratorio.
Un ampliamento che non si poteva più procrastinare per dar ricetto a mag­
gior numero di derelitti, era il completamento dell’edificio restato a metà. Don
Bosco dunque nel marzo del 1856 stabilì che si diroccasse la vecchia casa del Pi-
nardi e su ll’area sgombra si costruisse l ’altra metà della fabbrica fino a raggiungere
la chiesa di S. Francesco. Ma nè egli possedeva fondi per le prime spese, nè l ’impre­
sario da lui prescelto disponeva di capitali per anticiparle ; tuttavia gli ordinò di por
mano ai lavori, sicuro che il denaro sarebbe venuto. Don Bosco guardò poi sempre
come indizio della volontà divina la necessità di una costruzione richiesta dalle esi-
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genze dell’Opera affidatagli; quindi, avesse o no in pronto l ’occorrente, vi dava prin­
cipio, non dubitando che la Provvidenza gliene avrebbe somministrato i mezzi.
Con questa fiducia nel cuore, scrisse in ogni direzione per avere soccorsi.
Anche il ministro Rattazzi gli assegnò una volta lire mille e un’altra duemila. Nulla
arrestò i lavori, che ai primi di ottobre erano già bell’e terminati. Per rendere pre­
sto abitabili i nuovi locali, distribuì nei vari ambienti larghi bracieri, che, ardendo
dì e notte, asciugarono in breve tempo le pareti.
Vi furono subito tre vantaggi. Gli alunni salirono a centosettanta ; si ritirarono
da officine esterne due classi di artigiani, legatori e falegnami, che ebbero in casa
i propri laboratori; vennero egualmente ritirate le tre classi del ginnasio inferiore.
Ma così debiti si aggiungevano a debiti. Per saldare le partite Don Bosco mise
su una lotteria. Quattrocento persone si iscrissero nel comitato promotore. Pre­
siedevano la commissione organizzatrice il conte Cays e il barone Bianco di Bar-
banìa, e ne facevano parte i più illustri rappresentanti del patriziato torinese. Gli
oggetti raccolti riempirono sei grandi saloni. Il ministro di Grazia e Giustizia, Rat-
tazzi, quel della Guerra, La Marmora, e della Pubblica Istruzione, Lanza, vi accor­
darono il loro favore, e non di sole parole. Lo stesso Vittorio Emanuele incaricò
il conte d ’Angrona di pagare per mille biglietti. L’estrazione si eseguì il 6 luglio
1857. Se il provento levò Don Bosco da ogni imbarazzo, le relative operazioni lo
fecero conoscere e apprezzare in più vaste e in più alte sfere.
Di una sua ispirazione eminentemente pedagogica ammiriamo tuttodì l ’effetto
nel vecchio fabbricato. Spesse volte al giorno gl’interni sarebbero passati o si
sarebbero fermati sotto il portico, che misura tutta la lunghezza dell’edificio; on-
d’egli stimò opportuno porre loro dinanzi agli occhi qualche cosa che ne attirasse
utilmente la curiosità. A tal fine fece dipingere a grossi caratteri tanti testi scrittu­
rali in latino e nella traduzione italiana. Come l ’idea in sè, così la scelta dei ver­
setti gli fu suggerita da un criterio fondamentale della sua pedagogia. La salvezza
dell’anima egli cercava prima d’ogni altra cosa ne’ suoi educandi; per questo nulla
gli stava più a cuore che di tenerli lontani dal male. Quindi, collocata in testa al
portico dalla parte della chiesa la statua di Colei che fu senza macchia, vi mise
di contro in fondo sulla parete opposta la sentenza di Tobia: Qui faciunt peccatum.
et iniquitatem, hostes sunt animae suae. Lateralmente poi si allineano due serie
d’iscrizioni, una delle quali sui pilastri riproduce i precetti della legge divina, e
l ’altra sotto gli archi presenta i capisaldi della dottrina cattolica intorno alla con­
fessione. Prevenire le colpe e porgere prontamente la mano ai caduti, ecco due
cardini su cui si reggeva il metodo educativo di Don Bosco nell’Oratorio.
Per impedire il male egli attuò nella casa tutto un complesso efficacissimo di
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mezzi precauzionali, a cui addestrava con la parola e con l ’esempio i suoi aiutanti:
vigilanza assidua e non opprimente, ricreazioni libere e animate, distrazioni di feste e
di gite, u n ’amorevolezza dei superiori che valesse ad attirare la confidenza degli
alunni. Con questo governo i giovani consideravano l ’Oratorio non come un collegio,
ma come la propria casa, dove la vita di famiglia faceva di essi tanti figli, appellativo
questo che Don Bosco abitualmente usava parlando di loro o a loro; faceva pure
dei maestri e assistenti tanti fratelli maggiori, ed egli, direttore, era il padre di tutti.
Ma un elemento soprannaturale, come si è detto, cementava siffatta unione;
il santo timor di Dio, un timore però sostanziato di amore. I giovani, arrivati a com­
prendere che cosa volesse dire offendere il Signore, si aiutavano vicendevolmente
a evitare le trasgressioni della sua legge e dopo aver trascorso qualche mese nel-
l ’Oratorio prendevano ad amare il lavacro della penitenza. Don Bosco aveva l ’arte
di far amare la confessione attraverso la comunione; intendo dire che, invogliando
i giovani alla frequenza dell’eucaristia, li moveva con questo solo a frequentare
volentieri il sacramento della riconciliazione. Ma qui era sua massima di non mai
obbligare, sì soltanto di esortare e porgere ogni comodità. Tutto per amore, niente
per forza.
Dove autorità e dipendenza si compenetravano in tal guisa sotto l ’azione della
carità soprannaturale, non ci sorprende un fatto che parrebbe inverosimile: la con­
vivenza pacifica di veri santi con autentici birichini. Alle cause già dette si aggiunga
che dal padre attraverso i migliori dei figli si dipartiva una virtus quae sanabat om-
nes. Valga l ’esempio del giovanetto Domenico Savio, che, vissuto nell’Oratorio dal
1854 al 1857, raggiunse l ’apice della perfezione cristiana possibile alla sua età. At­
torno a questo astro luminoso rotava una corona di satelliti, uniti con lui nell’ir-
radiare la casa di luce benefica; e di tanto erano potenti, perchè Don Bosco aveva
trasfuso in essi il suo ardore di apostolato. Il Savio, sotto la sua guida, si associò
un bel gruppo di volonterosi, formandone una così detta Compagnia dell’immacolata,
secondo un regolamento da lui stesso compilato, da Don Bosco riveduto e tutto
soffuso di pietà eucaristica e mariana. Oltre alla pietà individuale, i soci si obbli­
gavano a occuparsi dei compagni. Perciò nelle loro conferenze, presiedute dal chie­
rico Rua, si assegnavano fra loro i giovani più bisognosi di morale assistenza, fa­
cendosi ognuno angelo custode e talora anche avvocato del suo cliente; nelle adu­
nanze poi rendevano conto dei risultati ottenuti. I medesimi circondavano pure
di fraterne attenzioni i nuovi venuti, che d ’ordinario vi si sentivano da prima spae­
sati, ma poi insensibilmente si acclimatavano.
Anche sotto altra forma Don Bosco educava i suoi giovani mediante l ’eser­
cizio della carità verso il prossimo. Tutti sanno che cosa siano le Conferenze di San
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Vincenzo, fondate nel 1833 dall’Ozanam a Parigi. Diffusesi anche in Italia, ne fio­
rivano parecchie a Torino. Si componevano esse di uomini maturi, nè mai ad al­
cuno era venuto in mente di formarne coi giovani. Don Bosco per il primo nel
1856 ne istituì una di giovani. Erano trenta dei più grandicelli, parte interni e parte
esterni. I dirigenti delle Conferenze vincenziane non potevano capacitarsi, come
mai elementi di tal fatta rispondessero allo spirito e allo scopo dell’istituzione;
ma quei nobili signori, invitati da Don Bosco alle adunanze, dovettero abbando­
nare i loro preconcetti, tanto che aggregarono alle loro la Conferenza giovanile
dell’Oratorio, e la designarono ufficialmente col titolo di Conferenza annessa; anzi
a Roma servì questa di modello per crearne di simili.
I soci di Valdocco svolgevano la loro azione a vantaggio dei ragazzi più poveri
che frequentavano l ’Oratorio festivo, e alle famiglie dei medesimi facevano le vi­
site regolamentari. È incredibile il bene morale che da quella santa esperienza ri­
dondava ai membri.
Tre altre compagnie di carattere puramente formativo fiorivano nell’Oratorio,
due fra gli studenti, dette di San Luigi e del Santissimo Sacramento, e la terza
di S. Giuseppe fra gli artigiani. Avevano regole dettate da Don Bosco, con regola­
rità di pratiche e libertà d’iniziative. Chierici maturi o preti le assistevano con
amore. Don Bosco interveniva talvolta alle loro adunanze e vi parlava. Queste
compagnie adempievano funzioni come di generatori elettrici, sviluppando cor­
renti di buon esempio in tutta la casa.
Nel 1877 Don Bosco diede alle stampe un trattatello dal titolo 11 Sistema pre­
ventivo nell’Educazione della gioventù, esponendovi in poche pagine le direttive teo­
riche e le applicazioni pratiche della pedagogia da lui instaurata. Orbene, chi vo­
glia conoscere a pieno come fece Don Bosco a dirigere il suo ospizio, non ha che
da applicare a lui quanto egli quivi insegna; poiché nel compendioso scritto si
rispecchia fedelmente quale fu cogitatione, verbo et opere Don Bosco educatore.
Fermiamoci a un punto solo. Dice egli: “ Il Direttore deve essere tutto consa­
crato ai suoi educandi Ora Don Bosco, finché tenne la direzione attiva dell’Ora­
torio, viveva per i suoi giovani e con i suoi giovani. Al mattino li aspettava nella
chiesa per udirne le confessioni. Assiso fra due inginocchiatoi, riceveva i penitenti
volgendosi alternativamente a destra e a sinistra, fin tanto che se ne presentavano.
Al chiudersi della giornata dopo le preghiere serali si affacciava loro per porgere
l ’ultimo saluto, accompagnato da una parola paterna, ispiratrice di buoni pensieri.
La brevissima allocuzione, preludio di tranquillo riposo, prese e mantiene la de­
nominazione di “ buona notte ” , perchè la si terminava e la si termina con tale
augurio. Nel corso del giorno compariva in cortile durante le ricreazioni. Al ve­
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derlo i giovani traevano a lui come i pesci nello stagno verso chi vi getti una ma­
nata di briciole o come i pulcini attorno alla chioccia. Ivi la sua presenza diffondeva
allegria, e la sua parola o rivolta a tutti o sussurrata a ll’orecchio e acconcia al mo­
mento psicologico di ciascuno andava diritta a ll’anima. In altre ore nessuno aveva
paura di salire da lui nella sua camera, dalla quale si usciva sempre contenti. Questo
tenersi in abituale contatto con gli educandi ha formato poi la nota caratteristica
e la molla segreta della pedagogia salesiana.
Dove molti convivono, c ’è sempre da temere che si avveri il detto: uno fa
male a cento. Nell’Oratorio, se c ’era del marcio, non s’allargava nè faceva can­
crena, perchè la vigilanza lo scopriva e, o la carità vi apprestava in tempo il ri­
medio, o un atto di provvida energia rimoveva il pericolo d ’infezione.
Quanti giovani sviati trovarono così la via della salvezza! Nel 1887 Don Bosco,
facendo il suo ultimo viaggio a Roma, si fermò per un giorno ad Arezzo. Quel
capostazione, appena lo vide scendere dal treno e lo riconobbe, si affrettò a ba­
ciargli la mano e preso da forte commozione disse ai circostanti: — Io ero un ra­
gazzaccio di strada a Torino senza babbo e senza mamma, e questo prete mi rac­
colse e mi mise a ll’onore del mondo. — E un episodio che assurge a valore di
simbolo.
Un momento di crisi travagliò l ’Oratorio, dopo che a Don Bosco non basta­
rono più le forze non solo per governarlo personalmente, ma nemmeno per se­
guirne con continuità gli andamenti. Correva il 1884. Egli, avvertita la cosa, inter­
venne, dettando da Roma una lunghissima lettera, nella quale metteva il dito sulla
piaga. Da un drammatico raffronto tra la vita delFOratorio prima del 1870 e quella
d ’allora emergono i principii pedagogici, a cui fu informata tutta la sua opera edu­
cativa e che debbono far legge per i suoi discepoli.
Il regolamento del 1854 riveduto da lui sopra i dati di lunga esperienza e pub­
blicato solo nel 1877, il trattatello sul sistema preventivo, e la lettera romana co­
stituiscono la genuina trilogia pedagogica di Don Bosco: pedagogia umile ed alta,
che, dovunque sia bene intesa e fedelmente attuata, può fare degli istituti di edu­
cazione soggiorni di letizia, asili d ’innocenza, palestre di studio e di virtù, vivai in­
somma di bravi cittadini e di ottimi cristiani. Veramente, come si vede, Don Bo­
sco non scrisse gran che sulla sua dottrina pedagogica ; è anche vero per altro che
molta luce s’irradia da sue conferenze, da sue lettere, da suoi consigli e soprattutto
da’ suoi esempi. Per una dottrina l ’essenziale non è che riempia molte pagine di
un libro, bensì che stia alla base e costituisca il fondo di tutta un’attività.
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CAPO XVIII
LA “ STORIA D ’IT A L IA ”
M olto scrisse Don Bosco; ma, se si tiene conto delle molteplici faccende che
si disputavano quotidianamente la sua attività, bisogna dire che scrisse
moltissimo. Se tanto ci dà tanto, egli senza dubbio, dedicandosi alla precipua fa­
tica della penna, sarebbe riuscito uno dei più fecondi scrittori. La versatilità del­
l ’ingegno ne avrebbe fatto anche un poligrafo; ma le naturali attitudini lo inclina­
vano di preferenza alla storiografia. Lo dimostra la sua produzione, che per nove
decimi o è storia o attinge alla storia; lo conferma ancora il suo miglior lavoro,
che è appunto una storia, la Storia d ’Italia.
Nello scrivere esulava dalla mente di Don Bosco qualsiasi intendimento lette­
rario; per questo anche nelle sue pagine più belle non sorprendiamo mai ombra
di preziosità o di voluta eleganza, sia nella scelta dei vocaboli che nella forma dei
costrutti. Esatto nell’espressione e corretto nella sintassi, ha uno stile immediato,
dove non c ’è luogo per quella che si direbbe voglia di comparire. Ciò non impe­
disce che i suoi scritti abbiano rilievo ed efficacia; così avviene ogni volta che dietro
lo scrittore mediocre stia una forte personalità.
La circostanza che lo determinò a scrivere una Storia d ’Italia farà sorridere lo
storico di professione, la cui finalità è puramente scientifica, non però chi sappia
che movente di Don Bosco a scriverla fu il bene della gioventù, non il contributo
alla cultura. Un giorno, presentatosi a Don Cafasso, gli disse di essere in dubbio
se dovesse comporre una Storia d ’Italia ovvero un Metodo per confessare la gioventù.
Vedeva la opportunità dell’uno e dell’altro lavoro; ma era incerto quale dei due
fosse più urgente. Gran danno vedeva provenire ai giovani dal non volerli o dal
non saperli confessare; gran danno pure vedeva causato loro dai testi di storia
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patria che minacciavano di inondare tutte le scuole. Don Cafasso, ponderato il
prò e il contro, categoricamente gli rispose che scrivesse la Storia d’Italia. Ed egli
la scrisse.
Il moto dell’indipendenza e dell’unità nazionale portava con sè il bisogno di
far conoscere agli Italiani l ’Italia nella sua lunga storia, rappresentando loro il bel
paese non più soltanto come espressione geografica, ma come sede di un popolo
spiritualmente uno, se pure ancora politicamente diviso. Tre atteggiamenti si de­
terminarono di fronte a questo problema. Per gli uni, conservatori a oltranza, Ita­
liano e Italia erano due parole che putivano di rivoluzione e non le usavano senza
le debite riserve. Altri, inclini alle aspirazioni nazionali, ma affacciando le loro ri­
serve soltanto sul modo di attuarle, inquadravano la storia d ’Italia nelle sue tra­
dizioni civili e religiose. La fazione invece più influente e rumorosa tendeva a fare
tabula rasa del passato. Erano costoro gli esponenti delle passioni politiche e ir­
religiose che agitavano il Piemonte dal 1848 in poi.
Queste passioni rivoluzionavano anche la storia, che dalle serene regioni del
vero scendeva e trascendeva ai più deplorevoli eccessi. Sembrava che vi fosse una
congiura organizzata per travisare i fattori religiosi, additando nella Chiesa l ’avver­
saria giurata della civiltà, nel Papa il nemico d’Italia, nel clero l ’accanito osteg-
giatore di ogni libertà civile, nei dogmi cattolici tanti oltraggi alla dignità della
ragione. Tutto questo il liberalismo più o meno radicale stimava necessario ren­
dere ben noto agl’italiani, se si voleva arrivare a far l ’Italia.
Scrittori d ’occasione e redattori di quotidiani e di periodici si sbracciavano a
divulgare tali pregiudizi, ispirandosi a opere che facevano autorità in materia. Di
limitata importanza, ma largamente diffusa era la Storia d’Europa con speciale ri­
guardo all’Italia, di Ercole Ricotti, che, ortodossa nella prima edizione, dopo il
1848 uscì truccata alla moda del giorno. Venivano letti e consultati i due volumi
della Storia d ’Italia, scritti da Carlo Farini in continuazione a quella del Botta,
saturi di odio anticattolico, sebbene dissimulato sotto affettata moderazione. Pon­
tificava la ponderosa Storia d’Italia di Giuseppe La Farina, nella quale proprio non
era di casa l ’imparzialità. Ad Asti imperversava un Compendio storico dell’Italia di
un cotal Zini, compilazione piena d ’invettive contro il potere temporale. Rivelavano
su per giù le stesse tendenze anticlericali anche le varie compilazioni che corre­
vano per le mani della gioventù.
Alla vista dell’esiziale veleno che si andava per questa via inoculando nelle
anime giovanili, Don Bosco giudicò essere debito della sua missione apprestarvi
un antidoto. Non lo scoraggiò la difficoltà intrinseca ed estrinseca dell’impresa:
quando aveva detto voglio, nulla al mondo lo faceva più disvolere. Vi lavorò con
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un ’intensità che ha dell’incredibile, se si pensi che in confronto di maggiori suoi
impegni questa si poteva considerare opera supererogatoria.
Per lo più veniva radunando il materiale nella biblioteca del Convitto ecclesia­
stico, assai ben fornita di lib ri; poi di mano in mano vi ruminava sopra, finché,
maturato un punto, dettava al chierico Rua. Ma, come avviene in tal genere di la­
vori, pentimenti o novelle vedute lo costringevano a tempestare di modificazioni e
aggiunte quella prima stesura, sicché da ultimo gli fu forza farne u n ’altra copia. Per
attendervi con la necessaria tranquillità (poiché non si trattava di semplice copiatura,
ma anche di revisione) si appartava durante certe ore pomeridiane nel palazzo
dei conti di Roasenda in via della Consolata, dove gli faceva da amanuense il
distinto giovanetto Melchiorre Voli, divenuto poi sindaco di Torino e senatore
del Regno.
Queste fatiche non erano ancora ultimate, quando presso l ’editore Paravia si
pose mano alla composizione tipografica. Prima tuttavia di licenziare per la stampa,
egli mandava ancora le bozze a uomini competenti, giovandosi dei loro lum i. Il
libro uscì nell’ottobre del 1856. Era il suo ventitreesimo sgritto dato alle stampe.
Nelle edizioni successive lo venne poi rimaneggiando, sicché nella definitiva del
1873 i capitoli sono 156, da 133 ch ’erano nella prima redazione.
Il titolo dice che questa Storia d ’Italia è “ raccontata alla gioventù ” . Il rac­
conto procede non alla solita maniera di chi scrive per chi legge, ma di chi parla
a chi ascolta; è infatti da capo a fondo un colloquio come quelli che Don Bosco
aveva la consuetudine di tenere con i suoi giovani nell’Oratorio. Egli infatti non
mirava a fanciulli di scuole primarie, ma agli adolescenti delle secondarie, sui quali
appunto cominciava il lavorìo d ’intossicazione. Il narratore vi si rende loro pre­
sente con quel tono e con quelParia di familiarità che avvinceva i suoi ordinari
ascoltatori. Familiari quanto mai sono la lingua e lo stile. Egli si è fatto una legge
di evitare ogni vocabolo o frase, di cui le menti giovinette non afferrino alla prima
il significato (1).
Ma vi è di più. La narrazione non si distende per pagine e pagine alla maniera
dei manuali. Don Bosco, guidato da fine intuizione psicologica e pedagogica, va
avanti per capitoli nè prolissi nè succinti, ma di proporzioni giuste, perchè il gio­
vane li possa leggere d ’un fiato senza tedio, anzi con soddisfazione. Più ancora: la
(1) L’edizione definitiva del 1873, condotta sotto la sua sorveglianza quanto al contenuto,
ha subito purtroppo nella forma le pazzesche modificazioni di revisori malconsigliati e maldestri.
È quella che si continuò a ristampare. Riguardo al testo per altro deriva dalla quinta del 1866;
perciò a questa Don Caviglia ha dato giustamente la preferenza in Opere e Scritti di Don Bosco,
voi. Ili, La Storia d’Italia (Torino, Soc. Ed. Internaz.).
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sua comprensione dell’anima giovanile gli ha suggerito di presentare ogni capitolo
come un quadro, nel quale intorno a un’idea centrale si sviluppino i singoli parti­
colari, formando una lettura organica di gradevole effetto e di facilitazione mnemo­
nica, senza che queste divisioni facciano perdere il filo del racconto.
Passando ora dal titolo alla prefazione, la troviamo notevole per qualche cosa
che dice e per qualche altra che tace.
Tace assolutamente di qualsiasi intenzione apologetica o polemica. Taluni forse
si aspetterebbero per lo meno una parola di deplorazione sulla cattiva piega che
da un decennio a quella parte avevano preso le pubblicazioni di storia italiana
nel suo Piemonte; invece, niente di niente. Don Bosco non amava battagliare;
ma, dove poteva, agiva senza inutili discorsi, e dove le circostanze gli preclude­
vano l ’azione, aspettava in silenzio. Qui inoltre non si permette neanche l ’inno­
cente soddisfazione di dirci che ha colmato una lacuna: e sì che c’era, e grande,
nel campo della letteratura popolare, che trattava la storia nazionale, non foss’altro
dal lato didattico. Ma egli, contento di aver compiuta un’opera buona, non sente
il bisogno di sonare la tromba.
La prefazione dice poi in primo luogo che “ intendimento finale di ogni pa­
gina ” è di “ esporre la verità storica ” . Per raggiungere questa verità ci assicura di
non aver scritto periodo senza consultare i più accreditati autori, nè di aver rispar­
miata fatica in leggere i contemporanei scrittori delle cose d’Italia, ricavando da
ciascuno quanto paresse convenire al voluto intento. Orbene il Caviglia, che sulle
fonti dell’intera compilazione ha spinto le indagini fino agli estremi limiti del pos­
sibile, è giunto ai risultati più tranquillanti per la coscienza degli studiosi.
Elemento di verità dobbiamo considerare anche la giustizia nell’approvare e
nel condannare; il che insomma equivale a mettere nella loro vera luce le azioni
degli uomini e la portata degli avvenimenti. Da questo lato va soggetto a peccare
contro la verità chi non sappia narrare le cose sine ira et studio. Nè odio nè partigia­
neria di nessuna specie in Don Bosco. La prova provata è nel silenzio di coloro,
che non avrebbero mancato di coglierlo in fallo, se ci fosse caduto: eccezione fatta,
s’intende, dei settari e degli eretici, che, come dice Dante, sono stati sempre esperti
in render torti li diritti volti.
Neppure lo scottante argomento del potere temporale diede appiglio a critiche
serie. Don Bosco si trovò a scriverne in mezzo a tre correnti. I seguaci della così
detta intransigenza pretendevano che il principato civile del Papa rimanesse in eterno
intangibilmente tal quale era; i concilianti studiavano la formula che consentisse
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di servire gl’interessi della nazione senza inceppare la libertà del Pontefice; i settari
non facevano mistero che l ’abbattimento del potere temporale era l ’ultimo passo
per colpire a morte il potere spirituale e così liberare dal Papato l ’Italia e il mondo.
Ora Don Bosco nel corso della sua Storia pone la massima cura nell’illustrare il
carattere sacro del Pontificato Romano, e su questo punto i suoi convincimenti,
ispirati dalla Fede, non conoscono concessioni o reticenze. Riguardo al potere ci­
vile espone le sue idee in un capitolo intitolato: Dei beni temporali della Chiesa e
del dominio del Sommo Pontefice. Qui, ponendosi sul terreno rigorosamente storico,
ne racconta l ’origine, da cui rampolla naturalmente la legittimità, e ne fa vedere la
necessità di fatto per “ l ’esercizio dei doveri spirituali dei Pontefici ” . Questa ne­
cessità dunque interessa non la sola Italia, ma tutta la Cattolicità, in quanto è in­
teresse di tutti i Cattolici del mondo che il Capo supremo della Chiesa sia nelle
condizioni indispensabili per il disimpegno dell’altissimo suo ufficio. Messo in
sodo pertanto che il Papa dev’essere indipendente e che l ’indipendenza non si può
concepire senza sovranità territoriale, egli non entra a definire i lim iti del terri­
torio. Da queste premesse s ’inferiva logicamente, senza bisogno di affermarlo, che
non la violenza avrebbe mai detto l ’ultima parola sulla questione, ma l ’autorità di
Colui che solo aveva veste per giudicare in sede di diritto. Fra gli stessi liberali
non pochi propendevano a cercare la soluzione del problema non con i mezzi vio­
lenti, ma con i mezzi morali. Del resto non era detto che la provvidenziale funzione
del potere temporale dovesse in perpetuo durare tale, che non fosse mai possibile
con l ’andare del tempo sostituire un altro mezzo di non minore efficacia. Dopo
il trattato del Laterano, il capitolo citato non ha una riga che si possa rigettare come
anacronistica o men vera. Se Don Bosco fosse stato ancora in vita, avrebbe detto
senza esitare: — Così la intendeva io! — Ma lo disse per lui e in nome di lui il
Papa della Conciliazione (1).
La prefazione dice inoltre che con l ’intendimento della verità storica si associa
quello di u insinuare l ’amore alla virtù, la fuga del vizio, il rispetto all’autorita e
alla Religione Abbiamo dunque da fare con una storia a tesi? È questione d’in­
tendersi. Don Bosco è mille miglia lontano dal voler manipolare i fatti in modo che
si prestino a trarne una data morale. Egli non è creatore di apologhi nè inventore
di favole, da cui far scaturire l ’ammaestramento etico. Ci vuol dire semplicemente
che dai fatti narrati nella loro genuina oggettività pensa di cavare quegli insegna-
menti, in grazia dei quali la storia è maestra della vita. Risponde a questo pensiero
1) Discorsi del 19 marzo 1929 per il decreto sui miracoli della beatificazione e del 21 aprile
per il decreto del Twto; Enciclica Quinquagesimo ante anno (23 dicembre 1929).
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anche una serie di profili biografici, nella quale sfilano dinanzi al lettore uomini
dell’età vicina all’autore, insigni per meriti letterari e scientifici e insieme per il
rispetto da loro professato verso la Religione dei padri.
Il libro incontrò subito grande favore. Fu adottato in scuole anche pubbliche,
perchè l ’autore aveva cura di armonizzarlo coi programmi di patente magistero,
ossia delle scuole magistrali e liceali, dove allora si esigeva assai meno di oggi. Ve*
niva pure dato in premio nei solenni saggi finali, secondo l ’uso generale del tempo.
Come libro di lettura poi era largamente consigliato alla gioventù. Quindi le edi-
zioni si succedettero con relativa frequenza fino ai quattro ultimi decenni. Il libro
merita di essere rimesso in circolazione. Non ha infatti perduto alcunché delle
qualità lodate dal Tommaseo, il quale scrisse : “ In tanta moltitudine di cose da dire,
l ’abate Bosco serba l ’ordine e la chiarezza, che, diffondendosi da una mente serena,
insinuano negli animi giovanili gradita serenità ” .
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CAPO XIX
VESSAZIONI POLITICHE
Don Bosco aveva un bel fare a scansar la politica! La politica venne rudemente
a urtarlo nel 1860. Parve presagirglielo Pio IX. In un Breve del 7 gennaio
gli aveva detto: “ Continua, Diletto Figlio, la carriera che hai intrapreso a gloria
di Dio, e a utilità della Chiesa sopporta, se ti avverrà, qualche tribolazione, e so­
stieni con grandezza d ’animo le tribolazioni del tempo presente
I tempi correvano per davvero difficili. Nel 1859 la seconda guerra dell’indi­
pendenza non era solo causa di agitazione in Piemonte, ma agitava l ’intera peni­
sola. La fuga del Granduca di Firenze, la rivoluzione dei Ducati, l ’insurrezione
delle legazioni, seguite dall’annessione della Toscana, di Modena, Bologna, Parma
al Piemonte, esaltavano gli spiriti, mostrando prossimo l ’avvento dell’unità nazio­
nale. Ma il pomo della discordia era sempre il potere temporale, che si mirava ad
abbattere non con mezzi morali, come pur si diceva, ma con la violenza. Bastava
una platonica manifestazione di sentimenti contrari, perchè un cittadino fosse de­
nunciato quale nemico della patria. In periodi turbolenti i sospetti sorgono per dei
nonnulla, quando pure non sono sollevati ad arte da chi cova biechi disegni. Don
Bosco lo sperimentò a suo danno.
Tre fatti diedero pretesto a sospettare che egli avesse intelligenze segrete con
cospiratori politici. Nell’ottobre del 1859 un corriere pontificio recò a lui una let­
tera di Pio IX, perchè in modo sicuro la recapitasse a Vittorio Emanuele. Il Re la
ebbe e da Courmayeur per mano di Don Roberto Murialdo, cappellano di Corte,
mandò al medesimo Don Bosco la risposta da rimettersi al Papa. Quella prima era
la lunga lettera autografa che gli storici conoscono, in data 29 settembre 1859;
con essa il Santo Padre rispondeva ad altra del Re portatagli a Roma d all’abate
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Stellardi. Non aveva voluto consegnare la sua risposta all’inviato piemontese, per­
chè poco si fidava di lui, sapendolo uomo di scarsa prudenza ed ecclesiastico di
tendenze soverchiamente auliche. I segugi del Governo subodorarono il carteggio
di Don Bosco con Pio IX e vi fantasticarono sopra.
Poi il Qalantuomo del 1860 uscì con una umoristica prefazione di Don Bosco,
che bonariamente, secondo il solito, vi discorreva della vittoria contro l ’Austria e
alla maniera degli autori d ’almanacchi faceva i suoi pronostici per il nuovo anno,
accennando in particolare alla non lontana scomparsa di “ due cospicui personaggi
dalla faccia del mondo politico ” e all’imminenza di pubbliche sventure. Dalla
scena politica scomparvero realmente due capi di Stato, come spiegò il Qalan~
tuomo dell’anno seguente, cioè il Granduca di Toscana e il Duca di Modena, i cui
dominii furono annessi al Piemonte nel marzo del 1860. Su tali profezie da lunario
almanaccarono uomini del Governo, che, ravvisandovi intenzioni politiche, ne
chiesero conto a Don Bosco.
Ma il tracollo ai sospetti lo diede l ’accennato Breve pontificio, pubblicato
nelle Letture Cattòliche ed anche diffuso in foglio a parte. Era la risposta del Papa
a una lettera del 9 novembre del 1859, nella quale Don Bosco a nome suo e dei
giovani deplorava gli avvenimenti in corso, tanto dolorosi al cuore del Pontefice,
esponeva quanto venivano facendo i suoi aiutanti per arginare la piena dei mali
irrompenti e prometteva larghe preghiere. Pio IX ne prese occasione per fare nella
prima parte del documento una requisitoria sulle macchinazioni contro il dominio
temporale, sui danni della cattiva stampa e sulle attività protestantiche. Questo
forte linguaggio avvalorò il sospetto di una congiura, di cui fosse focolare anche
l ’Oratorio.
Il Governo, che faceva sorvegliare Don Bosco, aspettava solo un appiglio per
agire; finalmente l ’ebbe. Dal suo esilio lionese l ’Arcivescovo di Torino aveva scritto
a Don Bosco, pregandolo di diramare ai parroci una sua pastorale confidenziale,
contenente norme da seguire di fronte alle lotte contro la Chiesa. La lettera fu ri­
conosciuta alla posta, sequestrata per ordine del ministero e aperta dalla polizia.
Non ci volle altro per venire a ferri corti. Don Bosco viveva tranquillo in mezzo
a’ suoi giovani, quando un sogno lo mise in guardia. Nella notte sul 24 maggio
gli parve di vedere una schiera di malandrini invadergli la camera, impadronirsi
della sua persona e rovistare in ogni angolo, mestando e rimestando specialmente
le carte. Durante quell’operazione uno gli disse con accento benevolo: — Perchè
non avete levato di qui il tale e tale scritto? — Raccontò quel mattino il sogno,
ma senza attribuirvi alcuna importanza; tuttavia, obbedendo a un segreto impulso,
rivide la corrispondenza, ne sceverò lettere confidenziali, che, sebbene, come egli
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scrive, fossero affatto estranee alla politica o a cure di Governo ” , pure potevano
essere interpretate a suo danno, e le celò altrove. Se avesse tardato due giorni,
non sarebbe stato più in tempo.
Il 26 maggio, alle quattordici, un delegato di pubblica sicurezza e due avvo­
cati fiscali, scortati da un plotone di guardie, entrarono pettoruti nell’Oratorio.
Mentre il comandante della forza pubblica, posti alcuni uomini a sorvegliare l ’in­
gresso esterno, distribuiva piantoni per le scale, pel cortile e alla porta di casa, i
fieri triumviri affrontarono Don Bosco, che sotto il portico stava concertando l ’ac­
cettazione di un povero fanciullo raccomandatogli con lettera d ’ufficio dal mini­
stero deli’interno, e gl’intimarono in nome della legge la perquisizione domici­
liare. “ Egli è sospetto, diceva la motivazione scritta, di relazioni compromettenti
coi Gesuiti, coll’Arcivescovo Fransoni e colla Corte pontificia ” . Scoperto il corpo
del delitto, l ’ordine portava che si procedesse a ll’immediato arresto.
Entrati nella sua camera, cominciarono da lui. Sei mani poliziesche lo agguan­
tarono e si diedero a frugarlo da capo a piedi in modo così grossolano, che egli,
ripensando alla Passione del Signore, esclamò: Et cum sceleratis reputatus est. Passa­
rono quindi a perquisire la camera. Aprirono armadi, bauli, cassetti, ripostigli di
carta straccia e di altri rifiuti, mentr’egli, sedutosi allo scrittoio, sbrigava la corri­
spondenza arretrata. Ogni lettera che finiva di scrivere, era acciuffata e letta da
tutti e tre. Scompigliarono anche la vicina libreria. La calma di Don Bosco e alcuni
felici suoi motti e tratti di spirito smorzarono a poco a poco il furore professio­
nale dei perquisitori, che, dopo quattro ore e più d ’indagini infruttuose, non
disdegnarono di bere con lui una buona bottiglia alla salute delle perquisizioni.
Era giorno di sabato, vigilia della Pentecoste; verso le sedici e mezzo dove­
vano esserci le confessioni dei giovani. Don Bosco prese motivo da questo per in­
vitare quei signori a confessarsi anch’essi. A onor del vero, non si atteggiarono
a spregiudicati; anzi, scrive Don Bosco, “ promisero nel modo più formale di ve­
nirsi a confessare nel sabato successivo ” . Soggiunge il Santo: “ Vennero difatti
due superiori con tre guardie e sembra che siano venuti con buona volontà, per­
ciocché vennero più altre volte ancora ” .
Prima che se n ’andassero, Don Bosco si fece rilasciare un verbale dell’operazione.
Non si poteva mai sapere che cosa avrebbero altrimenti riferito ai loro superiori.
Nella carta rimessagli dichiararono qualmente “ a fronte delle più esatte ricer­
che ” nulla si era rinvenuto che potesse “ interessare le viste fiscali ” . Ciò fatto,
partirono. Allora i giovani, liberati finalmente dall’incubo che li opprimeva, die­
dero sfogo alla loro gioia, correndo in folla da Don Bosco e facendolo oggetto
delle loro filiali e calorose dimostrazioni.
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Il Rattazzi, che non faceva più parte del ministero, come riseppe la cosa,
avrebbe desiderato presentare un’interpellanza al capo del Governo, se Don Bosco
non ne lo avesse seriamente dissuaso.
La camera di Don Bosco non era però tutto l ’Oratorio; onde si pensò che
ulteriori investigazioni potessero raggiungere la prova del reato. Uno dei sospetti
era che nell’Oratorio si nascondessero fondi inviati a Don Bosco da Pio IX e
dagli ex sovrani, apparentemente per aiutare la sua opera, in realtà per assoldare
volontari e preparare la riscossa. Ora ecco al mattino del 10 giugno tre pezzi grossi
del ministero con un nuvolo di agenti mettere di nuovo la casa in stato d ’assedio.
Don Bosco era assente. Quelli piombarono nell’ufficio di Don Alasonatti, gl’im-
posero di consegnare tutti i registri della contabilità e lo tempestarono di domande
per lui molto strane su immaginari depositi di denaro. Poi ingiuriandolo gli affer­
rarono le braccia e gli diedero scossoni e spintoni tali che il poverino svenne.
Mentre lo adagiavano sopra una sedia, entrò Don Bosco. Addoloratissimo prese
per mano il suo buon aiutante e lo chiamò per nome. Al suono di quella voce
si riebbe e: — Don Bosco, mi aiuti! — esclamò; ma perdette nuovamente i sensi.
Don Bosco lo rianimò; quindi redarguì con severità i giudici mutatisi in oppres­
sori e li condusse nella stanza attigua. Comprendendo essi stessi d’aver agito male,
chiesero scusa; ma dichiararono di essere là per visitare tutta la casa e interrogare
i ricoverati. Don Alasonatti medesimo li accompagnò nelle scuole. Li seguivano
stenografi, incaricati di scrivere domande e risposte.
Principiarono dal ginnasio superiore; poiché nell’anno scolastico 1859-60 Don
Bosco aveva in casa anche la quarta e la quinta. In una sua particolareggiata rela­
zione di tutti questi fatti egli reca per saggio parecchi interrogatorii, nei quali alla
tendenziosa cavillosità degli inquisitori fa mirabile riscontro la serena assennatezza
degli inquisiti: “ Mille e mille domande di questo genere, conchiude Don Bosco,
furono fatte ad altri giovani. Malgrado però tante maligne insinuazioni, non fu
mai che alcuno abbia proferito parola che lo potesse compromettere. Scopo dei
perquisitori era di far dire ai giovani, che tra noi s’insegnava una politica ostile
al Governo, che era permesso ribellarsi al Re e alle autorità costituite. Ma sem­
brava che un angelo del Signore guidasse la lingua degli allievi e limitasse le loro
parole senza lasciare mai sfuggire sillaba inopportuna ” .
Analoghe perquisizioni vennero operate nel Convitto ecclesiastico. La bruta­
lità dei procedimenti accelerò lo spezzarsi dell’esile fibra di Don Cafasso. Il santo
sacerdote ne ammalò gravemente l ’i l giugno e il 23 si addormentava nel Signore.
Don Bosco pianse il padre dell’anima sua con lacrime non meno amare di quelle
versate già per la morte della madre.
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Vero tipo della donna forte esaltata dalla Bibbia, mamma Margherita era salita
nel dicembre del 1856 agli eterni riposi dalla sua stanzuccia dell’Oratorio, lasciando
la famiglia adottiva immersa nel dolore. Quanti in quindici anni avevano goduto
dei tesori della sua bontà materna, ne serbarono, finché vissero, cara e venerata
memoria. Il figlio che le aveva portato in vita un rispetto quasi religioso, ebbe
poi sempre per la sua memoria una specie di culto.
Se grande fu il vuoto lasciato nel cuore di Don Bosco dalla perdita della
madre, non meno grande fu quello causatogli dalla scomparsa di Don Cafasso. Era
il Cafasso una di quelle anime modeste che sanno suscitare anime grandi. Due
orazioni funebri lesse Don Bosco in sua lode, che, pubblicate in un volume, si
può dire che siano la biografia di un Santo scritta da un altro Santo; certo è che
quei discorsi costituirono nei processi canonici la testimonianza più autorevole
sulla santità dell’uomo di Dio.
Nonostante l ’esito delle inchieste, l ’ombra del dubbio avrebbe aduggiato irri­
mediabilmente l ’opera di Don Bosco, se non si fossero chiarite bene le cose.
Era suo principio che in casi sim ili, chi voglia aprire la via alla verità, debba cer­
car di parlare con le autorità più alte, non con i loro subalterni. Per prima cosa
dunque indirizzò ai ministri Farini dell’interno e Mamiani dell’istruzione un suc­
cinto ragguaglio circa l ’opera degli oratorii, chiedendo in pari tempo al capo del
Gabinetto il favore di un colloquio. Il Farini glielo fissò; ma, venuto il monento,
mancò alla data parola. Ciò indicava il perdurare dei sospetti. Allora domandò di
conferire col suo segretario generale Silvio Spaventa. Questi, nicchiato alquanto,
gli promise di riceverlo il 14 luglio alle undici. Don Bosco fu puntuale; l ’altro in­
vece gli mandò a dire che, essendo occupatissimo, non poteva assicurargli l ’udienza
entro la giornata. Il Santo rispose all’usciere: -— Aspetterò qui, finché il signor
segretario mi possa ricevere. — E postosi a sedere nell’anticamera, non si mosse
più fino alle diciotto.
Lo Spaventa, informato che quel prete dopo tante ore di attesa non accennava
punto a perdere la pazienza, si decise a sentirlo. Uscì dunque, gli si avvicinò e gli
chiese che cosa volesse. — Parlarle in confidenza, — rispose. Ma il segretario:
—- Parli qui, ripigliò. I presenti sono tutte persone di confidenza. —•A una simile
scortesia Don Bosco senza menomamente alterarsi gli disse con voce chiara: ■— Si­
gnor cavaliere, ho cinquecento poveri ragazzi da mantenere. Li rimetto da questo
momento nelle sue mani. La prego di provvedere al loro avvenire.
Gli astanti si fecero attenti. Il segretario, cambiando tono, lo introdusse nel­
l ’ufficio. Dopo scuse che non scusavano, cercò di ottenergli subito un abbocca­
mento col suo m inistro; ma, trovandosi questi impedito, gli promise che il dì
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21.10 Page 210

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appresso l ’avrebbe avvertito per iscritto, quando potrebbe ritornare. Alle venti
Don Bosco rientrava nell’Oratorio, digiuno dalle prime ore del mattino.
Il giorno seguente dal conte Borromeo, segretario particolare del Farini, rice-
vette l ’avviso dell’udienza per le undici del giorno dopo. Il ministro lo accolse
cortesemente; poi attraverso un mellifluo preambolo venne a rimproverarlo che
fosse sconsigliatamente uscito dal campo della carità, dove tutti lo ammiravano, per
entrare nel campo della politica. Tre argomenti egli addusse per provare il proprio
asserto: articoli suoi Sull’Armonia, convegni reazionari a Valdocco e corrispondenze
coi nemici della patria. Don Bosco non penò molto a smantellare le tre accuse, non
perdendo la dignitosa sua calma dinanzi alle ostinate denegazioni e alle minacce mini'
steriali. Dopo lungo contestare disse: — Domando giustizia, non per me che non
temo niente, ma per tanti poveri fanciulli costernati dalle ripetute perquisizioni:
per quegli stessi fanciulli che mi furono inviati dal Governo e dalla medesima signo­
ria vostra. Essi sono in casa mia; domandano pane, giustizia e riparazione d ’onore.
Il ministro, che gli aveva sempre tenuto lo sguardo fisso in volto, a queste pa­
role si mostrò impressionato, tanto che, alzatosi in piedi, si mise a passeggiare in
silenzio per la sala. Mentre poi tornava a sedere, ecco entrare il Cavour. — Oh,
che c’è? diss’egli fregandosi le mani. Si usi qualche riguardo a questo povero Don
Bosco. Aggiustiamo le cose amichevolmente. Gli ho sempre voluto bene. Che c’è
dunque? — ripetè stringendogli la mano e invitandolo a sedere.
Don Bosco riassunse le accuse altrui e le sue difese. Ma il Cavour opinava
che taluni, abusando del buon cuore di Don Bosco, gli avessero fatto correre l ’alea
della politica antigovernativa. — Lo spirito che domina nella sua istituzione, sog­
giunse, è incompatibile con la politica seguita dal Governo. Noi sappiamo di certo
che lei è col Papa; dunque è contro il Governo.
Il tasto era troppo delicato, perchè Don Bosco non rispondesse da pari suo.
— Io sono col Papa, disse, come cattolico, e con lui intendo di essere fino alla
morte; io sono col Papa in fatto di religione. In quanto alla politica, io non sono
di nessuno e non,me ne sono mai occupato. Vivo da vent’anni in Torino: ho sem­
pre scritto, parlato, operato pubblicamente e non temo che mi si possa rinfacciare
una parola meritevole di rimprovero presso le autorità governative. Se vi è qualche
cosa sul mio conto, si dica: se sono trovato colpevole, mi si punisca; se innocente,
mi lascino attendere ai fatti miei.
Il presidente dei ministri divertì allora il discorso, tirando in ballo il Vangelo;
ma Don Bosco, rispostogli a dovere, non si lasciò fuorviare. A un certo punto
scattò in questa domanda: — Ella, signor conte, crede che Don Bosco sia un ri­
voluzionario, quale il Governo lo vorrebbe qualificare?
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—■Non mai, non mai, rispose. Io ho sempre ravvisato in Don Bosco il tipo
del galantuomo. Adesso intendo che ogni cosa sia finita.
— Si, intervenne il Farini, ogni cosa sia finita. Don Bosco vada a casa e si
occupi pure tranquillamente dei suoi fanciulli, il Governo gliene sarà ben grato.
Ma prudenza, caro abate, prudenza! Siamo in tempi difficili; un moscherino
sembra un cavallo. Prudenza! prudenza!
Era un insegnare ad Annibaie a far la guerra. In ogni modo tutto è bene ciò
che finisce bene. Il gran dibattito si chiuse con l ’assicurazione di entrambi i ministri
che essi credevano alla sua onestà, con la promessa che nessuno più l ’avrebbe
molestato, e con la raccomandazione di guardarsi da certuni che gli stavano attorno
come amici e intanto lo tradivano.
—■Dunque — disse il Cavour — noi saremo amici per l ’avvenire e lei preghi
per noi.
— Sì, pregherò Dio perchè li aiuti in vita e in morte, — rispose egli mentre
l ’uno dopo l ’altro congedandolo gli stringevano la mano.
Quello fu l ’ultimo colloquio di Don Bosco col conte di Cavour, morto re-
pentinamente meno di un anno dopo, il 6 giugno del 1861.
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CAPO XX
“ L’ORATORIO CRESCIUTO SOTTO LE BASTONATE”
Di fronte alle contrarietà come quelle narrate fin qui e da narrare in seguito,
Don Bosco, se fosse stato un debole, o avrebbe imitato l ’esempio di altri,
liberaleggiando per ingraziarsi i potenti, o si sarebbe rincantucciato, prendendosela
con la nequizia degli uomini e dei tempi. Ma non è questa la tempra di cui sono
fatti i Santi. Egli disse nel 1872: — L ’Oratorio nacque dalle bastonate, crebbe
sotto le bastonate ed in mezzo alle bastonate continua a vivere. —• Difatti l ’Ora-
torio nel dì della sua nascita era un giovane solo, scampato dalle bastonate di un
sagrestano in collera. Tempeste di bastonate accompagnarono poi le fasi della sua
prima età, nè durante gli anni successivi potè mai fare a meno di questo concorso
poco desiderabile, ma divenuto, si direbbe, inevitabile.
Il triennio 1860-62 segna per l ’Oratorio il passaggio dall’adolescenza al prin­
cipio della giovinezza, passaggio che si effettuò per via di incrementi conseguiti
attraverso alle bastonate descritte e ad altre nuove.
Fu già un bel guadagno che, grazie appunto alle ultime vessazioni, Don Bosco
venisse a contatto con Autorità governative, che, non essendo piemontesi, poco
o nulla sapevano di lui. Ministri e funzionari arrivati a Torino da varie parti d ’Italia
presero così conoscenza della sua persona e della sua opera, il che doveva, dopo il
trasporto della capitale a Firenze e a Roma, arrecargli notevoli vantaggi.
Un altro guadagno fu che, nonostante le bastonate del 1860, egli potè allargare
l ’Oratorio. La famiglia Filippi possedeva a brevissima distanza sul lato orientale
una casa e un ampio terreno, che Don Bosco più volte aveva cercato indarno di com­
prare. Orbene, il giorno dopo la prima perquisizione i proprietari gli fecero offerta
di vendita; poi la sera stessa del 16 luglio, uscito dal risolutivo colloquio con i due
ministri, Don Bosco andò a stipulare il contratto per la somma di lire 65 mila.
173

22.6 Page 216

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Bisogna pure considerare come provvidenziale acquisto per l ’Oratorio che
nello stesso mese vi ricevesse l ’ordinazione sacerdotale Don Michele Rua, destinato
a essere braccio destro di Don Bosco e futuro erede di tutto il suo spirito. In quegli
anni alla vita dell’Oratorio nulla era più indispensabile che un collaboratore di
Don Bosco, il quale fosse intelligente, energico e santo come Don Michele Rua.
Un altro progresso che le recenti bastonate avrebbero potuto fortemente osta­
colare, si ebbe nel numero degli alunni, salito nell’anno scolastico 1860-61 a ben
400. Col numero si comprende che crebbero anche le preoccupazioni di Don Bosco
per il pane quotidiano. Quella Provvidenza che provvedeva al vicino Cottolengo
senza che alcuno s’incomodasse mai a questuare, non provvedeva ordinariamente
a Don Bosco, senza che egli andasse limosinando. E limosinare è il termine esatto
a significare incredibili sacrifici di tempo, di riposo e di salute durati quaranta
e più anni per sollecitare la carità a prò del solo Oratorio prima, dell’Oratorio e
delle sue mondiali espansioni poi. Talora nondimeno in casi estremi la Provvidenza
si compiaceva pure d’intervenire per vie non consuete. Un siffatto intervento si
verificò agli ultimi di ottobre del 1860.
Mancava il pane per la colazione. Il prestinaio, irremovibile, non avrebbe più
dato niente, se non si pagavano i debiti arretrati. Tre volte durante la Messa
l ’uomo incaricato della distribuzione si avvicinò a Don Bosco che confessava i
giovani e lo avvertì che non c’era pane. Don Bosco la prima volta rispose: —- Ci
penseremo... provvederemo... — La seconda disse: — Lasciatemi confessare ora.
Intanto cercate tutto quello che c’è nella dispensa e nei refettori. — E la terza:
— Mettete nel canestro le pagnotte rimaste. Verrò io a distribuire.
Le pagnottelle non erano più di venti. Don Bosco, ritto presso la porticina
laterale della chiesa, dava un pane ad ogni giovane, che, uscendo, gli passava davanti.
Si mostravano tutti sorpresi e contenti di riceverlo da lui e baciatagli la mano, sfi­
lavano. Ve ne fu a sufficienza; in fondo alla cesta rimase la quantità che c ’era prima.
Il quindicenne Francesco Dalmazzo, alunno della quinta, aveva udito, mentre
si apparecchiava alla confessione, il triplice avviso. Al momento di uscire precedette
gli altri, perchè aveva premura, e stette dietro a Don Bosco in attesa. Entrato sol­
tanto il 22 del mese all’Oratorio, nè sapendosi adattare al vitto, doveva quel mat­
tino far ritorno a casa. Sua madre pure aspettava là per parlare con Don Bosco
e poi ricondurre via il figlio. Ma questi, testimonio dell’accaduto, le disse che
non voleva più partire. “ Fu questa, depose nei processi, la sola cagione che m’in­
dusse a restare nell’Oratorio e in seguito ad aggregarmi tra i figli di Don Bosco ” .
Sempre nel famoso luglio del 1860 l ’Oratorio fece un passo molto importante,
fuori di Torino. Il piccolo seminario di Giaveno, che da tre secoli col suo ginnasio
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22.7 Page 217

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aveva coltivato innumerevoli vocazioni per il clero dell’archidiocesi, languiva a
segno, che il Governo minacciava di disporne a suo talento. Monsignor Fransoni
dall’esilio parò il colpo, invitando Don Bosco a farglielo rivivere. Don Bosco ri­
chiese anzitutto che gli si desse carta bianca. Quindi nominò rettore un sacerdote,
che, essendo vissuto sei mesi nell’Oratorio, ne conosceva abbastanza lo spirito, e
gli assegnò come maestri e assistenti alcuni dei chierici della nascente Società. Un
programma spedito a tutti i Parroci non ebbe l ’onore di una sola risposta. Visto
così, Don Bosco decise di scegliere nell’Oratorio i giovani di famiglie che potessero
pagare la retta, e inviarli a Giaveno.
Qui la casa non aveva più altro che le muraglie ; vi mancava ogni sorta di mas­
serizie, nonché di provviste. Don Bosco diede al cav. Federico Oreglia di Santo
Stefano l ’incarico di allestirla nel più breve termine, il che fu eseguito a puntino.
Questo giovane signore, notissimo nell’aristocrazia torinese, aveva poc’anzi
conosciuto Don Bosco agli esercizi spirituali di Sant’Ignazio sopra Lanzo e gli si
era talmente affezionato, che venne a stare n ell’Oratorio per istudiarvi la sua vo­
cazione. Non si domandi se gli ci volle dell’abnegazione per cambiare così di botto
gli agi d ’una casa patrizia con la povertà della casa di Don Bosco! Ma umile e pa­
ziente, si assoggettò esemplarmente alla vita comune. Ricco d ’ingegno, sciolto di
modi e fermo di carattere, prestò per vari anni a Don Bosco inestimabili servigi.
In novembre il seminario cominciò a popolarsi. Sul finire del mese Don Bosco
vi mandò come visitatore ufficiale il chierico Cagliero, che, esaminato l ’andamento
didattico, disciplinare e morale, gli presentò una soddisfacente relazione. Don Bo­
sco vi si recò parecchie volte, lasciando nelle menti dei giovani un ’indelebile im­
pressione, come essi diedero a vedere nel corso degli anni.
Gli ecclesiastici del luogo, rassegnati ormai alla scomparsa del glorioso istituto,
magnificavano i risultati del nuovo metodo, del quale non avevano mai avuto la
menoma idea. Per loro sarebbe stato un mezzo prodigio, se gli alunni fossero giunti
a una cinquantina; invece nel secondo anno erano già 240. Pago di aver ridonato
al collegio arcivescovile l ’antica floridezza, Don Bosco, non senza forti ragioni, ne
rimise il governo alle autorità diocesane richiamando i suoi chierici. Il primo spe­
rimento del suo metodo fuori dell’Oratorio aveva dato buoni frutti.
Le bastonate che si accompagnavano al crescere d ell’Oratorio, non venivano
tutte dai governanti, anzi nemmeno sempre dagli uomini. Sembrava che Don Bosco
obbedisse a una parola d ’ordine: ampliare. Nel 1861 fece studiare il progetto di
raddoppiare in larghezza il braccio parallelo alla chiesa e di costruire un terzo piano
sulla casa dei Filippi, coordinando in pari tempo fra loro i fabbricati. Il 15 maggio
aveva ordinato che si cominciassero i lavori, quand’ecco nella notte un disastroso
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22.8 Page 218

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incidente. Sul primo sonno, essendosi scatenato un fiero temporale, il fulmine
penetrò nella sua camera e in men che non si dice gliela mise tutta a soqquadro;
perfino il letto metallico fu sollevato un buon metro dal pavimento e portato a ca­
dere dalla parte opposta. Riavutosi dallo stordimento, egli corse subito col pensiero
ai giovani. Il fulmine era entrato in una camerata degli artigiani, che conteneva circa
settanta letti. Dopo il suo passaggio due giovani giacevano tramortiti, parecchi san­
guinavano per i colpi delle macerie del soffitto crollato, tutti in preda a terrore met-
t.evano urli, gemiti e pianti: lo spuntare di Don Bosco dal fondo con un lumicino
in mano, che, diradando un po’ le tenebre, gli rischiarava la faccia, fu come l ’appa­
rizione di un angelo. Tosto calmò i sani, richiamò ai sensi gli svenuti e medicò fe­
riti e contusi. A poco a poco gli si strinsero tutti d’attorno, finché, compiuta l ’opera
d ’infermiere, li condusse in chiesa a ringraziare Dio che non vi fossero vittime.
Il fulmine sembrava che avesse una questione personale con Don Bosco. Era
già la terza volta che lo molestava. Della prima a Chieri si è detto. La seconda fu
a Sant’Ignazio nel 1856. Lo colse allora vicino alla porta vetrata di un poggiolo.
Spalancatasi questa per l ’impeto del vento, la spranga di ferro che la assicurava
si staccò violentemente e lo percosse nel fianco, mentre la saetta, passandogli sotto
i piedi, portava via una lastra di pietra, senza però farlo cadere. Le conseguenze lo
afflissero quella volta per parecchi mesi; ma l ’ultima scossa nocque assai più alla
sua salute, che ne risentì molto a lungo l ’effetto.
Prima che si riaprissero le scuole i lavori erano al termine. Questo aumentava
notevolmente le possibilità di bene. Tra l ’altro, Don Bosco potè dare principio
all’attuazione di un’idea che ventilava da undici anni: avere una tipografia propria.
Verso il cadere dell’anno acquistò di seconda mano e collocò in casa due vecchie
macchine a ruota e un torchio; i giovani falegnami costrussero un banco e le cas­
sette dei caratteri. All’inaugurazione del minuscolo laboratorio la sua mente, astra­
endo dal presente e spaziando in un vagheggiato avvenire, lo fece esclamare dinanzi
ai suoi: —■Vedrete, vedrete! Avremo una grande tipografia, due tipografie, dieci
tipografie. — Per l ’umile impianto ottenne dall’autorità prefettizia con la legale
autorizzazione anche il riconoscimento ufficiale del promettente titolo: Tipografia
deir Oratorio di S. Francesco di Sales. La dirigeva l ’Oreglia, che entro l ’aprile del
1863 potè già fare uscire nella quarta edizione la Storia d’Italia di Don Bosco.
Intanto il nemico del bene non dormiva. Nel febbraio del 1862 cominciò una
lunga e fiera infestazione diabolica. Gli assalti accadevano sempre di notte. Don
Bosco, cedendo alle insistenze de’ suoi preti e chierici, che non sapevano rendersi
ragione del suo pallore insolito e di una prostrazione di forze quale si osserva in
chi patisce d’insonnia prolungata, narrava tutto giorno per giorno, e il chierico Bo­
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22.9 Page 219

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netti correva tosto a scrivere. Voci assordanti, rumori strani, buffi impetuosi di
vento, scosse formidabili alla persona o al letto, fuochi improvvisi, tirare di coperte,
dondolare di guanciali, apparizioni di mostri, di bestie, di serpenti aggirantisi per
la camera, danze del tavolino con picchiettìi misteriosi, spostamenti d ’oggetti gli
rompevano il sonno, appena fosse per chiudere gli occhi. Un segno di croce, una
preghiera, un o bone lesu ristabiliva bensì la quiete; ma dopo brevi istanti la tregenda
ricominciava. Una volta Don Savio, giovane prete ardimentoso, vegliò nell’anti­
camera per sentire; ma verso la mezzanotte un fragore indiavolato lo riempì di tale
spavento, che si diede alla fuga. U n’altra volta due chierici non meno coraggiosi
rinnovarono insieme il tentativo, appostandosi nella vicina biblioteca; ma ad un
dato punto, colti da violento tremore, se la svignarono. L’Oreglia un giorno do­
mandò a Don Bosco, se avesse paura. — Ribrezzo sì, paura no — rispose. A Don
Rua confidò: — Conto queste cose ridendo; ma t ’assicuro che non rido di cuore.
Da un mese non dormiva più. Estenuato al sommo, andò due volte a Ivrea
dal Vescovo Moreno, sperando sollievo. La prima volta riposò; ma la seconda
ebbe solamente una notte tranquilla. A Valdocco il giuoco durò ancora; poi si
venne ripetendo a intervalli sempre più lunghi, finché nel 1864 cessò del tutto.
Una sera del 1865, ricordando queste tribolazioni, Don Bosco disse d ’aver tro­
vato finalmente il mezzo per mettere in fuga lo spirito delle tenebre ; non volle però
mai palesare quale fosse, ma soggiunse: — Non auguro a nessuno momenti così
terribili. Bisogna pregare il Signore che non permetta mai al nostro nemico di
farci simili scherzi. — Il Poulain, autorevole scrittore di teologia mistica, dice nel
suo libro intitolato Qrazie d ’orazione: “ Dalla vita dei Santi sembra risultare che,
se patiscono gravi molestie diaboliche, ciò accade per lo più, quando sono giunti
al periodo dell’estasi o anche solo delle rivelazioni e visioni divine, sia che tali
grazie continuino, sia che vengano temporaneamente sospese. A ll’azione straordi­
naria di Dio fa allora da contraltare l ’azione straordinaria dei demoni
Durante l ’infuriare di questa guerra Don Bosco, non che sgomentarsi, bandì
una nuova lotteria. Nel giustificarla dinanzi al pubblico diffuse ognor più la notizia
delle opere, in cui favore egli ricorreva a tale espediente. Ottenne dal novellamente
ministro Rattazzi un biglietto ferroviario gratuito per un viaggio di propaganda.
Raccolse tremila premi, due dei quali erano di Pio IX. Furono emessi 140 mila bi­
glietti al prezzo di 50 centesimi caduno. La loro spedizione importò un lavoro
enorme. Ne presero molti il re, la casa reale, i ministri e i prefetti. Fatta l ’esposi­
zione e terminato lo spaccio, si compiè l ’estrazione dei numeri il 30 settembre.
Uomini politici, visto il progredire dell’Oratorio e l ’esito della lotteria, volevano
che Don Bosco facesse riconoscere dal Governo la sua Opera; ma tutti i vantaggi
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*3

22.10 Page 220

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da essi decantati non valevano per lui la sua libertà e indipendenza. Inoltre egli te-
meva le sempre possibili manomissioni legali.
Una nuova minaccia verso la fine del 1862 parti dal ministero della pubblica
istruzione. Individui che avevano a noia il prete più che il fumo agli occhi, riuscito
vano il tentativo politico, s’attaccarono alla legalità dell’insegnamento. I chierici
Francesia, Cerruti, Durando e Anfossi, frequentando come uditori FUniversità,
insegnavano nel ginnasio dell’Oratorio senza i voluti tito li; era dunque facile pre­
vedere che dinanzi a un’intimazione ministeriale Don Bosco non avrebbe avuto
modo di sostituirli. Il massonico circolo di politicanti che faceva capo a ll’allora
giacobina Qazzetta del Popolo, riprese sotto questa forma la campagna contro l ’Ora­
torio. Costoro, avendo da fare con persone venute da altre parti d ’Italia, non du­
ravano fatica a mettere presso di esse in mala luce Don Bosco.
Questi, intuito il colpo mancino che gli si preparava, non istette inoperoso.
Andò dal capo divisione, che, pur avendo già dato prova di ostilità nel 1860 du­
rante le perquisizioni, lo rimandò con buone e rassicuranti parole; ma Don Bosco
non cadde nel tranello. Affrontò allora il regio provveditore, un ultraliberale mo­
denese. L’incontro non poteva essere più drammatico. Don Bosco si dovette bu­
scare del gesuita, del gesuitante, dell’imbecille. Ma adagio adagio il suo fare pacato
e franco lo venne disarmando a tal punto da strappargli la confessione che aveva
preso abbaglio sul suo conto. Restava la solita accusa che egli avversasse il Governo
e i suoi rappresentanti. Don Bosco a ll’udirla protestò chiamando in testimonio la
sua vita, le sue parole, le sue prediche, i suoi libri e i suoi concittadini, nè tacque
di certa gente che colpiva alle spalle i galantuomini, facendo menzognere delazioni
per fini interessati. Il tutto disse con termini improntati a così perfetta cortesia,
che il provveditore si arrese a discrezione. — Caro Don Bosco, esclamò alla fine,
lei è un angelo della terra. — Rimasero dunque d ’accordo che i suoi insegnanti
avrebbero un ’approvazione provvisoria fino a tutto l ’anno scolastico in corso;
del che emanò il decreto in data 21 dicembre 1862.
L’Oratorio col chiudersi di quell’anno era ormai costituito ne’ suoi elementi
essenziali. Albergava circa 600 alunni interni e ne accoglieva altrettanti esterni;
aveva casa, chiesa, cinque classi ginnasiali, sei laboratori, scuole domenicali diurne
e serali; aveva la sua grande scuola di musica vocale di studenti e strumentale di
artigiani; aveva infine una società di trentanove membri, sicura garanzia per l ’av­
venire. Don Bosco vedeva da lungi appressarsi il giorno, in cui avrebbe potuto
davvero volgere la prora alla conquista del mondo.
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23.1 Page 221

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CAPO XXI
TRE BIOGRAFIE, TRE D OCU M EN T I
Con tre biografie di suoi giovani allievi, Savio, Magone e Besucco, pubblicate
successivamente nel 1859, ’62 e ’64, Don Bosco compose un trittico di
gran pregio, in cui le tre figure giovanili dell’Oratorio non c ’interessano solo per
se stesse, ma anche per quello che rivelano dell’autore. Uno, che raggiunse l ’apice
della santità, trovò in Don Bosco l ’illuminato direttore di spirito, atto a guidarlo
nelle sue più alte ascensioni; l ’altro, venuto a lui con precedenti opposti, fu dalla
sua potenza educativa trasformato in modello di virtù; il terzo, già molto avanti
nella via del bene, completò sotto la sua direzione il proprio perfezionamento mo­
rale. Si noti però che con tre soggetti così differenti egli non adoperò tre differenti
metodi, ma applicò a ognuno di essi, secondo la loro condizione, i principii che
furono i cardini della sua ascetica. U n ’ascetica semplice, senza nulla di nuovo che
si stacchi dalla pratica ordinaria della vita cristiana; u n ’ascetica che, se mai, si di­
stingue in questo: che dei mezzi offerti dalla Chiesa alla comune dei fedeli, abitua
a fare un uso cosciente e costante, traendone pienezza di effetti salutari.
Qui potrebbe nascere in taluno il dubbio che Don Bosco abbia idealizzato i
suoi tre alunni per farne dei tipi. A tale sospetto stanno di contro le sue esplicite
dichiarazioni sulla verità delle cose narrate; ora alla parola di un galantuomo, mas­
sime poi se è un santo, non si suole negar fede. Inoltre quegli scritti dovevano an­
dare per le mani di molti, che avrebbero potuto facilmente scoprirvi il falso, il che
imponeva all’autore somma cautela per non incorrere in errori. Del Savio, parlan­
done a ’ suoi giovani nella prefazione, Don Bosco afferma che il suo “ tenor di vita
fu notoriamente meraviglioso Della biografia di Magone dice che egli vi ha rac­
colto quello che “ è avvenuto sotto gli occhi di una moltitudine di viventi, che ad
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ogni momento possono essere interrogati su quanto viene ivi esposto ” . Riguardo
al Besucco rende conto delle fonti anteriori, che erano relazioni di autorevoli persone
allora in vita, e per il tempo da lui passato nell’Oratorio nota che si tratta di cose
avvenute in presenza di mille testimoni oculari Che poi Don Bosco mirasse con
tali pubblicazioni a fare del bene fra la gioventù, questo entrava nel suo programma
generale di apostolato, cosa non punto incompatibile con la veracità storica.
Dicono che la prima impressione soglia essere la vera. Sarà o non sarà sempre
così: così fu certamente nel già narrato primo incontro di Don Bosco con Dome­
nico Savio. Parve subito al sagace osservatore di scorgere nel giovanetto dodicenne
un’anima tutta secondo lo spirito del Signore e che la grazia avesse operato in sì
tenera età cose straordinarie; nè egli s’ingannò, come ben tosto i fatti dimostrarono.
Nei primi giorni dopo il suo ingresso n ell’Oratorio il fanciullo udì da Don
Bosco in una predica le tre norme ch’ei ripeteva a ’ suoi giovani, se volevano cre­
scere virtuosi, vivere contenti e salvarsi; cioè confessarsi spesso, frequentare la
comunione e scegliersi un confessore stabile.
Domenico prese tutta per sè la triplice raccomandazione.
Si scelse per confessore Don Bosco, che non lasciò più durante il tempo della
sua dimora nell’Oratorio, dall’autunno del 1854 alla primavera del 1857. Da prima
si confessava ogni quindici giorni, poi ogni otto, comunicandosi con la medesima
frequenza. Don Bosco, vedendone il gran profitto spirituale, gli consigliò di comu­
nicarsi tre volte per settimana; ma al termine del 1854 gli permise la comunione
quotidiana.
Le anime ferventi sperimentano da principio desideri così accesi di purifica­
zione interiore, che vorrebbero confessarsi tutti i giorni, correndo pericolo di dare
negli scrupoli. Don Bosco arrestò in tempo Domenico su questa china, tenendolo
a ll’obbedienza della confessione settimanale.
Un impulso prepotente spingeva il giovane verso le vette della santità; ma egli
ne aveva il concetto come di u n ’altezza, alla quale fosse per lui presunzione aspi­
rare. Una domenica pertanto Don Bosco predicando mostrò essere volontà di Dio
che tutti ci facciamo santi, tornar facile il riuscirvi e star preparato nel cielo un
gran premio per chi si fa santo. Il Savio bevette avidamente quelle parole, rimanen­
done da ultimo quasi estasiato. Uscì di chiesa che non sembrava più lui. Non più
gaio come prima fra i compagni, ma concentrato e taciturno, faceva temere che sof­
frisse di un qualche malessere fisico o di un patema morale. Don Bosco se n ’accorse
e, chiamatolo a sè, gli domandò se patisse qualche male. —■Anzi, rispose, patisco
qualche bene. — Inconscio linguaggio mistico, che esprimeva l ’interno travaglio di
uno spirito già affinato nell’amore di Dio e anelante a un grado più alto di unione
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con l ’oggetto del suo amore. Poi si spiegò continuando: — Sento un desiderio e
un bisogno di farmi santo. Mi dica dunque in che modo debbo cominciare.
Don Bosco ne lodò il proposito, ma lo esortò a non inquietarsi, perchè nelle
commozioni dell’animo non si conosce la volontà del Signore. Indi gl’impartì una
prima lezione di santità: mantenere una costante e moderata allegria, perseverare
nell’adempimento dei propri doveri di pietà e di studio e partecipare sempre alla
ricreazione con i suoi compagni.
In seguito ebbe necessità di porgergli una seconda lezione. Avvedutosi che alla
gran voglia di farsi santo si univa nel Savio la persuasione di non potervi riuscire
senza rigide penitenze e lunghe ore di preghiera, pratiche non conciliabili con la
sua condizione, gl’insegnò a studiarsi invece di guadagnare a Dio i suoi compagni.
Da quel punto un tal pensiero seguì il giovanetto dovunque si trovasse, sicché nel-
l ’ospizio e nell’oratorio festivo divenne un piccolo apostolo. Ricordando più tardi
il suo zelo di apostolato, D on Bosco disse che Domenico gli tirava più pesci nella
rete con i suoi trastulli che non i predicatori con le loro prediche.
Tuttavia il caro giovane non sapeva rinunciare a penitenze afflittive del corpo,
che per altro Don Bosco d ’ordinario gli vietava, finché gl’ingiunse di non più in-
traprenderne alcuna senza sua espressa licenza. Ed ecco una terza lezione. — La
penitenza che il Signore vuole da te, gli disse, è l ’ubbidienza. Ubbidisci, e a te
basta. Le altre penitenze che ti permetto sono: sopportare pazientemente le ingiurie;
tollerare con rassegnazione il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza e
tutti gl’incomodi di salute che a Dio piacerà di mandarti. Ciò che dovresti soffrire
per necessità, offrilo a Dio, e diventa virtù e merito. — A questi consigli Domenico
si piegò docile e tranquillo.
Don Bosco instillava nelle anime giovanili una divozione filiale verso la Madre
di Dio. Nella prima novena dell’Immacolata, che il Savio fece nell’Oratorio,
ogni sera la parola paterna del direttore infervorava tutti a onorare la Santa Ver­
gine. Erano i giorni in cui a Roma si preparava la dogmatica definizione di
“ Maria concepita senza peccato ” . Domenico, pieno di entusiasmo, premise alla
grande solennità una confessione generale; ma poi nel dì della festa ruminava
l ’idea di compiere qualche atto speciale in onore della sua celeste Madre. Don Bo­
sco, secondando la sua pietà, gliene insegnò il modo. Savio, conforme al suo sug­
gerimento, la sera del giorno memorando entrò tutto solo nella chiesa di S. Fran­
cesco, si portò dinanzi all’altare della Vergine e là nella penombra silenziosa del­
l ’ora, proferì più volte, dice Don Bosco, queste precise parole: “ Maria, vi dono
il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre i miei
amici; ma per pietà fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commet-
181

23.6 Page 226

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tere un solo peccato Già nella sua prima comunione aveva scritto fra i suoi pro­
ponimenti l ’energico motto: La morte ma non peccati. Dopo quell’8 dicembre la
sua condotta morale apparve così edificante e congiunta a tali atti di virtù, che
Don Bosco incominciò a prenderne nota per non dimenticare nulla.
Il
suo cuore tuttavia non era ancor pago: egli vagheggiava un omaggio alla
Madonna, che fosse permanente e fecondo di bene. Sorse così in lui e maturò il
proposito d’istituire fra i compagni quella benefica compagnia dell’immacolata
Concezione, di cui egli fu l ’angelo tutelare, come si è detto sopra.
Avvicinandosi il maggio del ’57, che fu l ’ultimo della sua vita, tutto infiam­
mato di pietà, pregò Don Bosco di dirgli come avrebbe potuto meglio del solito
santificare il mese mariano. Don Bosco, sempre eguale a se stesso, gli rispose che
10 santificasse adempiendo con esattezza i suoi doveri, raccontando ogni giorno ai
compagni un esempio di Maria e regolandosi in guisa da poter fare quotidiana­
mente la comunione. Gli raccomandò inoltre di pregare la Madonna, che gli ot­
tenesse da Dio la sanità e la grazia di farsi santo.
La raccomandazione di chiedere la sanità era quanto mai opportuna. —- A
questa perla di giovinetto, disse allora il medico, tre lime sorde rodono insensibil­
mente le forze vitali: la gracilità della complessione, la precocità dell’intelligenza
e la continua tensione di spirito.
La tensione di spirito gli veniva dall’intensa applicazione allo studio (frequen­
tava già la quarta ginnasiale), dalla sollecitudine assidua in escogitare mezzi per fare
del bene ai compagni e dal fervore della preghiera. Il suo spirito, scrive Don Bo­
sco, era così abituato a conversare con Dio, che in qualsiasi luogo, anche in mezzo
ai più clamorosi trambusti, raccoglieva i suoi pensieri e con pii affetti sollevava il
cuore a Dio ” . Con tutto ciò egli appariva sempre ilare. Dice infatti il suo santo
biografo: “ Il Savio godeva di se medesimo e traeva i suoi giorni veramente felici ” .
Così perseverò fino all’ultimo respiro.
Sorrisi di cielo allietarono l ’animo dell’angelico giovane con rivelazioni ed
estasi, che Don Bosco descrive e che testimoni degni di fede confermano. Il me­
desimo Don Bosco in un sogno del 1876, smagliante di bellezze spirituali e conte­
nente ben quattro vaticini avverati, vide il suo discepolo nei fulgori della gloria
celeste. A una vita così breve, eppure così santa, la Chiesa ha rivolto già la sua at­
tenzione, preparando all’alunno dell’Oratorio anche l ’aureola della gloria terrena.
11 Papa Pio XI, emanando il decreto sull’eroicità delle sue virtù, ne esaltò partico­
larmente tre: la liliale purezza, la profonda pietà e lo spirito di apostolato.
Per ogni dove l ’affascinante biografia di Domenico Savio riscalda le anime, com­
movendole ed elevandole. I suoi resti mortali riposano nella basilica di Maria Ausi-
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23.7 Page 227

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liatrice. Se Dio lo vorrà, come tutto fa sperare, la glorificazione del figlio verrà
fra non molto ad accrescere la gloria del padre.
Nell’autunno dell’anno stesso, in cui il Savio era morto, venne all’Oratorio
Michele Magone, il secondo dei giovani che meritarono di passare ai posteri per
la penna di Don Bosco. Il Santo l ’aveva colto casualmente presso la stazione di
Carmagnola durante una fermata del treno che lo riconduceva a Torino. Ragazzo
tredicenne, capitanava una turba di coetanei, che là attorno levavano alti schia-
mazzi. Don Bosco lo adocchiò in mezzo a quei folletti, lo avvicinò, gli parlò, ne
moderò il fare petulante. In un rapido dialogo si formò di lui un’idea completa.
Suo padre era morto, sua madre stava a servizio ed egli menava una vita da mo­
nello. Dalla franchezza però delle sue espressioni e dall’indole sua intraprendente
Don Bosco intuì il pericolo del lasciarlo così nell’abbandono e concepì la spe­
ranza che, ben diretto, avrebbe fatto buona riuscita. In breve fu concertato di ri­
tirarlo nell’Oratorio, perchè fosse applicato agli studi.
Si trovava qui da pochi giorni, quando a u n ’interrogazione di Don Bosco
sopra le sue intenzioni rispose disinvolto : — Se un birbante potesse diventare ab­
bastanza buono da potersi far prete, io mi farei volentieri prete. — E Don Bosco:
—■Vedremo che cosa saprà fare un birbante. Quanto al farti prete od altro, è cosa
che dipenderà dal tuo progresso nello studio, dalla tua condotta morale, e dai
segni che darai di essere chiamato allo stato ecclesiastico.
Secondochè si costumava coi nuovi arrivati, gli era stato posto a fianco,
senza ch ’ei se n ’accorgesse, un compagno sicuro che gli facesse da angelo custode
e non lo perdesse mai di vista. Ce ne volle della pazienza per isvezzarlo da certi
discorsi, da certe parolacce, dall’attaccar brighe con tutti! Nelle ricreazioni sem­
brava il re del cortile. Il direttore lo lasciava fare. La andò così per un mese o
poco più. Quindi a un tratto mutò registro. Non giocava più; talora si rincantuc­
ciava con aria triste e piangeva. L ’ambiente l ’aveva soggiogato. Don Bosco, che
ne seguiva gli atteggiamenti, lo chiamò e: — Come! — gli disse. — Tu sei quel
generale Magone Michele, capo di tutta la banda di Carmagnola? Che generale tu
sei! Non sei più capace di esprimere con parole quello che ti duole nell’animo! —
Dopo un breve scambio di domande e risposte: — Insomma, conchiuse risolu­
tamente Michele, ho la coscienza imbrogliata.
Tanto bastò: Don Bosco aveva capito tutto. G l’insegnò senz’altro a prepa­
rarsi per una buona confessione. Il giovane incoraggiato si confessò la sera stessa
da lui. Da quel punto la grazia, mercè la frequenza dei sacramenti, ne venne tras­
formando la natura. Gli costava frenare l ’indole, che per un nulla pigliava fuoco;
ma riuscì a dominare talmente se stesso da diventare pacificatore dei compagni.
183

23.8 Page 228

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Di mano in mano che comprendeva la carità fattagli da Don Bosco, si sentiva
traboccare dal cuore la riconoscenza verso l ’insigne benefattore. Messa tutta l ’a­
nima nelle mani di lui, s ’infervorava ogni giorno più nella divozione a Maria,
nella frequenza dei sacramenti, nello zelo di rendere ad altri il bene che da altri
aveva ricevuto. Tutto questo, scrive Don Bosco, “ praticava con allegria, con di­
sinvoltura e senza scrupoli, di modo che era amato e venerato da tutti, mentre
per vivacità e belle maniere era l ’idolo della ricreazione ” .
Data la sua condotta anteriore, lo assalivano ricordi e impressioni del passato,
che, eccitandone la vivace fantasia, cimentavano il suo buon volere. Ma la confi­
denza in Don Bosco era neU’Oratorio l ’àncora di salvezza. — Leggi e pratica —■
diss’egli un giorno a Michele, porgendogli un bigliettino, in cui aveva scritto:
Cinque ricordi che S. Filippo Neri dava ai giovani per conservare la virtù della
purità: Fuga delle cattive compagnie; non nutrire delicatamente il corpo; fuga del­
l ’ozio; frequente orazione; frequenza dei sacramenti, specialmente della confes­
sione ” . Era un piccolo promemoria d ’insegnamenti, che D on Bosco gli veniva
diffusamente esponendo secondo il bisogno e che Michele nel suo linguaggio chia­
mava i carabinieri della purità.
Quanto a nutrire delicatamente il corpo, il giovanetto ne rifuggiva a tal punto,
che avrebbe voluto fare continue penitenze. Così, per esempio, nel 1858 durante
la novena dell’immacolata avrebbe voluto privarsi ogni mattina della colazione;
ma D on Bosco per riguardo alla sua salute gli assegnò invece una breve preghiera
da recitare tutti i giorni.
La salute di Michele veramente sembrava buona; non era tuttavia prudenza
permettergli quella sottrazione di alimenti, tanto più che attendeva con ardore allo
studio. Fece in un anno la prima e la seconda ginnasiale.
Stette dunque bene fino al 19 gennaio 1859, quando un improvviso e violento
malore in due giorni lo abbattè. Assistito da Don Bosco, si spense nella piena con­
sapevolezza del suo stato e con una serenità di spirito più che umana. I compagni
lo piansero amaramente, dicendosi l ’uno all’altro: — Magone è già con Savio in
paradiso. — D on Bosco scrive: “ Io non saprei qual nome dare alla morte di Ma­
gone se non dicendola un sonno di gioia che porta l ’anima dalle pene della vita
alla beata eternità ” . Dalle pagine di tutta la biografia spira una soave semplicità,
che incanta i giovani lettori, animandoli all’imitazione.
Francesco Besucco, il terzo fortunato che ebbe Don Bosco banditore delle sue
virtù, possedeva minore ingegno dei due precedenti, ma eguale amore allo studio
e pari aspirazione al sacerdozio. La lettura delle loro biografie, procurategli dal­
l ’arciprete di Argenterà, suo paesello nativo a ridosso delle Alpi marittime, lo in­
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voglio a venire nel luogo, dov’essi avevano lasciato tanti e sì luminosi esempi. Ca­
dendo in qualche difetto, si condannava iinanco a dure penitenze, per non demeri­
tare la grazia di essere accolto nell’Oratorio. Entrò nel sospirato asilo il 2 agosto 1863.
Era fuori di sè dalla consolazione. Contava tredici anni e cinque mesi. Portava
seco un meschino correduccio di abiti e biancheria, essendo povero povero; ma
racchiudeva in sè tesori di bontà e d ’innocenza, acquistati e conservati mercè le
cure solerti del suo ottimo parroco.
Nella narrazione che abbraccia questa prima parte della vita di Francesco, i
particolari messi da Don Bosco in rilievo documentano quali fossero sempre le
sue idee maestre in ordine a una completa formazione cristiana dei giovani: pietà
e purezza, sacramenti e divozione a Maria, adempimento dei propri doveri e avvia­
mento all’apostolato. Nel complesso però si vede mancare fin qui quell’alone di
gaia serenità, che piaceva soprammodo al santo educatore. L ’Oratorio supplì poi al
difetto; anzi, Don Bosco stesso nel suo secondo colloquio con lui, prospettandogli
in tre parole il nuovo programma di vita, gli raccomandò allegria, studio e pietà.
Francesco intese le tre parole alla lettera. Si abbandonò tosto all’onda di al­
legria, da cui vedeva trasportati i suoi compagni. Nello studio a forza di applicazione
progredì talmente che alla riapertura delle scuole potè essere classificato nella se­
conda ginnasiale. Quanto alla pietà, non aveva gran che da aggiungere; solo modi­
ficò le sue abitudini per conformarsi agli usi dell’Oratorio. Tuttavia il suo fervore
appariva quello di un’anima privilegiata. Don Bosco dopo aver scritto che “ è
una gran ventura per chi da giovinetto è ammaestrato nella preghiera e ci prende
gusto ” , dice di lui che il suo spirito di preghiera giungeva a tal segno da farlo
esclamare che avrebbe desiderato poter separare l ’anima dal corpo per meglio gu­
stare che cosa volesse dire amar Dio.
In una cosa sola aveva bisogno di freno, nell’ardente desiderio di penitenze
corporali. Vi era già abituato; ma nell’Oratorio quella brama gli crebbe a dismi­
sura. “ Quando l ’amor di D io, osserva il biografo, prende possesso di un cuore,
niuna cosa del mondo, nessun patimento lo affligge, anzi ogni pena della vita gli
riesce di consolazione ” . D on Bosco però credette di dovernelo moderare, inse­
gnando anche a lui la maniera di far diventare penitenza tutto ciò che si soffre per
necessità e consigliandogli di mortificarsi con l ’eseguire umili lavori nella casa e
col rendere servigi anche penosi ai compagni.
Nonostante la sua docilità, Francesco si lagnava qualche volta che non gli si
permettesse di digiunare nè di procurarsi altre sofferenze; ma Don Bosco gli andava
ripetendo: —■La vera penitenza non consiste nel fare quello che piace a noi, ma
nel fare quello che piace al Signore e che serve a promuovere la sua gloria. Sii ubbi­
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23.10 Page 230

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diente e diligente ne’ tuoi doveri, usa molta bontà e carità verso i tuoi compagni,
sopporta i loro difetti, da’ loro buoni avvisi e consigli, e farai cosa che al Signore
piacerà più d’ogni altro sacrificio. — È evidente che il provvido educatore mirava
a ottenere che i suoi educandi fossero informati ad abiti morali siffatti da potersi
conservare poi nel corso della vita.
Tutto andava a gonfie vele; ma ecco che nel cuore dell’inverno un freddo not­
turno, causatogli da una sua imprudenza, gli fu fatale. Otto giorni di malattia
spezzarono quella forte fibra di alpigiano, troncando bruscamente un’esistenza
così ricca di belle promesse. Francesco spirò fra le braccia di Don Bosco, ramma­
ricandosi di una cosa sola, di non aver amato Dio come si meritava. E chi mai su
questa terra può amare Dio come si merita?
Fu un’apparizione la sua nell’Oratorio, essendovi egli vissuto appena sei mesi;
ma lasciò dietro di sè una lunga scia luminosa, che Don Bosco fissò come in una
pellicola vivente nella terza delle sue biografie giovanili.
Fra i circa settecento giovani dell’Oratorio questi tre, e non questi soli, erano
il fior fiore. I sogni però e le parlate di Don Bosco ci svelano la presenza anche
di altri assai dissomiglianti. Ora il mirabile sta qui, che la maggioranza dei buoni
si trascinava dietro i pusillanimi, gl’incauti e i trasandati, riducendo all’isolamento
i refrattari, i quali così venivano scoperti, messi nell’impossibilità di nuocere e
richiamati ad méliorem frugem o allontanati. La padronanza che Don Bosco aveva
dei cuori comunicava alla sua parola un’efficacia tale sull’ambiente, che l ’equili­
brio non vi veniva mai scosso nè fortemente nè a lungo.
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CAPO XXII
CONTINUANO LE “ BASTONATE” E IL RESTO
N el gennaio del 1863 il ginnasio dell’Oratorio aveva 341 alunni. Sopra vi pen­
deva sempre la spada di Damocle, ossia la minaccia di chiusura, perma­
nendo da una parte la mancanza dei titoli legali per l ’insegnamento e perdurando
dall’altra nella combutta massonica il proposito di soffocare quel nido di reazionari.
Le Autorità ministeriali solevano essere sensibilissime alle pressioni che movevano
da premesse patriottiche. Urgeva dunque scongiurare il pericolo di misure dra­
coniane irreparabili.
La regolare frequenza alle lezioni universitarie bastava, negli anni antecedenti,
a conferire il diritto di essere ammessi agli esami per l ’abilitazione all insegnamento
secondario. Di fatto però non se ne teneva più conto, allora, sebbene una legge che
abolisse questo stato di cose non esistesse; quindi anche dopo la recente legisla­
zione scolastica alcuni a titolo di favore avevano potuto godere di tale facolta. Don
Bosco sperò altrettanto per i chierici Francesia, Durando, Cerruti e Anfossi, che
per quattro anni avevano frequentato l ’Università come uditori. Ne fece istanza al
ministro, che non rispose; gli chiese u n ’udienza, che non ottenne. Tornò quindi
dal capo divisione menzionato sopra; ma costui, che già aveva fatto parte del trium­
virato nella seconda perquisizione ed era sempre ostilissimo all’Oratorio, gl’in-
timò una delle due: o procurarsi per quattro anni professori titolati e intanto far
inscrivere all’Università i suoi insegnanti o rassegnarsi a chiudere il ginnasio.
Don Bosco lì per lì non trovò miglior risposta che questa : — Fino al termine
dell’anno in corso siamo in regola; per l ’anno seguente si penserà al da farsi.
Il funzionario gli contestò che fosse in regola neanche per un giorno. Don Bosco
aveva in tasca il decreto del provveditore, e glielo lesse. L ’altro scattò come una
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molla, negando la validità del decreto e tacciando d’ignoranza della legge il prov-
veditore. L ’affare non riguardava direttamente Don Bosco, che, venuto via di là
e vista la mala parata, si reco difilato dal provveditore. Questi, chiamato in causa
con una patente d’ignoranza, prese cappello e ingaggiò una polemica col suo con­
traddittore. La tenzone epistolare non finì tanto presto. Fra i due litiganti il terzo
che godeva era Don Bosco, il quale intanto tirava via indisturbato.
Ma questo non risolveva la questione dell’ammissione agli esami. Essendovi
motivo di credere che l ’opposizione, più che dal ministro, venisse dal solito fun­
zionario, Don Bosco rinnovò la supplica, spiegando anche perchè i suoi insegnanti
avessero frequentato l ’Università senza prendere l ’iscrizione. “ Tali iscrizioni, di­
ceva egli (e lo riferisce nelle sue Memorie), non furono prese per l’unico motivo
che questi maestri essendo poveri, e lavorando e vivendo in una casa che si so­
stiene di sola beneficenza, non si potevano pagare le tasse stabilite dalle leggi
13 novembre 1859 ’. Nel frattempo fece Dio sa quante scale per visitare perso­
naggi influenti, da cui avere autorevole appoggio; ma tutto fu invano.
Bloccatagli quella via, girò l ’ostacolo, chiedendo l ’iscrizione dei quattro chie­
rici all’Università. Gli si rispose che dessero prima gli esami di licenza liceale.
Sperò di farli esimere, richiamandosi a una disposizione antica. Essi avevano com­
piuto il corso filosofico nel seminario sotto professori laureati, il che era stato
sufficiente in molti casi per l ’ammissione alla facoltà di lettere. Ricorse dunque
in tal senso al rettore dell’Università, che era Ercole Ricotti. Fu cosa ardua espu­
gnarlo; ma alla fine egli cedette e, udito il consiglio accademico, propose al mi­
nistro Amari la dispensa dei richiedenti dall’esame di licenza liceale. Il ministro
consentì, a patto però che sostenessero con buon esito l ’esame di ammissione.
Per questa condiscendenza s’indispettì talmente il capo divisione, che pro­
vocò un’inchiesta ministeriale nel ginnasio dell’Oratorio. Ne fu incaricato l ’ispet­
tore delle scuole secondarie classiche per la parte scientifica.
Questi tratto con i guanti, ma non riuscì a dissimulare di essere venuto con
secondi fini. Infatti più che altro, interrogando gli alunni, sindacava insidiosamente
le idee politiche professate dai loro docenti. L’ispezione durò due giorni. L’i­
spettore congedandosi manifestò la sua piena soddisfazione, sicché pareva pro­
prio che non vi fosse nulla da temere. Invece Don Bosco venne per via confiden­
ziale a conoscere che stava per essere presentata al ministro una relazione, nella
quale si denunciava la mancanza di ordine, di moralità e di patriottismo nell’O-
ratorio.
Bisognava far presto a prevenire il colpo. Don Bosco secondo il suo costume
andò direttamente dal ministro. Anzitutto si lagnò di essere vessato da continue
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24.3 Page 233

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ispezioni senza che ne sapesse il motivo, essendo egli stato sempre suddito fedele.
Il ministro dopo alcune gentili espressioni osservò: —■Si dice che il suo filantro­
pico istituto abbia degenerato e si sia convertito in una congrega di reazionari e
che lei ricusi persino di sottomettersi agli ordini delle autorità scolastiche. Credo
per altro che il signor ispettore abbia usato i riguardi dovuti a lei e ai suoi allievi,
come appunto io gli avevo ordinato.
Qui lo voleva Don Bosco: questo era il secondo punto, sul quale pensava di
richiamare la sua attenzione, sui metodi cioè adoperati allora e tre anni prima. Il
ministro, altamente sorpreso, fece venire nel suo ufficio l ’ispettore e il capo di­
visione.
Era un giorno di giugno, nell’ora del crepuscolo. I due, entrati con gli occhi
rivolti al ministro, si sedettero presso la scrivania. Il ministro interrogò il primo
sull’esito della recente visita. Costui prese a divagare; ma fu richiamato all’oggetto
dell’ispezione, che era di esaminare la legalità dell’insegnamento. Rispose sofisti­
cando sul decreto carpito, diceva, al provveditore. Il ministro, senza badare a
questi suoi apprezzamenti, accennò alle lagnanze di Don Bosco: domande indiscrete
e inopportune indirizzate ai giovani. L ’ispettore protestò. M a: — Abbiamo qui
Don Bosco, gli disse. Sentiamolo, e guai agl’impostori!
U n fulmine a ciel sereno! Quei signori che nella penombra non avevano scorto
Don Bosco, rimasero interdetti. Il capo divisione chiese licenza per pochi minuti,
dovendo sbrigare una pratica urgente e si avviò per uscire; ma, benché conoscesse
molto bene la topografia dell’ambiente, invece dell’uscio aperse un armadio, tanto
gli erano venute le traveggole. Don Bosco si difese magistralmente, non tacendo
le lodi tributate dall’ispettore all’Oratorio per l ’ordine, la disciplina e lo studio.
L ’ispettore balbettò qualche spiegazione, ma dovette ritirarsi confuso e mortifi­
cato. Allora Don Bosco a quattr’occhi vuotò il sacco. Il ministro lo stava guardando
e ascoltando. Finalmente con energia gli disse: — Mi piace questo schietto parlare;
questa sua confidenza non sarà senza effetto. — Quindi lo interrogò sulla sua Sto­
ria d ’Italia, osservando che conteneva principii e massime non più compatibili coi
tempi. Anche su questo tema la discussione si chiuse amichevolmente. Da ultim o:
— Vada tranquillo, gli disse. Nessuno tornerà più a disturbarla. In altre difficoltà
simili venga da me e non dubiti. Finché sarò io a questo posto, lei avrà sempre
tutta la mia protezione. — Don Bosco lo ringraziò, gli promise di pregare e di far
pregare per lui, e si separarono con segni di mutua benevolenza.
Ma verba volani e scripta m anent. Per meglio cautelarsi da possibili sorprese,
Don Bosco ribadì le sue buone ragioni in lettere al ministro Peruzzi dell’interno
J
col quale pure aveva avuto un colloquio, all’Amari, all’ispettore stesso e al regio
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provveditore. Con varianti accidentali si difendeva da tre dicerie: che gli studi e
o spirito de’ suoi chierici non fossero in armonia con le istituzioni; che nell’Ora­
torio non si volesse il ritratto del Re; che la sua Storia d’Italia andasse contro il
sentimento nazionale.
Per allora dunque da parte del Governo si mise una pietra sul passato; gli
avversari scorbacchiati stettero cheti; gli amici dopo quella prova del fuoco rad­
doppiarono la loro stima per l ’Opera di Don Bosco.
Se non che alla riapertura delle scuole sarebbe risorto automaticamente il
problema dell’insegnamento da legalizzare. I quattro chierici in luglio superarono
molto bene gli esami di ammissione all’Università; ma questo non autorizzava a
insegnare nel ginnasio. Il provveditore, pregato di prorogare la concessione del­
l ’anno avanti, non credette di poterlo fare. Ci pensò la Provvidenza. Molte cat­
tedre di scuole secondarie in Piemonte e nelle province annesse mancavano di ti­
tolari. A colmare i vuoti il ministro indisse una sessione straordinaria d’esami in
settembre per coloro che volessero conseguire il diploma d’abilitazione. Man­
cavano appena due mesi; tuttavia Don Bosco invitò cinque de’ suoi, fra i quali
Don Rua, a prepararvisi. Era una fatica improba in sì breve tempo e con altre oc­
cupazioni: ma alla scuola di Don Bosco quei primi imparavano a lavorare per fini
superiori, sicché la fatica o non la sentivano o la amavano.
Alla vigilia quasi degli esami spuntò una nuova difficoltà: nel decreto si esi­
geva la licenza liceale. Don Bosco in ansietà scriveva il 3 settembre alla marchesa
Fassati: “ Signora Marchesa, se fu tempo in cui abbia avuto bisogno delle sue
preghiere, certamente è questo. Il demonio ha dichiarato guerra aperta a questo
Oratorio, e sono minacciato di chiusura, se non lo porto all’altezza dei tempi se­
condo lo spirito del Governo. La Santa Vergine ha assicurato che ciò non sarà; ma
tuttavia Dio può trovarci degni di castigo e tra gli altri permettere questo. Sono
alcune settimane che io vivo di speranza e di afflizioni ” . La Provvidenza mandò
a vuoto ancora una volta il mal talento degli avversari. Bastò all’ultima ora il cam­
biamento del rettore nell’Università, perchè fosse considerato titolo equipollente
l ’esame del seminario. I cinque candidati ottennero ammissione e approvazione.
Don Bosco respirò. Nondimeno comprese la necessità di entrare decisamente
nelle vie legali. Onde dispose che dal 1864 in poi i chierici di miglior ingegno con­
seguissero la licenza liceale e s’inscrivessero all’Università. Troppi indizi gli face­
vano prevedere che la vantata libertà d’insegnamento si sarebbe di coartazione in
coartazione risolta in sempre maggiori difficoltà a mantenere scuole private. Il suo
esempio e il suo consiglio apersero gli occhi a coloro, disgraziatamente pochi, che
non preferirono cullarsi nelle illusioni.
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24.5 Page 235

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Anche questa volta, mentre lo bersagliavano tante contrarietà, Don Bosco ba­
dava a ingrandire l ’Oratorio. Lo ingrandì all’interno. Venne su in quei mesi un
altro braccio di fabbricato a tre piani, che, staccandosi dalla casa già dei Filippi,
si protendeva per la lunghezza di sessanta metri verso il luogo dell’attuale casa
capitolare. Ingrandì l ’Oratorio al di fuori. È pure di allora la fondazione di un
oratorio in miniatura lontano da Torino, a Mirabello nel casalese.
A Mirabello e altrove nel Monferrato Don Bosco era conosciutissimo. Dal
1859, nel cuore dell’autunno, egli conduceva da quelle parti, a titolo di premio,
un buon centinaio di giovani, coi quali, seguendo itinerari prestabiliti e ben prepa­
rati, visitava annualmente parecchi comuni. In quel tempo dell’anno il Monferrato
è uno dei luoghi più suggestivi del mondo. Le vigne che rivestono le colline, met­
tono in mostra i loro tralci carichi di grappoli maturi. Le giornate serene, la tem­
peratura mite, la gioia degli abitanti all’appressarsi della vendemmia creano un am­
biente di allegrezza e di pace che incanta. I gitanti di Don Bosco pernottavano nelle
canoniche di parroci amici e nei castelli di signori, che vi stavano a villeggiare e
volevano bene all’Oratorio. Era nell’insieme un apostolato di buon esempio. Esem­
pio di pietà, perchè nelle chiese parrocchiali i giovani facevano la comunione e
improvvisavano divote funzioni, a cui i buoni villici assistevano edificati. Aposto­
lato di obbedienza e disciplina, perchè tutti vedevano con quanta docilità rispon­
dessero quei frugoli ai cenni di Don Bosco e dei superiori subalterni. Apostolato
anche di sana allegria. Dopo la preghiera e la parola di Dio, si cantava all’aria
aperta, si sonava, si davano su palcoscenici di fortuna rappresentazioni dramma­
tiche. Giovava allora dimostrare col fatto che pietà e allegria non solo vanno d ’ac­
cordo, ma si aiutano a vicenda in far bella e buona la vita.
Don Bosco dunque nei più agitati mesi del 1863 aveva condotto le pratiche
per l ’apertura di un collegio a Mirabello, il primo di una serie che non doveva
arrivare mai all’ultimo. Quando rimaneva da fare soltanto la scelta del personale,
pellegrinò la terza volta al santuario d ’Oropa per invocare dalla Madonna i lumi
celesti. Ritornato che fu, elesse a direttore Don Rua, dandogli per collaboratori
sei chierici, fra i quali Bonetti, Cerruti e Albera, più tre giovanotti aspiranti allo
stato ecclesiastico. Al direttore consegnò un memoriale autografo contenente un
complesso di norme, che formano tuttora la magna carta del direttore salesiano
in ogni parte del mondo. Per tutti poi scrisse uno speciale regolamento, ricalcato
su quello dell’Oratorio e adatto alla sua prima filiale. D ’intelligenza col Vescovo
Nazari di Calabiana intitolò la casa Piccolo Seminario di San C arlo, sia perchè voleva
che vi si coltivassero le vocazioni sacerdotali, sia per sottrarla all’ingerenza delle
autorità scolastiche. Il collegio fu aperto il 20 ottobre.
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24.6 Page 236

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Verrebbe quasi voglia di pensare che fossero in Don Bosco due personalità
staccate e per sè operanti, una che lottava per l ’esistenza dell’Oratorio e l ’altra
che attendeva tranquillamente a ingrandirne il raggio di azione. Non era ancora
aperto il collegio di Mirabello, che già egli avviava le trattative preliminari, che nel
1864 dovevano approdare all’apertura di un altro collegio sui monti di Lanzo To­
rinese. Ma tutti questi incrementi sono poca cosa in confronto di un’impresa de­
stinata ad avere importanza mondiale. Proprio durante le “ afflizioni ” di quei mesi
Don Bosco acquistò l ’area, fece preparare il disegno e ordinò gli scavi per l ’ere­
zione del santuario di Maria Ausiliatrice.
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24.7 Page 237

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CAPO XXIII
DISPENSATORE DELLA PAROLA DI DIO
Pria che i pensieri delle sue fondazioni ne lo distraessero, Don Bosco attese
come pochi al ministero della parola. È scritto che allora egli faceva non
meno di tremila fra discorsi, prediche, conferenze, sermoncini e catechismi ogni
anno. È un p o’ troppo, ma alla metà arrivava di certo. Una media da quattro a
cinque parlate per giorno rappresenta già una somma di attività oratoria ben dif­
ficile a raggiungersi.
Chiamato a predicare, purché potesse, non diceva mai di no, compiendo
anche sforzi che non si crederebbero possibili. U n anno a Ivrea predicava una mis­
sione al popolo nella parrocchiale di S. Salvatore, facendo quotidianamente due
meditazioni e due istruzioni. Invitato a fare altre due prediche al giorno nel semi­
nario, accettò. Venuto contemporaneamente a mancare il predicatore degli eser­
cizi nel convitto civico, fu pregato di supplirlo, e lo supplì. Sicché erano ogni
giorno otto prediche, nonostante che i brevi intervalli e lunghe ore delle notti
fossero da lui dedicati ad ascoltare le confessioni.
Le prediche propriamente dette e le predicazioni continuate, come anche i ca­
techismi, divennero meno frequenti dopo il 1860, rare dopo il 1865, rarissime
dopo il 1871, per effetto di una grave malattia. Non ismise però fino agli ultimi anni
della sua vita le conferenze ai Salesiani e ai Cooperatori, nè i sermoncini serali.
Quando entrò nel Convitto ecclesiastico, nulla sembrava segnalarlo come
predicatore. Fu il suo parroco Don Cinzano a metterlo in vista presso Don Cafasso,
al quale suggerì di provarlo assegnandogli un corso di predicazione senza preavviso.
D on Cafasso una sera lo incaricò di cominciare subito l ’indomani una novena nel-
POspizio di carità. Egli obbedì e riuscì egregiamente. Compresa così la necessità
193
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24.8 Page 238

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di premunirsi contro simili sorprese, nel 1842 si diede a comporre vari corsi di
predicazione per diverse categorie di uditori.
Anche Pio IX nel 1858 lo sottopose a un esperimento dello stesso genere,
facendolo avvertire da mons. De Merode che senza indugio dettasse gli esercizi
alle detenute nelle carceri presso Santa Maria degli Angeli. Stavano colà rinchiuse
224 condannate, più un certo numero di altre in attesa del giudizio o della sen­
tenza. Non aveva con sè i suoi quaderni; ma dovette sobbarcarvisi senz’altro. Il
Papa voleva vedere se fosse realtà o esagerazione quanto sentiva dire di lui. Or­
bene il cappellano, che fu testimonio oculare, riferì effetti meravigliosi al Cardi­
nale presidente, il quale ne informò il Santo Padre. Quelle infelici, commosse,
pentite e piangenti come tante Maddalene, si confessarono tutte e si comunica­
rono con un fervore da claustrali.
Improvvisazioni gli toccò farne non poche volte. Nel 1861 a Vercelli aveva
celebrato le glorie della Madonna nella chiesa di Santa Maria Maggiore, consa­
crata allora allora. Vi era andato con la sua orazione dettata a Don Rua. Piacque
tanto che sorse nel pubblico un vivo desiderio di riudirlo ancora. Per contentare
l’Arcivescovo della diocesi e il Vescovo di Saluzzo, s’indusse a fare altre due pre­
diche, delle quali i prelati gli suggerirono l ’argomento qualche minuto prima che
montasse in pulpito. Tuttavia si fece ascoltare con meravigliosa attenzione.
Non si creda però che egli amasse questa maniera di annunciare la parola di
Dio. Vi si piegava solo in casi eccezionali. D ’ordinario si preparava seriamente.
Quando non potè più scrivere i suoi discorsi, ne tracciava lo schema, sul quale
meditava pregando. Diceva ai suoi figli: — La predica che produce i migliori ef­
fetti è quella meglio studiata e preparata.
Non possedeva doti oratorie. Parlava lento, gestiva poco o nulla, non sapeva
che cosa fosse ricerca dell’effetto; eppure avvinceva gli uditori. A Roma nel 1867,
avendo egli predicato al clero nella chiesa di Santa Maria della Pace, quei preti
stupirono come mai con tanta semplicità si fosse cattivata sì fortemente la loro at­
tenzione. Ma una delle ragioni la espresse poco dopo il gesuita padre Angelini,
ascoltato che ebbe un suo discorsetto nella cappella di S. Stanislao Kostka al Qui­
rinale. — Quanta unzione! — esclamò egli. Ecco un gran segreto del predicatore
per comunicare intimamente con l ’uditorio ; poiché chiamiamo unzione una maniera
di predicare, nella quale domina l ’interiore ispirazione soprannaturale, che va di­
ritta al cuore, attirando gli animi a sè e movendoli al bene. Questa unzione contri­
buiva pur molto a far sì che le sue prediche, anche lunghe, sembrassero brevi, e
si ascoltassero volentieri anche in condizioni disagiate. Fra il 1850 e il 1855 a Stram­
bino d’Ivrea nel dì dell’Assunta la piena della gente lo costrinse a predicare in
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piazza da un palco improvvisato. Il sole dardeggiava. Pure lo ascoltarono per
u n ’ora circa senza dar segno di fastidio. L ’indomani disse il panegirico di S. Rocco,
che si festeggiava in una cappella campestre. Benché fosse giorno di lavoro, vi
convennero un buon migliaio di persone, sicché di nuovo bisognò predicare
all’aperto. Sul più bello cadde un acquazzone; ma il predicatore non si mosse,
perchè non accennarono mai a muoversi gli uditori.
Più singolare fu quello che gli accadde nel medesimo periodo di tempo ad
Agnasco saluzzese. Doveva fare il panegirico dei santi Candido e Severo. Giunto
in ritardo, predicò senz’aver avuto il tempo di pranzare; come ebbe parlato per
un’ora del primo Santo, voleva sospendere, ma il popolo a una voce gridò che
continuasse. Continuò per un’altra buona ora ascoltatissimo.
Nel 1875 a Sannazzaro dei Burgundi in quel di Vigevano la popolazione diser­
tava la chiesa per dissensi col parroco. Don Bosco andò a farvi la predica del Ro­
sario. I fedeli, che lo conoscevano per fama, accorsero in folla a udirlo. Quell’af­
follamento insolito causò nel vasto tempio un brusìo, che da prima sembrò impos­
sibile dominare; ma l ’aspetto di Don Bosco e la sua voce argentina s’imposero.
La predica durò un’ora e tre quarti; eppure ancora del 1906 alcuni dei superstiti
affermavano che, quando finì, la gente si lamentava che fosse troppo presto.
Questo dominio dell’uditorio, dovuto in gran parte alla sua soave unzione,
diede luogo a un fatto che, se non fosse accertato, parrebbe una favola. Teneva
egli una predicazione di dieci giorni a Saliceto di Mondovì. Non parlava mai meno
di un’ora senza che i paesani si saziassero di ascoltarlo. Orbene una volta dalle
dieci continuò fino a mezzodì; ma quei contadini vollero che continuasse. Dopo
un’altra ora, non potendone più, discese per rifocillarsi; ma i buoni popolani, che
secondo il loro costume avevano mangiato alle nove, stettero là ad aspettare, ob­
bligando il parroco a ricondurlo sul pulpito. Don Bosco tranquillamente ripigliò
il filo del discorso che protrasse per altre tre ore, rallegrando il suo dire con le­
pidi racconti, dai quali cavava applicazioni morali. È vero che fuori c ’era la neve;
ma un predicatore che, con un brevissimo intervallo nel mezzo sappia farsi ascol­
tare per più di sei ore, è davvero rara avis in terris.
Ed ecco un secondo segreto dei successi di Don Bosco, la popolarità, ossia
la forma semplice del suo linguaggio. Non diceva cose nuove, perchè trattava per
lo più argomenti triti e ritriti; ma sapeva mirabilmente adattarli alla mentalità del
suo pubblico. Diceva ai suoi: — Il popolo ha bisogno di capire e vuole capire ciò
che dice il predicatore; se capisce, è contento: se non capisce, si annoia. — Sem­
bra una verità lapalissiana; eppure sono più i casi in cui la si vede ricordata o di­
menticata? Egli quindi esordiva da circostanze di attualità; definiva bene il suo
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tema; intercalava similitudini, parabole, esempi, colorendo certe particolarità che
al popolo ordinariamente piacciono, fermando così nelle menti i punti più essen­
ziali. Questo sistema supponeva non solo un buon lavorìo di preparazione, ma
anche un perfetto oblìo di sè per predicare esclusivamente Gesù Cristo.
Del non predicare se stesso diede parecchi saggi notevoli. Certe religiose l ’ave­
vano invitato a dire le lodi della loro santa Patrona. Egli trovò la chiesa dell’in­
signe monastero stipata di persone aristocratiche. Si aspettavano da lui grandi cose;
ma la tentazione di far bella figura non gli sfiorò nemmeno l ’epidermide. Infatti
prese a dimostrare che le buone confessioni sono mezzo efficacissimo per tendere
alla perfezione e per salvare l ’anima. Come si vede, ce ne fu per l ’una e per l ’altra
parte dell’uditorio.
Di qui veniva pure la sua libertà apostolica. Spesse volte a Roma e a Parigi
dovette rivolgere la parola a elette udienze di nobili; ma egli, badando alle anime
e non ai blasoni, esponeva verità fondamentali, senza il menomo pensiero di gua­
dagnarsi le simpatie degli ascoltanti. Così nel 1867 a Roma nella chiesa di Sant’Ago-
stino, dove erano adunate per assistere alla sua Messa molte grandi dame, egli parlò
con calore, ma insieme anche, scrisse allora Don Francesia, “ sferzò e per bene ” .
Eppure le uditrici invece di adombrarsi dicevano dopo: — È il Signore che parla
per sua bocca.
Don Bosco non era mai tanto Don Bosco come quando parlava a’ suoi giovani.
Nel 1847 cominciò a raccontare loro ogni domenica la storia sacra, finita la quale,
passò alla storia ecclesiastica, dilungandosi specialmente intorno alla vita dei primi
Papi. Narrava con incantevole semplicità, frammettendo sobri commenti istruttivi
e osservazioni morali, e per interessare maggiormente il suo volubile uditorio, in­
terrogava alla fine dal pulpito alcuni sulle cose dette.
Questa simpatica abitudine diede luogo a uno storico incidente. Una domenica
di aprile del 1854, raccontando la vita del Papa S. Clemente, descrisse le sofferenze
del suo esilio nel Chersoneso Tracio, l ’odierna Crimea, dove l ’aveva relegato l ’im­
peratore Traiano. Domandò quindi a un giovane, se avesse qualche cosa da osser­
vare. Rispose l ’interrogato: — Se l ’imperatore commise un’ingiustizia cacciando
in esilio quel Papa, il nostro Governo non ha fatto male a esiliare il nostro Ar­
civescovo Fransoni? — Don Bosco a una domanda così insospettata disse senza
scomporsi: — Non è questo il luogo e il tempo di giudicare. Sempre i nemici della
Chiesa presero di mira papi, vescovi e sacerdoti, perchè speravano che, abbattute
le colonne, l ’edificio sarebbe crollato. Voi, udendo o leggendo la condanna di
qualche papa, vescovo o sacerdote, non credetelo subito colpevole, potendosi
dare che sia vittima del suo dovere, come gli apostoli, i martiri e tanti altri;
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anche Pilato mise a morte Gesù come sovvertitore del popolo, mentr’egli invece
aveva raccomandato di star soggetti alle autorità costituite, dando a Cesare quello
che era di Cesare, e a Dio quello che era di Dio.
Neanche a farlo apposta, era entrato in quel momento il ministro Rattazzi,
che Don Bosco non conosceva ancora. Terminata la predica, s’incontrarono per
la prima volta e dopo le presentazioni si parlò tosto dell’incidente. Il ministro ri­
conobbe senz’ambagi che D on Bosco se l ’era cavata egregiamente.
Siffatta predicazione domenicale fu proseguita dal Santo fino al 1869, nel qual
anno se la assunse Don Rua, rifacendosi egli pure dalla storia sacra.
Eccelleva Don Bosco nel predicare esercizi e missioni. Quanti corsi di esercizi
spirituali avesse egli dettati, non sarebbe riuscito nemmeno lui a farne il calcolo.
Li dettò a comunità religiose maschili e femminili, a collegi e seminari, a maestri
laici nella casa di Lanzo e a maestre con signore e signorine in quella delle suore
di Nizza Monferrato. Ai Salesiani li predicò dal 1866 al 1882. Sceglieva argomenti
vitali per la fede e la pratica cristiana, ma con particolare insistenza batteva e ri,
batteva sul peccato e sulla confessione. Parlava col cuore alla mano, diceva a se
stesso le cose che predicava agli altri, sicché talvolta egli medesimo veniva tras­
portato dalla commozione che voleva suscitare negli uditori, come avvenne du­
rante gli accennati esercizi alle carcerate romane. U n mattino, rappresentando loro
l ’ingratitudine delPanima peccatrice verso Dio, interrogò oratoriamente: — E noi
lo offenderemo ancora questo Dio così buono ? —•Ciò dicendo, era così commosso
che singhiozzò. Le ascoltatrici si sentirono talmente rapite fuori di sè, che gli ri­
sposero all’unisono: — No, no!
Altre volte la cosa prese forme più drammatiche. Nel 1865, mentre nell’Ora-
torio predicava ai giovani esterni gli esercizi per la Pasqua, venuto a dire della
confessione sacrilega, proruppe in pianto nè potè più continuare; ma le sue la­
crime furono più eloquenti che non sarebbero state le sue parole. Anche quattro
anni prima, nel predicare ai seminaristi di Bergamo sull’inferno, era scoppiato in
singhiozzi, che l ’avevano obbligato a troncare e scendere, lasciando quei chierici
in preda a vivissima emozione.
Del resto l ’intensità della commozione lo faceva piangere anche in predica­
zioni ordinarie. Di questo appunto il cardinale Cagliero dice nei processi: “ Men­
tre predicava sull’amor di Dio, sulla perdita delle anime, sulla passione di Gesù
Cristo nel Venerdì santo, sull’eucaristia, sulla buona morte e sulla speranza del
paradiso, lo vidi io più volte, e lo videro i miei compagni, versare lacrime ora di
amore, ora di dolore, ora di gioia, e di santo trasporto quando parlava della Ver­
gine Santissima, della sua bontà e della sua immacolata purità ” .
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Don Bosco non aveva uh temperamento emotivo; solo nell’estrema vecchiaia,
secondo che suol essere proprio di quell’età, s’inteneriva per cause naturali. Prima
invece le lacrime descritte scaturivano da più alte sorgenti.
A predicare missioni gli fioccavano inviti da ogni parte del Piemonte e anche
d ’altronde, nè egli vi si rifiutava, a meno che si opponessero cause di vera impos­
sibilità. Caratteristica è una sua predicazione milanese nel giubileo del 1850. La
polizia austriaca, che pedinava i preti lombardi, spalancava cent’occhi sui predi­
catori forestieri, massime se piemontesi. Don Bosco varcò la frontiera con un pas­
saporto, nel quale si qualificava “ maestro di scuola elementare ” . Ve l ’avevano
invitato Don Allievi e Don Verri, il futuro apostolo delle morette. L’Arcivescovo
Romilli, persona benevisa a Vienna, avrebbe voluto dissuaderlo dal predicare in
una chiesa pubblica, qual era la parrocchiale di S. Simpliciano, preferendo che
si contentasse d’un oratorio privato; tuttavia non si oppose, ingiungendogli non­
dimeno che predicasse sulla propria responsabilità senza che egli c ’entrasse e rac­
comandandogli caldamente la prudenza.
A poco più di un anno e mezzo dalla battaglia di Novara i Milanesi trassero
numerosi ad ascoltare il predicatore che veniva da Torino, sperando di sentir vi­
brare sotto sotto anche la nota patriottica. Accenni men cauti sarebbero bastati
a provocare esplosioni. Ma Don Bosco misurava ben bene le sue parole. Con
linguaggio franco e affettuoso, secondo lo stile di S. Alfonso, invitava i fedeli ad
abbandonare la vita del peccato e a riconciliarsi con Dio mediante una sincera
confessione. Recando paragoni ed esempi, si astenne da qualsiasi remota allusione
politica, sicché gli agenti segreti della polizia, che stavano là in orecchi, non pote­
rono mai cogliere una frase censurabile.
Durante poco più di due settimane portò la sua parola anche in più altri luoghi,
facendo talora quattro o cinque prediche al giorno; perchè, visto il suo modo e il
relativo frutto, vari rettori di chiese andavano a gara nell’invitarlo. Così egli pre­
dicò a S. Maria Nuova, a S. Carlo, a S. Luigi, a S. Eustorgio, a S. Rocco e più
volte dai Barnabiti a Monza, fermandosi ogni volta in questa città solo il tempo
strettamente necessario. A parecchi sacerdoti il suo metodo fu una rivelazione, sicché
se lo proposero a modello. L’Arcivescovo gli si professò più tardi riconoscente.
I Vescovi poi si servivano volentieri di lui, quando volevano estirpare la ziz­
zania ereticale da qualche terra delle loro diocesi. Basta per questo citare un caso
tipico. A Viarigi, nel circondario di Casale Monferrato, l ’intera popolazione delirava
dietro un tal Grignaschi, prete spretato e gran gabbamondo. Costui aveva sugge­
stionato financo i preti del luogo. Pretendeva di essere Gesù Cristo novellamente
incarnato e menava in giro una donnaccola, spacciandola per la Madonna. Strani
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prodigi di origine diabolica, ma creduti veri miracoli dagli ammiratori di lui, davano
credito alle sue panzane. Si diceva mandato da Dio a fondare una nuova Chiesa.
Ammaliava con lo sguardo chiunque lo avvicinasse. Esecrande profanazioni pas­
savano per opere sante. Ma poiché a lungo andare vennero a galla turpitudini da
codice penale, il procuratore del Re nel 1850 fece arrestare lui, la donna e i prin­
cipali della setta. Il Brofferio lo difese inutilmente nel tribunale, che gl’inflisse sette
anni di reclusione. La gente però, sempre infatuata, lo venerava come una vittima
e commetteva disordini; onde si dovette stabilire nel paese un presidio militare.
I Vescovi di Casale e di Asti sia in persona sia a mezzo di bravi predicatori si ado­
perarono per cinque anni a disincantare quegli illusi. I preti si ravvidero; ma la
popolazione si manteneva refrattaria. Finalmente nel 1856 ci si provò Don Bosco.
Prima di mettersi in viaggio pregò molto e fece pregare. Gli era compagno un
canonico di Torino. Le accoglienze furono non fredde, ma ostili. La prima sera
ebbe una dozzina di persone attirate dalla curiosità. Egli non si perdette d ’animo.
Ragionò della misericordia di Dio in chiamare gli uomini a penitenza e del peri­
colo d ’incorrere ne’ suoi castighi indurendo il cuore; aggiunse pure che il Signore
avrebbe potuto anche punire gli ostinati con morti improvvise.
L ’udienza crebbe un tantino nei due giorni seguenti; ma una rumorosa festa
da ballo nei pressi della chiesa distraeva il popolo e disturbava i predicatori. La
minaccia di Don Bosco si avverò alla lettera. Nella notte sul quarto giorno il padrone
della casa dove si faceva baldoria, morì d ’un colpo. Don Bosco la mattina appresso
spiegò Vestote parati senza punto accennare al tragico caso; ma dopo disse: —•Ora
facciamo una preghiera per raccomandare alla misericordia divina quel povero nostro
amico che è morto stanotte. — Lo stesso invito ebbe occasione di ripetere più volte
nei dì seguenti per altri del paese o dei dintorni, che erano morti o agonizzanti.
I
missionari che euntes ibant et flebant, se ne ritornarono cum exultatione. L ’in­
cantesimo era svanito. Per raggiungere il pulpito, scriveva Don Alasonatti il 20 gen­
naio, essi negli ultimi giorni erano dovuti “ salire per buche e passare dalla volta
della chiesa ” a cagione della moltitudine. Tutti i tremila abitanti adulti di Viarigi
avevano abiurato e ricevuto i sacramenti. La stampa buona ne diffuse la notizia,
come si fa degli avvenimenti più straordinari.
Ma perchè Don Bosco nella sua prima predica erasi azzardato a lanciare quella
minaccia? Forse ne offre la spiegazione un fatto analogo accaduto a Montemagno
nel 1864. Questo borgo del Monferrato vedeva da tre mesi le sue campagne ardere
dalla siccità. Per l ’Assunta si pensò di fare un solenne triduo predicato da Don
Bosco, allo scopo d ’implorare soccorso dalla Vergine Santissima. Egli nella prima
predica promise in nome della Madonna un’abbondante pioggia, se tutti ascoltas­
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sero la parola di Dio, si confessassero e si accostassero alla sacra mensa. Il po­
polo gli credette. Molti confessori, fra cui Don Rua e Don Cagliero, sedettero
dì e notte nei confessionali. Nel giorno della festa la comunione fu universale;
ma il cielo sembrava di bronzo. Nel pomeriggio, allorché dopo i vespri Don Bo­
sco salì sul pulpito, la gente soffocata dal caldo cominciava a mormorare. Sul fi­
nire dell’esordio ecco un lontano colpo di tuono. L’uditorio trasalì; ma a metà
della predica, quando si sentiva l ’acqua venir giù a catinelle e flagellare le vetrate,
non c ’era più un ciglio asciutto. Si sussurrava: — Miracolo! Miracolo!
Torniamo ora a quella prima predica. Il parroco, mentre Don Bosco rientrava
nella sagrestia, gli si fece incontro e con gli occhi fuori delle orbite lo interrogò
come mai avesse avuto il coraggio di annunciare così asseverantemente la pioggia
per il dì dell’Assunta. Don Bosco trasecolato protestava, che doveva esserci un
malinteso e che egli non si ricordava affatto d’aver detto una cosa simile; ma troppi
testimoni confermavano l ’asserzione del parroco. Si ha dunque il diritto di con­
chiudere che in certe congiunture non è l ’uomo apostolico che parla, ma parla
per bocca di lui lo Spirito di Dio, senza che il parlante abbia coscienza di quello
che dice.
Di Don Bosco predicatore si potrebbe scrivere un volume. Don Rua nei
processi testifica che alla distanza di molti anni, passando per varie città e paesi,
trovava ancor vivo il ricordo delle sue predicazioni. Egli che lo sentì tante volte,
attribuisce ivi a tre cause il gran concorso e la somma attenzione del popolo nel-
l ’ascoltarlo: alla sua maniera facile e piana, allo studio di farsi capire da tutti e
alla vivezza descrittiva de’ suoi racconti. Per conseguire tutto questo, Don Bosco
dovette rifare se stesso al principio del sacro ministero. La formazione letteraria
del clero piemontese era allora così viziata, che anche Don Bosco ne risentì i tristi
effetti, come lo dimostrano la gonfiezza dello stile, l ’artificiosità dei costrutti e la
ricercatezza delle parole in alcune sue prediche più antiche; ma, avvedutosi presto
della falsa via, si appigliò all’energico espediente di leggere per alcun tempo alla
madre illetterata le sue prediche prima di pronunciarle, notando e cambiando quello
che essa non intendeva bene. La santità poi venne facendo il resto. Certo è che
l ’efficacia della sua parola, chiesta umilmente a Dio nella prima Messa, fu un
dono che pochissimi possedettero al par di lui nella Chiesa.
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CAPO XXIV
LA CHIESA DI M A R IA AUSILIATRICE
D on Bosco fu un grande costruttore di chiese. Mentre per edifici destinati ad
abitazione detestava ogni superfluità di ornati, per le case di Dio era splen­
dido. Si ravvisò in questo un crescendo, dal quale possiamo arguire che, se fosse
dipeso da lui, le decorazioni della chiesa di Maria Ausiliatrice, eseguite solo dopo la
sua morte, sarebbero state di molto maggior bellezza e consistenza. Sotto questo punto
di vista lo ritrasse bene l ’architetto dell’altra sua chiesa di S. Giovanni Evangelista,
conte Arborio Mella, che nel 1870 scriveva alla figlia contessa di Roasenda: “ Che
uomo unico! Dandomi l ’idea del prezzo da spendere aggiungeva con una pace e con­
fidenza invidiabile : — Però è meglio far le cose bene e se la stima eccedesse anche
del doppio le somme stanziate, non fa niente, troveremo modo di soddisfarvi ’ .
Come egli sia venuto nella determinazione di dare quel titolo alla chiesa che
pensava di erigere in onore della Madonna, è cosa che forse rimarrà sempre nella
penombra. Egli fu che lo rese popolarissimo, benché ai suoi tempi fosse tanto poco
in voga, che agli edili del Municipio torinese parve persino stravagante. N e’ suoi
studi sulla storia ecclesiastica tale titolo gli si era affacciato sempre al domani di
avvenimenti gloriosi per la Chiesa Cattolica e per il Pontificato Rom ano: vittoria
di Lepanto, liberazione di Vienna, affrancamento del Pontefice dalla cattività na­
poleonica. Non basta; circostanze speciali concorrevano a metterglielo in simpatica
luce. Rese popolare l ’invocazione A uxilium Christianorum delle Litanie lauretane un
Papa, di cui nella sua Storia d ’Italia con sentimento di affetto alla propria terra si
compiace di ricordare che era piemontese: S. Pio V , il Papa di Lepanto. Il Papa di
Vienna, Innocenzo X I, eresse a Monaco di Baviera una Confraternita di Maria Ausi­
liatrice, che col favore di Casa Savoia ebbe una ramificazione a Torino nella chiesa
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di S. Francesco da Paola. Il Papa già vittima di Napoleone istituì per gli Stati pon­
tifici la festa di Maria Ausiliatrice proprio nell’anno della nascita di Don Bosco.
Dovette anche piacergli quel titolo perchè rispondente alle necessità dei tempi.
I nemici di Dio si coalizzavano per una guerra mondiale contro la Chiesa e il Pa­
pato; occorreva quindi invocare l ’aiuto di Maria non per bisogni ristretti a certi
luoghi e limitati a casi speciali, ma per la difesa dell’intera Cristianità minacciata.
Ora tanto la storia che la portata di tale invocazione sembravano consigliare di
adottarla con questo fine a preferenza d’ogni altra. Pio IX, inviando a Don Bo­
sco un’offerta per il nuovo tempio, gli fece esprimere il suo gradimento riguardo
al titolo prescelto. Quanto a sè, Don Bosco sentì e professò sempre di essere de­
bitore di tutto all’ausilio potente della Vergine, sicché il titolo di Ausiliatrice era
quello che più di tutti esprimeva i rapporti di Maria con la sua missione.
Siamo meglio informati sulla designazione del terreno. Don Bosco naturalmente
mirava al campo del sogno narrato nel capo ottavo; ma quel campo egli l ’aveva
venduto nel 1854 ai Rosminiani, che divisavano di erigervi un istituto. Senonchè,
morto il Rosmini, quel divisamento fu abbandonato; quindi Don Bosco voleva
ricomperare il pezzo di terra. Vi si oppose Don Savio, l ’economo dell’Oratorio,
che preferiva un altro luogo, donde la Chiesa avrebbe prospettato il corso Valdocco
e offerto maggior comodità di accesso. Don Bosco lo lasciò fare; ma quando le
trattative di Don Savio per la compera erano vicine ad arrivare in porto, i proprietari
le fecero naufragare. Onde non rimase miglior partito che intendersi coi Rosminiani.
I lavori, cominciati nel febbraio del ’63, durarono cinque anni. Si può ben dire
che vi posero mano e cielo e terra. Dopo collocata la prima pietra in fondo agli
scavi, Don Bosco fece un gesto simbolico. Tratto di tasca il borsellino, lo aperse
e a titolo di acconto versò nelle mani del capomastro il contenuto. N’uscirono
quaranta centesimi. Volle dire con quell’atto che quattrini egli non ne aveva, ma
che non per questo rinunciava a cominciare, aspettando fiduciosamente dalla
Provvidenza i mezzi.
Secondo il solito, mise in opera il suo ingegno per escogitare espedienti, coi
quali stimolare la carità pubblica. Inondò Torino di circolari e di lettere, ne sparse
per tutto il Piemonte, ne spedì in altre parti d’Italia, sempre unendovi schede di
sottoscrizioni; scrisse pure alle Autorità ecclesiastiche e civili, su su fino al Re e
al Papa. A Roma gran distributore di schede fu Don Manacorda, stabilitosi colà
nel 1864 per consiglio di Don Bosco a fine d’intraprendervi la carriera prelatizia,
nella quale doveva rendersi sommamente utile a lui e alla sua Opera. Per giustificare
le sue domande di aiuti Don Bosco, nella città, metteva in rilievo il bisogno di una
chiesa da potersi erigere in parrocchia a comodità della popolazione, che si adden­
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sava sempre più nelle parti di Valdocco; fuori invece invitava a onorare la Ma­
donna soccorrendo lui nelPinnalzarle un grande tempio. Ai familiari diceva inoltre
chiaramente di voler preparare ivi il centro delle sue istituzioni; come per lui,
così per i suoi figli, Maria doveva essere in ogni tempo la celeste ispiratrice, la
guida potente, la madre teneramente amata.
Le offerte affluivano, ma non sempre in misura sufficiente per accelerare l ’im­
presa. Ecco perchè nel gennaio del ’65 pensò di bandire una lotteria. Dopo lettere
su lettere, dopo molte visite e dopo non pochi rifiuti formò una commissione
di trentadue primari cittadini, che si dividessero gli uffici di maggiore e di minore
responsabilità. Non fu facile far loro accettare certe incombenze; ma verso la fine
di aprile la macchina entrava in azione.
Non erano ancora ultimate le fondamenta, che egli si occupava già del qua­
dro. Lo voleva grande e popolato di figure. Dovevano corteggiare la Regina del
Cielo angeli, apostoli, martiri, profeti, vergini, confessori, fra emblemi di segna­
late vittorie mariane e con rappresentanze di tutte le nazioni. Ma persuaso dal
pittore dell’impossibilità pratica di far luogo sopra una tela a tanta moltitudine,
si appagò dei dodici apostoli, dei quattro evangelisti, di qualche angelo e del-
l ’Oratorio dipinto in basso. Il Lorenzoni vi lavorò tre anni.
Venuto il tempo di collocare la pietra angolare, preparò una grandiosa ceri­
monia. Il ventenne principe Amedeo, secondogenito di Vittorio Emanuele, accettò
l ’invito di mettervi la prima calce; venne per la benedizione il Vescovo di Susa.
La funzione si celebrò il 27 aprile 1865. A ll’apparato egli provvide con larghezza
di vedute. Il principe, al suo arrivo, fu salutato dalla prima nobiltà torinese e non
torinese e dalle maggiori autorità cittadine, nonché da fitte schiere di giovani. Vi
erano anche gli alunni del collegio di Mirabello. Don Bosco in ferraiolo stette
sempre a lato del principe, tenendo aperto il rituale e dando a sua Altezza oppor­
tune spiegazioni. Il sacro rito si svolse con sommo decoro. Quindi il principe,
passate in rivista le schiere giovanili plaudenti, visitò l ’ospizio; poi nella sala di
studio insieme col Vescovo e con gli altri signori ricevette gli omaggi della casa.
Fra versi, canti e suoni, un dialogo di ragazzi scritto da Don Bosco illustrò la
festa. Quella sera sua Altezza in un ricevimento parlò con soddisfazione di quanto
aveva visto, concludendo con dire: — È una vera meraviglia il bene che fa questo
povero prete! —■In segno di gradimento mandò poi una graziosa offerta ed anche
parecchi attrezzi ginnastici della propria palestra.
Don Bosco volle consacrare la memoria di sì lieto giorno in due modi. Diede
alle stampe una piccola monografia intitolata Rimembranza e contenente il suo dia­
logo insieme con una notizia della nuova chiesa e la descrizione della festa. Con­
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temporaneamente pubblicò un suo opuscolo popolare dal titolo: La divozione di
Maria Ausiliatrice in Torino, con un’appendice sulla chiesa di Valdocco.
Intanto la lotteria dava molto da fare a Don Bosco, e gliene diede per due
anni. Raccolta di doni, pratiche burocratiche, stampe, esposizione dei premi,
viaggi e corrispondenze per lo spaccio dei biglietti: quanti pensieri! La mostra
degli oggetti fu inaugurata con solennità il 19 marzo 1866; anche allora Don Bosco
fece recitare un suo dialogo, oltre declamazioni e un’operetta buffa di Don Ca-
gliero. Gli oggetti donati superarono i duemilacinquecento ; campeggiavano quelli
venuti da Pio IX, dai principi sabaudi e dal ministro degli interni. Furono auto­
rizzati 167.928 biglietti a cinquanta centesimi caduno.
Alle persone benevole Don Bosco ne mandava opportune e importune pacchi
interi, perchè ne facessero vendita, mostrando loro in lettere a parte quale opera
di carità esse compiessero in tal modo. Nell’estate del 1866 il colera e la terza guerra
dell’indipendenza incagliarono lo smercio, sicché bisognò chiedere una proroga
dell’estrazione fino al 1° aprile 1867; sul principio del quale anno tornò assai van­
taggiosa l ’andata di Don Bosco a Roma, dov’egli ne smaltì un numero rilevante.
Ultime sue brighe furono il trasmettere l ’elenco dei numeri vincitori, il ringraziare
quanti l ’avevano secondato e il rispondere a richieste per verifiche di biglietti e
per consegna o spedizione di premi.
Durante tutto questo armeggìo l ’andamento dei lavori non si rallentò mai,
sicché col finire del 1865 l ’edificio era coperto. Nell’attesa di riprendere dopo la
cattiva stagione, Don Bosco aveva sollecitato sussidi con reiterate domande a enti
pubblici e ad amici personali. Ma la Madonna parve fare essa le maggiori questue,
secondo una espressione del Santo. La persuasione diffusa in molti luoghi, che
Maria Ausiliatrice largheggiasse in favori con quanti concorressero alla costru­
zione della sua chiesa, induceva ad aprire le borse. Fu appunto una grazia insigne
quella che influì decisamente sull’erezione della cupola.
Don Bosco, per non dover andare troppo in lungo a causa dei pubblici avve­
nimenti che riducevano sempre più le oblazioni, aveva deciso di sostituire la cu­
pola con una volta a padiglione. Gli esecutori costernati temporeggiarono un mese.
Nel frattempo il banchiere Cotta, che dissuadeva Don Bosco da quella decisione,
cadde gravemente ammalato, giungendo agli estremi. All’età che aveva di ottan-
tatrè anni più nessuno si faceva illusioni. Don Bosco lo trovò rassegnato al gran
passo; ma gli suggerì di promettere alla Madonna che, qualora guarisse, l ’avrebbe
aiutato nella sua impresa. Egli promise duemila lire mensili per sei mesi. Non
trascorsero tre giorni che in persona portò a Don Bosco la prima rata; poi dopo
con la puntualità degli uomini della sua professione versò tutto il rimanente. Visse
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ancora tre anni, non cessando di aiutare il Santo, al quale amava ripetere: — Quanto
più le porto denaro per le sue opere, tanto più i miei affari vanno bene.
Con questa spinta la cupola crebbe a vista d ’occhio. Quando vi mancava solo
il cupolino di legno che doveva servire di base alla statua della Madonna, Don Bo­
sco invitò i benefattori a una graziosa festicciuola. Nel pomeriggio del 23 settem­
bre 1866, dinanzi a un’eletta di signori e signore, a una moltitudine di giovani e
a gran folla di popolo, egli, preso per mano il marchesino Emanuele Fassati, lo
condusse fino a quell’altezza, gli consegnò una pietra appositamente preparata,
e il giovinetto fra le ovazioni dei presenti la immise nell’apertura, che rimaneva
per chiudere l ’ultimo anello di mattoni.
Nel 1867 le offerte aumentarono. Da Firenze, da Roma e da altre città vicine
e lontane comitati di dame ed anche ricchi privati concorrevano per l ’erezione di
cappelle e di altari, per le decorazioni più indispensabili, per l ’allestimento di mo­
bili e di arredi sacri.
Una grande statua doveva troneggiare sulla cupola; ne sostennero le spese
due pii coniugi. Se ne festeggiò l ’innalzamento il 21 settembre 1867 c o n ia bene­
dizione dell’Arcivescovo Riccardi di Netro, succeduto da pochi mesi al Fransoni,
che dalla terra del suo esilio era salito alla patria celeste nel 1862. Anche allora
Don Bosco fece le cose con solenne apparato. Quando cadde il velario, la banda
musicale dell’Oratorio lanciò dal culmine della cupola le note della lode popolare
Salve, o V ergine divina, che da basso centinaia di voci giovanili cantarono fino
all’ultima strofa. Quella statua non raffigurava l ’Ausiliatrice nella forma tradizio­
nale, ma l ’immacolata con la sua corona di dodici stelle e in atto di levare la
destra benedicente verso la città di Torino.
Per le feste della consacrazione Don Bosco fece coniare a Roma trentamila
medaglie da distribuire ai fedeli, poiché la fama delle grazie si prevedeva che avrebbe
attirato divoti in grandissimo numero. L ’11 febbraio 1868 egli scriveva al cavaliere
Oreglia che trovavasi a Rom a: “ Ogni giorno cose una più strepitosa dell’altra
di Maria Ausiliatrice per la chiesa. Ci vorrebbero volumi ” . E al medesimo il
10 aprile: “ Il caro del pane ci mette nella desolazione. Abbiamo spese enormi per
la chiesa. Ma qui la Madonna continua a concedere colla massima abbondanza
grazie agli oblatori e così possiamo continuare ” .
Per il mese di maggio pubblicò nelle Letture Cattoliche un suo volumetto nel
quale con la storia del tempio esponeva in qual modo prodigioso fosse stato in­
nalzato; onde il libro recava in fronte il motto dei Proverbi: Aedificavit sibi dom um .
Maria si era veramente edificata quella casa. Mosso da tale convincimento, anche
monsignor Gastaldi, Vescovo di Saluzzo, proclamò poi in un suo discorso durante
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l’ottavario della consacrazione, che ogni pietra, ogni mattone del sacro edificio
ricordava una grazia di Maria Ausiliatrice.
Dai primi di maggio Don Bosco non aveva quasi un momento di requie; ep­
pure per far piacere al Vescovo di Alba accettò il panegirico di S. Filippo Neri
in quella città. Diceva: — Un solo luogo dove nessuno viene a disturbarmi è il
pulpito e per me salire il pulpito è un riposo. — Aveva scritto di notte il suo
discorso; poi, non soddisfatto, lo rifece, e Don Rua, che dopo i primi due anni
di Mirabello era tornato all’Oratorio, glielo copiò. Ma tanto a Torino, che nel
viaggio e all’arrivo fu sempre così assediato da chi voleva parlargli, che non vi
diede più un’occhiata. Montato in pergamo, improvvisò un esordio meraviglioso,
di quelli che si dicono per insinuazione, tutto diverso dall’altro che leggiamo nel­
l ’originale; quanto al resto, ricordando la sostanza, procedette liberamente. Parlò
con sì grande calore che produsse un effetto indescrivibile.
All’awicinarsi della consacrazione facevano ancora difetto tutti gli oggetti ne­
cessari al servizio religioso. Orbene sembrò che qualcuno andasse qua e là a dire
quanto occorreva per la solennità; infatti ogni cosa venne senza che neppure vi
fosse un duplicato. Questo si ammirò inoltre in un fatto ancor più singolare. L’eco,
nomo già da un mese si lambiccava il cervello per fornire la dispensa di generi
alimentari in sufficiente misura. Si sarebbero dovuti preparare con larghezza pranzi
per il personale dell’Oratorio, per quello dei collegi di Mirabello e di Lanzo, per
gran numero di sacerdoti forestieri, per musici esterni. Ebbene giunsero in tempo
da vari paesi botti di vino e cassette di bottiglie; giunsero mortadelle da Bologna
e zamboni da Parma; vennero dalla Lombardia formaggi e salumi, pollami e uova,
carne e frutti, e poi caffè, cioccolato, zucchero, biscotti, pane di più qualità; con­
fettieri di Milano, di Genova e di Torino mandarono in copia paste, focacce e
altri dolciumi. Fu insomma una provvidenza che bastò per tante bocche e per tutti
gli otto giorni delle feste.
Regnava in tutta la città una vivissima aspettazione, che la realtà superò di
molto. I festeggiamenti si svolsero dal 9 al 16 giugno con funzioni, delle quali la
capitale del Piemonte da gran tempo non aveva avuto esempio. Oltre all’Arcive­
scovo, cinque Vescovi si alternarono nel celebrare i pontificali e nel dire le lodi
della Vergine. La pubblicità di cinque anni sospinse a Torino forestieri da molte
regioni d’Italia. Un ufficio apposito registrava grazie senza numero; prodigi furono
operati anche nel periodo delle feste. Cominciarono allora quelle esecuzioni mu­
sicali che contraddistinsero poi ogni anno il 24 maggio e che tanto entusiasmo re­
ligioso contribuirono a risvegliare nel popolo cristiano.
I frutti spirituali furono abbondantissimi, tanto più che Pio IX aveva in forma
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di Breve largito una speciale indulgenza plenaria. I confessori si davano il cambio
dì e notte senza interruzione; le comunioni si distribuivano a migliaia. Questa fre­
quenza ai sacramenti apparve poi sempre la caratteristica delle feste religiose ispi­
rate da Don Bosco e dai propagatori del suo spirito. Da mane a sera la gente fa­
ceva ressa intorno a lui.
Portato, come sempre, dal suo naturale istinto storico, scrisse con minutezza
di particolari la cronaca dell’avvenimento in un fascicolo doppio delle Letture Cat­
taiiche per i mesi di novembre e dicembre, intitolandolo: Rimembranze di u na so­
lennità in onore di M aria Ausiliatrice. Pose nel frontispizio questa significativa pre­
ghiera: “ O Gesù così mansueto e umile di cuore, rendete il mio simile al vostro ” .
Fece quindi precedere alla narrazione una lunga dedica a Pio IX , all’Arcivescovo
di Torino, ai prelati intervenuti, agli oblatori e alle oblatrici. Nel 1884 riaffiora­
vano in lui vivi i ricordi del gran fatto, allorché, parlando ai Cooperatori torinesi,
rievocate quelle lontane memorie, conchiudeva: “ Già prossimo alla fine dei miei
giorni, io godo immensamente nel vedere che invece di scemare i favori di Maria
Ausiliatrice aumentano ogni giorno e per ogni parte ” .
Dinanzi a tali celebrazioni che costituivano un vero trionfo della Fede e che
tanto servirono ad accrescere la stima e a dilatare la rinomanza del loro autore,
Don Bosco badava a dire secondo i casi: —■Ringraziamo il Signore che ci sia an­
cora tanta fede nel popolo... Com ’è ancora rispettata la dignità del sacerdote!...
Se Don Bosco non fosse un prete, chi penserebbe a lui? —•Ma con l ’andare del
tempo la coscienza popolare non seppe più disgiungere il culto di Maria Ausilia-
trice dal nome di Don Bosco, il qual sentimento si tradusse nella sintetica espres­
sione con cui il popolo saluta oggi in Maria Ausiliatrice la M adonna di D on Bosco.
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CAPO XXV
LA QUESTIONE DEI VESCOVI ITALIANI
D O P O IL 1860
D on Bosco non conservò quasi nulla della lunga e molteplice corrispondenza
da lui scambiata su questo affare; è tuttavia possibile tessere una narra­
zione soddisfacente e sicura. M olto si seppe da Don Albera, che, chierico, aveva
con la sua bella scrittura messo in pulito la corrispondenza del Santo.
Tra il 1860 e il 1870 l ’Italia completò la sua unificazione politica e ammini­
strativa. Ai fatti compiuti Don Bosco guardò anzitutto con l ’occhio dell’uomo
positivo, che, ponderando la forza degli avvenimenti, non prende la norma del suo
operare da pericolose illusioni. A questa visione oggettiva della realtà s ’ispirò egli
in momenti estremamente delicati.
Così fece in un suo incontro con l ’ex re di Napoli. Nel ’67 Francesco II, ospite
di Pio IX , sperava ancora il suo ritorno sul trono delle due Sicilie, lusingatovi da
fedeli cortigiani e da partitanti bellicosi. Trovandosi Don Bosco a Roma, l ’ex so­
vrano anelava sapere da lui che cosa ne pensasse. Una parola compiacente sarebbe
passata per una profezia del Santo e avrebbe incitato vieppiù i borbonici alla re­
sistenza. In un privato colloquio Don Bosco da prima si schermì; poi, messo alle
strette, si espresse in modo da recidere fin l ’ultimo filo di quelle speranze. Ripetè
più tardi la stessa cosa dinanzi alla reale consorte, che se ne impermalì.
Della medesima sagace franchezza die’ prova anche con Pio IX . Nel giugno
del 1863 per mano del marchese Scarampi aveva fatto pervenire al Papa una lettera,
nella quale gli diceva che si preparasse al sacrificio della sua Roma. Il Papa, leg­
gendo quelle righe, erasi mostrato tanto più colpito, perchè nuove minacce non
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balenavano all’orizzonte, anzi Napoleone III sembrava deciso a mantenere con ogni
mezzo alla Santa Sede il possesso delle poche province rimastele. Invece Don Bo­
sco, guardando ben addentro, scorgeva forti motivi per disporre fin d’allora al­
l ’ineluttabile l ’animo del Pontefice. Per questo allorché il 20 settembre del 1870
apprese l ’ingresso delle truppe di Vittorio Emanuele nella città dei Papi, non ma­
nifestò la menoma sorpresa, ma stette impassibile, come quegli che da tempo
sapeva dover accadere quello che era accaduto.
Il medesimo suo intùito realistico delle cose gli venne in aiuto per rendere alla
Chiesa e allo Stato un servizio d’incalcolabile valore. Pio IX sulle prime era esi­
tante fra il restare a Roma e l ’andarsene fuori d’Italia. Influenti prelati propende­
vano per il secondo partito, sicuri che, come nel 1848, così allora si trattasse di
una burrasca passeggera. Il Papa, inclinando dalla stessa parte, volle conoscere il
pensiero di Don Bosco. E il pensiero fu che restasse e glielo espresse in linguaggio
biblico, dettando a Don Cagliero una risposta così concepita: “ La sentinella, l ’an­
gelo d’Israele, si fermi al suo posto e stia a guardia della rocca di Dio e dell’arca
santa ” . Pio IX, lette queste parole, revocò le disposizioni già date per la partenza.
Ma queste non erano che manifestazioni occasionali; di proposito deliberato
egli seguiva il corso delle pubbliche vicende con animo di sacerdote, inteso sopra
tutto alla salvezza delle anime, nel che ebbe agio di spendere a vantaggio della Chiesa
la fiducia e le simpatie largamente da lui godute nelle alte sfere governative. Poiché,
trasportata la capitale da Torino a Firenze nel dicembre del 1864 e da Firenze a
Roma nel luglio del 1871, vari ministri si ricordarono ripetute volte di Don Bosco
per valersi della sua cooperazione in difficili rapporti con la Santa Sede.
Le relazioni del nuovo Stato con la Sede Apostolica erano assai tese, per il
che andavano di mezzo i più vitali interessi religiosi degli Italiani. Basti dire che vi
fu un periodo in cui quarantasei Vescovadi vacavano per morte o per dimissioni
dei titolari, nè si scorgeva possibilità di dar loro i successori; a diciassette Ve­
scovi già eletti dal Papa s’interdiceva l ’ingresso nelle proprie diocesi; ben quaran­
tacinque stavano in esilio. Erano dunque cent’otto greggi senza pastori e in tempi
nei quali urgeva più che mai il bisogno di assistenza spirituale. La necessità di tro­
vare una via d’uscita s’imponeva.
Dinanzi a sì desolante spettacolo il cuore di Don Bosco sanguinava. Pregando
e facendo pregare, nel 1865 si sentì ispirato a tentare qualche cosa. In primo luogo,
chiesta l ’approvazione del Papa, si diede a scandagliare le disposizioni di certi mi­
nistri. Lo aiutarono al bisogno uomini altolocati e di retta coscienza. Don Mana­
corda fungeva da agente di fiducia fra lui e il Vaticano. Ed ecco un prezioso risul­
tato. Quando tutti i ponti sembravano rotti, Pio IX il 6 marzo per vie confidenziali
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scrisse cordialmente al Re sollecitandolo a intervenire. Lo chiamava dilettissimo
figlio ” , e lasciando la questione politica alla decisione di Dio, si dichiarava desi­
deroso d ’intendersi subito con sua Maestà sulla deplorevole condizione della Chiesa
in Italia; poneva solo per condizione che mandasse a Roma un coscienzioso laico,
non un ecclesiastico di dubbia fede.
A quell’atto paterno non fu insensibile il Re, al quale non erano mai piaciuti
i dissidi col Papa. In una ossequiosa risposta da Firenze promise di mandare a Roma
un inviato speciale per le trattative; indi comunico la cosa ai ministri. Più propenso
degli altri a secondare i desiderii del Papa era il Lanza, ministro degli interni e pre­
sidente del Gabinetto. Il 17 marzo egli chiamò Don Bosco a Firenze per giovarsi
de’ suoi consigli. Don Bosco partì immediatamente; ma che cosa passasse fra lui
e il ministro in parecchi abboccamenti, non lo seppe mai nessuno. Si videro però
due effetti: una lodevole scelta della persona da inviare a Roma, che fu il deputato
Vegezzi, non meno valente giureconsulto che eccellente cristiano, e le larghissime
istruzioni orali a lui date, indice di buon volere da parte del Governo italiano.
Il Papa accolse con molta bontà il messo. I negoziati nè brevi nè facili si svol­
gevano con speranza di felice esito, quando, trapelata la notizia della corrispon­
denza fra il Papa e il Re e della missione governativa a Roma, le logge massoniche
aizzarono la stampa e per suo mezzo l ’opinione pubblica e il Parlamento contro
il ministero. I tumulti settari diedero ansa ai ministri anticlericali di accentuare
la loro opposizione. Il Lanza indignato fu sul punto di dimettersi. In conclusione
tutto restò come prima.
Don Bosco ne rimase afflitto, ma non scoraggiato. Per buona parte del 1866
la guerra contro l’Austria assorbì le cure dei governanti. Allo scoppiare delle osti­
lità i Vescovi espulsi poterono rientrare nelle loro sedi, sicché la questione dei ve­
scovadi si semplificava, restringendosi alle nuove nomine. Dopo la pace di Vienna
le pratiche per queste furono riprese. Dovette essere il Re a volerlo. Della prece­
dente rottura potevano lavarsi le mani gli uomini del Governo; ma Vittorio Em a­
nuele aveva altro concetto della propria dignità.
Anche questa volta il negoziatore prescelto era un gran galantuomo, il pine-
rolese Tonello, professore di diritto canonico e romano nelPUniversità di Torino.
Ma poiché Pio IX , diffidando del Governo, non aveva manifestato alcun desiderio
di ritentare la prova già fallita, si pensò di trovare chi facesse da mediatore ufficioso
fra il Tonello e la Santa Sede, e, dovendo quegli essere persona grata ad ambe le
parti, la scelta cadde su Don Bosco, che dal nuovo presidente dei ministri Ricasoli
fu chiamato d’urgenza alla capitale provvisoria.
Ciò avveniva ai primi di dicembre del 1866. D on Bosco aderì all’invito, ma
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viaggiò senza fretta, giungendo colà soltanto il 12. L’Arcivescovo Limberti, come
già nell anno innanzi, lo onorò della sua ospitalità. La voce della sua presenza vi
si diffuse in un baleno, perchè negli ambienti ecclesiastici e aristocratici della città
egli contava numerosi ammiratori, che allora molto si adoperavano per l ’erezione
della chiesa di Maria Ausiliatrice. Il ministro, udito il suo arrivo, gli fece dire
che lo attendeva.
Don Bosco si recò al palazzo del Governo. Appena fu annunciato, il Ricasoli
si mosse a incontrarlo. Mentre si dirigevano insieme al tavolo di lavoro, Don
Bosco si fermò e disse: —•Eccellenza, sappia che Don Bosco è prete all’altare,
prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani; e come è prete in Torino,
così è prete a Firenze, prete nella casa del povero, prete nella casa del re e dei mi­
nistri. Chi non conobbe Don Bosco, non immagini che egli pronunciasse queste
parole in tono semitragico o declamatorio o con gravità sostenuta. Pare invece
di vederlo arrestarsi di botto, volgersi al ministro e parlargli sorridendo e con
aria di serena e cordiale confidenza. Il Ricasoli infatti con espressione della massima
cortesia gli rispose che stesse tranquillo, perchè si sarebbero rispettate le sue con­
vinzioni. Quindi si sedettero e affrontarono l ’argomento.
Intorno al medesimo affare tenevano allora consiglio i ministri sotto la presi­
denza del Re. All’improvviso il Ricasoli fu chiamato all’adunanza, indugiandovi
per più di un’ora. Al rientrare comunicò a Don Bosco in forma gentilissima che
non c ’erano difficoltà per l ’elezione dei Vescovi, ma che avanti di trattare con la
Santa Sede conveniva procedere a una nuova circoscrizione delle diocesi, abolendo
i vescovadi minori. Fare una proposta simile sarebbe stato per Don Bosco un voler
dare consigli al Capo della Chiesa; egli consigliava piuttosto al Governo di non
insistere su cose che non gli avrebbero fatto onore all’estero, donde tanti occhi
stavano rivolti verso l ’Italia. Se non si desistesse da tale premessa, egli disse che
preferiva rinunciare all’onorevole incarico propostogli dalla fiducia del Governo.
Il Ricasoli, pregatolo di attendere, tornò in Consiglio, donde rivenne con una ri­
sposta soddisfacente. Don Bosco dunque a Roma si sarebbe dovuto mettere in
relazione col Tonello, aiutandolo a levare di mezzo le difficoltà che sorgessero sul
modo di provvedere alle diocesi vacanti. Con tale intesa si separarono.
S inserisce a questo punto un episodio avvalorato da autorevoli testimonianze.
Don Bosco visitava il collegio dei Somaschi e circondato dai Padri faceva un giro
per la casa, quando si vide corrergli incontro la contessa Uguccioni, che sembrava
impazzita. In abito dimesso, senza nulla in capo, tutta scarmigliata gridava pian­
gendo che le era morto il figlioccio e che egli andasse subito a richiamarglielo in
vita. Si trattava di un bambino da lei svisceratamente amato. Don Bosco per cal­
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mare la povera signora uscì in sua compagnia. Trovò il piccino irrigidito; tutti ri-
tenevano che fosse spirato. Il Santo invitò i presenti ad inginocchiarsi e a fare con
lui una preghiera alla Vergine Ausiliatrice ; poi benedisse il corpicino. Al suono
della sua voce la creaturina, quasi destandosi da profondo sopore, dischiuse la boc-
cuccia abbozzando uno sbadiglio, mosse le palpebre su gli occhi vitrei che si ria­
nimarono, trasse un lungo respiro e tutto si riscosse: vedeva, udiva, sorrise alla
madre e interamente si riebbe. Don Bosco medesimo, ancora nei suoi ultimi anni,
interrogato da intimi, descrisse con tutta semplicità il fatto, conchiudendo però
dopo breve pausa: —•Forse non era morto. — La contessa divenne sua grande
benefattrice.
Durante quel soggiorno fiorentino sbrigò un mondo d ’affari, passando da un
ministero all’altro per sussidi ai ricoverati, per riduzioni di tariffe ferroviarie, per
contributo alle spese di culto n e’ suoi oratorii festivi, per esonero di tasse, per ono­
rificenze a benefattori. Conforta veramente il vedere con che premura entro il
mese di gennaio gli giungessero per il tramite del prefetto di Torino sovvenzioni
dai vari dicasteri, indizio della considerazione in cui vi era tenuto. S ’industriò poi
in favore della sua lotteria e per la diffusione delle Letture Cattoliche, avviò una sot­
toscrizione fra nobili dame per l ’offerta di sei colossali candelieri a Maria Ausilia-
trice e costituì un comitato di madri cristiane per l ’erezione di una cappella a
S. Anna nella nuova chiesa.
Da Firenze non proseguì subito alla volta di Roma, ma per Bologna e Gua­
stalla fece ritorno a Torino. Era Vescovo di Guastalla monsignor Rota, al quale,
espulso dalla diocesi, egli aveva dato per sei mesi cordiale ospitalità nell’Oratorio;
allora andava da lui per agevolargli l ’appianamento di alcune divergenze con le
autorità locali.
Non facciano meraviglia le lentezze di Don Bosco in eseguire il mandato. Egli
si teneva fin da principio in continua corrispondenza con Roma, donde volta per
volta aspettava approvazione, istruzioni e da ultimo l ’ordine di recarsi là; tutte
cose che naturalmente volevano tempo.
Frattanto a Roma il Tonello aveva iniziato le sue pratiche. Dalla prima udienza,
ottenuta per la mediazione del cardinale De Silvestri, era uscito con il cuore riboc­
cante di consolazione a motivo della bontà paterna dimostratagli dal Pontefice. Il
Governo aveva ridotto di molto le sue pretese, rinunciando al regio exequatur e al
giuramento dei nuovi Vescovi; ma esigeva che gli venisse riconosciuto il diritto
di presentazione dei nominandi e che questi fossero obbligati a presentare le Bolle.
I
negoziati s’intavolarono presso la Segreteria di Stato. Il Segretario di Stato,
Cardinale Antonelli, impostò la questione su queste basi: nessun ostacolo alla pre­
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sentazione dei Vescovi del Piemonte e del Lombardo-Veneto, nessuna possibilità
d’accordo su questo punto per le altre province e tanto meno per i territori pon­
tifici, nessuna presentazione di Bolle. Don Bosco, informato di tutto, si doleva
della piega che prendevano le trattative e ne pronosticava male, quando Pio IX lo
fece chiamare. Egli partì il 7 gennaio 1867. Al buon esito importava molto la se­
gretezza; ora a nascondere quello scopo del suo viaggio gli servirono altri affari
suoi importantissimi, come presto vedremo.
Fu curiosa l ’interrogazione rivoltagli a bruciapelo dal Papa nella prima udienza.
Gli domandò con quale politica si sarebbe cavato lui da tante difficoltà. — Con
la politica della Santità Vostra, che è la politica del Pater noster, rispose egli pron­
tamente. Ciò che più importa è la dilatazione del regno di Dio sulla terra, come
chiediamo appunto nell’orazione domenicale. — Piacque al Papa la risposta.
Don Bosco passò quindi ad esporre il suo modo di vedere: nessuna distinzione
fra province e province; il Governo formasse una lista di persone gradite, un’altra
ne formasse la Santa Sede ; il Papa eleggesse poi senza indugio coloro che sarebbero
notati in entrambe, destinandoli alle diocesi vacanti, per le quali non sussistessero
difficoltà. Non era tutto, anzi non era molto; ma tanto bastava per cominciare.
Pio IX giudicò buono il suggerimento e lo autorizzò a trattarne.
Per alcuni giorni Don Bosco non fece che andare dal cardinale Antonelli al
Papa, dal Papa al Tonello e dal Tonello di nuovo al Vaticano. Col Segretario di
Stato non finiva di ripetere che bisognava dare il primo posto al lato religioso della
questione e non a quello politico. Nel Tonello incontrava grande arrendevolezza,
secondata dal suo Governo, che non insistette sulla presentazione delle Bolle. Fi­
nalmente si venne all’accordo nel senso proposto dal Santo. Allora Pio IX ordinò
di compilare un elenco di degni sacerdoti, a qualunque regione d’Italia apparte­
nessero, incaricando pure Don Bosco di preparargli una nota di quelli che gli sem­
brassero i migliori per le diocesi piemontesi. Altrettanto eseguì per conto proprio
il Governo italiano. Il Re manifestò il desiderio che a Torino fosse trasferito da
Savona monsignor Riccardi dei Conti di Netro, e il Papa si disse disposto ad ap­
pagarlo, come poi fece.
La nota governativa conteneva sessanta nomi, dei quali alcuni già noti furono
senz’altro respinti e per altri ignoti il Papa volle che Don Bosco assumesse infor­
mazioni. Anche il Governo escluse a priori alcuni della lista pontificia, mentre per
altri mosse opposizioni solo riguardo alla sede. Dapprima il Santo Padre sollevò
qualche osservazione; ma in seguito accolse il parere di Don Bosco, accettando
vari candidati benevisi al Governo: anzi, sapendo di far cosa gradita a Vittorio
Emanuele, dispose che monsignor Nazari dei Conti di Calabiana venisse promosso
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da Casale a Milano. Gradì la nota dei sacerdoti piemontesi presentatagli da Don
Bosco, che in capo a tutti aveva segnato il nome del canonico Lorenzo Gastaldi
per la diocesi di Saluzzo. In tutta questa faccenda il Tonello si diporto con cri­
stiana lealtà, vincendo resistenze governative e tenendo sempre in gran conto i sug­
gerimenti di Don Bosco. Infine nei Concistori del 22 febbraio e 27 marzo furono
preconizzati trentaquattro Vescovi, che presero possesso canonico delle loro dio­
cesi. Il Governo si contentò che gli si notificasse la preconizzazione.
Il numero degli eletti si sarebbe ancora accresciuto, se al 4 aprile il Ricasoli
non avesse dato le dimissioni, il che pose termine alla missione Tonello. Il se­
greto aveva fortunatamente reso possibile le trattative; ma il risultato di queste,
pur così incompleto, allarmò tutte le massonerie, che allarmarono il mondo li­
berale, e l ’allarme fece starnazzare le oche del Campidoglio con le conseguenze
facili a indovinarsi.
A Don Bosco piangeva il cuore in vedere una sessantina di diocesi ancora senza
Vescovi; studiava quindi la maniera di far valere nuovamente la sua opera media­
trice. Ma gli anni passavano ed egli non veniva a capo di nulla, finché la legge delle
guarentige, sancita il 13 maggio del ’71, parve schiudergli la via. Infatti per l ’arti­
colo 15 di essa il Governo rinunciava “ in tutto il Regno al diritto di nomina o
proposta nella collazione dei benefici maggiori Era inoltre tornato al ministero
degli interni e alla presidenza del Consiglio l ’onorevole Lanza. A lui D on Bosco
offerse la propria mediazione confidenziale presso la Santa Sede, perchè si potesse
addivenire alle nomine. Il Lanza per mezzo del prefetto di Torino gli fece immedia­
tamente pervenire un laconico dispaccio segreto, con cui lo pregava di trovarsi
entro due giorni a Firenze.
Don Bosco partì in giornata, che fu il 22 giugno 1871. Presentatosi al mi­
nistro, stimò opportuno premettere di nuovo la dichiarazione seguente: —■Io de­
sidero il bene della Chiesa e dello Stato; ma credo che vostra Eccellenza conosca
chi è Don Bosco, e perciò saprà che prima di tutto io sono cattolico. — Il mi­
nistro con ogni miglior cortesia lo rassicurò. Nello stesso giorno e con lo stesso
treno l ’uno e l ’altro partirono per Roma.
Questa volta egli si presentava al Papa senza essere chiamato. Da tutto il mondo
cattolico si accorreva in quell’estate a Roma, perchè Pio IX compiva il venticinque­
simo anno di Pontificato e, caso unico, raggiungeva gli anni del Pontificato Romano
di S. Pietro; con tanti pellegrinaggi non poteva dare nell’occhio la sua presenza.
Il Papa, udendolo descrivere la desolazione delle diocesi senza pastori, si com­
mosse fino alle lacrime e gli lasciò carta bianca per trattare con i m inistri; quando
poi vide che le cose parevano bene incamminate, gli commise l ’incarico di prepa-
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27.2 Page 262

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rargli una lista, eh egli avrebbe senz’altro approvata. Questo atto di fiducia costò
molto a Don Bosco, bisognandogli procurarsi informazioni da tante parti e con­
ferire con tanti sacerdoti. A questo fine si appartò per qualche tempo a Nizza Mon­
ferrato nella villa della contessa Corsi. Arrivò così a combinare un buon elenco
di soggetti eleggibili, il quale da Torino spedì al Papa.
Sul principio di settembre una seconda urgente chiamata del ministro gli
rimise le ali ai piedi. Sebbene dirigesse un corso di esercizi spirituali dei Salesiani
a Lanzo, partì all’istante, raccomandando ai superiori del suo Capitolo che, se
fossero interrogati sulla sua improvvisa partenza, rispondessero che era stato chia­
mato per un infermo grave. Vi sono infatti malattie e malattie.
Subito dopo l ’arrivo egli entrò in azione. Il Governo eccepiva su certe nomine
e interpellava Don Bosco, di cui apprezzava grandemente il pensiero. Allora fu
che, essendo venuta a vacare nell’ottobre del 1870 la sede arcivescovile di Torino
egli manifestò al Papa il desiderio che vi fosse promosso monsignor Gastaldi, suo
amico. Pio IX la pensava diversamente; tuttavia per compiacerlo: — Voi lo volete,
gli disse, e io ve lo do. —•Il Vescovo di Saluzzo ne ricevette da Don Bosco, come
fra amici si suole, la prima notizia.
Nel Concistoro del 27 ottobre il Santo Padre provvide a quaranta diocesi,
dichiarando nell’allocuzione che le sue premure s’ispiravano unicamente alla salute
spirituale delle anime. Tutto induceva a sperare che i preconizzati potessero entrare
liberamente nelle loro sedi; ma non avvenne così. Gli eletti, giusta le istruzioni
pontificie, avevano notificato le proprie nomine al ministero, ma presentando per
la presa di possesso le Bolle ai rispettivi Capitoli; invece il nuovo ministro di
grazia e giustizia e culti per concedere le temporalità esigeva la presentazione
delle Bolle. Ciò posto, i Vescovi non ebbero nè palaz-zo nè mensa, sicché dovettero
chi stabilirsi nel seminario diocesano, chi abitare in casa propria, chi mettersi a
pensione o a pigione. Don Bosco, uscito da una grave malattia, scrisse su di que­
sto l ’i l febbraio 1872 una bellissima lettera al Lanza, terminando così: “ Io scrivo
con confidenza, e l ’assicuro che mentre mi professo sacerdote cattolico ed affezio­
nato al Capo della Cattolica Religione, mi sono pur sempre mostrato affezionatis­
simo al Governo, per i sudditi del quale ho costantemente dedicate le deboli mie so­
stanze e le forze e la vita. Se Ella crede che io la possa servire in qualche cosa van­
taggiosa al Governo ed alla Religione, non ha che da accennarmene il modo
Inviò parimente un memoriale di carattere giuridico al ministro dei culti, mostrando
destituita di fondamento legale l ’esigenza suddetta. Il Papa con affettuosa lettera del
1° maggio lo lodava di quanto aveva fatto ultimamente per ottenere ai Vescovi le
temporalità, benché le cose non promettessero ancora risultati consolanti.
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27.3 Page 263

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Il Santo continuò a lavorare con zelo, prudenza e segretezza, perchè questa
condizione di cose migliorasse; ma se n ’ebbe sentore dove più conveniva che non
si sapesse nulla, e l ’idra massonica levò le sue teste, diffamandolo sui giornali e ri­
correndo fìnanco a vili attentati. Pigliò le sue difese il nobile abate Bardessono dei
conti di Rigras con la pubblicazione di un vibrato opuscolo che diffuse a migliaia
di copie, facendolo anche gridare per le vie di Torino da strilloni dei giornali.
Purtroppo si rese necessario lasciare che l ’effervescenza settaria sbollisse del
tutto. Nel febbraio del 1873, andando a Roma per interessi della Società salesiana,
si prefisse di rimettere sul tappeto l ’affare delle temporalità. Seguirono lunghi col­
loqui col cardinale Antonelli, lunghe udienze papali, lunghe discussioni col mi­
nistro Lanza, che, appena intesa la sua venuta, l ’aveva sollecitato a passare da lui.
In quel primo incontro il Lanza, allo stringere del discorso, aveva fatto venire i mi­
nistri della guerra e dei culti con i loro segretari. Si accese allora un vivo dibat­
tito con un fuoco di fila, che obbligava Don Bosco a stare bene in guardia per
cogliere sempre il punto giusto di difesa. Uscì ridendo, ma barcollando: non ne
poteva più, non vedeva nemmeno più dove andasse. Al segretario Don Berto disse:
— Ne avevo sei d ’intorno, tutti per cercare d ’imbrogliarmi a forza di raziocinio.
Povero Lanza! E loro piacque il parlare di Don Bosco, perchè io, invece di fare
ragionamenti, mostro le pratiche conseguenze che deriverebbero dal porre questo
o quel principio.
Due anni innanzi nelle sue conversazioni del mese di giugno aveva scongiurato
il ministro che, estendendosi a Roma e alla sua provincia la legge di soppressione
degli Ordini religiosi, fossero risparmiate le case generalizie, la comunità reli­
giosa di Tor de’ Specchi, le suore della carità a Bocca della Verità e quelle della
Trinità dei M onti. La legge fu estesa appunto nel 1873. In quel febbraio lo stesso
ministro ci tenne a fargli sapere che per quelle tre case aveva dovuto lottare molto
e che per le case generalizie, se non potesse salvarle, darebbe le dimissioni. Le
potè salvare tutte, meno quella dei Gesuiti.
Cadde in luglio il ministero Lanza, a cui succedette il Minghetti. Don Bosco,
avuta facoltà dal cardinale Antonelli di proseguire le pratiche, spedì al nuovo pre­
sidente del Consiglio una relazione su gli antecedenti dell’affare. Quegli accusò
tosto ricevuta, promettendo una sollecita e categorica risposta, che a ottobre non
era ancor giunta. Perciò Don Bosco scrisse direttamente al guardasigilli Vigliani,
mettendolo al corrente di tutto e premettendo questa dichiarazione: “ Come prete
10 amo la Religione, come cittadino desidero di fare quanto posso pel Governo ” .
11 ministro gli rispose a volta di corriere. Spiegandogli il perchè del ritardo a dargli
la promessa risposta, diceva: “ Nessuno è animato da miglior volontà della mia
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e di quella del presidente del Consiglio per trovare un modo accettevole di far ces­
sare od almeno attenuare le cattive condizioni, in cui versa l ’episcopato italiano.
A lei, che è ottimo sacerdote e buon cittadino, mi sia permesso di rivolgere una
calda preghiera, perchè voglia adoperare i suoi più efficaci offici e persuadere la
Santa Sede a fornire al Governo i mezzi che sono indispensabili a conciliare l ’os­
servanza della legge, superiore alla volontà di tutti i ministri, con tutte le agevolezze
possibili per la concessione del regio Exequatur [...] Perchè tutti i nuovi Vescovi
non troveranno modo di far pervenire un trasunto almeno delle loro Bolle col
mezzo dei loro Capitoli o dei sindaci locali, o di altra persona di loro fiducia,
senza assumere le vesti di postulanti ? Io non so davvero vedere in siffatta condotta
nulla, proprio nulla, che offenda la santa nostra Religione. A V. S. confido questi
miei sentimenti, e confido nella sua alleanza per fare del bene ” .
Ecco un elemento prezioso, che Don Bosco non indugiò a mettere in valore
presso chi di ragione. Poi negli ultimi giorni dell’anno credette utile portarsi a Roma,
avanti che si riaprissero le Camere dopo le vacanze natalizie. V ’intraprese subito
le visite al cardinale Antonelli e al ministro Vigliani. Dal Papa fu ricevuto il 5 gen­
naio 1874. “ Per molti giorni, scrive il segretario, non fece altro che correre su e
giù dal Papa ai ministri ” , Il 15 gennaio, parlando con i piissimi coniugi Sigismondi
che gli davano generosa ospitalità, disse sull’oggetto di tante visite: — La cosa è
conchiusa. Lunedì si comincia a spedire le Bolle ai Vescovi, se il demonio non
viene a mettervi impedimento.
Pareva che lo presentisse! Proprio allora rientrava in scena l ’avversario d’ogni
bene. Per mezzo di un ex prete, che, tornato in seguito all’ovile, visse gli ultimi
suoi anni presso la tomba di Don Bosco a Valsalice, la loggia massonica lo teneva
d’occhio, cercando di scoprire che cosa significasse quell’andare dal Vaticano ai
ministeri e viceversa. Finalmente, a una parola d’ordine, scoppiò una gazzarra gene­
rale nella solita stampa. Il tono era sempre lo stesso: lodi alla persona di Don
Bosco e botte da orbi al Governo, che si serviva di lui per promuovere la conci­
liazione dello Stato con la Chiesa. Invece, altri organi, che certo non prendevano
l ’ispirazione dalla loggia, come la Voce della verità e l ’Osservatorio Cattolico, due
portavoce degl’intransigenti, si scagliarono con virulenza inaudita contro il povero
Don Bosco, gratificandolo dei titoli di fariseo ” e di beota piemontese ” . Don
Bosco con il giornale in mano andò a lagnarsi dal Papa e a pregarlo, che, se egli
doveva continuare le pratiche, fosse richiamato all’ordine il corrispondente romano.
Pio IX ne provò forte dispiacere; ma, come Don Bosco stesso narrò al salesiano Don
Cerniti: — Che volete? gli disse, certi cattolici non obbediscono neppure a me.
Un giorno, durante quel chiasso, egli aspettava dal Vigliani l ’ultima parola
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in una sala attigua all’aula parlamentare. Parecchi Deputati, fra cui il Crispi, sentito
che egli era là, lo avvicinarono curiosi, come disse il Santo, di “ conoscere che razza
di bestia fosse Don Bosco ” . Mentre s’intratteneva amabilmente con loro, soprag­
giunse il Vigliani, al quale tosto un usciere rimise un dispaccio urgentissimo. Il
ministro, uscito un istante, tornò dicendo che le pratiche per le temporalità anda­
vano a monte. Il Bismark, meravigliato che si trattasse misteriosamente con un prete,
minacciava lo sdegno imperiale, se si continuasse a fare passi verso la conciliazione.
Infierivano allora nella Germania il K ulturkam pf e la guerra a oltranza contro il Papa.
Così ebbe termine la parte sostenuta da Don Bosco nella questione dei Ve­
scovi italiani. Due anni appresso, passato il potere nelle mani della sinistra demo­
cratica, le condizioni dei Vescovi si facevano ognor più critiche. Essi perciò umi­
liarono al Papa una supplica, affinchè fosse rimosso l ’impedimento alla regolare
amministrazione delle loro diocesi mediante la facoltà di presentare al Governo
le Bolle, previa una formula che salvaguardasse i diritti della Chiesa. Orbene il
29 novembre 1876 la Sacra Congregazione dell’ inquisizione rispose che questo
poteva “ essere tollerato in vista delle specialissime circostanze
Don Bosco ne ringraziò il Signore.
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«

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CAPO XXVI
DURANTE IL C O N C IL IO VAT ICA N O
Uno dei fatti più grandiosi che contrassegnarono il Pontificato di Pio IX, fu il
Concilio Vaticano, aperto l ’8 dicembre 1869 e sospeso il 18 luglio 1870
per lo scoppio della guerra franco-prussiana. Dei diciannove Concili Ecumenici
precedenti due soli lo superarono per numero di Padri, nessuno per numero di
Vescovi. Un tema specialmente fece convergere sulla straordinaria assemblea
l ’attenzione del mondo, quello dell’infallibilità pontificia. Qualche intempestiva
pubblicazione cattolica anteriore al Concilio, con voti che quel punto fosse definito
come verità di fede, scosse in vario senso gli animi di molti. Si vennero così ad
accendere appassionate discussioni fra teologi, storici e polemisti. Per le quali
nacque il dubbio che scopo vero della convocazione conciliare fosse la definizione
dogmatica dell’infallibilità del Papa in materia di fede e di costumi. In realtà il Papa
non aveva nemmeno fatto inserire questo tema negli schemi riferentisi alla costi­
tuzione della Chiesa. Si chiamavano schemi gli argomenti proposti all’esame e
alle deliberazioni dei Padri. Circa l ’eventualità della definizione suddetta si for­
marono tosto dentro e fuori del Concilio due partiti, uno prò e l ’altro contro
l ’opportunità di essa. Gli antinfallibilisti a forza di dire inopportuna la definizione
la resero necessaria, secondo il motto dell’Arcivescovo di Malines: Q uod inop-
portunum dixerunt, necessarium fecerunt.
Gran corifeo dell’opposizione era monsignor Dupanloup, Vescovo di Orléans.
Recandosi al Concilio, si fermò egli in Piemonte per visitare alcuni Vescovi e gua­
dagnarli alla propria tesi. Lo secondarono i Vescovi di Biella, Ivrea, Pinerolo e
l ’Arcivescovo di Torino. Il Vescovo Gastaldi di Saluzzo non si volle pronunciare;
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27.8 Page 268

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prima però di partire per Roma scese all’Oratorio, dove ebbe sulla questione un
lungo colloquio con Don Bosco.
Il
Santo teneva dietro allo sviluppo della controversia, tanto più che nella
stampa torinese la si agitava fortemente. Dal 24 ottobre 1869 vi vedeva la luce un
periodico intitolato Concilio Ecumenico, organo degli antiopportunisti ed anche dei
negatori dell’infallibilità medesima. L ’Unità Cattolica dall’altro lato batteva quotidia'
namente in breccia gli avversari, ignorando però sempre di proposito il foglio an­
tagonista, che anelava di attaccar briga col Margotti, strenuo direttore del giornale.
Nell’Oratorio prima e dopo l’apertura del Concilio s’innalzavano al Cielo continue
preghiere per la santa Chiesa, secondo le insistenti raccomandazioni di Don Bosco.
A Roma sopra 774 Padri la definizione era avversata dalla minoranza di un
centinaio, che brigavano per far proseliti e fautori. I Gallicani di Francia temevano
che per la definizione scapitasse il diritto divino dei Vescovi; altri che ne derivasse
un soverchio accentramento del governo ecclesiastico; altri, che se ne venissero a
irritare i fratelli separati d’Oriente e d’Occidente, allontanandoli sempre più dalla
via del ritorno; altri infine, che si avesse l ’aria di lanciare una sfida al secolo XIX,
con il risultato di sollevare contro la Chiesa reazioni disastrose da parte dei Go­
verni e dei grandi centri di cultura. Alcuni, forse non più di cinque fra i Padri,
non solo non volevano la definizione, ma non ammettevano neppure l ’infallibilità.
Uomini di questa tendenza estranei al Concilio, come il tedesco Doellinger, l ’in­
glese Lord Acton, il francese Gratry con libri, libelli e articoli sollevavano l ’opi­
nione pubblica mondiale.
Tale era lo stato delle cose, quando si doveva tenere il 6 gennaio 1870 la prima
seduta pubblica dopo quella di apertura; in essa i singoli Padri avrebbero fatto di­
nanzi al Pontefice la loro professione di fede. Orbene, alla vigilia Don Bosco ebbe
dall’alto una triplice comunicazione riguardante la Francia, l ’Italia e il Concilio.
Solenne è l ’esordio della relazione scrittane dal Santo. Suona così: “ Dio solo può
tutto, conosce tutto, vede tutto. Dio non ha nè passato nè futuro; ma a Lui ogni
cosa è presente come in un punto solo. Davanti a Dio non v’è cosa nascosta, nè
presso di lui hawi distanza di luogo o di persona. Egli solo nella sua infinita mise­
ricordia e per la sua gloria può manifestare le cose future agli uomini Venendo
poi a dire della presente rivelazione, continua: “ La vigilia dell’Epifania dell’anno
corrente 1870 scomparvero tutti gli oggetti materiali della camera e mi trovai alla
considerazione di cose soprannaturali. Fu cosa di brevi istanti, ma si vide molto.
Sebbene di forma, di apparenze sensibili, tuttavia non si possono se non con grande
difficoltà comunicare ad altri con segni esterni e sensibili. Se ne ha un’idea da
quanto segue. Ivi è la parola di Dio accomodata alla parola dell’uomo ” .
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27.9 Page 269

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Nel punto centrale, fra le predizioni sull’avvenire di Parigi e di Roma, s ’in­
terpone la parte concernente il Concilio. È un avviso e un incoraggiamento al Papa
in questi term ini: “ Ora la voce del Cielo è al Pastore dei pastori. Tu sei nella
grande conferenza coi tuoi assessori; ma il nemico del bene non istà un istante
in quiete; egli studia e pratica tutte le arti contro di te. Seminerà discordia tra i tuoi
assessori, susciterà nemici tra i figli miei. Le potenze del secolo vomiteranno fuoco,
e vorrebbero che le parole fossero soffocate nella gola ai custodi della mia legge.
Ciò non sarà. Faranno male, male a se stessi. Tu accelera; se non si sciolgono le
difficoltà, siano troncate. Se sarai nelle angustie, non arrestarti, ma continua finché
non sia troncato il capo all’idra dell’errore. Questo colpo farà tremare la terra e
l ’inferno, ma il mondo sarà assicurato e tutti i buoni esulteranno. Raccogli adunque
intorno a te anche solo due assessori, ma ovunque tu vada, continua e termina
l ’opera che ti fu affidata. I giorni corrono veloci, gli anni tuoi si avanzano al numero
stabilito; ma la gran Regina sarà sempre il tuo aiuto, e come nei tempi passati
così per l ’avvenire sarà sempre m agnum et singulare in Ecclesia praesidium
Quindici giorni dopo questa visione Don Bosco partì per Roma. E una delle
poche volte che non vi condusse nessuno con sé. Prese alloggio presso Don Mana­
corda. Che vi fosse andato di propria volontà, non sembra verosimile, non es­
sendo allora tempo propizio per trattar affari. E piuttosto da credere che sia stato
sollecitato da chi, ben conoscendo i suoi sentimenti, la sua prudenza e la sua abi­
lità, ne sperava giovamento per la buona causa; difatti se ne occupò come se non
avesse altro da fare. Testifica nei processi il canonico Anfossi: “ Ho udito da
monsignor Losana, Vescovo di Biella, che in quei giorni Don Bosco non aveva
requie per ottenere questo trionfo del Pontificato Romano ” . E Don Rua: “ Egli
ebbe la consolazione di togliere colle sue ragioni parecchi Vescovi dalle titubanze
loro su tale controversia e di dissuaderli dall’opposizione che si preparavano a fare.
Citerò tra gli altri i monsignori Galletti di Alba e Gastaldi di Saluzzo, che da quel
punto divennero difensori dell’infallibilità pontificia ” .
Il
Vescovo di Saluzzo, temperamento impressionabile, aveva finito con abbrac­
ciare il partito di Dupanloup. L ’avevano colpito e conquiso le considerazioni del­
l ’eloquente prelato francese sui rovinosi effetti religiosi e politici che la definizione
avrebbe inevitabilmente prodotto; anzi correva voce che egli si accingesse a soste­
nere in una delle prossime congregazioni generali la tesi della inopportunità. Que­
sta voce era giunta all’orecchio del Papa, che ne aveva manifestato al Manacorda
il suo vivo dispiacere. Don Bosco, affrettatosi a visitare il Vescovo amico, trovò
che la notizia rispondeva al vero. Allora egli tanto disse, che non solamente lo
smosse dal già fermo proposito, ma lo indusse ad applicare l ’ingegno e la parola
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27.10 Page 270

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in difesa della definizione. Il Gastaldi infatti, venuto il momento opportuno, pro­
nunciò un discorso di tanta forza, che egli fu salutato come uno dei più efficaci
propugnatori delPavversata sentenza.
U n altro piemontese, non però membro del Concilio, parteggiava accanita-
mente per la minoranza: quel monsignor Audisio, che incontrammo a Superga
preside della Reale Accademia ecclesiastica. Soppressa tale istituzione, se ne viveva
a Roma, canonico di San Pietro. C om ’ebbe inteso che Don Bosco gli contendeva
vittoriosamente il terreno, risolse di affrontarlo. Una prima e seconda volta non lo
potè avvicinare, perchè lo trovò occupato in colloqui sull’argomento del giorno
con ragguardevoli persone; ma la terza si piantò là, pronto ad aspettare finché
fosse necessario, e l ’attesa non fu breve. Conversarono per più di due ore. Entrati
frattanto altri dotti ecclesiastici, fra cui il teologo Perrone gesuita e un Vescovo,
l ’Audisio dinanzi a loro assalì con più energia Don Bosco, sfoderando la sua eru­
dizione storica e teologica. Don Bosco lo lasciò dire e dire; poi, provocato a rispon­
dere e accennato che gli astanti avrebbero potuto farlo con assai maggior compe­
tenza di lui, chiese con aria indifferente di poter solo addurre l ’autorità di uno
scrittore dottissimo, del quale condivideva l ’opinione. —•Ne leggerò una pagina,
disse, e son sicuro che Monsignore non potrà essere di avviso contrario.
Alle proteste del focoso interlocutore, Don Bosco con la sua flemma delle
grandi occasioni prese in mano un volume, lo aperse in modo che non se ne vedesse
il frontispizio e si mise a leggere. Era l ’eloquente commento del noto passo di San
Leone Magno sull’assistenza divina promessa dal Vangelo a Pietro e a ’ suoi succes­
sori nel loro apostolico magistero. L ’Audisio da prima ascoltò con indifferenza,
poi si fece attento, indi balzò da sedere e tentò di strappargli il libro. Don Bosco,
avvertita in tempo la mossa, si schermì, finché, arrivato dove voleva, lesse in fretta:
Storia religiosa e civile dei Papi p er Quglielmo A udisio. L ’opera portava la data di
Roma 1865. — Me l ’ha fatta grossa! — esclamò il canonico, aggiungendo però
di aver cambiato idea. — Ma le ragioni sono sempre quelle, — replicò il Santo.
Gioirono della graziosa burla i presenti. Monsignore invece, troncata ogni disputa,
si accomiatò poco dopo con mal celata stizza.
Fra gli altri visitò Don Bosco anche un sacerdote comasco per pregarlo di dare
uno sguardo a un suo scritto sull’infallibilità pontificia e dirgliene il proprio pa­
rere. Don Bosco lesse, approvò, ne consigliò la stampa e si ricordò poi dell’au­
tore nel compilare la nota degli episcopabili. Fu il grande Vescovo di Piacenza,
monsignor Scalabrini.
Da principio Don Bosco frequentava i privati circoli dei Vescovi, ascoltando
molto e facendo opera di persuasione, dovunque occorresse; più tardi la sua dimora
224

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28.1 Page 271

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divenne centro di attrazione per quanti specialmente sentissero il bisogno d ’illu­
minati consigli. A farlo ricercare contribuiva il convincimento comune che egli
fosse a Roma per tu tt’altro che per il Concilio. D ’interessi suoi si occupava bensì,
ma unicamente cogliendo a volo propizie occasioni. Con geniale e prudente linguag­
gio, parlando a Salesiani, si espresse così sulla sua attività romana di quei giorni:
“ Mentre agli occhi altrui ero come a diporto, io faceva come quegli uccelli che
svolazzano qua e là, e intanto, se vedono saltare qualche grillo, se lo beccano ” .
Potè allora compiere un atto importante del suo ministero sacerdotale. Ver­
sava in fine di vita l ’ex granduca di Toscana Leopoldo II. L ’infermo nel 1867 era
entrato in sì cordiale relazione con lui, che allora, sapendolo a Roma, lo volle ac­
canto a sè nelle sue ultime ore. Don Bosco nella notte sul 28 gennaio lo assistette
dalle 22 alle 24 e mezzo, confortandolo fino all’estremo respiro.
Chiedere al Santo Padre un’udienza egli non ardiva; due terzi dei Vescovi non
avevano ancora potuto averla. Ma Pio IX gli fece dire che voleva vederlo al mat­
tino dell’8 febbraio. Don Bosco andò; poi il Papa, avendo ancora molte cose da
dirgli, lo invitò a tornare verso sera. Riferendo per iscritto e a voce delle due
udienze, ripetè che non gli era possibile raccontare tutto, e questo si comprende;
ma dal poco che narrò, emerse soprattutto la grande benevolenza dimostratagli
dal Vicario di Gesù Cristo.
Tornò dal Papa il 12. Allora, richiesto da lui se avesse qualche cosa di speciale
da comunicargli riguardo alla Chiesa e al Concilio, giudicò venuto il momento di
parlare del 5 gennaio e umilmente gli rimise un foglio, nel quale aveva scritto ciò
che diceva ‘‘ la voce del Cielo al Pastore dei Pastori ” . Il Santo Padre lesse e rilesse
e scorse ivi l ’espressione del volere divino che si troncassero difficoltà e indugi
opponentisi alla dogmatica definizione. Le scissure e gli osteggiamenti ivi annun­
ziati si avveravano già sotto i suoi occhi ; il promesso aiuto della ‘ ‘ grande Regina ’’
apparve poi evidente nell’insieme delle circostanze che trattennero in vari modi i
Governi di Francia, Baviera, Prussia, Austria, Spagna e Portogallo dal compiere
atti di politica sopraffazione.
In una quarta udienza del 21, udienza di congedo, il Papa lo intrattenne lunga­
mente sulle cose del Concilio. Quindi il Santo, chiesta licenza di esporre alcunché
d ’altro e avutone un comando, manifestò quanto sapeva dei gravi avvenimenti che
minacciavano fra breve Parigi e Roma. Il Papa ne restò così impressionato che
il giorno dopo lo mandò nuovamente a chiamare; ma egli era già partito.
Questa partenza avvenne a precipizio, quasi per fuga, ed eccone il perchè e il
come. In città, oscure manovre avevano armeggiato contro di lui. Esaminando bene
le circostanze, sembra che da due cose siasi colto il pretesto a preparargli qualche
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ingrata sorpresa: da certe sue affermazioni sulla possibilità che Roma fosse per es­
sere presto occupata dalle milizie piemontesi, alla quale eventualità non si voleva
da molti prestar credito, e dalla riputazione di taumaturgo, che tornava a circolare
come nel 1867, per gli effetti attribuiti alle sue benedizioni. Certo è inoltre che
anche alcuni prelati di curia non lo vedevano di buon occhio. Orbene un curiale,
persona a lui benevola, mandò due volte per incarico superiore a dirgli con blande
maniere che si desiderava la sua presenza al Santo Ufficio. Egli l ’una e l ’altra volta
rispose che ben volentieri si sarebbe presentato, qualora ne ricevesse invito scritto
e motivato. Niente parve più ragionevole all’innocente messaggero. Ma la seconda
volta, appena congedato l ’amico, Don Bosco (e questo particolare udì dalle lab­
bra stesse di lui il salesiano Don Fascie), s’informò del primo treno per Firenze
e fece immediatamente le valige. Checché fosse per succedere, il solo dover com­
parire dinanzi al Santo Ufficio era un fatto che avrebbe dato la stura a chi sa quante
e quali dicerie sul conto suo. Fu un quid simile della vecchia faccenda del mani­
comio. Il potersi dire semplicemente che egli era stato rinchiuso là entro, ne avrebbe
pregiudicato assai la riputazione. In entrambi i casi la sua prontezza di spirito salvò
il suo buon nome.
Festeggiarono il ritorno di lui i giovani dell’Oratorio in sua presenza, e quelli
dei collegi di Mirabello, Lanzo e Cherasco in ispirito, ma non meno allegramente.
A tutti l ’avevano reso ognora presente le sue lettere scritte a Don Rua e ai tre Di­
rettori, ma destinate a leggersi in pubblico. V i si contenevano notizie interessanti,
espressioni di benevolenza e amorevoli esortazioni, che servivano a tener vivo il
pensiero della sua bontà paterna. Leggendo dell’influsso, che egli esercitava sopra
i suoi anche durante le proprie assenze, si tocca con mano, quanto giustamente
Don Rua lo abbia definito nei processi “ uomo nel quale Dio elevò la paternità
spirituale al più alto grado ’ ’.
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28.3 Page 273

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CAPO XXVII
LA FONDAZIONE DELLA SOCIETÀ SALESIANA
E tempo che ritorniamo all’argomento che fra le tante vicende narrate in questi
ultimi capi formava pur sempre il pensiero dominante di Don Bosco: la
fondazione della Società salesiana. Società la volle chiamata, non Congregazione,
come disse ispettori i provinciali, direttori i superiori delle case, soci i religiosi,
ascritti i novizi. Vino vecchio in otri nuovi.
Don Bosco non ebbe fretta. Abbiamo visto quale lungo periodo egli impiegasse
nella preparazione remota dei candidati alla Società; a quello ne fece seguire un se-
condo non breve di preparazione prossima. In una specie di catecumenato, durante
il quale il numero dei catecumeni andò mano a mano crescendo, egli, che cono­
sceva i suoi... pulcini, levava di mezzo alla gran massa dei giovani or l ’uno or l ’al­
tro dei predestinati e l ’aggregava ai precedenti. Per significare questo trasferimento
aveva coniato la frase convenzionale tagliare la testa. In una cronachetta dell’Ora­
torio, verso gli ultimi di marzo del 1861 si legge: “ Don Bosco tagliò la testa a Co­
stamagna e a quattro altri ” . Esclusa la violenza, è una vera deminutio capitis il ri­
durre l ’altrui volontà nelle proprie mani. Ma in forma ufficiale si diceva dei nuovi
prescelti che erano stati ammessi alla pratica delle Regole della Società. In sostanza
questa pratica si riduceva, secondo un’altra espressione del Santo, all’esercizio del
lasciare sua, suos et se, al distacco cioè dalle cose e dalle persone del mondo e dal
proprio io, che è il punto di partenza per l ’avviamento alla vita religiosa.
C ’erano però anche Regole tassative, che a poco a poco Don Bosco portava a
conoscenza dei futuri soci. Queste Regole, rimesse, come dicevamo, da Pio IX al
cardinale Gaude nel 1858, aspettarono invano l ’esame e il giudizio del porporato,
che dopo lunga serie d ’indisposizioni cessò di vivere nel dicembre del 1860 senz’aver
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28.4 Page 274

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potuto fare nulla. Una tal morte fu causa che l ’approvazione almeno sommaria ne
paresse rinviata alle calende greche.
Ciò non impedì tuttavia che la Società, embrionalmente preparata, pigliasse
forma organizzandosi. I suoi componenti costituivano un gruppo sconosciuto ai
più della casa. Don Bosco li veniva lavorando con la sua carità industriosa e pa­
ziente. Non tutti però i chiamati a farne parte avevano il dono della perseveranza.
Ogni anno alcuni cedevano alle lusinghe dei parenti, alle sollecitazioni dei parroci,
agli inviti dei Vescovi ed entravano nei seminari delle loro diocesi. Con sua gran
pena Don Bosco, dopo tanti sacrifici fatti per essi, se li vedeva strappare dai fian­
chi, proprio quando gli sembravano legati a lui per sempre. Non li privava però
della sua benevolenza; il che fece sì che col tempo, memori e grati, divenissero
buoni cooperatori salesiani. Ma intanto le sue fatiche rimanevano frustrate. Quando,
per esempio, si emise la prima professione religiosa, sarebbero dovuti essere in
quaranta; invece se ne contarono solo ventidue, dei quali sette preti, tredici chie­
rici, due coadiutori. E fossero poi almeno rimasti tutti!
Questa storica data fu il 14 maggio 1862. V i si fecero le cose con semplicità
francescana. Verso sera i candidati si riunirono in un’angusta cameretta, dove man­
cavano scanni per sedersi. Da un tavolino stendeva loro le braccia un Crocifisso
fra due ceri accesi. Don Bosco vi s’inginocchiò accanto. Gli altri pure inginoc­
chiati recitarono con lui alcune preci; indi ripeterono tutti insieme parola per pa­
rola la formula dei voti di povertà, castità e ubbidienza, che Don Rua veniva leg­
gendo. Quei voti obbligavano per tre anni. Don Bosco pure li fece, ma per tutta
la vita. Poi egli, alzatosi in piedi, rivolse a quei cari figli un discorsetto di paterno
incoraggiamento. Nota la citata cronaca che Don Bosco dopo la cerimonia mo­
strava una contentezza inesprimibile e che non sapeva staccarsi dall’eletta schiera.
Ma alla Società salesiana ^troppo mancava ancora per essere veramente tale
quale sonava la sua denominazione. Mentre in faccia allo Stato conservava tutti i
diritti civili nei singoli suoi membri, doveva in faccia alla Chiesa costituire un corpo
morale, al quale effetto richiedevasi il riconoscimento e l ’approvazione della Sede
Apostolica. Ora la Santa Sede procede in questo per tre graduali decreti: il primo
è di semplice lode, il secondo di approvazione formale, il terzo di sanzione delle
Regole. Nel caso nostro all’emanazione di questi decreti precedettero pratiche
lunghe e laboriose, che misero a dura prova la costanza di Don Bosco.
Per ottenere il collaudo occorrevano anzitutto commendatizie di Vescovi e l ’ap­
provazione dell’autorità diocesana. I Vescovi di Casale, Mondovì, Susa, Cuneo
e Acqui risposero prontamente alla preghiera di una loro raccomandazione; ma il
Vicario Capitolare di Torino (la sede era vacante per la morte di monsignor Fran-
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▲torna in alto
soni) fece sospirare alquanto la sua. Finalmente Don Bosco il 12 febbraio 1864
potè mandare a Roma il necessario incartamento. Quel plico fu consegnato da per­
sona di fiducia al cardinale Antonelli, che si diede premura di deporlo nelle mani
del Santo Padre. Il Papa trasmise subito i documenti al cardinale Quaglia, Prefetto
della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, perchè fosse dato regolare corso
all’affare. Passati poco più di cinque mesi, la Sacra Congregazione il 26 luglio emanò
il decretum laudis, col quale si approvava l ’esistenza e lo spirito della nuova Società
e se ne costituiva Don Bosco Superiore generale a vita.
Questo primo atto conferiva alla Società un grado di consistenza assai notevole;
onde il Santo nel novembre del 1865, dopo regolare noviziato, cominciò ad ammet­
tere soci alla professione perpetua, scegliendoli fra coloro che prima di ogni pub­
blica approvazione ecclesiastica si erano volonterosamente dedicati alla sua Opera.
Ciò fatto, rivolse il pensiero a ottenere l ’approvazione effettiva, che desse
giuridicamente corpo alla Società. L ’occasione propizia gli si presentò nel gennaio
del 1867, quando si recò a Roma per cooperare col Tonello a risolvere la que­
stione dei Vescovi. Potè parlarne comocamente col Papa, che gli era favorevolissimo,
ma voleva che le cose seguissero il loro tramite ordinario, passando attraverso alle
Sacre Congregazioni. E qui ora stava il duro. Le novità introdotte da Don Bosco
non nella concezione, ma nella forma della vita religiosa sapevano male alla circo­
spetta prudenza dei prelati romani. Nè i suoi chiarimenti valsero a dissipare i dubbi.
Tornato a Torino, riprese le istanze; se non che, movendosi difficoltà dalla curia
locale, bisognò aspettare la venuta del nuovo Arcivescovo. Dette difficoltà erano
ispirate dal segreto timore che l ’Opera di Don Bosco, una volta sottratta alla giu­
risdizione vescovile, fosse per nuocere a vitali interessi dell’archidiocesi.
Partendo da Roma, Don Bosco aveva avuto sentore che si tramava qualche
cosa contro di lui; giunto a Torino ne ebbe la certezza. Narriamo anche questo
doloroso episodio. Nel 1867 si celebrava il diciottesimo centenario del martirio
di S. Pietro. A preparare la solenne celebrazione egli aveva pubblicato un volume
dal titolo II Centenario di S. Pietro, contenente fra l ’altro una vita del Principe de­
gli Apostoli. Il libro incontrava largo favore a Roma. La Civiltà Cattolica disse
quella vita scritta “ con molta chiarezza e devozione ” . Eppure l ’operetta fu de­
ferita alla Sacra Congregazione dell’indice specialmente per un periodo sulla ve­
nuta di San Pietro a Roma, periodo che, come scrisse un valente teologo della
Compagnia di Gesù, richiedeva non una rettifica, ma una semplice spiegazione. La
tendenziosa denuncia era partita da una combriccola di politicanti dell’Italia me­
ridionale e centrale residenti in Roma, ai quali Don Bosco non andava a genio.
Si ricordino i suoi incontri d’allora con sovrani scoronati. Il consultore incaricato
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dell’esame conchiuse proponendo la condanna fino a nuova correzione. La Sacra
Congregazione non fu dello stesso parere, ma volle soltanto che si facessero co­
noscere a Don Bosco le osservazioni del consultore per mezzo della curia tori­
nese con l ’ordine di tenerne conto in una eventuale ristampa. Era stato Pio IX a
voler così. A chi gli parlava di proibizione, aveva detto: — Oh questo poi no,
povero Don Bosco! Se c ’è da correggere, si corregga nella seconda edizione.
La comunicazione, redatta in forma ammonitoria, ferì Don Bosco nella parte
più sensibile del cuore. Si fece violenza, ma ne sofferse assai. Sospese subito la
già avviata ristampa. Poi, seguendo il consiglio del canonico Gastaldi, Vescovo
eletto di Saluzzo, stese un’ampia e rispettosa risposta agli appunti del consultore.
Nulla più gli cuoceva che il sospetto di sentimenti non fermamente cattolici verso
il Vicario di Gesù Cristo. Validi amici spiegarono molto zelo in sua difesa e a poco
a poco le nubi si diradarono. Sarebbe stato grave disdoro per lui, se la notizia
del fatto fosse caduta in pubblico dominio; ma così non fu. Il grave contrattempo
avrebbe potuto anche intralciare seriamente le sue trattative per la Società. Ma
tutto si ridusse a sopprimere un periodo e a emendare l ’applicazione di un testo
dell’Ef>istoIa di S. Giacomo, senza obbligo di farne cenno nella prefazione, come
in un primo tempo gli si era richiesto.
Il
novello Arcivescovo, monsignor Riccardi dei Conti di Netro, aveva mostrato
sempre vera affezione per Don Bosco; ma, entrato in sede e inteso da lui che vo­
leva fondare una Società religiosa, rimase trasecolato, nè seppe mai acconciarsi
all’idea che la sua istituzione dovesse varcare i confini dell’archidiocesi; onde una
crescente freddezza gli penetrò nel cuore verso il Santo, nè ci fu mai verso di strap­
pargli una commendatizia per l ’approvazione della Società. Anzi, non essendo an­
cora questa definitivamente riconosciuta, riteneva per suoi tutti i chierici di Don
Bosco nati nell’archidiocesi, avessero o no professato.
Don Bosco prevedeva le possibili conseguenze di tale atteggiamento; tuttavia
metteva in opera ogni mezzo per arrivare alla sospirata approvazione. Interessava
della cosa benevoli prelati romani. M olto si giovò del Vescovo di Mondovì du­
rante un suo soggiorno a Roma. Si procurava altre raccomandazioni di Vescovi
da aggiungere alle precedenti. Verso la fine di giugno mandò a Roma Don Savio e
Don Cagliero, perchè rappresentassero la Società nei festeggiamenti petriani. Essi
consegnarono al Papa una sua lettera, che terminava con la seguente preghiera:
Se mai in questa singolare e straordinaria solennità fosse permesso di domandare
a Vostra Santità un favore di cosa sommamente desiderata, come si fa ad un So­
vrano, io mi farei ardito di rinnovare col più grande rispetto la domanda, che V o­
stra Santità si degni di dare la sua sanzione alle Costituzioni della Congregazione di
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S. Francesco di Sales, con tutte quelle correzioni, variazioni, aggiunte che Vostra
Santità giudicasse tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime ” .
Nel 1868 le feste per la consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice assor­
birono gran parte della sua attività in prepararle e dirigerle. Subito dopo riunì e
presentò al Santo Padre le commendatizie dei tre Cardinali Arcivescovi di Fermo,
di Ancona e di Pisa; dell’Arcivescovo di Lucca; dei dieci Vescovi di Casale, Asti,
Parma, Novara, Reggio Emilia, Mondovì, Alessandria, Guastalla, Albenga, Saluzzo
e dei due Vicari capitolari di Acqui e di Susa. L ’affare fu trattato il 22 settembre
in piena congregazione. In base alla relazione del segretario monsignor Svegliati
e al voto del consultore carmelitano, si rispose con un negative.
Il
Santo non si sgomentò, ma con calma imperturbabile e riverente non desi­
stette dal dare spiegazioni e dall’intensificare pratiche. Essendo stati convocati dal-
l ’Arcivescovo i suoi suffraganei per trattare delle proposte da farsi nel Concilio
Vaticano, presentò all’assemblea un’umilissima supplica, che fu letta in u n ’adu­
nanza. Sorta discussione, il Vescovo d ’Ivrea, che per un malinteso sulla proprietà
delle Letture Cattoliche aveva rotto le relazioni con Don Bosco, propose di rimet­
tere la decisione al Metropolita, e questi mise la domanda in un cantone. —■Pa­
zienza! esclamò Don Bosco. Sia tutto per amor di Dio e della Santa Vergine. Ve­
dremo di aggiustare le cose a Roma.
Partì difatti per Roma nei primi giorni del 1869, passando per Firenze. Che
cosa lo chiamasse nella capitale provvisoria, non si seppe mai. U n suo amico, il
padre Verda domenicano, scrisse il 10 gennaio al cavaliere Oreglia: Egli sta bene
ed è allegro e gira per i Ministeri ” . Si sa soltanto che viaggiò con un biglietto gra­
tuito per sè e per un compagno (da Firenze a Roma gli fu compagno il detto reli­
gioso) e che il Menabrea, presidente dei ministri, lo aspettava con impazienza ed
ebbe con lui diversi colloqui. L ’Italia passava un brutto quarto d ’ora. Gravi processi
politici romani offrivano ai democratici il pretesto per aizzare il popolo contro la
monarchia, minacciando di gettarsi tumultuariamente su Roma e piantarvi la re­
pubblica. Può darsi che Don Bosco fosse invitato ad accettare qualche pratica offi­
ciosa presso il Governo pontificio. Egli intanto colse il destro per tener viva a Fi­
renze la questione dei Vescovi, troncata così bruscamente nel 1867; vi perorò pure
la causa dei chierici, che si stava per sottoporre alla legge comune della leva militare.
A Roma gl’incarichi ricevuti da Firenze non gli tolsero di adoprarsi a tu tt’uomo
per l ’approvazione della Società. Trovò duro più di prima il terreno. Lettere dal
Piemonte lodavano lui e le sue intenzioni, lodavano l ’Oratorio e il bene che vi si
faceva, ma combattevano l ’approvazione della Società, perchè non fossero sottratti
alla giurisdizione vescovile i chierici. Inoltre vari punti delle Regole venivano ri­
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guardati come inammissibili. Umanamente parlando, non c ’era nulla da sperare.
“ Io però, scrisse Don Bosco in una sua M em oria, confidando nella Madonna e
nelle preghiere che si facevano all’Oratorio, aveva speranza che tutto sarebbe su­
perato ” . Ma vedeva che solo un miracolo avrebbe potuto cambiare i cuori.
E pare che di miracoli ve ne siano stati più d ’uno. Il primo fu in un nipotino
del cardinale Berardi. Lo consumava lentamente una febbre tifoidea ribelle a ogni
cura. Unico rampollo di nobile e ricca famiglia, avrebbe, morendo, portato con
sè nella tomba le speranze della prosapia. Il Cardinale rinnovò per più giorni i ten­
tativi di far venire Don Bosco a benedirlo; ma Don Bosco aveva troppe altre fac­
cende per le mani. Finalmente andò. Appena mise piede nel palazzo, tutti lo attor­
niarono supplicandolo di guarire il loro infermo. Egli, come se fosse sordo, si volse
al Cardinale e gli disse che veniva per pregarlo che lo aiutasse a ottenere l ’approva­
zione della Società salesiana. Che cosa non avrebbe promesso in quel momento
sua Eminenza? Introdotto nella stanza del fanciullo, Don Bosco raccomandò ai
parenti di aver fede e di cominciare una novena a Maria Ausiliatrice, e ripetè al
porporato la raccomandazione di occuparsi della sua Società. Benedisse quindi il
malato. A ll’Amen la febbre sparì. Col terminare della novena il fanciullo era tutto
rifiorito. Il Cardinale, pronto a qualsiasi cosa per Don Bosco, narrò al Papa l ’ac­
caduto e gli fece vivissima istanza in favore della Società salesiana.
Il
Santo, obbligato dagli affari di Firenze a trattare col cardinale Antonelli,
Segretario di Stato, e conoscendo quanta fosse la sua influenza, pensava di acca­
parrarsene il patrocinio. Nella prima visita lo trovò adagiato immobile sopra una
poltrona a sdraio. Mal represse convulsioni del volto rivelavano di tratto in tratto
acute sofferenze. Lo travagliava da alcuni giorni la podagra. Accolse tuttavia bene­
volmente il visitatore, il quale, come udì che il Papa era costretto ad andare dal
Segretario per la trattazione degli affari: — Ebbene, gli disse, abbia fede in Maria
Ausiliatrice, mi aiuti a ottenere l ’approvazione della Società salesiana, e domani
andrà vostra Eminenza dal Papa. —•L ’Antonelli, fissandolo con sorpresa, gli prò,
mise che in tal caso avrebbe fatto tutto il possibile per la sua Società. Il mattino
appresso, cessati gli spasimi, l ’Eminentissimo andò all’udienza e narrò al Santo
Padre l ’incontro del giorno avanti. Quando poi vi fu ammesso pure Don Bosco,
il Papa, tocco dal racconto dei due Cardinali, lo trattenne u n ’ora e mezzo, dan­
dogli le migliori assicurazioni, che gli riconfermò poi in altre due lunghe udienze.
Ma restava pur sempre da espugnare il baluardo massimo della resistenza. E
vero che nella Chiesa il diritto lo fa il Papa; ma il Papa non suole prescindere dagli
organi del suo governo. Chi nella Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari influ­
iva più di tutti era il Segretario monsignor Svegliati, che delle novità di Don Bosco
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aveva una specie di orrore. Il Santo si recò a fargli visita. Monsignore lo ricevette
da letto: sentiva i prodromi di una seria polmonite. Don Bosco anche allora, come
se nulla fosse, lo pregò di recarsi il dì dopo dal Santo Padre per interporsi a suo
favore. Monsignore, che forse non ignorava i due fatti narrati e i relativi commenti,
10 guardava attonito. — Abbia fede in Maria Ausiliatrice, — insistette Don Bosco
accomiatandosi. Il giorno appresso Monsignore si alzò guarito e ... convertito.
La notizia dei tre fatti produsse grande impressione nell’alta prelatura. Fu fis­
sato al 19 febbraio l ’esame definitivo della questione. Don Bosco scrisse all’Ora-
torio che in quel giorno gruppi di artigiani e di studenti si alternassero davanti al
Santissimo Sacramento. Dio esaudì le loro preghiere. La Sacra Congregazione dei
Vescovi e Regolari chiuse la seduta approvando definitivamente la Società. Pio IX
con vera gioia ratificò quell’atto. Il decreto uscì il I o marzo.
Stanco, stanchissimo, ma col cuore inondato di consolazione, Don Bosco nella
notte sul 2 mar,-,o, per la linea di Firenze, dove sostò un giorno, fece ritorno a T o­
rino. Al suo ingresso nell’Oratorio lo accolsero dimostrazioni entusiastiche di alle­
grezza. In quell’ora di esultanza accadde una scena, che ci rimette in presenza di un
antico e caro collaboratore del Santo. Erano le otto di sera. Il teologo Borei, che
giaceva a letto infermo, udendo dal vicino istituto Barolo i clamori dei giovani, ne in­
dovinò la causa. Dimentico del suo stato, si alza, si veste alla meglio e adagio adagio,
appoggiandosi al bastoncello, percorre il tratto di via Cottolengo ed entra nell’Ora­
torio. Don Bosco in mezzo alla turba giovanile stava per raggiungere la scala che por­
tava alla sua camera. Il buon prete si avanzò barcollando. I ragazzi gli facevano largo.
Vicino al porticato, con tutto lo sforzo della sua voce chiamò ripetutamente Don
Bosco. Don Bosco lo udì e gli mosse incontro. — La Società è approvata? — domandò
trepidante il vecchio e fedele amico. Alla risposta affermativa: — Sia ringraziato Dio!
esclamò. Ora muoio contento. — E senz’aggiungere parola, si volse e tornandosene
com ’era venuto, rientrò nella sua casa e si rimise a letto. Tale fu verso Don Bosco
l ’animo di coloro che non solamente lo conobbero, ma anche lo compresero.
L ’approvazione del 1869 conferì alla Società salesiana il saldo fondamento della
sua esistenza. Fino allora gl’individui si legavano alla persona di Don Bosco, morto
11 quale, poteva morire anche la Società. Ma anche senza questo la vita della Società
durava precaria, perchè ogni Vescovo poteva sempre richiamare i chierici della pro­
pria diocesi, come soggetti alla sua giurisdizione. D ’allora in poi al contrario, dive­
nuta la Società di diritto pontificio, quel pericolo e questa possibilità scomparvero.
Ma alla nuova condizione della Società mancava ancora una cosa essenziale:
bisognava che a tale condizione fosse adeguato il valore delle Regole, elevandole
a codice recante il suggello dell’Autorità pontificia.
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Le si dovettero dunque sottoporre articolo per articolo all’esame di una com­
missione composta dei quattro cardinali Bizzarri, Patrizi, De Luca e Martinelli
con monsignor Vitelleschi segretario. Le obiezioni si accumulavano senza posa per
due cause. Il successore dell’Arcivescovo Riccardi svalutava presso la commissione
le Regole esistenti, come disadatte a formare buoni soggetti; poi le Regole stesse ur-
tavano qua e là le passate consuetudini. Don Bosco per fare la luce stampò un opu­
scolo storico-illustrativo, che spedì ai membri più influenti delle Sacre Congregazioni
romane; due scritti inviò ai Cardinali della commissione, uno in risposta alle obie­
zioni e l ’altro sui motivi che consigliavano di approvare le Regole così com’erano.
Non è qui il luogo di esporre per filo e per segno il lavorìo, a cui questa lunga
pratica assoggettò Don Bosco. Quanti memoriali! quante lettere! quante visite e
discussioni! La deliberazione maturò solo nel marzo del 1874. Allora Don Bosco che
si trovava a Roma, ordinò ai Salesiani tre giorni di digiuno e di speciali preghiere.
La commissione cardinalizia si radunò due volte, il 24 e il 31 marzo. Tre ore e
mezzo durò la seconda adunanza. Tra l ’una e l ’altra Don Bosco ebbe giorni di este­
nuanti fatiche. La conclusione fu che tutti quattro i Cardinali erano d’accordo sul­
l ’approvazione temporanea ad experimentum e tre soli per quella definitiva. La rela­
zione venne presentata dal Segretario al Santo Padre la sera del 3 aprile, venerdì
santo. Pio IX, scartata l ’approvazione temporanea, disse: — Per la definitiva, il
voto che manca ce lo metto io. — E in questo senso fece stendere il decreto.
Quella sera Don Bosco si recò dai marchesi Vitelleschi, che nutrivano per lui
una venerazione profonda. Monsignor Segretario, rientrato da poco, venne a co­
municargli la lieta notizia. La commozione di Don Bosco dovette essere al colmo,
se egli sentì il bisogno di distrarsi con un mezzo sui generis. Per tutta risposta trasse
di tasca un confetto e, come avrebbe fatto per premiare uno de’ suoi giovanetti,
lo porse al prelato dicendo: — Monsignore, prenda questa caramella!
Tornò dal Papa cinque giorni dopo. Pio IX, accogliendolo con sovrana bontà:
— Questa volta si è finito, gli disse.
— Sì, Santo Padre, rispose egli, e ne sono contentissimo.
— Anch’io, soggiunse il Pontefice.
Fu quello come il varo di una nave. Genio nell’idearla, perizia nel costruirla,
maestrìa nell’attrezzarla creano lo spettacolo del colosso che, caduti i puntelli e sal­
tate le trinche, scende sicuro nei flutti e si appresta a solcare le onde oceaniche in
servizio dell’umanità.
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CAPO XXVIII
MINISTRO DEL PERDONO
N ella Chiesa vi sono martiri che confessano Dio davanti agli uomini, e martiri
che confessano gli uomini davanti a Dio. È questa una geniale piacevolezza
di San Francesco di Sales che, applicata nella seconda parte a Don Bosco, signi­
fica quanto egli si sia sacrificato nell’amministrare il sacramento della penitenza.
Per lunghi anni vi attese non lesinando tempo nè fatica.
Nei processi vi ha chi lo chiama apostolo della confessione. Con approssima­
zione evangelica diciamo apostoli coloro che si adoperano a diffondere una dot­
trina o u n ’istituzione; apostolo della confessione merita di essere salutato Don
Bosco, perchè con la parola e con l ’opera si dedicò per più di nove lustri a pro­
muoverne la buona pratica e la frequenza. Tanto zelo gli veniva da impulso di co­
scienza sacerdotale, che gli dettava essere compito precipuo del ministro di Dio
condurre le anime alla salvezza e quindi al sacramento del perdono.
Ci colpisce di primo acchito l ’osservare in che circostanze inverosimili egli sa­
pesse disporre certe persone al pentimento e a ll’accusa delle loro colpe. Avvicinato
ostilmente un giorno in fondo a una foresta presso i Becchi e di notte in una piazza
solitaria di Torino, penetra così addentro con la sua parola nell’anima degli aggres­
sori, che si confessano nel luogo medesimo dell’attentato, inginocchiandosi uno
sul margine di un fosso e l ’altro presso il muricciolo che cingeva un lato del pa­
lazzo Madama. Viaggiando spesso in carrozze a cavalli, amava sedere a cassetta
accanto al conduttore e là di discorso in discorso conduceva il suo uomo all’argo­
mento della Pasqua o a riflettere sulla brutta abitudine della bestemmia, finché que­
gli, se era isolato o solo, cedeva a lui le briglie o diversamente in una fermata si
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appartava dovunque si fosse, e si confessava; non potendo fare così, i vetturini
promettevano di andarsi a confessare nell’Oratorio e mantenevano la parola. Un
mattino, tornando dalla parrocchia della Crocetta, s’imbattè in quattro giovinastri
che, fingendo di volerlo arbitro di un loro litigio, si apprestavano a dargli briga
con inaudita libertà di linguaggio e di tratto. Di rado s’incontrava allora anima viva
in quei paraggi. Che fare? Li invitò ad accompagnarlo entro la città, dove, pren­
dendo insieme una tazza di caffè, si sarebbe risolta comodamente la questione. Ivi
tra un sorso e 1 altro intavolò una conversazione assai piacevole. Tenendoli così a
bada, se li guadagnò talmente, che gli fecero compagnia fino a Valdocco, dove
tre di essi prima di lasciarlo vollero confessarsi. Viaggiando in treno da Torino a
Montemagno, si mise a ragionare con un negoziante, il quale si sentì così preso
di benevolenza verso il prete sconosciuto, che lì per lì gli manifestò il desiderio
di confessarsi e si confessò difatti n ell’albergo della stazione di Asti. Ma, essendo
la confessione durata alquanto, Don Bosco perdette la corsa. Alcuni giovanotti,
accortisi del contrattempo, lo compassionavano, lungi mille miglia dal pensare che
cosa stesse per accadere. Come se cercasse di ammazzare il tempo, prese a raccon­
tare storielle; poi, fattiseli amici, li interessò con discorsi religiosi e li conquise
a segno, che, pregato da essi, li introdusse in una vicina locanda, dove, dispostili
convenientemente, ne ascoltò le confessioni come se si fosse in chiesa.
Di confessioni così estemporanee egli ne ricevette molte, specialmente ne’ suoi
viaggi. Sono fatti che insieme con una gran fede nella virtù soprannaturale del sa­
cramento rivelano in lui’ una sete insaziabile di riportare anime a Dio.
Le stesse disposizioni di spirito manifestava nella costanza, con cui in privato
e in pubblico ritornava su quel tema. Che ciò facesse in prediche o conferenze
spirituali, non causerebbe gran meraviglia, quantunque l ’immancabile accenno coz­
zasse sovente col senso dell’opportunità oratoria; ma anche trattando a quattr’oc­
chi con chicchessia, si sarebbe detto che non di rado il punto focale de’ suoi col­
loqui dovesse essere per lui il richiamo a mettere in sesto le cose dell’anima. Un
pensiero che soleva esprimere parlando a ’ suoi Salesiani, rivela molto bene quale
fosse il movente di questo suo atteggiamento. •—■Un prete, diceva, è sempre prete,
e tale deve manifestarsi in ogni congiuntura. Essere prete significa avere continua­
mente di mira il grande interesse di Dio, che è la salute delle anime. Un prete non
deve mai permettere che chiunque si avvicini a lui, se ne diparta senz’aver udita
una parola che manifesti il desiderio della salute eterna della sua anima. — Orbene
la maniera a Don Bosco più familiare di agire così da prete era appunto l ’insinuare
buone disposizioni a regolare i propri rapporti con Dio mediante il sacramento
della riconciliazione.
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Il sapersi poi quanto la sua carità fosse industriosa nel trovare le vie dei cuori,
faceva sì che in casi di moribondi mal disposti si ricorresse a lui per ottenerne il
ravvedimento finale. Chiamato, accorreva a qualunque ora e in qualunque luogo,
senza timore di sorta. Le conversioni in extremis furono molte e talora straordinarie.
Vecchi settari, che ne ammettevano la visita amichevole, finivano confessandosi;
altri che pur vicini a morire detestavano il prete, se si riusciva a introdurre Don
Bosco, a poco a poco cambiavano sentimento, riaprendo l ’anima alla fede e fa­
cendo ammenda del loro passato.
Teatro abituale del suo zelo di confessore furono i luoghi di pena. Per una ven­
tina d ’anni ne frequentò tre: le prigioni dette del Senato, la casa dei corrigendi
detta la Generala e le carceri correzionali. Vi si recava per lo più nei giovedì, pro­
mettendo di tornare nel sabato successivo per confessare chi ne avesse volontà.
A questo disponeva i reclusi con ingegnose trovate, studiandosi di cattivarsene la
benevolenza con regali di loro gusto. I testi ricordano nei processi che tanti di
questi disgraziati, ricuperata la libertà, o tosto o tardi gli si facevano nuovamente
vedere per aggiustare la coscienza.
Dimoravano a Torino cattolici di lingua tedesca; ne capitavano pure negli ospe­
dali della città. Nessun prete era allora in grado di confessare queste persone.
Nel 1855 Don Bosco, fattesi dare da un professore sedici lezioni di tedesco, che
retribuì, si compilò un prontuario di vocaboli e di frasi che gli servissero per in­
terrogare, rispondere, ammonire, eccitare al dolore; così potè prestare largamente
in seguito a quegli stranieri l ’opera sua nel tribunale della penitenza.
Finché ne ebbe la possibilità, accorreva a confessare dai Fratelli delle Scuole
Cristiane, in ritiri di fanciulle, in monasteri, in case di beneficenza, in ospedali.
Dalle infermerie del Cottolengo non si allontanò fino al 1874; eppure di là verso
il 1845 aveva riportato un ’infezione petecchiale con effetti dolorosi, che lo tor­
mentarono per tutto il resto della sua vita, come depose Don Rua che seppe la
cosa da lui, e come l ’economo salesiano Don Sala riscontrò sul suo corpo dopo
la morte.
Dal 1844 al 1865 nelle innumerevoli prediche e predicazioni a Torino e fuori
sembrava che predicando non si prefiggesse altro scopo che di poter tirare gli udi­
tori a confessarsi. Le moltitudini, vinte dalla sua evangelica bontà, ne assediavano
il confessionale, dove egli sedeva dalle prime ore del mattino e poi fino a notte
inoltrata. In questo modo la sua fama di confessore diffondendosi sempre più
conduceva a ll’Oratorio uomini d ’ogni classe sociale, bisognosi di ritrovare a ’ suoi
piedi la pace dell’anima.
Se tanto faceva occasionalmente per i fedeli non affidati alle sue cure, si com­
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prende che doveva fare assai più per i giovani che da lui dipendevano. Il suo pen­
siero fondamentale al riguardo lo espresse nel Qiovane Provveduto scrivendo: “ Cari
figliuoli, se voi non imparate da giovani a confessarvi bene, correte pericolo di non
apprenderlo in vita vostra e per conseguenza di non confessarvi mai a dovere in
vostro danno e a rischio della vostra eterna salvezza ” . Ma la confessione doveva,
secondo lui, essere come integrata dalla comunione. Onde nella Vita di Francesco
Besucco scrive: “ Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione,
ma io non trovo alcuna base sicura, se non nella frequenza della confessione e
comunione; e credo di non dir troppo asserendo che, omessi questi due elementi,
la moralità resta bandita ” . Tutto compreso di questa estrema necessità, fece della
confessione e comunione frequente una consuetudine, per dir così, connaturata
con la vita dell’Oratorio esterno e interno.
Parlando in pubblico, aveva mille modi di scuotere chi si trovasse in disgrazia
di Dio e ¿ ’insinuargli il desiderio dei sacramenti. Durante il corso della settimana
richiamava i più alla pratica della confessione e comunione almeno domenicale;
per le feste maggiori eccitava i meno propensi; per il mensile esercizio della buona
morte dava una scossa generale alle coscienze. Ma chi non conobbe quanta fosse
la delicatezza di Don Bosco, non immagina con che naturale e spontanea libertà i
giovani ne secondassero gl’inviti. È quello del resto che si può tuttora osservare
dovunque regni davvero lo spirito del santo fondatore.
Oltre a tutto ciò Don Bosco offriva in se stesso a’ suoi giovani un confessore
instancabile e impareggiabile.
Certo il solo vederlo ogni giorno e per non breve tempo fermo e tranquillo
ad ascoltare i suoi piccoli penitenti, come se al mondo non avesse altro da fare,
era già di per sè un tacito incitamento a confessarsi. Questo ministero quotidiano
assumeva proporzioni favolose in occasione di solennità e di esercizi spirituali;
allora egli v’impiegava fino a dodici o quattordici ore al giorno, come testifica Don
Rua, nonostante il gran freddo o il gran caldo, secondo la stagione. Nè in quelle
ore vi poteva essere cosa di tale importanza, che ai suoi occhi la vincesse su quello
che stava facendo. Sotto questo aspetto è ben significativo il caso del marchese
Patrizi. Il nobile signore, col quale egli aveva stretto relazione ne’ suoi viaggi a
Roma, arrivò una domenica all’Oratorio per visitare il santo sacerdote. Don Bosco
allora confessava gli esterni. Al visitatore fece per primo gli onori di casa Don Ca-
gliero, che rese subito avvisato Don Bosco della sua presenza. —■Bene, bene! ri­
spose egli con calma. Gli si dica che io sono contento della sua venuta e che aspetti
un momento. — Altro che un momento! Era passata un’ora e mezzo quando uscì.
Allora tutto lieto e sorridente mosse incontro al marchese, colmandolo di genti­
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lezze e dicendo semplicemente di non aver potuto sbrigare prima quei poverini,
che dovevano fare la santa comunione. L’ospite, uomo di antica fede e capace di
comprendere, non che aversela a male, ne trasse nuovo argomento per esaltare
la santità di Don Bosco.
Durante l ’ultimo decennio della sua vita, benché sopraffatto da occupazioni
e preoccupazioni, non abbandonò il confessionale, ma continuò a confessare solo
i giovani e il personale dell’Oratorio interno; quando poi n ell’ultimo biennio i
gravi incomodi fìsici lo costrinsero a nuove limitazioni, confessava presso la sua
cameretta chiunque giornalmente si presentasse e ogni sabato sera ascoltava gli
studenti della classe superiore. L’ultimo sabato che compiè tale ufficio fu il 17 di­
cembre 1887. Verso le diciotto una trentina di giovani salirono secondo il solito
e aspettavano fuori dell’uscio l ’avviso del segretario. Don Bosco stava molto male
quella sera; aveva la febbre e stentava a respirare. Era cominciato il progressivo ab­
bandono totale delle forze. A tutta prima disse che non si sentiva di sostenere quella
fatica; ma poi dopo un istante di silenzio ripigliò: — Eppure è l ’ultima volta che
potrò confessarli. — E diede ordine che fossero introdotti. Entrarono essi in punta
di piedi, s’inginocchiarono intorno a lui sul pavimento e si confessarono. Due giorni
dopo Don Bosco si poneva in letto per non più rialzarsi.
Nessuno supponga che egli tenesse nell’Oratorio il monopolio delle confes­
sioni; vari sacerdoti della casa e della città gli venivano in aiuto. Ma che valeva?
La quasi totalità preferiva andare da lu i; nelle sue assenze poi o quando il tempo
stringeva, si ricorreva con rincrescimento ad altri. Confessando egli era l ’amabilita
di Gesù in persona. Dipinge se stesso, allorché scrive in una sua Memoria: “ Il con­
fessore a ciascuno si mostri con aria ilare e non mai usi sgarbatezza, nè mai si fac­
cia conoscere impaziente. Prenda i fanciulli con modi dolci e con grande affabilità.
Nè mai strapazzi, o faccia meraviglia, per ignoranza o per le cose deposte in con­
fessione ” . Piace leggere la testimonianza del cardinale Cagliero che, confessatosi
da Don Bosco per più di trent’anni, così ce lo ritrae: “ Nel ministero delle con­
fessioni fu eccezionale, costante e ammirabile la sua bontà coi giovanetti e con gli
adulti; quasi tutti si confessavano da lui perchè guadagnati dalla sua dolcezza e
dalla sua carità sempre benigna e paziente. Era breve senza fretta. Benigno al sommo
e non mai severo, c ’imponeva una breve penitenza sacramentale, adatta alla nostra
età e sempre salutare. Sapeva farsi piccolo coi piccoli, darci gli avvisi opportuni,
e le stesse riprensioni sapeva condirle con tale sapore, che c ’infondeva sempre
amore alla virtù e orrore al peccato ” .
Nell’atto di confessare, il suo stesso contegno esteriore ispirava venerazione e
confidenza. Il medesimo autorevole testimonio aggiunge: “ Al confessionale egli
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sedeva compostissimo. Presa la solita modesta posizione con le ginocchia unite e
coi piedi sullo sgabelletto, così rimaneva sino alla fine, durassero le confessioni
due, tre ed anche quattro ore. Il suo volgersi della persona da dritta a sinistra
verso i due inginocchiatoi laterali era sempre con un movimento grave e mode­
stissimo, sicché anche in ciò faceva manifesto come fosse veramente assorto nel
sacro ministero e penetrato dallo spirito di Dio. Confessore poi e penitente, nella
più intima manifestazione della carità e purezza e castità, apparivano quale imma­
gine vivente del discepolo amato inchinato verso l ’adorabile persona del Divino
Maestro ” .
Ma la storia, perchè sia storia, bisogna che sia completa. Oltre allo zelo infati­
cabile e alla bontà inesauribile, un terzo elemento conferiva forza di attrazione verso
Don Bosco nella direzione delle anime. La Chiesa non restò mai priva dei doni
carismatici profusi già dallo Spirito Santo nelle Cristianità primitive. S. Paolo
chiamò carismi certi doni gratuiti, straordinari e passeggeri, conferiti direttamente
a vantaggio altrui. Egli ne enumera nove; settimo, il discernimento degli spiriti o
dono di leggere nel segreto dei cuori. Una cronaca dell’Oratorio sotto il 13 aprile
1864 registra queste parole di Don Bosco ai giovani dopo gli esercizi spirituali:
“ Io in questi giorni passati vedeva chiaramente i peccati di ciascuno di voi, come se li
avessi avuti tutti lì scritti davanti agli occhi, di modo che alcuni, i quali, facendo
la confessione generale, volevano dire essi stessi i peccati, non badando alle mie
interrogazioni, m ’imbrogliavano le cose. È una grazia singolare che il Signore mi
ha fatto in questi giorni per il vostro bene. Adesso alcuni renitenti al mio consiglio
mi domanderanno, se non vedo più come prima il loro interno. Eh no! debbo
loro rispondere: non sono verniti allora, e adesso non sono più a tempo per go„
dere di questo beneficio ” .
Vivono tuttora alcuni di quelli che si sentirono sciorinare da Don Bosco nella
confessione tutte le loro marachelle di un passato anche remoto. Vi fu un tempo
in cui certi giovani, volendo fare la confessione generale o avendo la coscienza
imbrogliata, o non avendo avuto tempo di prepararsi bene, s’inginocchiavano di­
cendogli: — Dica lei. — E Don Bosco diceva. Ma a questo modo non la poteva
durare. Una sera nel sermoncino dopo le preghiere parlò così: “ Finora confes­
sandovi voi mi dicevate: Dica lei, e io dicevo. Ma in buona sostanza tocca al
penitente e non al confessore. Io non reggo più a parlare per ore e ore; ne soffre
il mio povero stomaco. Da qui innanzi dite voi e se sarete imbrogliati, allora vi
aiuterò” . Queste parole vennero udite allora, scritte subito e poi lette nei pro­
cessi dal salesiano Don Lemoyne.
Nessuno nell’Oratorio pose mai in dubbio questo dono di Don Bosco, poiché
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a centinaia si contarono quei che ne fecero l ’esperienza. Dinanzi ai giudici ecclesia­
stici vari testi deposero con giuramento su fatti da essi medesimi accertati. Di tali
fatti ve n ’è uno meglio documentato, avendolo esposto per lettera a Don Rua il
5 aprile 1909 colui che n ’era parte interessata, monsignor Angelo Cattaneo, Vi­
cario Apostolico nell’Honan meridionale e residente a Nau-Jang-Fou. Nel 1861 era
chierico nel seminario di Bergamo, quando Don Bosco vi andò a predicare gli
esercizi. Presentatosi a lui per fargli la sua confessione, tirò fuori uno scartafaccio,
nel quale aveva scritto i suoi peccati, e cominciò a leggere. Ma Don Bosco glielo
tolse di mano, lo gettò sul fuoco nella stufa e gli disse: —■Te li conterò io i tuoi
peccati. —■Infatti glieli sfilò uno dopo l ’altro, proprio come stavano scritti. “ Si
può immaginare, scrive Monsignore, quale fu la mia sorpresa e commozione. Scop­
piai in pianto di vero dolore e consolazione
Questo dono serviva a Don Bosco per richiamare alla memoria dei giovani
colpe dimenticate o volontariamente taciute. Sono cose, depone Don Rua, che
avvenivano con tanta frequenza, che mi riesce difficile a ricordare i nomi di tali
giovani Ne menziona solo due con tutte le particolarità. Ma Don Bosco non
faceva così soltanto coi giovani. Nel 1882 a Nizza Mare un signore cinquantenne
uscì trasognato dalla camera di lui, nè seppe trattenersi dal narrare al direttore
Don Ronchail il caso occorsogli. Confessandosi dal Santo, si credeva di aver detto
tutto; ma egli al termine dell’accusa gli disse: —■Scusi, signore. Di quel peccato
commesso a diciotto anni nelle tali e tali circostanze, si è forse dimenticato? —
Il peccato era stato realmente commesso e non mai confessato.
Il grande confessore in un dato giorno della settimana si faceva alla sua volta
umile penitente. Finché visse Don Cafasso, tutti potevano vederlo prostrarsi al
suo confessionale nella chiesa di S. Francesco d ’Assisi. Morto Don Cafasso, ogni
martedì mattino, dove Don Bosco confessava, compariva Don Giacomelli, già suo
compagno di seminario e, aspettato che terminasse, ne prendeva il posto e alla
presenza di alunni e superiori ne ascoltava la confessione. Fuori dell’Oratorio,
venuto il suo giorno, si confessava, potendo, da qualche salesiano oppure da altro
sacerdote. Ed era puntualissimo. Nel marzo del 1886 a Nizza Marittima la Regina
del Wurtemberg, desiderosa di vederlo, ottenne la promessa di una sua visita,
della quale gli fissò l ’ora. Don Bosco, sbrigatosi dalle udienze, benché già in ritardo,
avendo nell’uscire dalla sua stanza scorto D. Cerutti, membro del Consiglio supe­
riore salesiano, lo chiamò dentro e, sapendo che avrebbe voluto confessarsi, gli
disse: —■Oh, la Regina del Wurtemberg può ancora aspettare un poco e intanto
noi possiamo terminare le cose nostre. —■Uditane quindi la confessione, lo pregò
di ricevere la propria.
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Dunque anche la forza dell’esempio contribuiva a tener vivo, fra quanti lo
circondavano, l ’amore al sacramento della penitenza e infondeva maggior confi­
denza verso il confessore che si confessava così sotto i loro occhi.
Fondata che fu la Società salesiana, il fondatore le assegnò, secondo il co­
stume, lo stemma e un motto. Il motto dice: D a mihi animas, cetera tolte. Queste
parole vogliono significare che per guadagnare anime a Dio i soci debbono essere
sempre disposti a sacrificare ogni altro interesse. Di ciò tutta la sua vita fu mirabile
esempio. Ben poteva egli appropriarsi la dichiarazione di S. Paolo che, scrivendo
ai Cristiani di Corinto, protestava di sentirsi pronto a dare per le anime non solo
quanto aveva, ma anche tutto se stesso: impendam et superimpendar.
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CAPO XXIX
LE FI GLI E DI M A R I A A U S I L I A T R I C E
Don Bosco, se avesse voluto dar retta alla sua inclinazione, non si sarebbe mai
accinto a ll’apostolato delle fanciulle. Ve lo sospinsero da prima i reiterati
consigli di uomini, il cui giudizio aveva gran peso per lui, e da ultimo lo confermò
in quel divisamente la parola di Pio IX; poiché nel 1871 il Papa lo incoraggiò a
fare per l ’istruzione e l ’educazione delle fanciulle quanto faceva a prò dei giova-
netti. Tutto questo veniva a dire che egli doveva creare un ’altra famiglia religiosa.
Persuaso essere tale il volere di Dio, si mise risolutamente all’opera.
Le cose si svolsero in una maniera così impensata, da sembrare che una mano
invisibile reggesse le fila degli avvenimenti. Viveva in un angolo del Monferrato,
a Mornese, comunello agricolo nel circondario di Acqui, un pio e ricco sacerdote,
Don Antonio Pestarino, intento solo a fare del bene entro la cerchia ristretta de
suoi umili compaesani. E un bene che desiderava far loro si era di fondare un’isti­
tuzione che gli sopravvivesse. Avendo avuto la sorte di conoscere Don Bosco du­
rante un viaggio e di rivederlo nell’Oratorio, aspettava una sua visita per consi­
gliarsi e decidere. Don Bosco capitò a Mornese nel corso dell’ultima delle sue gite
autunnali con i giovani, il 7 ottobre 1864. Stette là quattro giorni, ammirato per
il suo zelo da tutta la popolazione, la quale ebbe sentore ch’egli fosse un santo.
Fu dunque concertato che si erigerebbe a Mornese un capace edificio da destinarsi
a collegio per fanciulli con scuole esterne.
Don Pestarino gli presentò allora un gruppo di otto zittelle, che, denominate
Figlie di Maria Immacolata, conducevano vita esemplare sotto la sua direzione
spirituale, formando con altre del paese una pia Unione detta delle Figlie di Maria
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Immacolata. Il Vescovo diocesano monsignor Contratto l ’aveva approvata nel
1857. Quelle otto buone figliuole, non legate da voti, si proponevano di attendere
alla pratica della perfezione cristiana, osservando castità perfetta, prestando ubbi­
dienza al loro direttore spirituale e serbando povertà mediante il distacco dalle
cose terrene. Si esercitavano pure in opere di carità, massime occupandosi di fan­
ciulle trascurate dai genitori e coltivando nello spirito le grandicelle. Oltre a que­
sto, in una tranquilla casetta, dove si radunavano mattino e sera, avevano messo
su una piccola sartoria, alla quale accorrevano per imparare il cucito ragazzine del
paese; il che era un mezzo per curarne la formazione cristiana. Tenevano financo
un rudimentale ospizio per bambine bisognose e una specie di oratorio festivo
femminile.
Spiccava fra tutte una contadinotta per nome Maria Mazzarello, che esercitava
sulle compagne una superiorità morale, a cui esse s’inchinavano e di cui si valeva
il direttore specialmente per il governo dell’Associazione. Contava allora ventisette
anni. L’innocenza de’ suoi costumi era nota a quanti la conoscevano. Nel tempo
del colera l ’avevano senz’altro battezzata suora di carità. Dimostrava mente aperta,
spirito sereno, volontà ferma. Imparò tardi a leggere, più tardi a scrivere; non esi­
stevano allora scuole pubbliche per giovanette. Nelle cose di Dio vedeva netto e
profondo. La sua vita interiore si nutriva di sacramenti, di orazione e di parola
divina. Umile, mortificata e casta dava alle proprie azioni e relazioni un’impronta
soprannaturale di creatura privilegiata. Vedere e udire Don Bosco fu per lei nel
1864 un avvenimento, che le stampò n ell’anima un’impressione indelebile.
Don Pestarino era quasi impaziente di dar principio alla costruzione del col­
legio. Don Bosco gli mandò il salesiano Don Ghivarello, perchè ne facesse il di­
segno e dirigesse i lavori. Nel giugno del 1865 se ne potè già collocare solenne­
mente la prima pietra. La popolazione concorreva gratuitamente a ll’impresa con
trasporto di materiali e con ore di lavoro. Il Vescovo aveva per questo dispensato
dal riposo festivo. Nel dicembre del 1867 era ultimata la cappella, che Don Bosco
andò a benedire. Egli tornò a Mornese nel 1869 e nel 1870. Ogni volta rivedeva le
Figlie dell’immacolata, ascoltava tutto il bene che diceva di esse il loro direttore,
ma non accennò mai a particolari sue intenzioni, sebbene pensasse già al modo di
contentare coloro che lo sollecitavano alla fondazione di un collegio femminile;
anzi non mancano neppure indizi che sperasse di avere a ll’occorrenza dalla pia
Unione il primo nucleo delle future sue religiose.
Intanto una circostanza provvidenziale accelerò gli eventi. Nel 1871, quando
l ’apertura del collegio si annunciava prossima, la curia di Acqui, durando la va­
canza della sede per la morte dell’Ordinario, si preoccupò dell’eventualità che il
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collegio di Don Bosco fosse per danneggiare il piccolo seminario diocesano ; quindi,
richiesta dell’approvazione canonica, non l ’accordò.
Che fare dunque? Don Bosco non istette un momento in forse: decise di col­
locare nell’edifìcio le Figlie dell’immacolata, perchè vi facessero vita comune. Sa­
rebbe stato questo un dar principio alla nuova istituzione, per la quale abbozzò un
Regolamento, ricalcandolo sulle Regole dei Salesiani.
La sua decisione, manifestata confidenzialmente, turbò forte Don Pestarino,
perchè questi temeva una reazione in paese. Non fu difficile tranquillare il pio sa­
cerdote, che entrò tosto nelle vedute di Don Bosco; quanto al resto, fu stabilito
di dar tempo al tempo senza propalare la notizia.
Nell’attesa una grave malattia colpì il Santo, che in mezzo alla costernazione
generale ondeggiò parecchio fra la vita e la morte. Erasi egli recato a visitare il
collegio aperto recentemente in Varazze; ma il 7 dicembre lo assalse ivi una vio­
lenta eruzione miliarica, che fra letto e lettuccio lo costrinse a circa due mesi di
ozio dagli affari.
Durante le alternative del male, sul principio di gennaio del 1872, Don Pe-
starino con alcuni compaesani si recò a visitarlo, ed egli profittò della sua venuta
per intendersi e cominciare. Quattro sole Figlie dell’immacolata continuavano nel
descritto tenore di vita, pronte a ll’ubbidienza e a qualunque sacrifìcio per il bene
delle loro anime e per aiutare i loro simili. Don Bosco disse a Don Pestarino di
radunarle con tutte le consorelle del paese e di invitarle a dare ognuna il proprio
voto per costituire un capitolo, eleggendo superiora e assistenti, secondo il Rego­
lamento da lui preparato. Le sue istruzioni vennero eseguite: il 29 gennaio venti­
sette di quelle giovani, riunitesi sotto la presidenza del direttore e invocati i lumi
dello Spirito Santo, dissero ognuna il nome di quelle che giudicavano atte ai vari
uffici. Maria Mazzarello risultò eletta Superiora con voti ventuno. Riluttante alla
carica e con la speranza di esserne esonerata, ottenne che la decisione fosse rimessa
a Don Bosco; ma le altre consentirono solo a patto che nel frattempo ella esercitasse
l ’ufficio di prima assistente col titolo di vicaria.
Finita la convalescenza, Don Bosco fece ritorno a ll’Oratorio. Era il tempo in
cui dal 1865, dopo la festa di San Francesco di Sales, egli chiamava a raccolta i di­
rettori de’ suoi collegi per udirli e per dar loro le sue direttive. Ognuno di essi
gli riferiva sull’andamento della propria casa, sui frutti raccolti e sulle difficoltà
incontrate. I singoli facevano tesoro dell’esperienza dei colleghi; tutti alla fine
confortava la parola illuminata e incoraggiante del buon padre. Orbene nel febbraio
del 1872 partecipò a ll’annuale conferenza anche il direttore delle Figlie dell’im­
macolata per esporre, d ’intesa con Don Bosco, quanto era avvenuto a Mornese.
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I presenti intrawidero con meraviglia e con gioia che alcunché di nuovo e di
grande si veniva maturando. Era scoccata l ’ora, perchè le cose prendessero il
loro corso.
A Mornese, nella casetta fino allora abitata, la comunità, cresciuta di numero,
stava molto a disagio. Il parroco, ignaro del disegno rimasto in sospeso, insinuò
che la si sarebbe potuta provvisoriamente trasferire nel locale del collegio, di cui
il divieto superiore impediva l ’apertura. Don Pestarino respirò, sentendosi alleg­
gerita la propria responsabilità di fronte al paese, e fece come chi afferra a volo
una buona ispirazione; quindi nella vigilia del Corpus Domini effettuò chetissi­
mamente il trasloco. I paesani non si arresero al fatto compiuto, nè nascosero
il loro malumore; anzi minacciavano rappresaglie. Non si poteva certo esporre a
odiosità l ’autorità diocesana, dando in pascolo al grosso pubblico il vero mo­
tivo del provvedimento. In ultimo però l ’autorità del parroco, il prestigio di Don
Pestarino e l ’opinione di santità in cui si aveva Don Bosco, calmarono a poco a
poco i bollenti spiriti, cosicché il 5 agosto monsignor Sciandra, novello Vescovo
di Acqui, assistito da Don Bosco, vi compiè la cerimonia della prima vesti­
zione religiosa. Quindici furono le vestite, undici delle quali emisero nel giorno
stesso i voti triennali. In seguito non si chiamarono più Figlie dell’immacolata;
Don Bosco ne aveva cambiata la denominazione, chiamandole Figlie di Maria
Ausiliatrice.
Dall’Oratorio egli accudiva ai bisogni della neonata Congregazione con le at­
tenzioni che una madre ha per la sua creatura. Si teneva in relazione assidua con
Don Pestarino. Ogni tanto, interrompendo le molte sue faccende, si recava a Mor­
nese per rendersi conto personalmente di tutto. Nel 1874, perchè vi fosse chi avesse
maggior libertà di attendervi, nominò Don Cagliero suo vicario nella direzione ge­
nerale delle religiose. Mancato ai vivi in maggio Don Pestarino, mandò un sale­
siano a prenderne il posto quale direttore particolare. Il 25 giugno scriveva ad una
sua benefattrice: “ Sono impegnato in questa opera e con l ’aiuto del Signore ho
fiducia di poterla portare ad uno stato regolare ” .
Per avviarla a regolarità cominciò con indire l ’elezione della Superiora. Tutti
i voti si raccolsero sul nome di Maria Mazzarello. Morto poi nell’anno medesimo
il direttore particolare, volle che Don Cagliero vi fissasse la sua residenza sino alla
nomina del successore. Per tale ufficio si privò dell’aiuto di un giovane e valoroso
sacerdote, Don Costamagna, che rispose pienamente alla sua aspettazione, impri­
mendo alla casa il preciso carattere voluto dal Santo. Altri due passi verso la re­
golarità furono nel 1876 la redazione definitiva delle Regole e l ’approvazione ve­
scovile dell’istituto.
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Nessuno al mondo immaginava allora quale grandiosa istituzione Don Bosco
venisse silenziosamente organizzando là nell’ombra di un recinto segregato quasi
dal consorzio civile; poiché a rimuoverne l ’occhio indiscreto dei profani contri­
buivano le difficoltà delle comunicazioni, essendo il luogo privo dei mezzi più
indispensabili a ll’ordinario trasporto dei viandanti. Fra quelle mura benedette uno
stuolo crescente di anime belle menava una vita di povertà, di pietà e di lavoro che
non aveva nulla da invidiare ai chiostri della più rigida osservanza. La Madre
Mazzarello con l ’efficacia dell’esempio infervorava educande, probande e professe
nella pratica di tutte le virtù cristiane e religiose, fedelissima sempre in eseguire
ogni minimo cenno del santo fondatore. Il regime interno per altro si svolgeva
sotto l ’immediata autorità della Superiora.
Una prova tangibile che la Provvidenza divina vegliava su quel nido di co­
lombe, si aveva nel fatto che sebbene mancassero cespiti d ’entrata, pure non man­
cava mai il necessario. In altri Istituti vi erano almeno le doti delle postulanti; là
invece le postulanti giungevano quasi sempre sprovviste di beni patrimoniali. Le
si accettavano tuttavia e si tirava innanzi. Altre prove della divina assistenza erano
il numero delle vocazioni e i progressi reali nel buono spirito. La bontà dello spi­
rito appariva anche da un indizio eloquente. Entrandovi donzelle di famiglie agiate
o nobili, queste, applicate agli studi, non si distinguevano in nulla dalle altre.
Allorché, e fu presto, le suore cominciarono a sciamare in direzioni vicine, lontane
e lontanissime, la parola d ’ordine era di mantenere intatto dappertutto lo spirito
di Mornese, riguardato allora e poi come l ’ideale perenne dello spirito di tutta
la Congregazione. Per questo poteva Dori Bosco scrivere con paterna compiacenza
a Don Cagliero nell’America il 13 ottobre 1876: “ Le Figlie di Maria Ausiliatrice
fanno assai bene dove vanno
Ma la casa di Mornese si faceva ognor più angusta e disagiata; perciò Don
Bosco ne acquistò e riattò un ’altra a Nizza Monferrato, dove trasferì le suore nel
febbraio del 1879. Qui Maria Mazzarello, tutta chiusa nella sua umiltà, continuò
a essere l ’intima forza motrice in quel periodo di lento lavoro preparatorio, che
doveva dare a ll’Opera la più solida delle basi. Venne tuttavia il momento in cui
le cose richiedevano, in colei che stava alla testa, anche non comuni attitudini
naturali, e allora la missione della Mazzarello volgeva al termine. Dio infatti la
chiamò al premio il 14 maggio 1881. Nei nove anni del suo governo le sue figlie
erano salite a trecento e avevano case nell’Italia superiore, nella Francia e nella
Repubblica Argentina. Oggi sono trentacinque volte di più.
Colse ben nel segno il Papa Pio XI, quando nel discorso sull’eroicità delle
virtù di lei, die’ lode a Don Bosco d ’aver saputo scorgere nella sua figlia sotto il
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velo dell’umiltà che ne occultava i pregi, il “ talento del governo Di natura
piuttosto irritabile, si dominò fino a divenire la pazienza personificata; sfornita
d ’istruzione, godette la stima sincera delle suore che avevano fatto o facevano
studi; modestissima sempre, possedette in grado sovreminente l ’arte di correggere,
il segreto di conoscere le vocazioni e il dono di tranquillare gli spiriti. La chiave
del suo straordinario successo la potremmo indicare applicando a lei quelle parole,
con cui la Scrittura riassume l ’elogio del re Giosafat: “ Camminò per la via trac­
ciatale dal padre senza mai piegare nè a destra nè a sinistra, facendo in tal modo
ciò che tornava accetto al Signore ” . Il padre era S. Giovanni Bosco.
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CAPO XXX
I COOPERATORI SALESIANI
L’Opera di Don Bosco è un grande albero con tre robusti rami. Due li cono-
J sciamo: la Società salesiana e l ’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Il terzo apparve dopo sul tronco, ma durava già da lungo tempo il lavorìo segreto
dell’innesto: la pia Unione dei Cooperatori salesiani.
Di cooperazione Don Bosco non poteva non sentire continuo il bisogno fin
da quando faticava a fondare e a dirigere l ’Opera degli oratorii. Era solo. Per il
disimpegno degli svariati uffici si associò parecchi ecclesiastici e laici, che con
l ’azione personale o con la beneficenza lo sostenevano nell’impresa. Non esistette da
prima una denominazione comprensiva per designarli, ma ognuno pigliava il nome
dall’ufficio esercitato; in seguito presero a chiamarsi tutti insieme promotori ed
anche benefattori. S ’andò avanti così per circa sedici anni. Nel 1858 i collaboratori
di Don Bosco si divisero in due categorie. Gli uni, quelli che erano liberi di sè e ne
avevano la vocazione, si raccolsero con lui in vita comune, dimorando nell’Ora­
torio; gli altri continuavano ad aiutare l ’Opera, vivendo nelle proprie famiglie.
I primi diedero poi origine alla Società salesiana; i secondi, approvata che fu la
Società, cominciarono a distinguersi col titolo di Cooperatori salesiani.
L’idea di stringere i vincoli che correvano fra i Cooperatori, in modo da for­
mare un vero sodalizio laicale canonicamente riconosciuto e intimamente legato
alla Società, prese corpo nel 1874, si concretò meglio nel 1875 e assunse forma
definitiva nel 1876; ma, per quanto laicale, l ’Unione non escludeva sacerdoti e
religiosi.
Nel 1876 ne furono delineati per sempre lo scopo e la natura in un Regola­
mento intitolato: Cooperatori Salesiani, ossia modo pratico per giovare al buon costume
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30.10 Page 300

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ed alla civile società. Il “ modo pratico ” doveva consistere nell’“ esercizio della
carità verso il prossimo e specialmente verso la gioventù pericolante I mezzi
proposti erano quattro: promuovere la pietà cristiana nel popolo, favorire le voca-
zioni ecclesiastiche, opporre la buona alla cattiva stampa, interessarsi in ogni guisa
dei fanciulli pericolanti, e tutto questo in maniera conforme allo spirito della
Società salesiana. Nello svolgere tali attività i Cooperatori avevano il dovere di
conservare una dipendenza assoluta dai Superiori ecclesiastici.
Nel Regolamento non c’è parola di donne. Forsechè Don Bosco pensava di
prescindere dalla cooperazione femminile? In un primo tempo aveva ben divisato
di creare un’analoga associazione di donne, aggregandola alle Figlie di Maria Ausi-
liatrice; ma quando presentò a Pio IX il programma dei Cooperatori, il Papa, visto
che non si faceva motto di Cooperatrici, ne disapprovò l ’esclusione. — Escludendo
le donne, disse, vi priverete del più grande degli aiuti. — Don Bosco, docile alla
voce del Vicario di Gesù Cristo, non appena ebbe assicurata l ’esistenza dei Coope­
ratori, aperse le porte anche alle Cooperatrici.
La pia Unione aveva ricevuto dal Sommo Pontefice la benedizione in un’udienza
accordata a Don Bosco il 22 febbraio 1875. Questo atto lo incoraggiò a sollecitare
l ’approvazione dei Vescovi più vicini. Risposero i Vescovi di Albenga, Vigevano,
Acqui, Alessandria, Tortona, Casale e l ’Arcivescovo di Genova, non quello di
Torino. Le sette commendatizie gli servirono quindi per ottenere dalla Santa Sede
a prò dei Cooperatori alcune facoltà e alcuni favori spirituali. Il Breve del 30 luglio
1875, che largiva siffatte concessioni, equivalse a un primo riconoscimento generale.
Ma Don Bosco non si arrestò a mezzo cammino; egli mirava all’approvazione for­
male da parte della Santa Sede. Con questo scopo il 4 maggio 1876 umiliò al Santo
Padre una seconda supplica, nella quale, prospettata l ’indole dell’Associazione, lo
pregava di concedere ai Salesiani e ai loro Cooperatori parecchie indulgenze. Subito
in un secondo Breve del 9 maggio Pio IX concedette le chieste grazie, non più per
il tramite del Superiore generale, come la volta precedente, ma direttamente alla
stessa Società o Unione dei Cooperatori Salesiani ” . Ecco dunque riconosciuta in
forma non equivoca l ’Associazione. Del resto già nel primo Breve si leggeva che
i benefattori della Società Salesiana potevano essere considerati non altrimenti
che se fossero Terziari
Allora Don Bosco aveva tanto in mano da poter intraprendere una propaganda
su vasta scala, il che fece diffondendo un suo opuscoletto intitolato Cooperatori
Salesiani. Dava in esso notizia dell’Associazione, della benedizione pontificia, delle
facoltà e dei favori anzidetti, pubblicandone i relativi documenti. Ne curò anche
la traduzione in francese. L’Associazione si dilatò così in Italia e fuori.
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31 Pages 301-310

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Conviene qui dissipare un equivoco. Credettero non pochi che i Cooperatori
salesiani, fiancheggiando la Società salesiana, a questa dovessero esclusivamente
collegare l ’attività loro. Niente di più falso, secondo la mente di Don Bosco. E loro
compito invece coadiuvare la Chiesa, cioè i Vescovi e i parroci, con opere di bene­
ficenza, catechismi, educazione di fanciulli poveri e cose sim ili, attenendosi allo
spirito proprio della Società salesiana; di modo che, sempre secondo il concetto
di Don Bosco, soccorrere i Salesiani è spalleggiare una delle tante istituzioni appar­
tenenti alla Chiesa. D ’altro lato è ben naturale che i Salesiani nelle loro necessità
si rivolgano di preferenza ai Cooperatori. Don Bosco alludeva scherzevolmente
a ll’ampia missione di questi, allorché a un prevosto lombardo disse nel 1876 che
i Cooperatori salesiani sarebbero la massoneria cattolica per la loro propria santi­
ficazione e per la propaganda d ’ogni sorta di bene nelle famiglie e nella società. Oggi
egli direbbe che essi rappresentano la collaborazione del laicato con la gerarchia
ecclesiastica, nel senso inteso da Pio XI.
Don Bosco dedicò i due anni seguenti 1877 e ’78 a consolidare internamente
e a propagare per ogni dove l ’Associazione.
Perno della solidità di u n ’istituzione è l ’unità di spirito e di azione fra i suoi
membri. Orbene un periodico mensile, il Bollettino Salesiano, fatto da lui uscire
nell’agosto del 1877, mirava appunto a questo, a mantenere la massima identità di
pensiero e la massima armonia di opere nell’intento di raggiungere il fine comune.
Lo spediva gratuitamente, come organo ufficiale, a tutti i Cooperatori. Redatto con
semplicità e in tono quasi confidenziale, creò fra Cooperatori e Cooperatori e fra
Salesiani e Cooperatori u n ’atmosfera di famiglia, che favorì grandemente l ’accordo
delle vedute.
Altro coefficiente di stabilità doveva essere la buona intelligenza con l ’Autorità
ecclesiastica. Senza di ciò nella Chiesa si fabbrica sull’arena. Ora per incuneare nelle
varie diocesi u n ’organizzazione religiosa avente, come vedremo, una gerarchia
propria e per fissarvela in modo durevole, occorreva presentarvela in guisa che
non solo la sua utilità, ma anche la sua legittimità fosse ben manifesta; tanto più
che, nonostante l ’ultimo Breve, sorsero gravi contrarietà nel luogo d ’origine.
V i provvide il novello Pontefice Leone XIII, che il 16 marzo 1878 autorizzò Don
Bosco ad annunciare che i Cooperatori salesiani avevano avuto con la sua bene­
dizione il suo encomio e il suo incoraggiamento e che egli permetteva di porre in
capo al loro elenco il suo nome augusto.
Elemento efficace di consistenza era pure la coesione del sodalizio alla Società
salesiana. Questa saldatura Don Bosco l ’aveva mandata ad effetto nel primo Capi­
tolo generale del 1877, quando l ’assemblea legislativa da lui presieduta e inspirata
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incorporò lo statuto fondamentale dell’Associazione nel codice della Società, sicché
quella divenne non solo di fatto, ma anche di diritto un ’appartenenza di questa.
A rafforzare il legame dovevano contribuire i vincoli morali. Ve ne furono
di vario genere. Vincolo morale era l ’osservanza della prescrizione regolamentare
che dice: “ Sul fine di ogni anno ai soci saran comunicate le opere che nel corso
dell’anno successivo sembrano doversi di preferenza promuovere ” . Di qui ebbero
origine le circolari che in gennaio il Rettor Maggiore indirizza ai Cooperatori. La
prima è del 1879 e contiene anche uno sguardo retrospettivo a ll’operato dell’anno
antecedente. Essa servì di norma per tutte le altre fino ai giorni nostri. Queste rela­
zioni che d ’anno in anno mettono i Cooperatori al corrente delle cose salesiane,
guadagnarono sempre maggiori simpatie a Don Bosco e alla sua Società.
U n’altra bella usanza valse ad accrescere tali simpatie, e fu il sapersi dai Coo­
peratori che nella Società si facevano preghiere abbondanti per i consoci defunti.
La pietà verso i trapassati veniva eccitata dal Bollettino sia con notizie biografiche dei
più ragguardevoli, sia con il necrologio di tutti gli altri. In terzo luogo, fra persone
pie quali erano i Cooperatori, aveva gran forza di attrazione la ricchezza di favori
spirituali, di cui essi potevano godere per partecipazione con i Salesiani. A mante­
nerne vivo il ricordo, l ’ultima pagina del Bollettino metteva loro sott’occhio la nota
cronologica delle indulgenze speciali che essi potevano lucrare nel mese in corso.
Di non poco effetto sulla compagine tornavano infine le attenzioni, che Don
Bosco sapeva usare a tempo opportuno. Di passaggio in un luogo, non mancava di
visitare i Cooperatori più ragguardevoli e, potendo, radunava tutti quelli dei dintorni
e conferiva con loro. Nelle ricorrenze di feste e di onomastici e in occasione di lieti
eventi, mandava lettere di augurio o di congratulazione, che si ricevevano con grato
animo. Pervenendogli offerte, ringraziava sempre cordialmente per iscritto. In molte
circostanze, sapendo di fare cosa accetta, dimostrava la propria riconoscenza ado­
perandosi per ottenere distinzioni onorifiche dal Governo o dalla Santa Sede. In
una specie di testamento spirituale a ’ suoi Salesiani, scritto nel settembre del 1884,
inserì una serie di letterine italiane e francesi per Cooperatori e Cooperatrici fra
i più insigni, con ordine al suo successore di spedirle dopo la sua morte ai destina­
tari. In esse li ringraziava con termini di devota tenerezza. Avvenuta poi la sua di­
partita, si trovò fra le sue carte una lunga e affettuosissima lettera per tutti i Coo­
peratori, ai quali rendeva grazie e raccomandava il suo successore, terminando così:
“ Sebbene stanco e sfinito di forze io non lascerei di parlarvi e raccomandarvi i miei
fanciulli che sto per abbandonare, ma pur debbo far punto e deporre la penna.
Addio, miei cari Benefattori, Cooperatori Salesiani e Cooperatrici, addio. Molti
di voi non ho potuto conoscere di persona in questa vita, ma non importa: nel­
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l ’altro mondo ci conosceremo tutti, e in eterno ci rallegreremo insieme del bene
che colla grazia di Dio abbiamo fatto in questa terra, specialmente a vantaggio della
povera gioventù
Mentre attendeva a ll’assodamento, non perdeva di vista la diffusione. Per
acquistare nuovi adepti il più delle volte non aspettava che se ne facessero le
domande; ma, sol che non temesse ripulse da parte di bravi laici o di ecclesiastici,
noti a lui anche semplicemente di nome, spediva loro senz’altro il diploma di
aggregazione insieme con il programma. Tale diploma, recante la sua firma auto­
grafa, era così formulato: “ Il sottoscritto offre rispettosamente il diploma di
Cooperatore Salesiano al... e lo prega a volerlo gradire. Se persone di sua cono­
scenza desiderassero di partecipare agli stessi favori spirituali, non ha che a noti­
ficarle, e loro verrà tosto spedito ” .
Per questo sapeva profittare di qualsiasi occasione. Era sua amabile consuetu­
dine, vendemmiando l ’uva dalle viti che stendevano i loro pampini sulle finestre
delle sue camerette, mandare in omaggio i grappoli migliori a personalità torinesi,
con loro sommo gradimento. Orbene nel 1876, inviando da Roma a Don Rua
una nota di ventitré signori e signore a cui portare il solito dono autunnale, gl’in-
giunse di accompagnarlo con il “ libretto dei Cooperatori Ne’ suoi viaggi poi
per l ’Italia e per la Francia, a quanti gli apparivano ben disposti, porgeva infallan­
temente l ’invito a lasciarsi inscrivere.
Un altro mezzo di diffusione efficacissimo furono le due conferenze annue pre­
scritte dal Regolamento per S. Francesco di Sales e per Maria Ausiliatrice. Tali
convegni si prestavano da sé alla propaganda, sia perchè ne era libero l ’ingresso a
quanti volessero assistervi, sia perchè dopo ne dava particolareggiate notizie la
stampa, sia ancora perchè talvolta offrivano occasione a distribuire pubblicazion-
celle che poi andavano per le mani di molti, diffondendo la conoscenza dell’Opera.
Di siffatte conferenze Don Bosco diede nel 1878 l ’esempio e l ’intonazione a Roma
e a Torino. Chiarita l ’idea del Cooperatore salesiano, egli passava a fare comu­
nicazioni di cose attuate e di cose da attuare nella Congregazione, con qualche
speciale riguardo alle peculiarità del luogo dove parlava.
Essendo quella di Roma la prima di tali conferenze, egli vi premise un ’ade­
guata preparazione. Scelse anzitutto una chiesa carissima all’aristocrazia romana,
presso le nobili Oblate di Tor de’ Specchi. Si assicurò l ’intervento di signori e
signore, di prelati e di altri ecclesiastici in buon numero. Ottenne che vi andasse
a presiedere il cardinale Vicario Monaco La Valletta, al quale si unì l ’eminentissimo
Sbarretti; diramò un invito a stampa con alcune note illustrative. La presenza del
Vicario del Papa conferì a ll’adunanza non solo un lustro notevole, ma anche u n ’au­
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torità di cui si aveva bisogno per vincere ostacoli torinesi e quindi poter tenere a
Valdocco una seconda riunione simile. Dopo il 1878 convocazioni dello stesso
genere si moltiplicarono sempre più; dovunque vi fosse un nucleo di Cooperatori
intorno a un capo, questi venivano chiamati così periodicamente a raccolta.
C’erano infatti dei capi nell’Associazione. Da buon organizzatore, Don Bosco,
accrescendo nel numero i Cooperatori, pensò pure a ordinarne le schiere, raggrup­
pandoli intorno a dirigenti locali, che assistessero gli associati e fossero come i fidu­
ciari del Rettor maggiore, dal quale tutti dipendevano. Perciò nei paesi e nelle città,
dove non esistevano case salesiane, non appena i membri giungessero alla decina,
Don Bosco volle che avessero un soprastante col titolo di decurione e questi fosse
nn ecclesiastico o eccezionalmente anche un laico esemplare; la nomina si doveva
fare d’accordo col parroco. Ove poi abbondassero le decurie, che naturalmente
potevano essere formate da più di dieci membri, egli vi preponeva un direttore
diocesano, che fosse di preferenza un canonico delegato dal Vescovo. Tali perdu­
rano tuttora i quadri della mondiale organizzazione.
Sta bene che torniamo un istante alle origini. Prima che i Cooperatori fossero
legioni, pochi e scelti furono coloro che ne costituirono quasi lo stato maggiore.
Appartenevano essi alla nobiltà e alla borghesia torinese. Come riuscì Don Bosco
a cattivarsi tanta benevolenza nell’alta società? Allorché venne alla capitale, egli
era homo novus in tutto il senso della parola; eppure dopo brevissimo tempo aveva
le porte aperte nella maggior parte delle primarie famiglie. Da principio buone
relazioni gli furono procurate da Don Cafasso, il consigliere preferito negli ambienti
più elevati, dove la fede era domestica tradizione. Ma soprattutto Don Bosco si
acquistò preziose amicizie a S. Ignazio.
S. Ignazio è un santuario sopra Lanzo, adibito in estate all’opera degli esercizi
spirituali chiusi. Ogni anno un corso speciale era per laici, non solamente di Torino,
ma anche di altre città piemontesi. Don Cafasso vi si trovava sempre. Vedendo
come per simile gente ci volesse un po’ di vita, nell’estate del 1842 vi condusse
Don Bosco e ve lo ricondusse poi ogni altra volta, facendogli affidare la direzione
degli esercitandi. Morto il maestro, il discepolo continuò a recarvisi fino al 1870,
semprechè non ne fosse impedito dalle circostanze. Non vi predicò mai. Presiedeva
nel refettorio comune e nella chiesa. Durante le ricreazioni rallegrava tutti con le
sue geniali trovate, gettando intanto le reti: i pesci più grossi ordinariamente erano
suoi. Col crescere della sua riputazione egli diventò il confessore di gran parte dei
convenuti. Un tal signore Spinardi, testimonio oculare, scrisse: “ Don Bosco era
il nostro Lumen Christi ” .
E Dio gli dava realmente lumi eccezionali. Nel 1858, per esempio, la sera del­
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l ’ultimo giorno, guidando le preghiere comuni, incespicò a mezzo del De profundis
e per qualche istante non seppe proseguire. Vedeva spiccarsi dall’altare maggiore
due fiammelle, muoversi entrambe verso il fondo e fermarsi sopra due dei pre­
senti. Nella luce di una si leggeva morte, in quella dell’altra apostasia. Al riverbero
egli distinse chiaramente le fisionomie dei due individui. Non finì l ’anno che il
primo dei designati, un nobile barone, morì, e il secondo, ricco negoziante, passò al
protestantesimo. Nel ritorno Don Bosco aveva confidato il fatto e i nomi al sale­
siano Don Francesia, punto, come altri degli esercitandi, dalla curiosità di cono­
scere il perchè di quella sua misteriosa amnesia nel recitare il salmo dei defunti.
Testimonianze concordi esaltano il bene da lui operato in quei sacri ritiri,
nonché l ’ammirazione devota e affettuosa che ve lo circondava. Intanto ogni volta
vi faceva nuove conoscenze, che non si esaurivano nella convivenza di dieci giorni,
ma lasciavano durevoli ricordi in tutti, sicché, quando lanciò il programma dei
Cooperatori, aveva già pronta una bella clientela.
Nell’esercito dei Cooperatori emergevano sulla massa persone molto distinte,
che si segnalavano per la loro generosità nell’aiutarlo. Quanti e quante largheg­
giavano con lui in modo da sembrare che stimassero di esserne i beneficati e non
i benefattori! Se lo spazio lo permettesse, meriterebbero qui ognuna il proprio
medaglione quelle ammirabili Cooperatrici, nobili e facoltose dame d ’Italia, di
Francia e di Spagna, che egli amava salutare col nome di mamme e che mostra­
vano di gradire tale appellazione usando con lui tratti veramente materni.
Nell’ultimo scorcio della sua vita uno dei pensieri dominanti di Don Bosco
era di attirare alla pia Unione il maggior numero possibile di autorevoli perso­
naggi. Ancora nel maggio del 1886 fece spedire a tutti i Vescovi d ’Italia, che già
non l ’avessero, il diploma di Cooperatori, accompagnandolo con la collezione intera
del Bollettino Salesiano. Parve quasi l ’estremo suo saluto all’ episcopato italiano,
per il quale in momenti critici erasi cotanto adoperato e al quale voleva che la
Società stesse indissolubilmente unita. I sacri Pastori ringraziavano, si raccoman­
davano alle sue preghiere e spesso facevano voti che i suoi figli andassero a lavo­
rare nelle loro diocesi.
Quand’egli salì a ricevere il premio delle sue fatiche, lasciò in eredità al suc­
cessore numerosa e compatta la provvidenziale organizzazione. Questa compattezza
si rivelò allora nel plebiscito universale di devozione verso il nuovo Rettor mag­
giore. Le parole usate nella luttuosa circostanza da uno dei più cospicui Coope­
ratori, il Conte Carlo De Maistre, a nome suo e della famiglia, rispecchiano il sen­
timento d ’infiniti altri. “ Io ripongo in Lei, scriveva a Don Rua, tutto il riverente
affetto che noi portavamo al suo Padre. Noi lo riguardavamo volentieri anche come
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padre nostro! Nella nostra vita non c’era gioia, preoccupazione o tristezza che non
la comunicassimo a lui. Faremo, lo stesso con Lei ” .
Don Rua, che aveva visto con i propri occhi il sorgere e il progredire dell’isti­
tuzione, espose con molta competenza nei processi quali fossero stati gl’intendi­
menti del fondatore nel crearla, crescerla e inquadrarla. Tre cose disse aver egli
avute di mira: soddisfare a un dovere di riconoscenza verso i benefattori delle sue
opere, procurando loro la partecipazione a tutti i vantaggi spirituali della Società
salesiana; animare tutti alla perseveranza nel beneficare le sue opere e procurare
sempre nuovi benefattori; unire i suoi benefattori e le sue benefattrici, costituendoli
come tanti ausiliari del proprio parroco e per mezzo di lui ausiliari del proprio
Vescovo e quindi altrettanti figli devoti al Capo supremo della Chiesa. Il triplice
scopo fu raggiunto, come il fatto luminosamente lo dimostra. È davvero un grosso
esercito che spiana in ogni plaga le vie alla Società salesiana, ne sostiene l ’azione,
ne prende le difese affermandosi in pari tempo dovunque come un valido pro­
pulsore di opere buone.
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CAPO XXXI
L’OPERA DELLE V O C A ZIO N I TARDIVE
Zelo sacerdotale e superne illustrazioni determinarono Don Bosco nel 1875 a
imprendere la creazione e l ’organizzazione di u n ’Opera avente per iscopo
di colmare i vuoti prodotti nelle file del clero dalle condizioni dei tem pi: l ’Opera
di Maria Ausiliatrice per le vocazioni ecclesiastiche degli adulti.
Dare preti alla Chiesa era stato sempre uno de’ suoi ideali. Semplice studente
di ginnasio, non aveva avviato al sacerdozio il sagrestano chierese? Un cumulo di
cause congiurava da trent’anni a diradare il numero degli aspiranti alla vita sacer­
dotale: aberrazioni politiche, laicismo scolastico, sfrenatezza di stampa, vilipendio
della Chiesa e de’ suoi ministri, disagio economico del clero, leva militare dei
chierici erano le principali. Per giunta la soppressione dei conventi aveva tolto di
mezzo l ’ausilio dei sacerdoti regolari, e la chiusura dei seminari metteva tanti
Vescovi nell’impossibilità di reclutare alunni del santuario. Nessuna meraviglia
dunque se le vocazioni ecclesiastiche diminuivano in misura allarmante.
Per ovviare a sì funesta iattura Don Bosco non la perdonava a sacrifìci. Dalle
sue escursioni apostoliche tornava ordinariamente conducendo all’Oratorio qualche
povero giovanetto di belle speranze per la Chiesa; si raccomandava parimente ad
amici che gli mandassero buoni fanciulli, i quali dessero segno di essere chiamati
allo stato ecclesiastico. Così avvenne che, al riaprirsi dei seminari, i suoi alunni ne
ripopolarono parecchi. Nel 1865 il seminario maggiore di Torino su quarantasei
chierici ne contava trentotto venuti da Valdocco e nel 1873 centoventi su cento­
cinquanta. In quello di Casale Monferrato nel 1870 su quaranta chierici trentotto
erano usciti da collegi salesiani, donde provenivano pure nella diocesi di Asti due
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terzi dei parroci. Non pochi chierici Don Bosco diede anche ad altre diocesi subal-
pine e liguri, ed anche a Milano. Tutto questo però, molto in sè, era troppo infe­
riore al bisogno. Egli vedeva che la scarsità dei preti avrebbe portato la desolazione
nella vigna del Signore; perciò andava escogitando qualche mezzo insolito per
rimediare al male.
Or ecco che un’esperienza fatta parve schiudergli un nuovo orizzonte. Avendo
ammesso a frequentare le classi del ginnasio alcuni individui già avanzati in età,
constatava in essi seria applicazione, fervida pietà e buoni indizi di perseveranza.
Gli balenò allora l ’idea di raccogliere giovani adulti ben dotati, dar loro un regime
speciale e prepararli ad ascendere prestamente l ’altare; solo gli rimaneva da stu­
diare in che modo pratico attuare il suo disegno.
Mentre ruminava fra sè e sè questi pensieri, gli accadde cosa che lo spronò
all’impresa. Sul principio di gennaio del 1875, un sabato sera, stando a confessare
nell’antisagrestia della chiesa di Maria Ausiliatrice, alla vista di quei buoni giovani
pensava quanto urgesse che molti di essi divenissero preti. — Ma, si domandava,
chi sa quanti non riusciranno e chi sa quanto tempo ancora ci vorrà perchè i perse­
veranti riescano ? Eppure il bisogno della Chiesa è pressante. — Allora, pur conti­
nuando ad ascoltare le confessioni, gli parve di e'ssere nella sua camera a consultare
il registro di tutti i giovani presenti nell’Oratorio e che alle spalle una voce improv­
visamente gli dicesse: — Osserva bene nei registri e vedrai il da farsi. — Prese a
scorrere i nomi, ma non vedeva nulla di speciale. Domandandosi se sognasse o
fosse desto, balzò in piedi per iscoprire chi gli avesse parlato. I giovani, credendo
che gli venisse male, si levarono anch’essi in piedi per sorreggerlo; ma egli, rassi­
curatili, si rimise a confessare.
Salito poi in camera, trovò realmente il registro sul tavolino. Vi cercò in lungo
e in largo, e se ne fece portare altri degli anni antecedenti, ma senza cavarne alcun
costrutto. Però un’osservazione gli venne fuori da quell’indagine: degli aspi­
ranti al sacerdozio, se giovani, appena quindici su cento, cioè neppure due su
dodici, arrivavano a vestire l ’abito chiericale, e se adulti, vi arrivavano otto su
dieci e in più breve tempo. Questa constatazione gli aperse gli occhi — L’esito
di costoro, disse, è dunque assai più sicuro e più sollecito. Bisogna che me
ne occupi.
Da quell’istante il disegno di fondare case, nelle quali giovanotti già maturi
e chiamati al sacerdozio avessero un corso di studi accelerato e adatto a loro, non
lo abbandonò più. Ecco donde germogliò in lui il proposito d’istituire l ’Opera
di Maria Ausiliatrice o dei Figli di Maria. Opera la chiamò, non collegio o istituto,
perchè, prevedendo che il massimo contingente gli sarebbe venuto da famiglie disa­
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giate, occorreva assicurare l ’istituzione con l ’appoggiarla a un’associazione, i cui
membri si obbligassero a contribuire per il mantenimento e per le altre spese.
Recatosi quindi nel mese di febbraio a Roma, espose al Papa il suo piano. Pio IX,
parlatone a lungo, gli manifestò infine il suo desiderio di commendare ufficial­
mente l ’Opera; solo gli disse di farla prima conoscere ad alcuni Vescovi per otte­
nerne l ’approvazione; di qui poi egli avrebbe preso motivo a encomiarla.
Il Papa desiderò anche sapere in che modo gli fosse venuto in mente quel
pensiero. Don Bosco tutto gli espose, compresa la narrata distrazione, come egli
la chiamava. Pio IX gl’impose di ripetere lo stesso racconto ai superiori della
Società, ed egli, tornato a Torino, obbedì. Poi stese senza indugio un Regola­
mento, che spedì manoscritto ad un certo numero di Vescovi. Ne ricevette dodici
co m m endatizie.
Prima nondimeno che tutte le commendatizie giungessero, Don Bosco, per
accreditare l ’Opera, interessò il cardinale Berardi e monsignor Vitelleschi, Segre­
tario della Congregazione dei Vescovi e Regolari, perchè gli ottenessero su di essa
una benedizione speciale dal Santo Padre. La benedizione fu concessa “ col mas­
simo piacere e di tutto cuore ” , del che ebbe comunicazione pure cordiale da
entrambi i prelati. Fu tale anticipazione un atto di avvedutezza. Egli aveva subo­
dorato serie contrarietà; se non avesse fatto così, nella commozione degli animi
seguitane a Torino poco dopo, Roma non avrebbe più potuto dare tanto presto
quel prezioso attestato.
Col passaporto firmato dai dodici Vescovi egli si credette autorizzato a far
stampare il Regolamento con tutti gli annessi e connessi. Mandato dunque l ’ori­
ginale alla curia torinese per la revisione e per il nulla osta, gli si ordinò di sospen­
dere. Intanto ai Vescovi delle province ecclesiastiche di Torino, di Vercelli e di
Genova fu diramata una circolare, con cui erano pregati di sottoscrivere una pro­
testa da inviare alla Santa Sede contro l ’Opera. Si temeva da taluno che ne dovesse
derivare la rovina dei piccoli seminari. Le principali ragioni addotte erano due,
■che cioè Don Bosco, pur fissando la pensione a lire ventiquattro mensili, avrebbe
ricevuto allievi anche con minore retta e forse gratuitamente, e che pur dicendo
di accettare soltanto individui dai sedici a trent’anni, ne avrebbe poi accettati
anche più giovani; donde una concorrenza, alla quale i seminari non avrebbero
potuto far fronte. Da Torino e da Ivrea partirono inoltre per Roma energiche
rimostranze, indirizzate al cardinale Bizzarri, Prefetto della Congregazione dei
Vescovi e Regolari, a fine di scongiurare il paventato pericolo.
Don Bosco seppe tutto, anzi conobbe il tenore preciso tanto di quella protesta
che di queste rimostranze; ma senza perdere la sua calma fece seguire le proprie
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31.10 Page 310

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difese, formulate con molta dignità e moderazione. Poi, forte dell’incoraggiamento
pontificio e volendo che per l ’imminente anno scolastico il Regolamento fosse
stampato e vista l ’impossibilità di farlo stampare a Torino, se la intese con mon­
signor Manacorda, Vescovo di Fossano. Un analogo divieto gli aveva già con­
sigliato il medesimo espediente per l ’opuscolo sui Cooperatori salesiani; que­
sto infatti uscì da una tipografia di Albenga col beneplacito di quell’autorità
ecclesiastica.
Il primo esperimento regolare si sarebbe dovuto compiere a ll’Oratorio in un
locale adiacente alla chiesa di Maria Ausiliatrice dal lato sinistro; ma Don Bosco,
per non suscitare un vespaio, accordatosi con l ’Arcivescovo di Genova, inaugurò
l ’Opera a Sampierdarena, dov’era già il suo ospizio di San Vincenzo de’ Paoli.
Sempre amico della pace, egli agì in questo alla luce del sole; poiché comunicò
rispettosamente al suo Ordinario la presa decisione scrivendogli il 29 settembre:
“ Affine di non cagionare nè dispiaceri nè disturbi a Vostra Ecc.za Rev.ma ho
cominciato in altra diocesi l ’Opera di Maria Ausiliatrice ” . Poi gli chiedeva licenza
di diffonderne i programmi nell’Archidiocesi, protestando che non l ’avrebbe fatto,
se non quando ne avesse avuto il debito permesso; onde lo pregava di volergli
concedere tale favore. Ma il permesso non venne.
Sull’aprirsi dell’anno scolastico 1875-76, benché la sede ufficiale dell’Opera
fosse a Sampierdarena, tuttavia Don Bosco ritenne ancora alcuni di quei giova­
notti n ell’Oratorio mescolati, come prima, coi ragazzi delle tre prime classi. Ma
nel mese di marzo, scelti i più attempati della seconda e della terza, ne formò una
sezione a parte con un programma speciale a base di italiano e di latino, e questo
nell’intento di accelerare per essi la fine del corso e prepararli alla vestizione chie-
ricale del prossimo novembre. Quella classe straordinaria fu denominata scuola
di fuoco per l ’ardore e la celerità con cui vi si divorava la via.
Le novità generano diffidenze. Nell’Oratorio stesso non tutti la pensavano
come Don Bosco sul conto dei Figli di Maria. Scarsa fiducia nutrivano taluni circa
la buona riuscita di soggetti, che venivano dalla caserma od erano spesso rozzi
operai e contadini. Don Bosco non soleva dire tutto a tutti, nè tutto a un tratto,
ma a seconda delle convenienze e in quanto sperava di essere ben compreso. Chi
aveva l ’abitudine di rimettersi a lui, badava a fare com’egli voleva nella sicura
certezza che fosse per il meglio ; altri invece trovavano a ridire. Ma egli tirava innanzi.
Certo era difficile allora prevedere quanti e quali figliuoli di Abramo il suo zelo
avrebbe saputo cavare fino da selci, secondo la frase evangelica.
Intanto, affinchè quegli eccezionali studenti fossero meglio aiutati e governati,
Don Bosco ne affidò la direzione a un ’anima santa. Era venuto nell’Oratorio
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32.1 Page 311

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Don Guanella per apprendere da lui la maniera di dar vita a un ’opera che vaga­
mente si proponeva di fondare in Como, sua patria, e che poi fondò e propagò
largamente, denominandola dei Servi della Carità. Rimase egli quattro anni
all’obbedienza del Santo. Accettò dunque di buon grado l ’oneroso incarico, dis­
impegnandolo con diligenza e con frutto.
Don Bosco aveva sempre l ’occhio a Roma. Volendo animare le caritatevoli
persone che a tenore del programma cooperavano con lui nell’impresa, umiliò al
Papa una supplica, nella quale chiedeva per loro alcune speciali indulgenze. Da
Roma gli venne un Breve amplissimo, che avrebbe dovuto seppellire per sempre
qualsiasi opposizione esterna; ma purtroppo non fu così. Don Bosco però si
sgomentava così poco, che il 13 ottobre scriveva a Don Cagliero: “ A Nizza
Marittima abbiamo comperato uno stupendo edifizio, dove potremo accogliere
cento artigiani con altrettanti Figli di Maria
E veramente i risultati del 1876 non potevano essere più incoraggianti. Cento
erano in tutto gli allievi, dei quali trentacinque avevano compiuto il corso gin­
nasiale accelerato, cioè di tre anni. Dati gli esami, otto aspiravano allo stato reli­
gioso e sei alle Missioni estere, mentre ventuno passarono ai rispettivi seminari
diocesani.
Il sogno di Don Bosco era di poter destinare ai Figli di Maria una casa esclu­
sivamente per loro, situata non lungi dall’Oratorio; ma il suo desiderio non fu
tradotto in realtà se non nel 1883, quando venne preconizzato Arcivescovo di
Torino il Cardinale Alimonda. Nell’ottobre di quell’anno acquistò a Mathi Tori­
nese un edificio, nel quale concentrò i Figli di Maria sotto la direzione di Don
Filippo Rinaldi, già Figlio di Maria lui stesso a Sampierdarena e nei disegni della
Provvidenza destinato a essere terzo successore del Santo. Quivi però il locale si
manifestò subito troppo ristretto per il gran numero delle domande. Perciò nel
novembre del 1884, essendo pronto il grandioso fabbricato eretto accanto alla
nuova chiesa di S. Giovanni Evangelista in Torino, Don Bosco volle che là fosse
stabilita la sede centrale dell’Opera; con il che si avvantaggiarono la chiesa per il
servizio del culto e l ’oratorio festivo per l ’assistenza dei ragazzi e per i catechismi.
Don Bosco godeva finalmente di avere vicina a sè u n ’Opera, che tanto gli era
costata e da cui tanto si riprometteva ; quindi nel primo anno scolastico vi si recava
con certa frequenza, osservando come s’incamminassero le cose e scendendo talora
anche a visitare la cucina; quando poi non gli fu più possibile andarvi, chiamava
all’Oratorio il Direttore sia per essere da lui informato di tutto sia per impartirgli
norme opportune. Di queste norme una fu che per le accettazioni la retta non
contava nulla, quando si avessero buone informazioni.
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32.2 Page 312

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A S. Giovanni l ’Opera visse la sua età dell’oro; ne uscirono infatti sacerdoti
numerosi èd eletti, i quali nel clero tanto secolare che regolare fecero onore all’isti­
tuzione. Nel 1915 il gesuita padre Giuseppe Grisar, trattando delle Missioni dei
Salesiani in una rivista missionaria tedesca, fece un rilievo assai notevole, che,
mentre torna a gran lode dell’Opera, reca una splendida conferma circa l ’avvera­
mento delle speranze da Don Bosco in quella riposte. “ I Figli di Maria, scriveva
egli, sono per le Missioni Salesiane apprezzabili operai, perchè di solito dànno ad
esse giovani robusti, induriti alla fatica, i quali per seguire la loro vocazione do­
vettero già sostenere, la maggior parte, gravi sacrifici In seguito tali vivai di
vocazioni tardive sorsero anche fuori degli ambienti salesiani tanto in Italia che
all’estero.
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32.3 Page 313

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CAPO XXXII
MISSIONI ESTERE SALESIANE
M issioni salesiane, vivente Don Bosco, vogliono dire Patagonia e Terra del
Fuoco. Chi pensava allora ai miseri abitatori di quelle estreme plaghe del­
l ’America meridionale? I geografi ne avevano una nozione superficialissima. I Go­
verni argentino e cileno si curavano tanto poco degli Indi, che li escludevano dai
loro censimenti, come se non esistessero. Perfino a Roma eminenti prelati giudica­
vano utopie i disegni di Don Bosco; un cardinale disse ch’egli voleva mandar a evan­
gelizzare le erbe della Pampa. Don Bosco invece, assiduo lettore degli Annali della
Propagazione della Fede, sapeva da gran tempo, forse fino dal 1848, che colà vive­
vano popolazioni selvagge, a cui non risplendeva ancora la luce del Vangelo. Nelle
sue grandi aspirazioni missionarie, affrettava col cuore il giorno in cui avrebbe
potuto inviarvi banditori della divina parola, quando ebbe un sogno che molto lo
impressionò. Fra il ’71 e il ’72 gli parve di vedere turbe di esseri umani che per­
correvano senza posa u n ’immensa regione incolta e sconosciuta, chiusa a grandis­
sima distanza da una catena di scabrose montagne; vide pure Missionari salesiani
che si avvicinavano loro e n ’erano bene accolti. Di quei selvaggi gli uni apparivano
quasi nudi, d ’alta statura, d ’aspetto feroce, dai volti abbronzati o nerognoli, con
ispide chiome e armati di lunghe lance; altri indossavano larghi mantelli e stringe­
vano nel pugno fionde. I primi erano Indi della Patagonia e i secondi gauchos con i
loro ponchos e i loro lazos. Ma lì per lì Don Bosco ignorò chi fossero; onde alma­
naccava per saperlo, moltiplicando senza prò le ricerche.
Finalmente alcuni anni dopo la Provvidenza per vie inopinate gli svelò l ’arcano.
Nel 1874 il signor Gazzolo, console argentino a Savona, che aveva interessi a
Buenos Aires e s’interessava degl’italiani emigrati in quella capitale, fece conoscere
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32.4 Page 314

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Don Bosco e la sua Opera al suo amico Don Ceccarelli, parroco di S. Nicolás de
los Arroyos, ed all’Arcivescovo monsignor Aneyros, mostrando loro la convenienza
di trapiantare laggiù l ’istituzione del prete torinese. L’effetto fu immediato. Per­
vennero al Santo due lettere, in una delle quali l ’Arcivescovo lo pregava di man­
dargli alcuni de’ suoi a prendersi cura dei figli d’italiani assai numerosi nella me­
tropoli, e nell’altra il parroco a nome delle autorità locali lo invitava ad assumere
la direzione di un collegio testé edificato. Egli rispose subito che in massima accet­
tava, previa naturalmente l ’approvazione della Santa Sede.
Aderendo alle proposte così come gli erano fatte, Don Bosco non intese di
circoscrivere l ’azione dei Salesiani fra le genti civili, ma considerava quelle fon­
dazioni come due teste di ponte per arrivare ai selvaggi. Intanto s’accinse a studiare
la geografia del paese in pubblicazioni francesi. Benché queste fossero ancora assai
deficienti, pure scoperse che la regione e la popolazione del sogno erano proprio
là nella Patagonia. Tale scoperta lo riempì di consolazione.
Come dunque fu assicurato che in America non si movevano difficoltà alle
condizioni da lui poste, volle dare con grande apparato la notizia del prossimo
avvenimento. Fatti radunare nella grande sala di studio tutti quelli della casa, vi
si presentò circondato dai primari superiori della Società e avendo alla sua destra
il console argentino. Regnava là entro la più intensa curiosità e aspettazione. Con
il suo dire calmo, colorito e a volte quasi ispirato, espose quanto era corso fra lui
e l ’Argentina e quali fossero le sue intenzioni presenti e future. Chi non ne raccolse
l ’eco lontana dalle labbra di vecchi testimoni, stenta oggi a farsi un’idea dell’esplo­
sione di entusiasmo sprigionatosi dai petti all’udire che fra breve dall’Oratorio
sarebbero partiti Missionari per la Patagonia. I Salesiani anelavano di essere del
bel numero; nell’animo dei giovani grandeggiò oltre ogni dire il concetto che già
avevano di Don Bosco e della sua Opera e in moltissimi di loro si svilupparono
germi di vocazione.
Don Bosco il 14 febbraio 1875 partì per Roma. Gli toccò far prova di de­
strezza per vincere diffidenze non solo quanto alla possibilità dell’impresa in sé, ma
anche riguardo alla capacità sua di affrontarla. Da ultimo ebbe vittoria completa,
coronata dal beneplacito pontificio. Di là, pieno di gioia, scriveva al direttore del
collegio di Valsalice: Mio caro D. Dalmazzo, messis multa, messis multa! Di’ ai
tuoi allievi che si facciano tutti santi e valenti Missionari, ma tali che uno valga
per cento ” .
Cominciò quindi per Don Bosco un lavorìo nuovo, aggiunto a tutto il rima­
nente: predisporre a Buenos Aires le cose in modo che i suoi figli non vi capitas­
sero come stranieri fra stranieri, ma vi giungessero come amici fra amici; prevedere

32.5 Page 315

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e provvedere quanto potrebbe loro occorrere, allorché si trovassero isolati e così
lungi dalla casa paterna; ottenere da Roma grazie e privilegi indispensabili nella
nuova condizione di vita; interessare il Governo italiano; muovere alla ricerca dei
mezzi pecuniari, battendo a tutte le porte; scegliere, preparare e sostituire i sog­
getti da inviare. A capitanare la spedizione destinò Don Cagliero con il mandato
di collocare convenientemente i Confratelli, fermarsi il tempo necessario per l ’av­
viamento delle opere e poi fare ritorno a Torino. Le opere erano due: l ’assistenza
degli Italiani in Buenos Aires con l ’amministrazione della loro chiesa nazionale di
Maria M ater M isericordiae, titolo derivatole dal Santuario omonimo di Savona, e
il già accennato collegio a San Nicolás de los Arroyos, grosso comune poco di­
stante dalla capitale. Don Cagliero avrebbe posto la sua residenza nella città e Don
Fagnano avrebbe assunto la direzione del collegio. Si preparavano a partire con
loro altri quattro preti e altrettanti coadiutori.
Avvicinandosi la data della partenza, Don Bosco li mandò a ricevere la bene­
dizione dal Vicario di Gesù Cristo. Di quella visita è memoria in un Breve ponti­
ficio del 17 novembre, nel quale si leggono queste parole: “ Negli ultimi giorni
del mese di ottobre abbiamo ricevuto con piacere le tue lettere ed abbiamo abbrac­
ciato con benevolenza paterna i Missionari, che ci raccomandavi e che ci furono
presentati col diletto Figlio G. B. Gazzolo. Dalla loro presenza e dalle loro parole
si accrebbe in Noi la fiducia che già avevamo, che le loro fatiche in quei lontani
paesi, ove sono avviati, saranno fruttuose e salutari ai fedeli
L’ 11 novembre tutto l ’Oratorio era in fermento. Oggi vi si è avvezzi a vedere
partenze e arrivi di ogni fatta, senza che quasi ci si badi; ma nel 1875 si era appena
ai primi albori della grande storia. Una spedizione di Missionari in fondo a ll’Ame­
rica aveva allora qualche cosa di epico agli occhi degli abitatori di Valdocco.
Nel pomeriggio di quel giorno i Torinesi furono spettatori di una novità senza
precedente. La chiesa di Maria Ausiliatrice era gremita di fedeli. A l Magnificat del
vespro i Missionari fecero a due a due l ’ingresso nel presbiterio, occupando i posti
per loro preparati; i sacerdoti vestivano alla spagnola, i laici erano in abito nero;
tutt’attorno assistevano in cotta i preti dell’Oratorio e i direttori delle case sale­
siane. Don Bosco parlò dal pulpito commovendo vivamente l ’uditorio.
Impartita la benedizione col Santissimo, i cantori intonarono il Veni Creator;
quindi Don Bosco recitò d all’altare le preci dei pellegrinanti e diede ai Missionari
la sua paterna benedizione. Ciò fatto, mentre un coro giovanile eseguiva d all’o r
chestra un mottetto, nel presbiterio fra l ’emozione generale il buon padre e tutti
i sacerdoti davano l ’estremo abbraccio ai partenti. La commozione si accrebbe,
quando i dieci Missionari per la chiesa sfilavano verso l ’uscita fra i giovani e il
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32.6 Page 316

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popolo, che facevano ressa per baciar loro le mani e le vesti. Il Santo li seguì fin
sulla soglia della porta, donde girò lo sguardo sulla folla che riempiva la piazza e
poi lo posò sulle carrozze che portavano via i suoi figli. Cominciava l ’avveramento
dell’inde gloria mea.
I Missionari salparono da Genova, benedetti ancora una volta da Don Bosco
a bordo. Subito dopo una brutta sorpresa attendeva il Santo. Un attacco miliarico
lo obbligò a fermarsi nel collegio di Varazze, come nel 1872. Dopo quell’anno, di
quando in quando, per gravi fatiche o per mal tempo gli rispuntavano le pustolette,
accompagnate da accessi febbrili con forte dolore di capo e insonnia. Quasi sempre
gli si cambiava la pelle su gran parte della persona; ma poiché egli sopportava l ’in­
comodo lavorando, ben pochi solevano accorgersi del suo stato di sofferenza. Allora
n’ebbe solo per pochi giorni. Tornò all’Oratorio la sera del 6 dicembre. Dice la
cronaca: “ È sempre caro l ’avere Don Bosco con noi; ma quando sta via oltre quin­
dici giorni, il suo ritorno ci sembra più che carissimo Dopo la cena ascoltò
secondo il solito quanto gli si venne a dire ed espresse il suo avviso su negozi
lasciati in sospeso. Infine, fatti radunare tutti quei della casa nel luogo delle pre­
ghiere serali, al termine di queste raccontò le ultime vicende dei Missionari e
comunicò le notizie pervenutegli del loro viaggio da Genova per Marsiglia a Gibil­
terra. La cronaca avverte che le sue parole destarono un incendio nei cuori.
I trentamila Italiani di Buenos Aires accolsero i connazionali con dimostrazioni
straordinarie di allegrezza. Don Cagliero, resosi presto padrone della lingua, si
dedicò tutto a loro. Elementi massonici, che tentavano di dominare la colonia,
non poterono nulla contro il sacerdote eloquente, ardimentoso e fornito di risorse
a dovizia. Anche a San Nicolás lavoravano molti Italiani. Il direttore e i suoi
aiutanti vi si affermarono egregiamente, guadagnandosi la fiducia universale.
Don Cagliero fu richiamato nell’agosto del 1877. Mercè il contingente di una
seconda spedizione guidata da Don Lasagna egli aveva potuto sviluppare le due
prime opere e aggiungerne due nuove, cioè un collegio a Villa Colón presso Monte­
video nell’Uruguay e una casa di arti e mestieri a Buenos Aires, destinati l ’uno e
l ’altra a glorioso avvenire. Due mesi dopo il suo ritorno, partì una terza spedizione
condotta da Don Costamagna, che accompagnò pure nell’Argentina le prime sei
Figlie di Maria Ausiliatrice. Un altro rinforzo di Salesiani e di Suore Don Bosco
spedì nel 1878. Ogni volta la funzione dell’addio faceva affluire alla chiesa di Val-
docco moltitudini di Torinesi. Nell’Italia superiore nulla ebbe mai l’efficacia di tali
cerimonie per popolarizzare l ’idea missionaria.
Quante brighe costava a Don Bosco l ’allestire siffatte spedizioni! Quello che
aveva scritto a Don Cagliero mentre preparava la seconda, lo poteva ripetere per
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tutte le altre: “ 1 son mes ciuc [sono mezzo ubriaco]. Ma niente importa. Dio ci
aiuta e ogni cosa procede in modo che i profani direbbero che ha del favoloso,
e noi diciamo che ha del prodigioso. Dio ci continui la sua grazia, perchè ci con­
serviamo sempre più degni dei suoi favori ” .
Tutto il personale testé menzionato veniva assorbito dalle comunità preesi­
stenti, le cui attività prendevano proporzioni sempre più vaste in scuole, oratorii
festivi, opere del sacro ministero e ufficiature di pubbliche chiese. Ma le vere
Missioni non cominciavano ancora. Don Bosco non cessava d ’insistere che s’an­
dasse presto agli Indi. Si lamentava con santa impazienza con i suoi di laggiù, che
non lo comprendessero; incalzava dicendo essere quello il volere del Papa. Volerlo
Iddio. Si movessero dunque; si presentassero al Governo argentino e parlassero,
parlassero, finché si aprisse loro la via alle Missioni.
Per secondarne i desideri l ’Arcivescovo bonariense, nella cui giurisdizione
erano le immensità della Pampa e della Patagonia, stabilì nel 1878 che il suo segre­
tario monsignor Espinoza e due salesiani tentassero un primo approccio. Don
Bodratto, succeduto a Don Cagliero, vi designò Don Costamagna e Don Raba-
gliati. S ’imbarcarono il 17 marzo sul Rio Paraná e proseguirono sul Rio della Piata;
ma quando la nave era entrata nell’Oceano Atlantico, il vento pampèro scatenò
una burrasca orribile, che ne schiantò le vele, ne divelse i parapetti e ne infranse
il timone. Fu un miracolo che non si andasse a sfracellare contro uno scoglio o
non si sfasciasse. Come Dio volle, tornata la calma, il povero legno, con una navi­
gazione di fortuna durata tre giorni, arrivò al lido. Don Bosco dopo tale notizia
scrisse a Don Costamagna: Benediciamo il Signore che ci ha salvati. È uno spe­
rimento terribile, ma questo è un segno che dovrai riuscire ” .
Vi riuscì difatti nel 1879. Mentre monsignor Espinoza e Don Costamagna
con un chierico studiavano un itinerario per le vie di terra, ecco una felice con­
giuntura. Il Governo stava per intraprendere una spedizione militare con lo scopo
di domare gli Indi nella zona compresa fra il Rio Negro e le Ande, cioè tutta la
Pampa e parte della Patagonia settentrionale, e aprire il territorio alla colonizza­
zione. L’esercito era comandato dal Generale Roca, ministro della guerra. Sapu­
tosi che nella stessa direzione si volevano inviare Missionari, il ministero offerse
a ll’Arcivescovo di nominare cappellani militari i suddetti. Opportunità migliore
non si poteva desiderare.
Le forze armate avevano per punto di concentramento il Carhué, località
situata nel cuore della Pampa e segnante il limite occidentale della frontiera argen­
tina col territorio degli Indi. Due tribù pacificate abitavano alla periferia. I Mis­
sionari si portarono colà, ricevuti molto bene dai due cacichi, i quali permisero
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32.8 Page 318

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loro di radunare i ragazzi per catechizzarli. Dopo un termine conveniente fu ammi­
nistrato il battesimo a indietti e a figli di cristiani dimoranti nelle vicinanze.
Di là i nostri seguirono un battaglione diretto al Rio Negro, linea di confine
della Patagonia settentrionale. Fu una marcia di trenta giorni, a schiena di cavallo
e fra gravissimi disagi. Don Costamagna, il più ardente dei tre, precedette i com­
pagni alla riva del fiume, mettendosi a contatto con gruppi di Indi adulti. Si fece
una tappa a Choèle-Choèl. Ivi il 1° giugno, sacro alla Pentecoste, in una bellissima
pianura e sotto la distesa d ’un cielo opalino, fu celebrato per la prima volta il divin
sacrificio, ai margini della Patagonia, dinanzi al Generale con il suo Stato maggiore
e le milizie. Dopo la Messa, il canto del Te Deum echeggiò per quelle lande sconfi­
nate, e ricevettero il battesimo sessanta indi. Il dì appresso Don Costamagna bat­
tezzò ventidue indietti e quattordici indie adulte e altri nove indi il giorno 4-
Quella tappa venne considerata come la presa di possesso della Patagonia da parte
dei Missionari salesiani.
Levate le tende, si ripigliò la marcia alla volta di Patagónes, dove fu ordinato
l ’alt finale. Qui doveva essere il punto di partenza per le future Missioni.
Patagónes aveva circa un secolo di vita, con una popolazione di quattromila
anime. La città era divisa in due dal Rio Negro e distava una cinquantina di chi­
lometri dall’Atlantico. La parte sulla sinistra del fiume si denominava Carmen de
Patagónes o semplicemente Patagónes e l ’altra sulla destra Mercedes de Patagonia,
o semplicemente Mercedes, ma chiamata dal 1879 in poi Viedma.
Chi avrebbe detto che in quell’angolo remoto del globo terracqueo vivesse un
ex allievo salesiano? Si chiamava Antonio Calamaro, nativo di Voltri e già con­
vittore a Lanzo. Essendo il 23 giugno, vigilia dell’onomastico di Don Bosco, egli
si mise a cantare un inno di occasione, imparato quattordici anni prima.
I Missionari non istettero oziosi; ma per allora avevano fatto abbastanza.
Ritornati sui loro passi, rientrarono in Buenos Aires alla fine di luglio. Il racconto
di quanto erasi operato in tre mesi e mezzo di peregrinazioni, infiammò talmente
l ’Arcivescovo che il 5 agosto ne scrisse una diffusa relazione a Don Bosco esordendo
così: È finalmente giunta l ’ora in cui le posso offrire la missione della Patagonia
che le stava tanto a cuore, come anche la parrocchia di Patagónes che alla missione
può servire di centro ” . Don Bosco che non aspettava altro, diede ordine di prov­
vedere quanto prima allo stabilimento di una residenza centrale per Salesiani e
Suore nel luogo indicato dall’Arcivescovo. “ Tutti insieme ci occuperemo dei mezzi
materiali ”, aggiungeva scrivendo a Don Costamagna il 31 agosto. E a tutti i Soci
fece scrivere da Don Rua: “ Le porte della Patagonia sono aperte ai Salesiani ” .
Nella circolare poi del capo d’anno partecipò ai Cooperatori la lieta notizia
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32.9 Page 319

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dicendo: “ Il campo più glorioso che in questi momenti la Divina Provvidenza pre­
senta alla vostra carità è la Patagonia. In quelle ultime regioni del globo finora non
poterono penetrare gli operai del Vangelo per annunciare la fede di Gesù Cristo.
Ora par che sia giunto il tempo di misericordia per quei selvaggi. Monsignor
Aneyros, Arcivescovo di Buenos Aires, d ’accordo col Governo Argentino ci invita
formalmente a prendere cura dei Patagoni e io pieno di fiducia in Dio e nella vostra
carità ho accettato l ’ardua impresa
La Patagonia di oggi non è la Patagonia di settant’anni fa. Guai a chi si avven­
turava in quelle plaghe, dove i bianchi erano ritenuti e trattati quali prepotenti
invasori! Nè stavano al sicuro gli abitanti delle zone limitrofe incivilite, essendo
continuamente esposte alle indiadas o scorrerie di quei barbari, le cui orde, piom­
bando sulle opime mandre dei coloni argentini, rubavano il bestiame per andare
a venderlo ai Cileni, privi di carne da macello. Non parliamo poi degli assalti ai
piccoli centri disseminati a grandissime distanze per la campagna: erano rapine,
incendi e massacri da far inorridire.
Il terrore delle carabine, ricacciando gl’indigeni nelle gole della Cordigliera e
in rifugi lungo le rive dei grandi fiumi meridionali, dischiuse alla colonizzazione
regioni sconfinate, che d ’allora in poi si vennero popolando e trasformando. In
quest’opera di civiltà ebbero una parte di prim ’ordine i Salesiani, che dopo il
passaggio delle truppe si fissarono in luoghi opportuni, donde organizzare l ’assi­
stenza religiosa e civile dei coloni e agire sulle tribù superstiti. Queste, serrate
sempre intorno ai loro cacichi, s’avvezzarono a ravvisare nei Missionari i loro
migliori amici, che, mentre portavano ad essi la vera fede, si studiavano d ’acco­
stare amichevolmente i vinti ai vincitori con loro reciproco vantaggio.
Il numero degli Indi non era così infinito com’essi pretendevano di dare a
intendere, quando, armati e stretti in selvaggia confederazione, minacciavano il
Governo della Repubblica Argentina, quasi fossero in grado d ’imporsi anche a ’
suoi eserciti. In realtà superavano gli ottantamila.
Padroni assoluti delle loro misteriose solitudini, scorgevano un pericolo di
asservimento anche nella religione dei bianchi; perciò nessun Missionario ne aveva
attraversato incolume le tolderie o villaggi di capanne, sicché l ’inutilità del sacrificio
ratteneva i banditori del Vangelo dall’inoltrarsi su d ’un terreno tanto infido.
Per tal modo l ’orgoglio degli Indi, cresciuto sino alla follia, li inebriava al
punto che si credevano padroni intangibili dei loro deserti, immaginando che nes­
suno mai avrebbe osato inoltrarvisi senza cadere sotto i loro colpi. A rompere
l ’incanto e a levare di mezzo quelFincubo continuo era ordinata la campagna
del 1879, che si protrasse fino al 1881.
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32.10 Page 320

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Fiaccata la baldanza degli Indi, rimaneva la natura del paese a opporre bar­
riere pressoché insormontabili. Nella zona litorale un arenoso deserto, battuto
da venti turbinosi che v’innalzano monti di sabbia detti médanos; nella zona centrale
una serie di altipiani e terrazze, poverissimi di vegetazione, rotti da lagune salmastre
e digradanti in sterminate lande sabbiose, le così dette traversias, prive d’acqua e
con miseri rudimenti vegetali: a passarci d’estate, l ’afa soffoca; la polvere acceca
e mozza il respiro, la sete fa basire uomini e cavalli. Vi sarebbe la zona andina,
che, chiusa fra le precordigliere argentine e la Cordigliera Reale del Cile, si abbella
di boschi e prati ed è rallegrata da torrenti e laghi e presenta panorami di una
grandiosità fantastica: ma al tempo delle prime Missioni non esistevano vie d’ac­
cesso. Orbene in terre siffatte i Salesiani assistettero al formarsi del nuovo popolo
patagonico, potentemente contribuendo al suo progressivo sviluppo con le loro
chiese, alla cui ombra benefica si adagiavano o accorrevano i coloni, con le loro
scuole professionali e agrarie per figli di bianchi e di Indi, con le loro iniziative
agricole, con i primi ospedali e perfino con i primi giornali.
La vera storia delle Missioni patagoniche principiò con le due fondazioni sale­
siane di Patagónes e di Viedma. Per nove anni queste rimasero le sole: non ci volle
minor tempo per preparare un piano ben regolato di attività missionaria. Da quei
punti strategici i Salesiani con sacrifici eroici, seguendo il corso dei grandi fiumi,
s’inoltrarono per vallate, colline e montagne a visitare i toldos degli Indi e le fazendas
dei civilizzati, nonché le colonie che vi venivano organizzando in ogni parte. Esplo­
rato il paese, sceglievano le località più adatte per stazioni missionarie, stendendo
una rete di residenze che permisero loro di correre in lungo e in largo la Patagonia
settentrionale e centrale e la Pampa, sicché tutti gli Indi furono rigenerati nelle
acque battesimali, come si dirà più innanzi, dove parleremo pure della Patagonia
meridionale e della Terra del Fuoco. Don Bosco seguì, fino all’estremo della vita,
con l ’incoraggiamento, col consiglio, con l ’aiuto di denaro e di personale e con la
preghiera i passi de’ suoi figli che in ultimis finibus terrae promovevano indefessa­
mente così importanti opere di fede e di civiltà.
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33 Pages 321-330

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33.1 Page 321

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CAPO XXXIII
DAL TRAMONTO DI UN PONTIFICATO
AGLI ALBORI DELL’ALTRO
D'on Bosco si recava sempre volentieri a Roma; tuttavia nel dicembre del 1877
vi andò con l ’animo attristato dal motivo del viaggio e da funeste appren­
sioni. Per consiglio di personaggi benevoli e altolocati si era deciso a prendere ivi
personalmente le proprie difese da continue e gravi imputazioni. Nulla gli ripugnava
più che l ’entrare in controversie; ma allora il lasciar correre avrebbe pregiudicato
oltremodo e forse irreparabilmente le sorti della Società salesiana in quel delicato
periodo del suo definitivo organizzarsi. Oltre a questo, prima di partire, aveva
proferito in pubblico parole di colore oscuro, dalle quali parve lecito arguire che
egli prevedesse la morte non lontana dei supremi rappresentanti della Chiesa e
dello Stato, come difatti avvenne durante il tempo della sua dimora a Roma: due
catastrofi sopraggiunte nella loro rapidità improvvise.
Si trovava là da una quindicina di giorni, quando l ’8 gennaio fulminea partì
dal Quirinale la notizia che Vittorio Emanuele II versava in gravi condizioni, e il 9,
che il Re non era più. Quel lutto così inopinato sembrò spiegare il perchè di una
disposizione data da Don Bosco verso la fine del 1877. Dal 1862 non si udivano
quasi più nelle chiese del Piemonte le preci liturgiche per il Sovrano; nell’ofiiciatura
del venerdì e sabato santo e in altre sacre funzioni il nome del Re non veniva più
pronunciato pubblicamente. Sulle prime alcuni avevano denunciato il fatto al Go­
verno; ma nel 1863 ai 24 di marzo il ministro Pisanelli dichiarò che quella omis­
sione non costituiva reato passibile di pena. Anche nell’Oratorio si faceva così;
ma Don Bosco, alcuni giorni prima di andare a Roma, senza dirne la ragione,
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33.2 Page 322

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aveva ordinato di ripigliare VOremus prò rege nella benedizione della sera. Si cre­
dette dunque di scorgere in quell’atto un presagio dei bisogni spirituali, a cui
sarebbe andata prossimamente incontro l ’anima del Re. Da Roma Don Bosco,
scrivendo dell’augusto defunto al conte Cays, diceva: “ Avvi grave motivo di
benedire il Signore. Col ricevere i santi sacramenti assicurò, speriamo, la sal­
vezza dell’anima sua ” (1).
Frattanto sentiva purtroppo che in Vaticano egli non godeva più il favore di
prima presso alcuni prelati, nell’animo dei quali avevano fatto breccia le accuse
contro di lui. Arrivato il 22 dicembre, alla fine di gennaio non aveva ancora otte­
nuto di vedere il Papa. Scrisse allora laconicamente a Don Rua: “ Pasticci, disturbi
lunghi, ma molto utili. Silenzio, preghiera, niun timore ” .
Presagendo che anche i giorni di Pio IX erano contati, gli premeva oltre ogni
dire di portarsi ancora una volta alla presenza del suo più grande benefattore.
E il Papa a sua volta aspettava lui; infatti, come si seppe di poi, egli si era lamen­
tato dicendo: — So che Don Bosco si trova a Roma e non viene neppure a ve­
dermi; e io ho cose importanti da dirgli. Io non l ’ho trattato così Don Bosco,
Oh, l ’ho trattato meglio iol — Ma tutte le istanze per avere l ’udienza si perdevano
per via, lasciandolo senza risposta.
Pio IX il 2 febbraio, ricevendo i parroci di Roma e i rappresentanti dei Capi­
toli e degli Ordini religiosi per la consueta offerta dei ceri, pronunciò con voce
limpida un discorso, che chiuse col raccomandare caldamente l ’istruzione religiosa
dei fanciulli. In quella festa della Madonna, che segnava il sessantacinquesimo
anniversario della sua prima comunione, a Roma e fuori fu un accorrere di fedeli
e specialmente di giovanetti alla sacra mensa, con l ’intenzione di pregare per il
Papa. Quelle preghiere di tante anime buone e di tanti fanciulli innocenti lo dove­
vano accompagnare all’eternità.
Nella notte del 7 seguente, il male che da tempo lo travagliava si acuì d’im­
provviso. La mattina gli furono amministrati gli ultimi sacramenti e nel pomeriggio
l ’angelico Pontefice si addormentò nel Signore. II 7 febbraio dell’anno antecedente
era parso a Don Bosco in sogno di assistere nella stessa ora alla scomparsa del
Papa dalla scena della vita, come aveva narrato il dì appresso ai direttori convenuti
per le annuali conferenze. La sera stessa della morte scrisse a monsignor Rosaz,
(1) Una relazione circostanziata sulla fine del Re fu allora dal Santo consegnata al Cardinale
Segretario di Stato. Le notizie gli erano state comunicate da un suo parente castelnovese, addetto
alla persona di Sua Maestà anche durante la malattia. Il documento esiste negli archivi della
Segreteria di Stato, ma non è ancora trascorso il tempo ivi richièsto per rendere di pubblica
ragione corrispondenze confidenziali.
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33.3 Page 323

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Vescovo eletto di Susa: <£Oggi alle tre e mezzo si estingueva il sommo ed incom­
parabile astro della Chiesa Pio IX. I giornali ne daranno i particolari. Roma è
tutta in costernazione e credo lo stesso in tutto il mondo. Entro brevissimo tempo
sarà certamente sugli altari
Il Papa che non potè rivedere vivo, egli lo contemplò estinto. La venerata
salma stette esposta quattro giorni in San Pietro. L’onda del popolo fu immensa
ed ininterrotta. Don Bosco la visitò il 12. Dinanzi a quella spoglia mortale pregò,
baciò con somma riverenza il sacro piede e venne via con uno stringimento al
cuore. Quanti ricordi gli si affollavano alla mente! Delle molte e svariate sue rela­
zioni col lacrimatissimo Pontefice è troppo poco quello che si sa, e di questo
poco una piccola parte soltanto ha potuto trovare luogo nel presente libro; ma
tanto basta a far intendere quanto egli sentisse la grave perdita. Ora la sua alta
protezione gli veniva a mancare proprio in un momento dei più critici.
Rientrato nella sua abitazione presso le nobili Oblate di Tor de’ Specchi, lo
intenerì un estremo tratto di bontà usatogli dal defunto Pontefice. Il 27 gennaio,
disperando di poter essere ricevuto, gli aveva indirizzato una supplica per una
onorificenza ad un benefattore. Ed ecco là sullo scrittoio il Breve firmato dal Papa
il 29, rinvenuto fra le sue carte e rimessogli da un segretario. Si concedeva con
esso la commenda di San Gregorio Magno al conte Prospero Balbo.
La presenza di Don Bosco a Roma in quella congiuntura storica fu provviden­
ziale. Durante i novendiali, massima preoccupazione del Sacro Collegio erano i
preparativi per il Conclave. Gli eminentissimi Elettori si sarebbero potuti riunire
a Roma? E l ’elezione si sarebbe svolta libera e tranquilla, cioè senza tum ulti di
piazza e senza mene o pressioni o ingerenze di qualsiasi genere da parte dei Gover­
nanti? Nella stampa e in comizi si stimolava il Governo italiano ad immischiarvisi,
in onta alla legge delle guarentige, che glielo vietava; si succedevano pure qua e
là clamorose dimostrazioni settarie al grido di “ Abbasso le guarentige! ” . Per
questi ed altri motivi il Governo non era scevro d ’inquietudine.
In giorni di sì trepida incertezza l ’opera di Don Bosco tornò assai preziosa.
È certo che egli ricevette l ’incarico di esplorare quali fossero le reali intenzioni go­
vernative. La missione si svolse in forma tutta confidenziale e puramente orale,
senza la menoma ombra di ufficialità. La ebbe probabilmente dal cardinale Di
Pietro, che, quale Decano del Sacro Collegio, si occupò subito della questione
circa il luogo del prossimo Conclave. A lui il guardasigilli Mancini erasi affrettato,
è vero, a indirizzare una lettera riservatissima, e resa di pubblica ragione recente­
mente dal Soderini nella sua V ita di Leone XIII, per assicurarlo che il Governo
italiano non avrebbe ostacolato in Roma la libertà del Sacro Collegio; ma questa
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33.4 Page 324

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comunicazione non rendeva inutile l ’azione di Don Bosco. Infatti il Cardinale non
ignorava come il Crispi, allora Ministro degli Interni, avesse durante la discussione
sulla legge delle guarentige sostenuto in pieno parlamento la necessità per le auto­
rità italiane d’invigilare i Conclavi; sentiva quindi la convenienza di esplorarne
l ’animo per accertarsi se il pensiero del governo rispondesse effettivamente alle
assicurazioni date per iscritto. Ora a conseguire l ’intento non c’era persona più
adatta di Don Bosco. Il Cardinale, che ne conosceva l ’abilità e la prudenza da
quando, Vescovo di Albano, aveva trattato con lui per le scuole al medesimo
affidate nella sua diocesi, ne condivideva pure le idee conciliative circa i rapporti
desiderabili fra la Santa Sede e lo Stato italiano per il bene delle anime.
Don Bosco si presentò dùnque in primo luogo al ministro Mancini; ma questi,
sebbene lo conoscesse, lo ricevette in modo così scortese da non degnarsi neppure
di volgere verso di lui la faccia. Alle rispettose domande di Don Bosco dava risposte
secche, talora ironiche e sprezzanti, sicché quegli nel ritirarsi credette doveroso
dirgli con tutta calma che, se non altro, rispettasse almeno coloro che l ’avevano
mandato.
Si trattava di affrontare un’esperienza nuova e grave di conseguenze. I partiti,
tutti più o meno anticlericali, tenevano gli occhi sulle autorità responsabili. E
timore di compromettersi turbava la serenità degli animi.
Ma Don Bosco aveva incarico di avvicinare specialmente il ministro degli
interni. L’accoglienza avuta fu ben poco incoraggiante. Il Crispi, fingendo di non
sapere chi fosse, gli parlava burbero e diffidente. Allo stringere dei conti però,
intuì che c’era sotto qualche cosa di serio e gli domandò chi l ’avesse mandato►
Don Bosco, secondochè egli stesso narrava, gli rispose pacatamente: — Non cerchi
di questo. Io ho bisogno di una pronta risposta. Se il Governo non intende di
garantire al Conclave piena ed assoluta libertà, è necessario che io lo sappia subito.
I Cardinali vogliono senza indugio prendere una decisione. Per ogni evento fu
stabilita già ogni cosa; perchè il Conclave si radunerà subito e infallantemente a
Venezia o a Vienna o altrove, secondo le circostanze. Mi permetto però di far
osservare a Vostra Eccellenza che è loro interesse che il Papa venga eletto a Roma.
Non dimentichino però loro signori la legge delle guarentige, e che le Potenze
europee stanno osservando lo svolgimento di un fatto che interessa tutto il mondo.
Il Crispi, uomo superiore, stette alquanto in atto di chi riflette; poi, alzatosi,
porse la mano a Don Bosco dicendo: — Assicuri pure da parte mia i Cardinali*
che il Governo rispetterà e farà rispettare il Conclave, e che l ’ordine pubblico non
sarà menomamente turbato. — Ciò detto, si rimise a sedere e, invitato Don Bosco
a fare il medesimo, prese a discorrere familiarmente di Torino e dell’antico Ora­
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33.5 Page 325

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torio di Valdocco. Egli aveva conosciuto l ’Oratorio nel 1852, quando, esule poli­
tico, abitava in un modesto alloggio sulla via delle Orfane presso la Consolata.
Mostrò di ricordare quegli anni lontani, in cui soleva parlare con Don Bosco,
riceverne conforti e caritatevoli soccorsi ed anche confessarsi da lui. Il colloquio
non poteva terminare con maggiore cordialità.
Don Bosco si affrettò a rendere conto della sua missione. La risposta del
ministro fu trovata soddisfacente. Il Crispi aveva polso fermo. Infatti, come disse,
così fece. Grazie alla sua energia, i cominciati turbamenti dell’ordine pubblico
cessarono in un batter d ’occhio.
Nel Vaticano Don Bosco ebbe in quei giorni un incontro singolare. Lo rac­
conta egli stesso in un libro, di cui si dirà fra breve; non vi fa però il suo nome,
ma accenna semplicemente a un prete piemontese. Gli premeva di conferire col
cardinale Simeoni, Prefetto di Propaganda, nè sapendo come o dove trovarlo, si
aggirava per sale e gallerie, parendogli di essere in un cantiere. Muratori e falegnami
in quei sontuosi ambienti costruivano file di cellette come per seminaristi. Dapper­
tutto operai intenti a lavorare dì e notte per preparare alloggi a parecchie centinaia
di persone. Tutto era da improvvisare in angustia di tempo e di spazio. Ai lavori
soprintendeva il cardinale Pecci, Camerlengo di Santa Romana Chiesa. In lui
s ’imbattè Don Bosco, che, avvicinatosi, gli disse con accento filiale: — Vostra
Eminenza mi permetterà che le baci la mano, pregando con ferma speranza che
entro a pochi giorni io possa baciarle il sacro piede.
— Badate a quello che fate, gli rispose il Cardinale. Vi proibisco di pregare
per quel che dite.
— Ella non può impedirmi di chiedere a Dio quello che a Lui piace.
— Se voi pregate in questo senso, vi minaccio le censure.
— Ella finora non ha l ’autorità d ’infliggere censure. Quando l ’abbia, saprò
rispettarla.
— È tempo di lavorare e non di burlare.
Così dicendo, Sua Eminenza passò oltre.
I Cardinali cominciarono lo scrutinio il 19 febbraio e la mattina del 20 il
cardinale Gioachino Pecci era già eletto Papa. Prese il nome di Leone XIII in me­
moria di Leone XII, del quale serbava grata memoria. Don Bosco non lasciò pas­
sare ventiquattr’ore senza esprimere per lettera i suoi devoti sentimenti al novello
Vicario di Cristo. Porgendo i voti della Società salesiana, diceva: “ Questa Con­
gregazione è stata consigliata, diretta, approvata dalla veneranda memoria di Pio IX,
ma ha tuttora bisogno della protezione di Vostra Santità, affinchè possa conseguire
la stabilità necessaria a promuovere la maggior gloria di Dio
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33.6 Page 326

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La prima udienza pubblica fu accordata il 23 a uno stuolo di pellegrini francesi.
Per assistere al passaggio del Santo Padre, mentre si sarebbe recato da loro, mol-
tissime persone erano state ammesse a schierarsi lungo le anticamere; nel numero
trovavasi pure Don Bosco col suo segretario. Il Papa gli rivolse alcune benevole
espressioni. Ciò nonostante è fuor di dubbio che nei primi giorni del suo Pontifir
cato egli era mal prevenuto verso di lui, tanto che non lo voleva ricevere in udienza
privata. Monsignor Manacorda, Vescovo di Fossano, tastò più volte il terreno; ma
appena apriva la bocca per nominare Don Bosco, il Papa mutava discorso. Ci volle
insomma un po’ di tempo per togliergli dall’animo i preconcetti insinuati da altri.
Don Bosco non intendeva di partire da Roma senza il conforto di un’udienza
particolare. Stanco di aspettare una risposta che non veniva mai, ne mosse lamento
col cardinale Oreglia di S. Stefano, zio di quel cavaliere Oreglia, a noi già noto
e resosi poi gesuita. Il Cardinale gli promise di occuparsene, nè senza difficoltà
conseguì l’intento. Infatti il 14 marzo Monsignor Maestro di Camera mandò a
Sua Eminenza il biglietto di udienza privata per Don Bosco. L’udienza era fissata
per le diciotto e mezzo del giorno 16. Il colloquio, durato un’ora, lasciò Don
Bosco assai soddisfatto.
Nei giorni seguenti, invitato dal cardinale Manning a un appuntamento, ebbe
con Sua Eminenza una lunga conversazione, in cui l ’Arcivescovo di Westminster
volle sentire il suo parere intorno a cose riguardanti i rapporti fra la Santa Sede e
il Regno d’Italia. Essendosi trattato di tali argomenti in vari congressi di Cardinali,
il Papa aveva detto al Manning d’interrogare su tutto Don Bosco per vedere com’egli
la pensasse. In quei primordi del Pontificato leoniano si discuteva appassionata­
mente di conciliazione. Quale fosse il sentimento di Don Bosco intorno all’arduo
problema, non era stato un mistero nè per Pio IX nè per alcuni maggiori uomini
del Governo italiano. La conciliazione fra Chiesa e Stato in Italia “ stava veramente
in cima ai pensieri e agli affetti ” di lui, ma “ come poteva esserlo in un servo
veramente sensato e fedele; non col desiderio di una conciliazione come che fosse,
così come molti erano andati per molto tempo almanaccando, arruffando e con­
fondendo le cose; ma in modo tale che innanzi tutto si assicurasse l ’onore di Dio,
l ’onore della Chiesa, il bene delle anime ” . Così si esprimeva Pio XI nell’allocu­
zione del 19 marzo 1929 per il decreto sui miracoli, attestando d’aver ciò udito
dalle labbra del Servo di Dio quarantasei anni prima; nè diversamente dovette il
Santo aver parlato col prelato inglese.
Ripartì da Roma il 26 marzo, dopo tre mesi e tre giorni di permanenza.
Nelle ultime settimane aveva ideato una pubblicazione di grande opportunità:
un volumetto delle Letture Cattoliche, il quale, istruendo in forma popolare i lettori
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intorno a ll’elezione di un Romano Pontefice e facendo ben conoscere il Pontefice
novello, servisse a perpetuare il ricordo del fausto avvenimento, la cui risonanza
era stata grandissima in tutto il mondo. Concepire un disegno e cercare di attuarlo
formavano per Don Bosco una cosa sola: ci si mise dunque subito attorno. Diede
al libro un titolo felicissimo: Il più bel fiore del Collegio apostolico. Lo divise in tre
parti. Nella prima espose le nozioni storiche, canoniche e liturgiche utili a far com­
prendere che cosa fosse e in che modo si svolgesse un Conclave; narrava poi la fine
di Pio IX, descrivendone i funerali; dava per ultimo un succinto ragguaglio dell’ele­
zione di Leone XIII e delle solenni cerimonie che l ’avevano seguita. Nella seconda
parte tracciava con la massima semplicità un profilo di Leone XIII, prendendolo
dalla fanciullezza e accompagnandolo su su fino alla recente esaltazione. Nella
terza riuniva brevi cenni biografici degli elettori del nuovo Papa, che sono in tutto
sessantatrè.
Le biografìe cardinalizie erano tolte dall ’Unità Cattolica, che le aveva pubbli­
cate a intervalli fra il 14 febbraio e il 29 giugno. Don Bosco però non le riprodusse
tali quali: esistono ancora dodici numeri del giornale torinese, in cui la sua mano
introdusse modificazioni, depennando le superfluità ed espungendo checché avesse
acre sapore politico. Sia nelle biografie che nel relativo proemio, dove, facendo una
rapida rassegna di tutti i Cardinali, coglie e ritrae di ciascuno la nota caratteristica,
si rileva lo studio suo in dar risalto alle qualità, diciamo così, ecclesiastiche dei
singoli, quali sono specialmente la pietà, la carità e lo zelo.
Dell’operetta inviò copia elegantemente rilegata a tutti i Cardinali e a vari pre­
lati della Corte pontificia; ma anzitutto ne fece umile omaggio al Santo Padre, pre­
sentandoglielo con una devota lettera, che cominciava così: “ La divina Provvi­
denza, o Beatissimo Padre, dispose che mi trovassi a Roma mentre si compievano
i grandi avvenimenti della morte del compianto Pio IX e della gloriosa elevazione
della Santità Vostra al trono pontificale. In quella solenne occasione, mi sono dato
premura di raccogliere le principali notizie che potessero interessare il cristiano con
animo di pubblicarle a vantaggio spirituale dei nostri giovanetti studenti ed arti­
giani ed anche degli altri semplici fedeli che ne volessero approfittare ” . Natural­
mente prendeva occasione per rinnovare al Papa la protesta di ossequio e di obbe­
dienza dei Salesiani.
Si seppe in seguito da buona fonte che il Papa si era fatto mettere l ’opuscolo
sullo scrittoio, dicendo di volerlo leggere. Da una cronaca dell’Oratorio si apprende
uno scopo suo speciale nel mandare il libro al Papa. Desiderava, com’egli dichiarò,
che Sua Santità vedesse con quale alacrità i Salesiani lavorassero e quanto fosse il
loro attaccamento alla Cattedra di Pietro e che sforzi facessero per instillare negli
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33.8 Page 328

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animi l ’amore al Vicario di Gesù Cristo. Parendogli di avere ottenuto l ’intento,
santamente se ne compiaceva.
Il libretto, uscito nei due fascicoli di settembre, si chiudeva con una rapida
rassegna degli atti di Leone XIII dal febbraio all’agosto; dopo di che l ’autore, indi­
rizzando la sua parola ai “ Cattolici ” diceva loro: “ Questi atti ed altri molti che
per brevità tralascio, ci fanno con tutta ragione riguardare Leone XIII come una
bella aurora foriera di più splendido trionfo per la Chiesa Cattolica. Tocca a noi
il facilitarlo. E come? Colla preghiera, colla docilità alla voce dei nostri Pastori,
con una condotta veramente cristiana. Mettiamoci all’opera, e ciascuno nella
propria sfera promuova o riconduca nelle famiglie il buon costume e le pratiche
di religione: ciascuno allontani il peccato da sè e dai suoi, ed il giorno del Signore
non tarderà a spuntare
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CAPO XXXIV
LA CHIESA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA
A Torino, sul viale del Re, ci voleva una chiesa, e una bella chiesa. A ll’ombra
dei platani si venivano allineando da una parte e dall’altra sontuosi edifici
che facevano prevedere la prossima formazione d ’un quartiere dei più eleganti. Era
intuitiva non solo la necessità, ma anche l ’urgenza di un edificio sacro che fosse
ben intonato con le opere edilizie circostanti, prima che il suolo fabbricabile fosse
tutto vincolato. I valdesi avevano già avuto la massima premura di erigervi un loro
tempio abbastanza vistoso, e lì presso scuole per fanciulle di famiglie agiate, altre
per giovani poveri d ’ambo i sessi, un asilo d ’infanzia, un ospedale, una diaconia
per distribuire sussidi ai bisognosi e poco più in là un collegio di artigianelli loro
correligionari, sicché minacciavano di diventare essi padroni del campo. Anche
oggi gli emissari dell’eresia sono pronti a piantare le loro tende nelle parti nuove
delle grandi città, occupandole prima che le autorità ecclesiastiche abbiano potuto
provvedere con opere stabili all’assistenza dei fedeli.
Da quella località non poteva Don Bosco distogliere la sua attenzione, giacché
da tanto tempo vi teneva il fiorente oratorio festivo di S. Luigi. L’idea di contrap­
porre al tempio protestante una chiesa cattolica la concepì nel 1869; ma troppi
impedimenti ne incepparono e ritardarono l ’attuazione. Non c ’era modo di acqui­
stare un ’indispensabile striscia di terreno appartenente a un protestante. Fu accam­
pata la ragione di pubblica utilità; ma il municipio e la prefettura rifiutarono di
riconoscerla. Anche il ministro dei lavori pubblici per intrighi torinesi fu dello
stesso 'avviso. Don Bosco allora si rivolse al consiglio di Stato. Di qui, dopo lun­
gaggini burocratiche senza fine, venne a sapere che il suo memoriale non era arri­
vato a destinazione. Recatosi a Roma per altri affari nel 1876, cercò di scoprire dove
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33.10 Page 330

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fossero andati a terminare i suoi documenti. Gli si disse che erano stati smarriti;
ma egli capì che si brigava per mandare a vuoto la pratica, stancando la sua pazienza.
Aveva però ancora da nascere colui che avrebbe stancato Don Bosco, quando voleva
raggiungere un suo intento. Infatti quelle benedette carte furono scovate e prima
che egli lasciasse Roma. Saputo che la discussione si sarebbe tenuta il dì appresso
e informatosi quali sarebbero i membri della commissione, li andò a visitare uno
per uno. Si vede che perorò bene la sua causa, perchè il parere fu favorevole: il
Governo stimava di utilità pubblica la costruzione della chiesa e dichiarava potersi
procedere ad espropriazione forzata. Ma intanto quanti anni perduti! Solo nel
maggio del 1877 Don Bosco potè compiere le ultime formalità, presentando all’Ar­
civescovo i disegni per la necessaria approvazione ecclesiastica.
C’era il terreno, c’erano i disegni; ma non c’erano i mezzi. Il denaro non si
fermava mai nelle mani di Don Bosco. Un’idea geniale gli balenò alla mente. Volato
al cielo l ’angelico Pio IX, la devota riconoscenza che Don Bosco nutriva per il
grande Pontefice, come gli aveva suggerito di dedicare la chiesa all’Apostolo, di
cui il Papa portava il nome, così allora gl’ispirò il pensiero di innalzarla come
monumento alla sua memoria. Pio IX aveva lasciato nel mondo cattolico sì larga
eredità di affetti, che i molteplici inviti di Don Bosco a contribuire per rendergli
quell’onore incontravano generalmente buone accoglienze.
Ma la cosa non passò senza dispiaceri. Non molto lontano dal viale del Re
si veniva fabbricando un’altra chiesa dedicata a S. Secondo. L’aveva incominciata
Don Bosco durante le interminabili pratiche per l ’acquisto del terreno. Dopo avervi
consumata una somma di denaro assai rilevante, ebbe dall’Arcivescovo l ’ordine di
ritirarsi, volendo subentrare egli stesso nella costruzione. Don Bosco cedette le
armi, poiché si trattava del suo superiore ecclesiastico. Orbene anche a quella
chiesa, essendosi ridotte pressoché a zero le offerte dei fedeli, fu attribuito il carat­
tere di monumento a Pio IX; la notizia comparve il 27 febbraio in una lettera pasto­
rale dell’Ordinario. Si fece pertanto divieto al Bollettino Salesiano di toccare per suo
conto il tema del monumento. Non bastò: vennero pure inoltrati ricorsi alla Santa
Sede, perchè si obbligasse Don Bosco a desistere dal suo divisamente. I cardinali
Franchi, nuovo Segretario di Stato, e Ferrieri, Prefetto della Congregazione dei
Vescovi e Regolari, gl’inviarono tosto osservazioni, che equivalevano a veri ordini
di troncare la cominciata propaganda.
Non conveniva certo a Don Bosco, anche per la sua posizione, soggiacere
all’accusa di avere intralciato un’iniziativa dell’Ordinario. Si difese dunque con tre
argomenti: la chiesa di San Giovanni Evangelista essere monumento destinato fin
da principio alla gloria di Pio IX, molti anni prima dell’appello arcivescovile; il
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34 Pages 331-340

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34.1 Page 331

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Bollettino, per evitare g l’incagli della revisione ecclesiastica torinese, non stamparsi
a Torino, ma a Sampierdarena con l ’approvazione dell’autorità ecclesiastica locale;
l ’appello del Bollettino indirizzarsi ai Cooperatori salesiani, l ’immensa maggioranza
dei quali si trovava in altre diocesi, anche di Francia e d ’America. Tuttavia prò bono
pacis, fornite queste spiegazioni, dispose che per l ’archidiocesi torinese si facesse
del Bollettino una tiratura a parte, in cui non fosse parola deH’argomento.
Progredivano da due anni i lavori della chiesa e i muri erano a ll’altezza del cor­
nicione, quando Don Bosco diede principio a un alto e ampio edificio, la cui testa,
staccandosi dal lato sinistro di quella, dava sul corso, mentre il corpo si stendeva
lungo una via adiacente e sboccante nel medesimo. Il Santo da prima aveva inten­
zione di farne un ospizio per giovani poveri e abbandonati; invece più tardi lo
assegnò, come abbiamo veduto, ai Figli di Maria. Un cospicuo Cooperatore sale­
siano francese, il conte Luigi Colle di Tolone, che già aveva somministrato il
denaro per la compera della casa di Mathi, sembra che abbia largheggiato anche
per l ’erezione di quest’altra, se Don Bosco, scrivendogli il 22 ottobre 1884, gli
diceva: “ Ho la grande consolazione di parteciparle che la casa fabbricata dalla
sua carità a vantaggio dei Figli di Maria è finita ” .
Erano finiti nel 1882 i lavori della chiesa. Esternamente, a chi dal corso vol­
geva a quella parte lo sguardo, si presentava maestosa la facciata, dal cui mezzo si
slanciava verso il cielo la cuspide dell’elegante campanile; nell’interno, architet­
tura, affreschi, quadri, ornati, pavimento, altari, tutto produceva l ’impressione di
entrare in una bella casa del Signore.
Merita distinta menzione la porta grande, perchè disegnata dal professor Boidi
su indicazioni di Don Bosco. È in legno di noce con bassorilievi in bronzo. Don
Bosco volle che i Torinesi, varcando la soglia del tempio, sapessero essere quello
monumento a Pio IX. Vi spiccano perciò due quadri raffiguranti due solennissimi
atti compiuti dall’immortale Pontefice: la definizione dogmatica dell'immacolato
Concepimento di Maria Santissima e la proclamazione di S. Giuseppe come Patrono
universale della Chiesa. Nel primo il prelato che, vestito di dalmatica, sta in mo­
desto atteggiamento dinanzi al Papa reggendo un libro aperto, ha i lineamenti pre­
cisi dell’intrepido monsignor Fransoni, che nell’anno della definizione era Arci­
vescovo di Torino. Di tutto il lavoro si addossò la spesa l ’ex allievo Don Anfossi,
che, rimasto orfano a tredici anni e accolto da Don Bosco nell’Oratorio, volle
attestare così la sua imperitura riconoscenza verso il suo secondo padre.
La benedizione delle campane, la collaudazione dell’organo, la consacrazione
del tempio furono tre fatti, la cui solennità attrasse in numero sempre maggiore i
cittadini. Il giulivo tintinnìo dei cinque sacri bronzi, venuto come per incanto a
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34.2 Page 332

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rallegrare la popolazione del quartiere, rompeva finalmente il cupo silenzio che da
anni gravava tutto attorno al vicino tempio valdese. Il collaudo dell’organo assunse
il carattere di una vera festa dell’arte. Tutta la migliore società torinese vi si diede
per tre giorni convegno. Questi due riti non erano che il preludio della solennità
maggiore, la consacrazione, la quale per forza maggiore bisognò ritardare di alcuni
mesi. L’11 aprile era stata consacrata la chiesa di S. Secondo. Sul frontone vi cam­
peggiava un busto di Pio IX, sotto il quale un’iscrizione ricordava alla posterità chi
si fosse inteso di onorare con quel sacro edificio. Sulla setta massonica ogni mani­
festazione papale faceva a quei tempi l ’effetto del drappo rosso sulla retina del toro.
La loggia inferocita provocò tumulti, nei quali si commisero indegnità da disgra­
darne i popoli barbari. Furono rimossi busto e iscrizione in mezzo a lazzi invere­
condi e sotto una tempesta di proiettili. La furia degli energumeni imperversò
finché volle, senza che i rappresentanti dell’ordine si facessero vivi. Dopo simili
precedenti la prudenza consigliava di andar cauti.
Nella chiesa di S. Giovanni Evangelista non un semplice busto di Pio IX, ma
una statua marmorea si doveva innalzare sull’alto di un piedestallo, a mano diritta
di chi entra. Il primo atto di prudenza fu di trasportare e collocare la statua senza
rumore di sorta, e ci si riuscì. Ma poi alla collaudazione dell’organo gl’intervenuti
sarebbero passati dinanzi al Papa, che ritto sull’alta base e in abiti pontificali leva
la destra nell’atto che precede la benedizione, mentre con la sinistra porge il de­
creto di approvazione della Società salesiana. Era impossibile non fermarsi a osser­
vare il capolavoro del Confalonieri. Inoltre dopo il fattaccio di S. Secondo i soci
della Gioventù Cattolica avevano scagliato una sfida avventata, dicendo agli avver­
sari che li aspetterebbero a S. Giovanni Evangelista, e quelli avevano risposto accet­
tando. Il pericolo era serio; ma un altro atto di prudenza lo scongiurò. Don Bosco
anzitutto dispose che all’audizione s’entrasse con biglietto personale; poi mandò
l ’invito anche a tutti i giornali d’ogni colore. I direttori, tocchi da quella inaspettata
cortesia, intervennero, videro la statua di Pio IX e, nulla incontrando che avesse
l ’aria di provocazione, misero le cose in tacere. Anzi la Qazzetta di Torino nel
numero del 6 luglio non si tenne paga di serbare il silenzio, ma uscì con un arti­
colo che cominciava a questo modo : ‘ ‘ Sono tre giorni che la nuova chiesa costrutta
anch’essa come tante altre per opera di quell’uomo straordinario ch’è il reverendo
sacerdote Bosco, non si vuota se non negli intervalli, in cui il suo magnifico
organo tace ” .
Per un terzo atto di prudenza Don Bosco, dicevo, non si affrettò a far fare la
consacrazione, che rinviò al 28 ottobre. I festeggiamenti si svolsero con un pro­
gramma analogo a quello eseguito nella consacrazione della chiesa di Maria Ausi-
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34.3 Page 333

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liatrice. Neanche qui egli guardò a spese, nè risparmiò sollecitudini pur di dare
alla manifestazione religiosa la più imponente grandiosità, in vista però sempre dei
corrispondenti vantaggi spirituali. Di questi soprattutto si compiaceva, scrivendo
il 2 novembre a una generosa Cooperatrice francese, Clara Louvet, di Air presso
Lilla: Si è visto uno spettacolo veramente miracoloso. A mille a mille gli uomini
venivano a fare la loro confessione e comunione con una divozione specialissima
A glorificare la nuova casa di Dio furono chiamate da Don Bosco anche le
lettere. Egli aveva in Don Lemoyne uno scrittore, che non era alle sue prime arm i;
a lui ordinò d ’illustrare con tutta l ’ampiezza possibile la figura del Santo titolare.
Ne venne così un ’opera in due volumi assai originale e attraente, accessibile al
popolo, ma di gradita lettura anche alle persone colte. L ’agilità dello stile concorre
a far sì che questo libro non invecchi.
Dopo il titolare, la chiesa a lui dedicata. Di questa scrisse un’elegante mono­
grafia l ’ingegnere Buffa, la quale, come il lavoro del Lemoyne, era già stampata e
pronta nelle feste della consacrazione. Descritto ivi l ’edificio sacro, l ’autore arriva
a questa sintesi finale: In tutto l ’insieme la chiesa di S. Giovanni ha un ’unione
armonica nelle parti, un equilibrio generale nelle masse, una larghezza, una preci­
sione, una nobile semplicità, che la rendono tale da poter reggere vittoriosamente
ad una critica anche severa. L’arte svelta e graziosa in essa trionfa e levando l ’anima
del fedele al disopra delle terrene tristezze, la guida nell’aere vivificante e puro dei
pensieri soavi, delle idee immortali. A ll’eleganza del pensiero ed alla purezza del­
l ’arte rispose anche in modo lodevolissimo la esecuzione di ogni sua parte. Non
fu menomamente sacrificata ai gretti pensieri dell’economia la convenienza arti­
stica Lo stile è il romanico-lombardo del 1200; architetto ne fu il conte Edoardo
Arborio Mella, vercellese.
Il coronamento di dure fatiche e di assillanti sollecitudini durate tanti anni, lo
splendore dei sacri riti, il gran concorso del popolo, il bene già fatto e quello assai
maggiore sperato consolarono grandemente il cuore di Don Bosco, temperandogli
l ’amaro di certi bocconi, che egli, secondo il solito, si trangugiò in silenzio e con
lieto sembiante. Fu uno di tanti dolorosi episodi innestati nella storia di una tri­
bolazione che per la sua natura, per la sua durata e per i suoi effetti fu certamente
la più grave sofferta dal Santo. Ma considerazioni di ordine superiore consigliano
di rimettere a tempo e a luogo più opportuno la narrazione di quelle vicende.
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CAPO XXXV
I SO GN I DI DON B O S CO
Scrivere la vita di S. Giovanni Bosco e non parlare de’ suoi sogni sarebbe come
narrare la vita di Gesù senza far menzione delle sue parabole. È naturale che
fuori degli ambienti salesiani, dove ci s’è fatto l ’orecchio, taluni aggrottino le ciglia
a sentir discorrere di sogni come di cose serie e che altri si stupiscano leggendo
che un uomo positivo come Don Bosco annettesse a ’ suoi sogni tanta importanza.
Eppure ogni uomo al par di lui positivo ha l ’elementare dovere di studiare il feno­
meno prima di relegarlo nel mondo delle ingenuità; tanto più che il materiale di
studio abbonda e sovrabbonda. Dal nono al sessantunesimo anno della sua età
Don Bosco raccontò un numero stragrande di questi sogni. Alcuni pochi furono
scritti di suo pugno e se ne conservano gli autografi; i rimanenti venivano messi
in carta o durante la narrazione pubblica o subito dopo da chierici e preti, che poi
ne fissavano il testo con l ’aiuto dei testimoni auricolari più attendibili. Di qui
derivarono le raccolte manoscritte, che si custodiscono negli archivi salesiani.
Durante gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, teatro dei sogni di Don
Bosco erano i luoghi della sua terra nativa, e avevano per contenuto indicazioni su
futuri avvenimenti che lo attendevano. I sogni si moltiplicarono dopo che egli fu
prete, succedendosi con una grande varietà di soggetti. Combattimenti e vittorie
della Chiesa; punizioni divine ai persecutori di lei; stati di coscienza de’ suoi figli;
il campo mistico dov’essi avrebbero lavorato e le varie mansioni che ciascuno vi
avrebbe occupato; il crescere della sua famiglia e lo sfilare di giovani d ’ogni regione,
d ’ogni colore, d ’ogni lingua; il comparire della Madonna nel cortile dell’Oratorio,
stendendo in mezzo a gran bufera il suo manto per accogliere tutti i giovani che vi
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si rifugiavano, mentre brutti mostri lanciavano pietre, fango, immondezze, che però
cadevano sul manto della Madre celeste e scivolavano a terra senza far male alcuno
a quanti vi stavano riparati sotto; personaggi sconosciuti, che entravano in casa a
portare l ’annuncio di disgrazie o di morti; il futuro prossimo e remoto delle Mis­
sioni salesiane nel mondo. Ecco alcuni principali argomenti, che formavano la
trama di queste rappresentazioni notturne.
A siffatti sogni s’accompagnano due caratteri inconfondibili, che li differen­
ziano toto caelo dai sogni comuni. Il primo è l ’andamento di essi, nel quale si rav­
visa uno sviluppo logicamente ordinato ad uno scopo; il che non si verifica nei
sogni consueti. Qui infatti è un inseguirsi più o meno confuso di ricordi, come di
note musicali incalzantisi all’impazzata sulla tastiera del nostro cervello assopito.
Quanta assurdità in quella ridda d’immagini! Per questo fu scritto che affannarsi
a scoprire in tale accozzo un nesso e un senso è come voler scoprire un motivo
musicale in una scorribanda notturna di topi lungo un pianoforte. Invece nei sogni
di Don Bosco si riscontra costantemente un fondo serio che costituisce come la
base di tutta l ’azione onirica; simile azione poi, ora semplice ora molteplice, pro­
cede a gradi senza dar luogo alle incongruenze o alle banalità che in generale non
si dissociano mai dalle fantasmagorie risvegliantisi e rigirantisi nell’immaginazione
di chi dorme. Che se a volte compaiono fenomeni che abbiano dello strano, Don
Bosco li avverte e ne riceve spiegazioni sotto ogni riguardo soddisfacenti. Siamo
dunque ben lungi dal regno dei sogni propriamente detti.
Il secondo carattere consiste nella visione di cose occulte e nella previsione
di cose future. Per cose occulte s’intendono qui i segreti delle coscienze, i fatti che
avvengono in parti remote, ed anche luoghi, di cui il sognante non ebbe mai di­
stinta notizia. L’esemplificare ci porterebbe chi sa dove; tuttavia un esempio non
sarà mai di troppo. Nel 1883 Don Bosco sognò un fulmineo viaggio da Cartagena
a Puntarenas, cioè dal nord al sud del continente meridionale dell’America. Egli
lo raccontò il 4 settembre nella seduta antimeridiana del terzo Capitolo generale,
che stava radunato nel collegio di Valsalice. Quattro particolarità sono ivi degne
di nota.
Anzitutto la descrizione delle Cordigliere. Da tutti si pensava che fossero come
un muro divisorio o una catena omogenea, la quale si estendesse da nord a sud
per più di trenta gradi di latitudine, un cordone unico insomma per elevazione e
corso. Invece Don Bosco le descrive sezionate da numerose e profonde depressioni
in forma di seni, valli e conche lacustri e suddivise in gruppi o nodi di catene, le
quali si svolgono in opposte direzioni e si presentano affatto differenti fra loro per
caratteri geologici e orografici: tutte particolarità che i geografi del tempo ignora­
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vano. Orbene, l ’esploratore salesiano Don De Agostini, competente nella storia
della geografia sudamericana e informatissimo di ciò che si sapeva allora del conti­
nente visitato da Don Bosco in sogno, ammirò di presenza quanto esattamente la
sua descrizione rispondesse ai risultati di esplorazioni e di studi molto posteriori.
Neppure il più autorevole cultore di geografia avrebbe potuto nel 1883 lanciare le
recise e minuziose affermazioni di Don Bosco.
In secondo luogo Don Bosco descrive ferrovie fantastiche, dove allora regna­
vano deserto e solitudine. Oggidì le reti ferroviarie nelle repubbliche dell’Ame­
rica centrale e meridionale hanno raggiunto uno sviluppo prodigioso, attraver­
sando già in alcuni punti la Cordigliera andina, nè appare lontano il giorno, in
cui, avverandosi a pieno il sogno, le linee già costruite lungo la catena delle Ande
uniranno il nord dell’America allo stretto di Magellano, attraversando l ’intera
Patagonia.
In terzo luogo Don Bosco asserisce che straricche miniere di carbon fossile,
di petrolio, di piombo ed anche di metalli preziosi stanno nascoste nelle viscere
di quelle montagne. Ed ecco di anno in anno affiorare sempre nuovi depositi di
minerali in tutta la zona cordiglierana e lungo la costa dell’Atlantico. Particolare
importanza ebbe la scoperta del petrolio a Comodoro Rivadavia nel Chubut, avve­
nuta il 16 dicembre 1907, mentre la Direzione generale delle miniere procedeva
ad una perforazione in cerca di acqua potabile. Esiste al presente da quelle parti
un migliaio di pozzi petroliferi. Altre sorgenti furono poi scoperte presso i con­
trafforti andini di Salta e Jujuy e lungo le rive del Neuquen, per citare soltanto
l ’Argentina. Importanti giacimenti di carbon fossile si sono trovati sotto la Cor­
digliera presso Espuyen nel Chubut e a Puntarenas. Anche il piombo forma oggi
nell’Argentina la produzione metallica più rilevante con una estrazione di diecimila
tonnellate a ll’anno.
Finalmente dell’arcipelago fueghino Don Bosco dice: “ Alcune di queste isole
erano abitate da indigeni abbastanza numerosi; altre sterili, nude, rocciose, disa­
bitate; altre tutte coperte di neve e di ghiaccio. Ad occidente, gruppi numerosi
di isole, abitate da molti selvaggi Chi legge il magnifico volume del De Agostini
sopra i suoi viaggi nella Terra del Fuoco e dà un ’occhiata alla sua splendida carta
geografica, ammira quanta verità brilli in sì specificata descrizione di terre fino
allora inesplorate. Sono proprio quelli i tre aspetti del paesaggio fueghino: la zona
pianeggiante e stepposa abitata dagli indigeni Ona; poi la zona cordiglierana insu­
lare coperta di nevi perpetue e di ghiacciai immensi; quindi i gruppi numerosi
di isole verso occidente, sterili, nude, rocciose, dove vivono gli indi Alcaluf e
Vagan. Tanta precisione non era umanamente possibile se non a chi avesse veduto
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con i propri occhi località così caratteristiche e di così arduo accesso. I libri ne
erano muti.
Di sogni come questo d’argomento missionario ve ne sono quattro, e tutti
ridondano di previsioni che parzialmente il nostro tempo già ci mostra in atto.
Anche negli altri sogni il contenuto profetico, se non è tutto, è parte rilevante.
Quante morti, per esempio, gli furono per tal modo preannunciate! Parlandone
egli non proferiva nomi, ma indicava date; del nome a volte svelava in pubblico
la lettera iniziale, a volte dava comunicazione confidenziale a qualcuno, perchè
preparasse al gran passo l ’interessato; l ’avveramento finiva poi di chiarire il mistero.
Torna ora opportuno vedere in che modo raccontasse Don Bosco i suoi sogni.
Li esponeva con semplicità, gravità e affetto ” , dice l ’ex allievo canonico Ballesio
in un suo discorso sulla vita intima dell’Oratorio. Narrando, intercalava frasi argute
0 digressioncelle giocose, come per distrarre l ’attenzione degli uditori dai punti di
maggiore singolarità. Sempre col fine di affievolire l ’impressione dello straordinario,
dava talora nomi insignificanti al personaggio che soleva accompagnarlo, chiaman-
dolo guida, interprete o, più vagamente ancora, sconosciuto: solo discorrendo a
tu per tu con taluno ne dava indicazioni più concrete. Aveva poi una cura signifi­
cativa di mettere in rilievo quanto ridondasse a sua umiliazione. Così, nel 1861,
narrando un sogno nel quale egli si corrucciava che giovani dell’Oratorio facessero
1 sordi a’ suoi consigli e mal corrispondessero a’ suoi benefici, proseguiva: “ Al­
lora il mio interprete prese a rimproverarmi: — Oh il superbo! vedete il superbo!
E chi sei tu che pretendi di convertire, perchè lavori? Perchè tu ami i tuoi giovani,
pretendi di vederli tutti corrispondere alle tue intenzioni ? Credi tu forse di essere
da più del nostro Divin Salvatore nell’amare le anime, faticare e patire per esse?
E così di seguito per buon tratto sullo stesso metro.
Con tutto ciò esortava a guardarsi dal mettere in burla le cose udite, ma rac­
comandava che ognuno facesse a sè le opportune applicazioni. Per altro anche questi
ammonimenti erano conditi di evangelica umiltà. Quando ebbe finito di raccon­
tare il sogno anzidetto, continuò così: “ Adesso che vi ho raccontato tutte queste
cose, voi penserete forse: — Don Bosco è un uomo straordinario, qualche cosa
di grande, un santo sicuramente. — Miei cari giovani, per impedire stolti giudizi
intorno a me vi lascio tutti in piena libertà di credere o non credere. Stimo però
bene di dirvi che il Signore ha molti mezzi per manifestare la sua volontà. Alcune
volte si serve degli strumenti più inetti e indegni, come si servì dell’asina di Balaam,
facendola parlare, o di Balaam stesso, falso profeta, facendogli annunciare cose
vere agli Israeliti. Perciò lo stesso può accadere di me. Io vi dico dunque che non
guardiate le mie opere per regolare le vostre. Quello che voi dovete unicamente
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fare si è di badare a ciò che dico, perchè questo, almeno lo spero, sarà sempre la
volontà di Dio e ridonderà a bene delle anime ” .
Non tutte diceva in pubblico le cose manifestategli nei sogni, ma alcune comu­
nicava in privato a chi vi aveva personale interesse; altre palesava a chi, godendone
maggiormente la familiarità, ne lo interrogasse a quattr’occhi; altre infine serbava
per sè come a lui esclusivamente destinate. Per il racconto pubblico sceglieva le
parti che fossero per riuscire di reale vantaggio all’insieme degli ascoltatori. E gli
effetti si toccavano con mano. Cresceva l ’orrore del peccato; quindi un confessarsi
con maggior dolore, un moltiplicarsi di confessioni generali, una maggior frequenza
alla santa comunione; era insomma, per dirla con una frase di Don Bosco stesso,
la bancarotta del demonio.
Si è accennato due volte qui sopra a un sogno del 1861; un riassunto di esso
può offrire un saggio del genere, tanto più che quel sogno riguardava l ’avvenire
della Società salesiana, quando non era stata ancora nemmeno commendata dalla
Santa Sede. Lo espone anche il cardinale Cagliero nei processi.
In una valletta presso i Becchi, sulla strada che va a Capriglio, parvegli d ’in­
contrare un personaggio venerando, che lo salutò amichevolmente e dopo un lungo
conversare gli chiese se volesse vedere qualche cosa di singolare. Alla risposta
affermativa gli presentò una grossa macchina con dentro una ruota, la piantò in
terra e gli disse d ’impugnarne il manubrio e dare un giro. Don Bosco obbedì.
— Ora guarda dentro, — ripigliò l ’altro. Guardò e vide un vetro a mo’ di lente,
che misurava un metro e più di diametro. V i si leggeva scritto: Hic est oculus,
qui humilia respicit in caelo et in terra. Attraverso la lente vide tutti i giovani del-
l ’Oratorio.
A un secondo giro, avvenne una separazione dei buoni dai cattivi. Ne conobbe
quattro avvinti da grosse catene, sette con un lucchetto alla bocca, tre dei quali
anche con le mani alle orecchie, e tre altri con un brutto scimmione sulle spalle.
Addolorato, domandò la spiegazione. Erano quelli che non davano ascolto alle sue
raccomandazioni. I primi quattro, se non cambiavano condotta, sarebbero finiti in
carcere; gli altri sette tacevano in confessione e tre di essi non volevano sentire
avvisi a questo riguardo; gli ultimi tre dopo gli esercizi spirituali erano caduti in
peccato mortale d ’impurità.
Dopo un terzo giro, ecco un altro stuolo grandissimo di giovani a lui scono­
sciuti. Erano quelli che il Signore gli avrebbe dati in compenso di quei quattordici:
per ognuno, cento.
Ancora un quarto giro, e tutti quei giovani comparvero divisi in due schiere
sopra un gran campo: erano i chiamati allo stato ecclesiastico e i non chiamati.
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Questi secondi zappavano la terra; dei primi invece chi mieteva, chi faceva covoni,
chi formava biche, chi spigolava, chi conduceva il carro, chi affilava le falci, chi
le distribuiva e chi trebbiava. Di molti egli sapeva chi erano e disse poi loro l ’ufficio
che avevano nel campo. Don Rua, per esempio, prete da un anno, conduceva il
carro; il chierico Cagliero raccoglieva e distribuiva fiori e trebbiava; Cerruti Fran­
cesco martellava le falci; un chierico Molino tagliava il grano con la falce a rovescio,
e di lui Don Bosco rivelò che non avrebbe perseverato, benché avesse terminato
gli studi teologici, come difatti avvenne.
A questo punto lo sconosciuto gli ordinò di dare dieci giri. Rivide i medesimi
giovani, ma fatti adulti. Erano passati dieci anni. Gli si paravano davanti case nuove,
panorami non mai veduti e molti giovani alunni sotto la direzione dei figli del-
l ’Oratorio, già preti, maestri e direttori. Eseguito poi il comando di dare altri dieci
giri, metà appena de’ suoi giovani gli si fecero vedere, con i capelli grigi e alcuni
un po’ curvi. I mancanti erano passati all’eternità. Insieme scorgeva paesi nuovi,
regioni nuove, nuova moltitudine di ragazzi sotto nuovi maestri, ma dipendenti
ancora da parecchi di quelli anziani.
Rinnovò allora i dieci giri. Gli antichi facevano pietà: ridotti di numero, incur­
vati, macilenti e circondati da fanciulli che avevano un colore diverso dal nostro.
Dopo altri dieci giri, alcuni pochi della prima generazione mostravano di essere al
tramonto della loro vita; ma la moltitudine dei giovani era ingrossata, le case
aumentate, cresciuto il personale. Ripetuta la solita manovra dei dieci giri, tutto
tutto gli parve nuovo. Fra direttori e maestri con abiti e costumi vari, uno solo
dei tempi remoti, vecchio cadente, raccontava a una bella corona di giovani i
principii dell’Oratorio e ricordava loro le cose imparate da Don Bosco, di cui
mostrava il ritratto appeso alla parete. Anche lui, dopo altri dieci giri, più non si
rivide. Per ogni dieci giri erano passati dieci anni. A quel punto la ruota si mise
a fare tanti giri e con tanta rapidità, che egli si svegliò e si trovò nel suo letto,
stanco morto.
Don Bosco impiegò tre sere consecutive a raccontare questo sogno dopo le
preghiere. Il sogno della ruota fu per molto tempo oggetto di conversazione in
casa; Don Bosco si prestava volentieri a precisare, a interpretare, a commentare.
Erano tutti persuasi che egli vi avesse avuto chiare notizie intorno all’avvenire
dell’Oratorio; i pochi iniziati ai segreti della Società intrawidero pure quello che
il tempo riserbava a chi fosse rimasto con Don Bosco.
Personalmente che cosa pensava Don Bosco de’ suoi sogni ? Sulle prime andò
a rilento nel prestarvi fede, attribuendoli a scherzi di fantasia; onde nel raccontarli,
se vi entrassero previsioni del futuro, temeva sempre o di aver preso lucciole per
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lanterne o di dir cose da non doversi prendere sul serio. Discorrendone familiar­
mente con intimi, ripetè più volte che da principio se n’era confessato a Don
Cafasso come di un azzardato parlare e che il santo prete dopo matura riflessione
gli aveva detto che, poiché quanto vedeva si avverava, poteva stare tranquillo e
continuare a raccontare.
Tuttavia non credette opportuno abbandonare subito le cautele. In una cro­
naca dell’Oratorio, sotto il 13 gennaio, a proposito di un altro sogno del 1861
svoltosi in tre notti consecutive, si leggono queste sue parole: “ Nel primo giorno
io non voleva darvi retta, perchè il Signore ce lo proibisce nella Sacra Scrittura.
Ma in questi giorni scorsi dopo aver fatte parecchie esperienze, dopo aver presi
diversi giovani a parte e aver detto le cose tali e quali le avevo viste nel sogno e
dopo che essi mi assicurarono essere proprio così, io allora non potei più dubitare
che questa sia una grazia straordinaria che il Signore concede a tutti i figli del-
l ’Oratorio. Io perciò mi trovo in obbligo di dirvi che il Signore vi chiama e vi fa
sentire la sua voce, e guai a coloro che vi resistono! ” .
Eppure, umilmente diffidando di sè, volle abbondare in precauzione; infatti
sotto il 15 gennaio torniamo a leggere: “ Dirò quello che ho già detto: io feci quel
sogno, ma per una parte non voleva darvi retta, per l ’altra parte lo vedevo troppo
importante e perciò esaminai ben bene la cosa ” . Consistette di nuovo l ’esame
nell’interrogare tre dei giovani di cui nel sogno aveva conosciuto il misero stato e
che trovò esattamente nelle condizioni a lui note. Sette anni dopo, il 30 aprile 1868,
riparlava nel modo seguente: “ Miei cari giovani, ieri sera vi ho detto che io avevo
qualche cosa di brutto da raccontarvi. Ho fatto un sogno, ed ero deciso di non
farne parola a voi, sia perchè dubitavo che fosse un sogno come tutti gli altri che
si presentano alla fantasia nel sonno, sia perchè tutte le volte che ne ho raccontato
qualcheduno ci fu sempre qualche osservazione e qualche reclamo. Ma un altro
sogno mi obbliga a parlarvi del primo ” . In quest’altro sogno la voce del perso­
naggio gli aveva chiesto con accento di rimprovero : — Perchè non parli ?
Il salesiano Don Lemoyne, discorrendo con Don Bosco il 5 gennaio 1886 di
un sogno riguardante la guarigione prodigiosa del chierico francese Olive, allora
novizio a Foglizzo e divenuto poi zelante Missionario in Cina, chiamò senz’altro
visioni i sogni di lui, ed egli fe’ cenno che erano tali. Don Rua che più d ’ogni altro
era in grado di portare giudizio sulla natura dei sogni di Don Bosco, depose nei
Processi: “ Io sono portato a giudicare vere visioni quelli che egli chiamava sogni,
dal vedere come siano andate e si vadano verificando esattamente le cose nei me­
desimi simboleggiate ” . Dichiarava di sentirsi portato a credere che Don Bosco
riguardasse come un dovere da parte sua il rendere note per vantaggio spirituale
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delle anime le cose mostrategli in sogno e che a questo lo movesse un impulso
soprannaturale.
San Tommaso, citando Isidoro e parlando dei modi con cui dall’alto vengono
impresse immagini nella fantasia per fare agli uomini comunicazioni soprannaturali,
mette con la visione e l ’estasi anche il sogno. Tre motivi adduce il Cardinale Bona
nel De discretione spirituum per mostrare come la quiete notturna si presti meglio a
ricevere certe impressioni del cielo con quella forma di visioni che si dicono im­
maginarie. Nel sonno l ’anima è meno distratta da molteplicità di pensieri; poi,
essendo più passiva, è anche disposta più ad accettare e meno a discutere; final-
mente in quel silenzio dei sensi le immagini si stampano meglio nella fantasia.
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CAPO XXXVI
LA CONCESSIONE DEI PRIVILEGI
Un edificio completo in ogni sua parte, ma privo di tetto, non offre sufficiente
riparo a ’ suoi inquilini. Così la Società salesiana, organizzata e approvata,
non avrebbe potuto assicurare piena libertà ed efficacia di azione a ’ suoi membri
senza la salvaguardia dei privilegi.
Sotto il nome di privilegi s’intende qui un complesso di facoltà, indulti e
grazie che la Santa Sede suole concedere alle famiglie religiose. Un Istituto reli­
gioso, i cui membri siano sparsi in diverse diocesi anche lontanissime dal centro
o in diversi Stati o in remote Missioni, per l ’uniformità dello spirito, per il pronto
disbrigo degli affari e per l ’efficace esplicazione della sua attività ha bisogno di
speciali esenzioni dal diritto comune e dell’autorizzazione a far uso di certi mezzi
propri, conformi alla sua indole. Per questo la Santa Sede, già nei primordi del
MonachiSmo e poi in seguito secondo le mutate esigenze dei tempi, largheggiò
sempre con i religiosi sodalizi in concessioni, che agevolassero loro il raggiungi­
mento dei fini a ciascuno prefissi.
Venne la volta anche della Società salesiana. Don Bosco, approvate che furono
le Regole nel 1874, intavolò personalmente a Roma nel febbraio d ell’anno succes­
sivo le pratiche per ottenere i privilegi. Allora le vie erano due: compilare un
elenco dei privilegi stimati necessari e chiederli al Papa o domandare che venissero
comunicati ai Salesiani i privilegi accordati già a qualche altro Istituto religioso.
Egli scelse la seconda via, portando le sue preferenze sui privilegi goduti dai Reden-
toristi o Liguorini. Pio IX, conosciuto il suo desiderio, si mostrò favorevole e gli
disse di preparare la domanda. Stese dunque una supplica in tal senso. Un privi­
legio però di somma importanza, specialmente per lui a motivo dei dissensi tori­
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nesi, la facoltà cioè di rilasciare le lettere dimissoriali a’ suoi chierici, perchè potes­
sero ricevere gli ordini sacri da qualunque Vescovo, non si soleva mai compren­
dere nella massa dei privilegi concessi per comunicazione, ma richiedeva sempre
una concessione specifica e diretta. Aggiunse quindi alla prima un’altra supplica
per questa grazia.
Le due suppliche ebbero per effetto immediato la nomina di una straordinaria
commissione cardinalizia prò voto, cioè per dare parere in merito. La componevano
i medesimi quattro porporati e il medesimo segretario, che avevano condotto
l ’esame delle Regole. Ad essi Don Bosco indirizzò una elaborata memoria sul
duplice oggetto dei privilegi e delle dimissorie. Ciò fatto, partì da Roma, lasciando
sul posto un suo agente ufficiale e un suo fiduciario, che assistessero la pratica.
Seguirono scambi di note, che trascinarono le cose in lungo. La discussione finale
avvenne il 16 settembre. Il voto fu negativo su tutta la linea. Dall’esame dei docu­
menti è lecito inferire, che sulla decisione influì grandemente il timore di una scis­
sura fra l ’Ordinario torinese e la Santa Sede, se Don Bosco fosse stato favorito.
Il Santo sofferse l ’amara disdetta con ammirabile rassegnazione e pacatezza d ’animo.
Ma rassegnarsi non significa darsi per vinto.
Andatogli a vuoto il primo tentativo, prese a escogitare la maniera di rimettere
l ’affare sul tappeto. L’imminente spedizione dei Missionari gliene porse l ’occasione.
Essi nell’America avrebbero avuto presto bisogno di particolari facoltà, dispense
e favori spirituali; perciò egli ai primi di novembre, limitata la domanda prece­
dente, chiese solo un piccolo numero di concessioni, tredici in tutto, inserendovi
anche quella riguardante gli ordinandi. La prossima partenza dei Missionari legit­
timava la nuova petizione e la preghiera di sollecito esaudimento; ma la forma
della richiesta era così elastica da non escludere una prospettiva più larga. Il cardi­
nale Berardi presentò la supplica al Santo Padre, che la passò alla Congregazione
dei Vescovi e Regolari. Alcuni contrattempi rallentarono il negozio; tuttavia la
domanda fu riproposta all’esame dei quattro Cardinali della Commissione antece­
dente. Sorsero quindi altre contrarietà per certi maneggi che tanto poterono da far
arenare la pratica. Spesso la prudenza suggerisce a chi governa temperamenti e
temporeggiamenti atti alla conservazione della pace; intanto gli uomini passano, le
circostanze mutano e le cose si fanno.
Don Bosco lì per lì non insistette, riserbandosi di tornare alla carica in un
viaggio che doveva fare a Roma nel prossimo anno. Egli era dal 1874 socio del-
l ’Arcadia col nome accademico di distene Cassiopeo. Costumavano gli Arcadi la
sera del venerdì santo tenere una solenne adunanza per commemorare la Passione
del Signore. Orbene il Custode generale o presidente aveva profferto a lui di leg­
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gere una prosa introduttiva nella tornata del venerdì santo del 1876, che cadeva
ai 14 di aprile. Questo invito piacque a Don Bosco sia perchè gli giovava a pene-
trare sempre più negli ambienti romani, sia perchè lo metteva nella possibilità di
riattaccare il filo dei privilegi senza aver l ’aria di esservi andato a bella posta.
Giunto a Roma il 6 aprile, s’immerse tosto nel lavoro, intraprendendo pere­
grinazioni per il disbrigo di affari ecclesiastici e civili o per visite di convenienza e
attendendo a preparare la sua lettura arcadica. L’aspettazione di questa era grande.
Un prete piemontese dopo cinque anni appena dalla breccia di Porta Pia, un prete
dedito a ll’apostolato della gioventù povera ed estraneo al mondo letterario, un
prete in fama di Santo, che cosa avrebbe detto in quell’antico centro romano di
cultura, solito ad ascoltare in simili circostanze letterati di professione e di grido?
Anche là Don Bosco si mostrò prete. Rinunciando a qualsiasi velleità letteraria,
scelse un tema non affacciatosi mai alla mente di nessuno in quel luogo, ma adatto
alla religiosità dell’ora: le “ Sette parole di Gesù in Croce Il suo ragionamento,
sacro da capo a fondo, a nient’altro mirò che al bene spirituale degli ascoltatori.
Chiuse con una nota di papalità tanto più efficace quanto meno aspettata. Se si
eccettuano i dilettanti di mera letteratura e taluni andati a udirlo ut caperent eum
in sermone, il discorso produsse buonissimo effetto.
Il giorno dopo fu ricevuto dal Papa, che lo intrattenne per circa u n ’ora. La
bontà di Pio IX lo riempì di consolazione. Il Papa giunse a domandargli che cosa
potesse fare per lui, chè l ’avrebbe fatto volentieri. Ma purtroppo Don Bosco spe­
rimentò che le conseguenze di certe recriminazioni erano ben più gravi di quello
che egli si aspettava. Lo conobbe dalla fatica dovuta impiegare per abbattere osta­
coli sollevati appunto contro la concessione dei privilegi. “ Il lavoro mi fa andar
matto ” , scrisse a Don Rua. Non venne via però a mani vuote; in una seconda
udienza il Papa gli concesse a viva voce e quasi di soppiatto alcune importanti
facoltà, sebbene solo temporanee, cioè per un decennio, circa la presentazione dei
candidati agli ordini sacri.
Un affare di nuovo genere lo richiamò a Roma meno di un anno dopo. Pio IX
voleva affidare ai Salesiani la riforma e la direzione dell’istituto laicale dei Con-
cettini o Concezionisti, aventi per iscopo l ’assistenza degl’infermi negli ospedali.
Avevano essi la loro sede centrale presso lo storico ospedale di Santo Spirito,
vicino al Vaticano. Le trattative si tirarono in lungo dal novembre del 1876 al
novembre del 1877, finché da ultimo la forza delle opposizioni prevalse sul suo
buon volere e tante brighe tornarono in nulla.
A gettare tempo e fatica per questa faccenda Don Bosco era dovuto tornare
a Roma nel gennaio del 1877. Non pare che siasi allora occupato direttamente dei
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35.8 Page 348

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privilegi; solo sappiamo che presentò alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Rego­
lari una relazione sullo stato della Società salesiana. Anche quel documento gio­
vava allo scopo, in quanto che, prospettando la vitalità dell’istituto, lo mostrava
non immeritevole di particolare favore. Con la medesima penna scrisse il 14 a
Don Cagliero: “ Farai noto a tutti i Salesiani che la Congregazione in Europa
acquista nome, si accresce di numero, di domande per case, e credo poter anche
dire, di fervore individuale ” .
Ed eccoci alla dimora romana del 1878, descritta sopra. Prima della morte di
Pio IX egli spese le sue sollecitazioni quasi unicamente a smantellare il castello di
accuse eretto contro di lui dinanzi alle Congregazioni romane; morto il Papa, non
si poteva certo pensare a ritentar la prova dei privilegi. Tuttavia nella prima sua
lettera a Leone XIII accennò, come si è visto, al bisogno che la Società salesiana
aveva della protezione pontificia per poter “ conseguire la stabilità necessaria a
promuovere la maggior gloria di Dio ” . L’allusione era trasparente. Partì però con
un’acuta spina nel cuore. Il cardinale Ferrieri, succeduto al Bizzarri come Prefetto
della Congregazione dei Vescovi e Regolari, gli si fece vedere contrarissimo alla
concessione dei privilegi e molto mal prevenuto contro di lui.
Tornato a Roma nel marzo del 1879, risollevò la questione attraverso la do-
manda di alcuni favori. Qualche cosa ottenne; ma egli con simili istanze voleva
soprattutto produrre la sensazione, che di privilegi aveva reale necessità. Onde in
tali scritture soleva far entrare come incidentalmente ragguagli sulle sue opere.
Allora fu che il Papa conferì al cardinale Nina, suo Segretario di Stato, l ’ufficio
di Protettore della Società Salesiana, come l ’hanno tutti gli Ordini e tutte le Con­
gregazioni religiose. La scelta non poteva cadere su Prelato più benevolo. Avendo
conosciuto Don Bosco prima della sua elevazione alla porpora, lo stimava e amava
moltissimo. Della sua affettuosa protezione il Santo avrà giovamento anche nel­
l ’affare dei privilegi.
Con Leone XIII Don Bosco gettò la prima parola sui privilegi durante un’udienza
privata nell’aprile del 1881. Il Papa si dichiarò contrario ai privilegi dei religiosi.
Al che Don Bosco in tono festevole: —■Ma allora i religiosi non possono esistere.
E poi i privilegi sono segni di benevolenza che la Chiesa può concedere o non con­
cedere od anche ritirare quando crede.
— Voi che cosa domandate? lo interrogò il Papa.
— Domando due o tre privilegi, che godono tutti gli altri Istituti religiosi e
ne domando solo la rinnovazione o la conferma.
— Basta, riprese il Papa, se è solo per queste cose, intendetevi col cardinale
Alimonda, e aggiusteremo tutto.
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Ma questo tutto si ridusse alla concessione di alcune speciali indulgenze; non­
dimeno Don Bosco fu pago di ottenere che la questione non fosse posta a dormire.
Egli avrà pensato più volte in questa faccenda alla gocciola che a forza di cadere
scava la pietra.
Nel novembre del medesimo anno indusse monsignor Guarino, Arcivescovo
di Messina e suo grande amico, a farsi patrocinatore della sua causa. Monsignore
in un’udienza avviò bel bello il discorso su quel tema. A ’ suoi elogi sulle beneme­
renze dei Salesiani, il Santo Padre rispose con elogi; udita però la menzione dei
privilegi, osservò che gli altri religiosi li avevano ottenuti dopo secoli di meritorii
lavori e che i Salesiani, recenti com’erano, dovevano lavorare ancora per ottenerne
la partecipazione. Veramente gli Oblati di Maria Vergine li avevano ottenuti da
Leone XII e i Rosminiani da Gregorio XVI, viventi ancora i loro fondatori; ma
replicare non si poteva. Difficoltà però d ’altra natura, che qui non è opportuno
esporre, intralciavano l ’affare.
Nel 1882 il Santo perorò risolutamente da per sè la propria causa a voce e per
iscritto dinanzi a Leone XIII. N ell’udienza non lo trovò più contrario come prima
alla comunicazione per partecipazione. Incoraggiato da ciò, stese una supplica,
nella quale, rappresentato lo sviluppo della Società salesiana nei nove anni dopo
la sua definitiva approvazione, ne deduceva l ’urgente necessità di quella comu­
nicazione.
Il Papa segretamente (e Don Bosco lo seppe in via confidenziale d all’eminen­
tissimo Protettore) nominò una commissione composta dei cardinali Sbarretti,
Martinelli e Zigliara per lo studio relativo. Egli aspettava a Torino il risultato,
quando in giugno gli arrivò la notizia che la comunicazione dei privilegi non si
concedeva; spedisse perciò una nota distinta di quelli desiderati, documentandola
a dovere. Egli fece un estratto di novantaquattro privilegi tra i goduti dai Liguorini,
dai Passionisti e dai Lazzaristi e lo mandò a Roma. La Sacra Congregazione rispose
con un dilata, che era quanto dire: la cosa si rimanda a miglior tempo.
E a dire l ’ultima parola fu proprio il tempo, nè questo tempo si fece sover­
chiamente aspettare. Nel 1883 la nomina del cardinale Alimonda ad Arcivescovo
di Torino doveva segnare un immediato viramento di bordo in tante cose e primie­
ramente in questa. Il Papa, come disse poi egli stesso al Santo nel 1884, aveva di
proposito scelto quel porporato, perchè notoriamente amico di Don Bosco. Co­
minciava così ad avverarsi anche per lui la parola detta da Gesù agli Apostoli:
Voi sarete in tristezza; ma la vostra tristezza si cambierà in gaudio.
Quanto più Don Bosco sentiva avvicinarsi la fine della sua mortale carriera,
tanto più aveva premura di dare l ’ultima mano alla Società salesiana, mettendola
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a pari con le altre Congregazioni religiose e somministrandole uguali mezzi per fare
il bene nel mondo. Dopo tanti anni di studi e di trattative possedeva ormai più
che sufficiente conoscenza della partita; eppure in questa ultima fase dovette ripi­
gliare da capo tutto il lavoro e persistere nell’opera anche di fronte a sorprese, che
avrebbero abbattuto la costanza di chi non fosse stato della sua tempra. Non fa
d’uopo narrare qui per disteso le vicende che accompagnarono il periodo decisivo;
sarà sufficiente toccare i punti più essenziali.
Si accinse dunque con grande fermezza all’impresa nel gennaio del 1884. Messi
in carta i motivi per cui chiedeva i privilegi e delineatane bene la portata, mandò
copia dello scritto al Cardinale Protettore e al Cardinale Arcivescovo, pregandoli
di esaminare e di dirgli il loro avviso. I due porporati si pronunciarono favorevol­
mente. Allora inviò la sua supplica al Santo Padre. Il cardinale Alimonda “ con
vera soddisfazione dell’animo’’ confermò con sua lettera al Papa la verità dei
motivi esposti, lodando la Società salesiana per l ’esemplarità della disciplina e
per il gran bene operato. Una calda raccomandazione fece contemporaneamente
al Cardinale Protettore, che gli promise di “ tenerne seriamente proposito con
Sua Santità ” .
Una prima notizia che tutto andava bene, raggiunse Don Bosco in Francia.
Lietissimo si sfogò allora col suo grande confidente Don Barberis, che gli era com­
pagno nel viaggio e che secondo il suo costume ne raccolse in iscritto le parole.
Disse così: “ Speriamo di ottenere questa volta ciò che da tanti anni forma l ’oggetto
dei miei pensieri. Per riuscire a ottenere questi privilegi ho perseverato, tentato,
ritentato ogni strada, ho subito umiliazioni e ripulse; ma nulla al mondo ci deve
sgomentare. Si poteva desistere, ma non volli. Era per la Chiesa e non per me; era
per il bene delle anime; era per lasciare alla mia morte consolidata la nostra Con­
gregazione, la quale in buona sostanza appartiene alla Chiesa. Quando sembrava
perduta ogni speranza di riuscita, avrei potuto dire: — Lasciamo un po’ stare, ci
pensino essi. — Ma no, bisogna che fino all’ultimo facciamo tutte le nostre parti,
niente lasciando d’intentato. Per cogliere le rose, si sa, s’incontrano le spine; ma
con le spine vi è sempre la rosa ” . Quegli “ essi ” erano i superiori ecclesiastici.
Le spine non erano ancora finite. Rimosso il vecchio ostacolo, ecco sorgerne
uno nuovo. L’opinione che la Società salesiana non potesse in verun modo so­
pravvivere al suo fondatore s’impadronì talmente del cardinale Ferrieri, che ne
stornò l ’animo da qualsiasi altra considerazione. Concederle i privilegi dovette
sembrargli come imporre una cupola monumentale ad un edificio fabbricato sul­
l ’arena. Ma il Papa lo volle, nè vi furono ostruzionismi che valessero contro il
suo volere.
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Nel marzo del 1884 Don Bosco, esausto di forze dopo il mentovato viaggio in
Francia e respinto il consiglio di chi lo esortava a concedersi un po’ di riposo,
proseguì per Roma. Ebbe un mese dei più travagliati. Complicazioni dilatorie lo
costringevano a sfibranti fatiche: scrivere, far ricerche, rifare il già fatto, consul­
tarsi, visitare personaggi influenti... non aveva un momento di requie. Finalmente
il Papa intervenne e tagliò corto, disponendo che fossero concessi i privilegi per
communicationem coi Redentoristi. Giunse a dirgli in u n ’udienza del 9 maggio:
“ Ora non c ’è più il povero... Allora era difficile fare le concessioni di buon
accordo. Quello fu un vero vostro avversario ” . Quando non restava più che da
espletare alcune pratiche d ’ufficio, Don Bosco credette di poter lasciare Roma;
tanto più che, come si suol dire, Roma è eterna.
Partì il 14 maggio, nè cessò di sollecitare da Torino l ’effetto delle disposizioni
pontificie. Il decreto fu steso finalmente verso la fine di giugno. Nella primitiva
redazione quello conteneva alti elogi della Società salesiana, che nel testo defini­
tivo scomparvero: al Cardinale Prefetto erano sembrati fuori di proposito. Così
asciutto asciutto il documento venne spedito a Torino. “ Mancano le frange, ma
la sostanza c ’è tutta ” , scrisse Don Bosco alcuni giorni dopo al Procuratore gene­
rale di Roma.
Un fatto, non meno misterioso che certo, accadde, quando il postino recò a
Don Bosco il plico raccomandato. Erano le 18 del 9 luglio. Appena il Santo l ’ebbe
in mano, scoppiarono a brevissimo intervallo sull’Oratorio quattro fulmini, accom­
pagnati da tali rombi di tuono, che la casa traballava e tutti rimasero esterrefatti
per l ’improvvisa oscurità. L’ultimo schianto sorpassò in fragore gli altri. Don
Bosco aveva tentato di leggere, ma non vi era riuscito. Le finestre stavano aperte
e i primi tre fulmini erano strisciati quasi nel vano di esse. Il segretario afferrò
allora Don Bosco per un braccio e lo trasse verso la stanza vicina dicendogli:
— Venga via. Non vede che qui è in pericolo? Sembra che questi fulmini cerchino
lei. — Mentre si avviavano, ecco scoppiare il quarto: la saetta di fuoco parve
lambire il tavolino, sul quale stava il decreto.
Ma qui non è tutto. Nel 1880, proprio la notte del 9 luglio, Don Bosco aveva
fatto un sogno che raccontò nel pomeriggio ai superiori del Capitolo. Gli sembrava
che infuriasse il temporale con fulmini, lampi e tuoni. Dopo un tuono più forte
degli altri, ecco cadere dal cielo una fitta pioggia di spine. A un secondo fragoro­
sissimo tuono, piovvero bottoni di fiori. A un terzo schianto di egual veemenza
le nubi si diradarono in alcuni punti, lasciando passare raggi di sole: intanto piove­
vano fiori di vario colore. Un quarto tuono rimbombò nell’aria. Nel cielo divenuto
terso il sole risplendeva luminoso, mentre venivano giù nembi di fragrantissime
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rose. Nelle varie fasi del sognato fenomeno non sarebbe difficile trovare riscontri
con le fasi successive dell’ultimo decennio; ma per questo troppe più cose bisogne'
rebbe dire, che romperebbero l ’armonia del presente lavoro. Basti ricordare che
durante le decennali peripezie qui e più sopra descritte un giorno Don Bosco
esclamò con alcuni intimi: — Se avessi saputo prima che costava tanti dolori,
fatiche, opposizioni e contraddizioni il fondare una Società religiosa, forse non
avrei avuto il coraggio di accingermi all’opera.
Dal 9 luglio 1884 cominciò per lui un periodo di quiete, che nulla più turbò
fino al non lontano termine de’ suoi giorni. Egli sentì allora talmente di poter
intonare il suo Nunc dimittis, che disse: — Ora non ho più altro da desiderare,
e prego il Signore che mi pigli con sè. — Campò ancora tre anni e mezzo, anni di
gravi sofferenze fisiche, ma rallegrati da straordinarie consolazioni.
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CAPO XXXVII
APOSTOLATO DELLA STAMPA
Don Bosco, che sul principio della sua missione aveva per amore delle sue
Letture Cattoliche rischiato più volte la vita, perseverò tenacemente sino alla
fine nell’apostolato della stampa. Quello che nonostante le difficoltà dei tempi, la
scarsezza dei mezzi e la ressa degli affari egli operò in questo campo, sorpassa dav­
vero ogni immaginazione.
Prima ancora di fondare le Letture Cattoliche egli aveva già organizzato qualche
cosa per la buona stampa. E infatti del 1850 una Pia Unione provvisoria di laici,
detti promotori, chiamati da lui a raccolta per intraprendere, come si legge nello
statuto, una benefica attività “ istruttiva, morale e materiale ” contro gli “ abusi
della libera stampa Le Letture Cattoliche sorsero più tardi, dopo tre anni di
laboriosa preparazione, per offrire un mezzo diretto e continuo di reazione contro
i lamentati abusi; e questo fu certamente un gran passo.
In seguito non quietò, finché non riuscì ad avere, come vedemmo, una tipo­
grafia a sua disposizione nell’interno dell’Oratorio. Era minuscola cosa, ma era un
cominciamento. Don Bosco, che per cominciare un’opera non aspettava di poter
fare le cose a perfezione, una volta cominciato, andò sempre avanti, finché non
ebbe una tipografia di prim ’ordine. Di progresso in progresso, la tipografia del-
l ’Oratorio nel 1875 contava sei macchine con fonderia di caratteri, stereotipia e
calcografia. Nel 1881, per l ’arte del libro, Don Bosco eresse un grande edificio ap­
posito, inaugurato nel 1883, e alle macchine di prima, divenute insufficienti, ne ag­
giunse altre di nuovo modello, sicché a Torino allora non c ’era tipografia così bene
attrezzata da poter reggere al confronto con quella di Valdocco. Don Achille Ratti
che nel 1883 venne da Milano per visitare Don Bosco e l ’Oratorio, la trovò che
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funzionava in pieno e si rallegrò della felice impresa, nella quale aveva ammirato
come andassero di conserto l ’officina e la scuola. Nè egli perdette più di vista
l ’attività editoriale salesiana, tanto che, elevato al soglio pontificio, volle i figli di
Don Bosco a dirigere la tipografia vaticana.
Quando con la tipografia dell’Oratorio prese a lavorare anche quella di Sam-
pierdarena, Don Bosco sentì l ’opportunità di rendersi indipendente nel riforni­
mento della carta; anzi a questa prima idea ne associò un’altra, quella di giovare
alla buona stampa somministrando alle pubblicazioni periodiche dei cattolici la
carta a modico prezzo. Mosso da tali considerazioni, acquistò nel 1877 a Mathi
Torinese una cartiera, alla cui direzione pose salesiani esperti o capaci di acqui­
starvi la necessaria esperienza.
Accanto alla doppia tipografia, due librerie attivissime attendevano a smaltirne
i prodotti. Perchè vicini e lontani si formassero un giusto concetto di tale attività
libraria, Don Bosco ordinò nel 1881 la stampa di un catalogo generale, che in no-
vantasei pagine metteva sott’occhio l ’elenco delle edizioni fino allora uscite. Del
fascicolo furono diffuse in tutta l ’Italia quarantamila copie. Don Bosco mostrò
sempre di comprendere il moderno valore della pubblicità, non in quanto è anima
del commercio, ma come propaganda di bene. Egli diceva: — Siamo in tempi, in
cui bisogna operare. Il mondo è divenuto materiale, perciò bisogna lavorare e far
conoscere il bene che si fa. Se uno fa anche miracoli pregando giorno e notte e
stando nella sua cella, il mondo non ci bada e non ci crede più. Il mondo ha
bisogno di vedere e toccare.
Fra le edizioni salesiane, che dovettero la loro esistenza a Don Bosco, tengono
il posto d’onore le collezioni. Prima per ordine di tempo, la collezione delle Let­
ture Cattoliche fu sempre la prediletta del Santo. Egli non la diresse solamente, ma
vi collaborò a lungo e in misura che ha del favoloso; poiché, senza tenere conto
del (galantuomo, sempre anonimo e spesso compilato da lui, fra il 1853 e il 1878
ben cinquanta pubblicazioni vi portano il suo nome, e alcune di esse riempiono
parecchi fascicoli, da due a sei. Il programma, finché dominò la volontà del fon­
datore, si mantenne entro l ’àmbito apologetico, ascetico, morale e agiografico, alla
portata del popolo.
Ma esisteva una classe di lettori che a Don Bosco era cara come la pupilla de’
suoi occhi: gli studenti delle scuole secondarie. In Italia il maxima debetur puero
reverenda di Giovenale sembrava purtroppo diventato un anacronistico aforisma,
con tanto poco riguardo nelle mani dei giovani si mettevano testi classici contenenti
pagine o anche solo versi o frasi, che nei loro cuori non potevano non avere riso­
nanze pericolose. Bisognava provvedervi.
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Nella vita di Don Bosco è notevole l ’orrore che egli provava per tutto quello
che potesse menomamente offendere la modestia. Per il lungo esercizio di questa
ch’egli amava chiamare la bella virtù, s ’irradiava dalla sua persona un candore ver­
ginale, che rapiva i buoni e colpiva anche i traviati. Nel suo metodo educativo poi
trovavano indulgenza molte mancanze, ma il farsi ad altri pietra d ’inciampo in
materia di purezza lo rendeva inesorabile. Un giorno, sentendo parlare di qualcuno
che aveva dato scandalo, proruppe in questa esclamazione: —■Se non fosse pec­
cato, gli scandalosi io li strangolerei con le mie mani. —■Date queste disposizioni
d ’animo, è naturale ch’egli pensasse con raccapriccio alla contaminazione delle
anime giovanili per la lettura di certi passi ricorrenti in libri usati nell’insegna­
mento scolastico.
Di qui ebbero origine i suoi Selecta ex Latinis scriptoribus, che a poco a poco
diedero alle scuole in edizioni purgate una raccolta completa di quelle opere o parti
di opere latine, che i programmi governativi prescrivevano per i ginnasi e i licei.
Questo lavoro d ’epurazione cominciò quasi subito dopo l ’impianto della tipografia.
Professori salesiani e non salesiani, sotto la direzione di Don Francesia, discepolo
carissimo al latinista Tommaso Vallauri, toglievano inesorabilmente di mezzo ogni
turpitudine e ai testi aggiungevano anche sobri commenti. Dalle continue ristampe
si vede che quelle edizioni incontravano favore.
Poi venne la volta dei classici italiani. La collezione intitolata Biblioteca della
gioventù italiana e diretta da Don Durando, mise in circolazione dal 1869 al 1885
duecentoquattro opere, più che sufficienti ai bisogni della scuola secondaria e della
cultura giovanile. I volumetti in trentaduesimo uscivano normalmente uno al mese
e si davano anche per associazione annua. Nel loro formato non avevano pretese
di eleganza, ma erano comodissimi e costavano pochi soldi. La diffusione fu più
larga che comunemente non si creda; i soli associati arrivarono a circa tremila.
L’essere mondi e tersi fece sì che entrassero nei seminari e in altri istituti ecclesia­
stici autori che diversamente ne sarebbero stati proscritti. Benedetto XV, che in
gioventù vi era associato, disse a un autorevole salesiano che di questa impresa
bisognava essere grati a Don Bosco, perchè egli aveva così reso possibile agli alunni
del santuario letture vietate dalla coscienza o d all’indice dei libri proibiti. Bofon­
chiarono certi insegnanti contro le mutilazioni; critici spregiudicati derisero gli
scrupoli degli uomini di Chiesa; ma Don Bosco fece il sordo e gli assennati educa­
tori gli diedero e gli dànno ragione.
Alla stampa di testi greci egli pose mano più tardi, nel 1872, con sei Dialoghi
di Platone in tre volumi, il primo libro della Ciropedia e il primo dell ’Anabasi di
Senofonte. Curava le edizioni il torinese Don Pechenino, buon grecista; in seguito
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sottentrò il salesiano Don Garino, autodidatta di gran valore. Don Bosco 1 aveva
allevato da ragazzo nell*Oratorio e vedendo la sua attitudine allo studio delle lingue
classiche, ve l ’aveva applicato per tempo. Fu Don Bosco a suggerirgli 1 idea e i
criteri di quella grammatica che agevolò l ’apprendimento del greco a tante genera­
zioni di studenti, quando nelle scuole dominava il Curtius, la cui grammatica,
scientificamente buona, sembrava fatta apposta per mettere in uggia lo studio dei
primi elementi.
Nel 1875 Don Bosco alle tre collezioni precedenti ne aggiunse una quarta. Da
trentanni si battagliava in Francia contro l ’uso esclusivo dei classici pagani nelle
scuole cristiane. Pio IX nel 1853 con la Lettera apostolica Inter multos aveva risolto
la questione raccomandando ai Vescovi francesi di associare allo studio degli antich-
scrittori gentili quello dei Padri greci e latini. Riaccesasi poi la controversia al tempo
dell’abate Gaume col suo Ver rongeur, il Papa ribadì lo stesso indirizzo in un Breve
del 1874 al focoso polemista; sul quale argomento ritornò l ’anno dopo in un altro
Breve a monsignor d ’Avanzo, allora Vescovo di Calvi e Teano. Don Bosco, che
teneva dietro al dibattito, lasciando che i letterati discutessero, scese al pratico e
iniziò i Selecta ex Christianis scriptoribus con un primo volume di S. Girolamo.
Ne affidò la cura al salesiano Don Tamietti, altro discepolo del Vallauri. Contemi
poraneamente impose che nelle scuole salesiane si facesse su autori cristiani una
lezione di latino ogni settimana. Dieci anni dopo, temendo che si abbandonasse
tale usanza, disse ai superiori del Capitolo: Il latino degli scrittori cristiani, come
alcuni pretendono, non sarà classico; ma chi legge S. Agostino e S. Bernardo resta
sorpreso dalla bellezza della lingua, benché non sia ciceroniana ’*♦ Allora sotto
l ’impero del laicismo si ostentava dispregio per la letteratura patristica; oggi in­
vece il Governo le ha aperto le porte non solo del ginnasio e del liceo, ma anche
dell’istituto tecnico e delle magistrali, essendovisi introdotto lo studio del latino.
Come Don Bosco, la pensava pure il Tommaseo che in un suo Diario del 1833
sotto il 30 maggio aveva scritto: " I primi scrittori cristiani sono giganti appetto
ai pagani ultimi. Anche questo è vestigio divino
Un’altra categoria di libri scolastici vi era da espurgare per renderli inoffensivi
alla gioventù: i dizionari. Certe parole, certi esempi, cadendo sotto gli occhi dei
giovani, ne feriscono l ’anima e sono incentivo al peccato. Don Bosco volle liberare
le scuole da tale sconcio. Diede perciò a Don Durando l ’incarico di preparare i
vocabolari della lingua latina, a Don Pechenino quei della lingua greca e a Don
Cerruti l ’italiano. Questi vi faticò dal 1868 al 1879, mentre i due primi offrirono
più presto il frutto delle loro fatiche; poiché nel 1876 i due volumi grandi del Du­
rando e uno del Pechenino correvano già per le scuole. Stimolato da Don Bosco,
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il Durando compiè l ’opera, compilando il Nuovo Mandosio per le due prime classi
ginnasiali. Anche queste pubblicazioni furono accolte con plauso dalle persone serie.
Don Bosco era già vicino al tramonto della sua vita, quando nel 1885 principiò
ancora una collezione di tu tt’altro genere. E risaputo quanta importanza egli annet­
tesse al teatro giovanile, in cui vedeva un mezzo eccellente per rallegrare, istruire,
educare il piccolo mondo de’ suoi collegi. Le rappresentazioni furono da lui co­
minciate nel 1847 per gli esterni e nel 1849 per gl’interni. Egli stesso compose in
quegli esordi tre lavoretti drammatici, di cui uno a scopo didattico sul sistema
metrico decimale recentemente introdotto negli Stati Sardi, un altro d ’argomento
apologetico con protagonisti un avvocato e un ministro protestante, e il terzo a
sfondo morale intitolato La casa della fortuna. A poco a poco l ’arte drammatica
degli imberbi attori vi progredì a segno che dal 1861 in poi si vennero eseguendo
parecchie commedie latine fra lo stupore e il diletto del pubblico intelligente.
Il Santo nel 1858 aveva dettato sul teatro collegiale una serie di norme, che, ritoc­
cate da lui in seguito, inserì nel Regolamento per le case salesiane. Orbene, scar­
seggiando le produzioni che rispondessero al suo ideale, intraprese nel 1885 una
Piccola Collana di letture drammatiche per istituti d ’educazione e famiglie. Ne usciva
un fascicolo ogni due mesi. Don Lemoyne contribuì ad arricchirla con numerosi
lavori, che affascinavano i giovani e producevano i buoni effetti voluti dal Santo.
A Don Bosco è dovuta inoltre una collezione, che comparve dopo la sua
morte: la collezione di Letture amene. La propose nel 1885, quando decise di chiu­
dere quella dei classici italiani. Fattala annunciare l ’anno appresso dalla libreria
dell’Oratorio, ne vide un debole inizio nel 1887; ma solo più tardi questa sua
ultim a iniziativa editoriale prese slancio.
Persuaso com’era che la musica fosse strumento efficace di educazione, pochis­
sime opere musicali trovava che accoppiassero ad altre qualità una facile piacevo,
lezza. Eccitò pertanto Don Cagliero a fare svariate composizioni sacre e profane,
che avessero i requisiti da lui desiderati. Don Cagliero, dotato da natura di facile
vena, ne secondò a meraviglia gl’intendimenti, sicché per lui l ’Oratorio non solo
si acquistò fama con grandiose esecuzioni, ma gareggiò pure in edizioni musicali
con altre case editrici d ’allora.
Qui più d ’un lettore domanderà come mai intorno a Don Bosco spuntassero
come funghi gli scrittori. La risposta è molto semplice. Il grande educatore, come
si formava direttori, predicatori, confessori, insegnanti, assistenti, così seppe for­
marsi anche i suoi scrittori. Guardando alle attitudini e ai gusti dei singoli, sco­
priva coloro che avessero il talento di saper maneggiare la penna e bel bello li
avviava alla forma di lavoro letterario a loro più confacente. Li chiamava a colla_
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borare con sè in pubblicazioni che stava preparando, li provvedeva di libri, li
metteva a contatto con uomini di lettere o di date competenze, assegnava loro
argomenti da trattare, li assisteva nei primi tentativi, largiva ad essi norme pratiche,
suscitando còsi ne’ suoi giovani sacerdoti la coscienza di poter fare qualche cosa
e insieme la voglia, come si diceva a quei tempi, di far gemere i torchi. Con questo
non si pensi che egli allevasse letterati di professione; le occupazioni letterarie de*
suoi Salesiani erano intercalate a ordinarie occupazioni di ben differente natura.
A ll’apostolato della stampa, secondo che egli lo intendeva, occorrevano due
cose: modicità di prezzi e larga diffusione. Non potè dire la sua ragione sui prezzi
finché non possedette una tipografia nella propria casa; allora soltanto aveva agio
d’intervenire per moderare a piacer suo il costo dei libri. E come era esigente in
questo! Una volta, quando dirigeva la tipografia il cavaliere Oreglia, lo riprese
amorevolmente, ma energicamente, perchè avesse assegnato un prezzo un po’ alto
alla biografia di Francesco Besucco, e alle sue spiegazioni rispose: — Io non guardo
a nessun prezzo, io guardo solo che si diffondano buoni libri. Noi due non c’in­
tendiamo ancora. Ella sa che Don Bosco ha bisogno di denaro, e perciò gliene
vuol dare; io so esserci bisogno che i buoni libri si diffondano, e perciò non
guardo a denari.
Riguardo alla diffusione, pochi sanno oggi di un’industria usata dal Santo. In
moltissimi centri grandi e piccoli egli guadagnava alla causa della buona stampa
qualche suo confidente, ecclesiastico o laico, ottenendo che e per zelo di bene e
per far piacere a lui si sobbarcasse alla non lieve molestia di procacciargli associati,
ritirare i pacchi delle pubblicazioni e distribuirle ai destinatari. Nè questo solamente
in Piemonte o nell’alta Italia, ma anche più giù. Così a Faenza aveva Don Taroni,
direttore spirituale di quel seminario, propagatore instancabile delle Letture Cat-
tóliche; a Firenze la contessa Uguccioni, che teneva nel palazzo una piccola libreria
di opere inviatele da Torino, e il domenicano Padre Verda, che con le Letture
Cattoliche diffondeva anche la Biblioteca della gioventù italiana; a Roma la Madre
Galeffi, superiora delle Nobili Oblate di Tor De’ Specchi, la quale nel parlatorio
della casa religiosa teneva esposti per la vendita tutti i libri speditile regolarmente
dall’Oratorio. In questo modo si spiega come, per esempio, gli associati alle Letture
Cattoliche oscillassero fra i dodici e i quattordicimila.
Un’occasione di straordinaria importanza seppe Don Bosco far servire a’ suoi
fini. Nel 1884 si doveva inaugurare a Torino un’Esposizione nazionale dell’industria»
della scienza e dell’arte. Orbene egli concepì l ’ardito disegno di esporre e mettere
in azione l ’intero macchinismo necessario alla produzione del libro. Approvata la
sua proposta, fu costruita per lui una galleria speciale, sul cui ingresso si leggeva
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37.3 Page 363

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a caratteri cubitali la scritta: DON BOSCO. Fabbrica di carta, tipografia, legatoria
e libreria salesiana. Per quei tempi, un prete espositore in una Esposizione nazio­
nale e nella sezione del lavoro sembrava a molti visitatori il non plus ultra della stra­
vaganza. Infatti non erano pochi coloro che, passando dinanzi e leggendo l ’iscri­
zione, sorridevano nella certezza che vi fosse là entro un bazar di roba da sagrestia.
Invece, chi entrava, rimaneva subito impressionato da due novità, dal lavoro cioè
e dai lavoratori. Questi, tutti giovani di varia età, si attiravano le simpatie dei ri­
guardanti per l ’applicazione, la compostezza e la serenità, con cui attendevano
ognuno a fare bene la parte sua. Il lavoro poi incatenava dal principio alla fine
l ’attenzione. Probabilmente non era mai avvenuto a nessuno di assistere così al
graduale processo, per cui da un mucchio di sudici cenci si arrivava a veder uscire
un superbo volume, illustrato con un centinaio d ’incisioni e ben legato, la Fabiola,
romanzo storico del Cardinale Wiseman sulla Chiesa delle Catacombe. Cosicché
quel reparto costituì per il pubblico uno dei richiami più interessanti nella grande
mostra. Un giornale di Reggio Emilia, il Reggianello, nel numero del 4 ottobre ripor­
tava le impressioni di un reduce da Torino, il quale diceva che la galleria di Don
Bosco era una delle poche, dove si affollassero i visitatori e che in quel continuo andi­
rivieni si notavano sui volti i segni evidenti della soddisfazione e della meraviglia.
A fabbricare la carta vi lavorava da mane a sera una macchina novissima, acqui­
stata allora allora da Don Bosco nella Svizzera e destinata a sostituire quella vecchia
di Mathi. Nella parte libraria figuravano mille volumi, tutti usciti dalla tipografia
salesiana. Ve n ’erano d ’ogni sesto e d ’ogni qualità: scientifici, letterari, storici,
didattici, religiosi, illustrati. Faceva pure bella mostra di sè la collezione intera del
Bollettino Salesiano in tre lingue: italiana, francese e spagnola. Vi si vedevano anche
saggi di disegno professionale. Il tutto stava bene disposto in scansie di elegante
struttura, lavoro dell’Oratorio, e dalle vetrine traspariva una grande varietà di
legature.
Concorrendo in forma così imponente a ll’Esposizione torinese, Don Bosco si
riprometteva parecchi vantaggi. Si sarebbe visto alla prova non essere il clero quel
retrogrado e nemico del progresso, quale una certa stampa si ostinava a rappresen­
tarlo. Vi si sarebbe dato anche un buon esempio con la santificazione dei giorni
festivi. Su questa obbedienza alla legge della Chiesa i giornali di parte avversa avreb­
bero voluto fare dello spirito o schizzare veleno; ma una più o meno tacita intesa
a fine di non danneggiare l ’Esposizione li trattenne dal menarne scalpore. Non fu
agevole far accettare tale condizione; Don Bosco però non cedette e il comitato
esecutivo per interesse si arrese. Un terzo vantaggio consistè nell’immensa pubbli­
cità che egli procurò alla sua attività in favore della buona stampa. Tutta l ’Italia
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37.4 Page 364

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cattolica venne a conoscere non senza orgoglio un’opera grandiosa che somma*
mente la onorava e che meritava di essere sostenuta con ogni mezzo per il bene
della Chiesa e della società.
Don Bosco prima di lasciare la terra potè consolarsi d’aver attuato il suo pro­
gramma iniziale; prima una tipografia, poi una grande tipografia, infine molte
tipografie. Oltre alla grande tipografia dell’Oratorio, sette altre ne aveva impian­
tate, di cui due in Italia, a Sampierdarena e a S. Benigno Canavese; tre in Francia,
a Nizza, a Marsiglia e a Lilla; una nella Spagna, a Sarrià presso Barcellona; una
nella Repubblica Argentina, a Buenos Aires. Dopo tali precedenti non c’è da
meravigliarsi, che i figli di Don Bosco, dovunque siano chiamati a portare l ’opera
loro, si dedichino con ardore di predilezione a suscitare e organizzare potenti
scuole tipografiche. L’apostolato della stampa è parte integrale dell’eredità lasciata
loro dal Padre.
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37.5 Page 365

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CAPO XXXVIII
DON BOSCO NELL’ORATORIO DAL 1868 IN POI
Con l ’erezione della chiesa di Maria Ausiliatrice l ’Oratorio prese la sua fisio­
nomia definitiva e fissò le sue consuetudini di vita. Il santuario, mèta di
pellegrinaggi lontani, era per gl’interni centro del culto e della preghiera, oggetto
delle comuni sollecitudini, sorgente di grazia e di gioia ed anche motivo di santo
orgoglio, com’è per i cittadini il loro duomo o per gli abitanti di villaggio la loro
parrocchiale. Della Madre celeste vi si sentiva in ogni parte quasi l ’immediata vici­
nanza e verso di lei Don Bosco faceva convergere i cuori dei figli. Sino al 1878 tenne
egli le redini della casa; dopo quell’anno il governo della crescente Società, i fre­
quenti e lunghi viaggi e il declinare della salute lo costrinsero a tirarsi gradatamente
indietro, pur non perdendone mai il contatto. Valgono per il primo di questi due
periodi molte cose dette precedentemente, che però si debbono qui integrare.
La presenza di Don Bosco nell’Oratorio era come l ’aria, che si respira in ogni
luogo e ad ogni istante, senza che vi si ponga mente; investiva tutto e tutti come
effusione di paterna bontà. I nuovi venuti non tardavano a sperimentarne l ’influsso.
Di Don Bosco avevano già forse udito parlare, ma tosto lo udivano menzionare da
superiori e da compagni; quel nome veniva pronunciato come quello di un padre
amoroso e santo. Poi lo vedevano la prima volta e rimanevano incantati a rimirarlo.
Alla fine lo incontravano: l ’amabilità del tratto, le interrogazioni sulle loro famiglie
e sulle cose loro più care o più note, qualche piacevolezza sul loro cognome, qualche
uscita inattesa che li colpiva, ne guadagnavano la confidenza.
Due volte al giorno si mostrava regolarmente in pubblico: al mattino durante
la Messa della comunità andando a confessare e alla sera dopo le orazioni. Confes­
sando, non si chiudeva nel confessionale, sicché tutti potevano contemplarlo a loro
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agio ed essere edificati dalla santità del suo contegno. I penitenti gli si affollavano
attorno in gran numero, aspettando il proprio turno inginocchiati sul pavimento
e in una singolare mescolanza di alunni, chierici, preti, coadiutori. Ma di questo
argomento basti il già detto nel capo ventottesimo.
Magnifica poi era la scena che si svolgeva al chiudersi della giornata. Si chia­
mava l ’ora della “ buona notte Gli animi, preparati dalla preghiera, lo aspettai
vano con desiderio. Venuto il momento, tutti gli occhi fissavano il pulpitino, su-
quale egli montava aiutato filialmente dai più vicini. Di là sopra abbracciava con
uno sguardo sereno e sorridente lo svariato uditorio; poiché nessuno vi mancava
dei componenti la casa, da Don Rua all'ultimo dei famigli, come cristianamente
voleva che si chiamassero gli uomini addetti agli umili servizi domestici. Anzitutto,
chi avesse trovato oggetti smarriti, si faceva avanti e glieli porgeva, ed egli, mo­
strandoli, invitava i padroni a ritirarli, accompagnando non di rado il gesto con
un motto che destava l ’ilarità. Nel suo concetto la “ buona notte ” doveva essere
una parlatina di cinque minuti al massimo, nella quale si esprime una sola idea
importante, ma in modo da fare impressione e mandare i giovani a dormire con
un buon pensiero o un buon sentimento. I suoi argomenti variavano all’infinito,
secondo il bisogno e l ’opportunità: ordini per l ’indomani, atti di pietà raccoman­
dati, commemorazioni di benefattori defunti, richiami di catechismo, spiegazioni
di cerimonie religiose o di paramenti sacri o di parole liturgiche, fatti della Bibbia
e della storia ecclesiastica o civile, esempi di Santi, sentenze, apologhi, invenzioni
moderne, cose della giornata lodevoli o biasimevoli avvenute nella casa, annunci
di novene e feste, errori correnti. Proponeva quesiti da risolvere, moveva domande
sul significato di certe parole, non esigendo sempre risposta immediata, ma dando
un giorno o due di tempo e permettendo anche di rispondere per iscritto; il che
offriva poi materia d’altri sermoncini. Dopo le spedizioni missionarie aveva una
miniera inesauribile di notizie e di aneddoti, che porgevano occasione a fantasti­
care e a riflettere. Qualunque fosse il tema, egli sapeva con destrezza trarne motivo
per ispirare odio al peccato e per esortare a far buone confessioni e sante comunioni.
Per una ragione speciale attribuiva grande importanza a queste parole dette amo­
revolmente ogni sera dopo le orazioni. — Lì, diceva, si taglia la radice ai disordini,
prima ancora che nascano.
Talvolta saltavano fuori dialoghi non impreparati. Un prete, domandata la
parola, chiedeva spiegazioni su cose dette da Don Bosco la sera innanzi o proponeva
di concedere ai giovani un determinato spasso o esponeva dubbi suggeriti da circo­
stanze speciali. Per esempio, 1*11 marzo 1873, com’egli ebbe ripigliato un argo­
mento delle sere precedenti sulle vocazioni ecclesiastiche e sul disinteresse che
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37.7 Page 367

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devono avere gli aspiranti allo stato sacerdotale, Don Barberis domandò di parlare.
—■Sentiamo che cosa vuoi dire — gli rispose Don Bosco. E quegli: — Ogni fatica
deve avere il suo premio; quindi è ben giusto che il prete lavorando guadagni. —
Don Bosco approvò, ma spiegando che, provveduto al necessario sostentamento,
il prete non deve far denari nè per sè nè per la famiglia; suo guadagno essere le
anime. L ’interpellante replicò tirando in ballo il quarto comandamento: Onora il
padre e la madre. La risposta fu che, se i genitori sono in bisogno, il figlio non pensi
a farsi prete per mantenerli, ma si dedichi a qualche arte o mestiere. — Eppure
persone autorevoli la pensano diversamente — osservò Don Barberis. Il Santo,
scusata la buona fede di cotestoro, ne confutò l ’opinione. L’uditorio partecipava
con interesse e con profitto a simili botte e risposte.
Nella brevità Don Bosco faceva eccezione quando aveva sogni da raccontare.
Per lo più ne dava l ’annuncio qualche giorno prima. L’aspettazione era vivissima.
Durante la narrazione si sarebbe sentito il volo delle mosche. I commenti dura­
vano poi a lungo; ma effetti salutari si producevano immediatamente. Anche di
questo si è detto abbastanza nel capo trentacinquesimo.
Bello era vedere ciò che succedeva dopo terminato il discorsetto. Augurata da
lui la buona notte e rispostogli da tutti con un grazie cordiale, egli discendeva e
lento lento si avanzava. Tostamente, quanti volevano, gli si stringevano attorno, gli
baciavano la mano e gli accostavano l ’orecchio per udire una sua parolina. Attesta
di sè Don Anfossi nei processi: “ A me ragazzo avvenne più volte d ’intendere un
amorevole rimprovero o avviso dal solo suo sguardo, accompagnato da una stretta
di mano; ed essendo io afflitto, senza bisogno di far parola, era da lui inteso e con­
solato. E quello che faceva con me, faceva con tutti, sicché i ragazzi si dipartivano
da lui per recarsi al dormitorio in silenzio, raccolti e soddisfatti ” .
Parecchi scrivevano le “ buone notti ” di Don Bosco, riempiendone quaderni.
Un manipolo prezioso di tali manoscritti non perì, sicché è stato possibile pub-
blicare nelle Memorie Biografiche alcune centinaia di quei sermoncini serali, che,
anche più o meno riassunti, si leggono tuttora con diletto, lasciando arguire l ’effi­
cacia che dovevano avere nella loro integrità e avvivati d all’unzione del parlare di
Don Bosco.
Anche nel corso della giornata Don Bosco si faceva vedere. Ciò era nel cortile
e nel refettorio. Nel cortile lo vedevano tutti, nel refettorio solamente i Salesiani.
Durante le ricreazioni, appena spuntasse da qualche lato, quelli che giocavano,
prendevano la corsa verso di lui, gli baciavano la mano, ne ricevevano un sorriso
o una parola e tornavano ai loro trastulli; altri gli facevano corona, godendo della
sua conversazione. Erano momenti di vero godimento spirituale. Don Bosco ne
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37.8 Page 368

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profittava peí sussurrare certe parole all’orecchio, che suscitavano nelle anime
giovanili svariate emozioni.
Durante le refezioni sedeva in mezzo alla numerosa comunità, allietandola con
l ’abituale serenità del suo aspetto. Dal 1869 avevano l ’ambito onore di assidersi
ivi periodicamente alla mensa dei superiori gli alunni della quinta ginnasiale, che
si fossero segnalati per studio e condotta. Un tempo vi andavano per turno ogni
domenica i migliori delle singole classi e dei singoli laboratori. Don Bosco mo­
strava di vederli volentieri, il loro posto non era però vicino a lui. Soltanto la sera
del giovedì santo si disponevano a’ suoi fianchi durante la cena i tredici giovani
eletti dai compagni a rappresentare gli Apostoli nella lavanda dei piedi, cerimonia
compiuta sempre da Don Bosco. I premiati suddetti, finito il pranzo, passavano
a riverirlo, ne ricevevano un frutto o un dolce e udivano una sua paroletta, non
proferita certo a caso.
Le occupazioni non gl’impedivano di visitare i suoi infermi. Diceva Don An-
fossi: — Io provai le sue cure materne quando fui colpito dal tifo. — Una volta
un febbricitante assetato gli manifestò una voglia bizzarra: bere dell’acqua entro la
cazza dei muratori. Don Bosco, poco dopo essere uscito, rientra reggendo con garbo
su ambe le palme il rozzo recipiente pieno fino all’orlo e con soavità incompa­
rabile porge all’infermo il desiderato refrigerio. Questo semplice aneddoto ci dà
la misura delle sue attenzioni per gli ammalati. Economo in tutto, non voleva
con essi economie.
Di vedere Don Bosco c’era poi sempre una possibilità più unica che rara. Nel
cuore dell’Oratorio la sua cameretta si apriva indistintamente a quanti della casa
desiderassero parlargli. La bontà del suo accogliere incoraggiava e moltiplicava
tali visite. Seduto allo scrittoio, smetteva qualsiasi occupazione, faceva sedere sul
vicino sofà i visitatori, fossero salesiani o giovanetti, e li stava ascoltando come
se dicessero le cose più importanti del mondo e come se egli non avesse proprio
nient’altro da fare. Da quella stanzetta, comunque vi si fosse entrati, si veniva
sempre via contenti.
Dal fin qui narrato si può comprendere la giustezza della tesi presa a illustrare
in un suo solenne discorso dal Vescovo argentino De Andrea : Don Bosco educatore
aver avuto del pedagogo il puro necessario, del carabiniere nulla, del padre tutto.
Fino al 1879 egli ritenne il titolo di Direttore dell’Oratorio; nè questo era
titulus sine re. Tutto l ’andamento dipendeva dal suo comando e dal suo consiglio.
I superiori subalterni avevano, è vero, la loro libertà di azione, ma sempre nell’àm­
bito delle regole da lui poste e nel senso delle direttive da lui impartite. Questa
sua personale ingerenza nel gran mare dell’Oratorio era quello che è il timone alla
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37.9 Page 369

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nave. Lo coadiuvava bensì nella direzione un vicedirettore, Don Michele Rua,
ma in cima ai pensieri di questo stava ognora la preoccupazione d ’interpretare e
d ’eseguire a puntino la mente di Don Bosco.
La più grande semplicità accompagnava gli atti di governo, su per giù come si
suol fare in una famiglia ben ordinata per risolvere casi giornalieri. Non esistevano
ore d ’ufficio; molto si sbrigava ordinariamente nella mezz’ora fra il termine della
cena e il principio delle orazioni. Seduto o passeggiando nel refettorio, Don Bosco
sentiva l ’uno, chiamava l ’altro, dava ordini e istruzioni a questo o a quello. For­
tuna volle che una pagina di cronaca ce lo ritraesse al vivo in tale operazione. Era
l ’8 di luglio 1875. Sfollato il refettorio, Don Bosco fa cenno al catechista degli arti­
giani di fermarsi e con lui s’intende circa la stampa di alcuni fascicoli delle Letture
Cattoliche. Subito dopo il prefetto della casa viene a parlargli di provvedimenti da
prendere per il buon ordine fra gli artigiani. Non ha ancora questi finito, che il
maestro dei novizi gli riferisce sulla necessità di procurare ai chierici vacanze risto­
ratrici. Sopraggiunge Don Durando a discutere la proposta di un professore che
bramerebbe far stampare nella tipografia dell’Oratorio un suo libro scolastico. Poi
ecco Don Guanella esporgli certa sua idea di un libro sulla propagazione della fede
per le Letture Cattoliche. Infine, non appena Don Bosco si muove per uscire, gli
si mette a fianco il direttore dell’Oratorio festivo e delle scuole esterne (poiché
nell’Oratorio vi furono per molti anni scuole elementari frequentate da esterni) e
lo accompagna pregandolo di approvare l ’apertura di una nuova scuola serale.
A tutti egli risponde con brevi parole, chiare e sicure. Nella continuità di siffatti
indirizzi le molteplici attività dell’Oratorio si svolgevano senza complicazioni,
mentre intanto si venivano formando gli uomini dell’avvenire.
Come di presenza a viva voce, così faceva per corrispondenza, quand’era lon­
tano. Un rispettabile epistolario documenta la sempre vigile sua attenzione sulla
vita dell’Oratorio. Talora, meglio che lettere, sono elenchi di prescrizioni, di norme,
di suggerimenti. Una ve n ’è, in cui egli tocca di ben trenta oggetti disparatissimi.
Da lui partiva dunque e a lui metteva capo tutto quello che concerneva la direzione
e l ’amministrazione della casa. Resta così provata l ’attendibilità di ciò che si legge
nell’accennata cronaca, nella quale Don Barberis sotto il 7 giugno 1875 scrive:
“ L’Oratorio è così organizzato, che quasi nessuno si accorge d ell’assenza di Don
Bosco da Torino ” .
Bisognava poi vedere quando ritornava da queste assenze più prolungate! Era
un delirio di gioia in tutta la casa. L’intera popolazione dell’Oratorio lo aspettava
nel cortile messo a festa con bandierine e iscrizioni. Al suo apparire, applausi ed
evviva si confondevano con le note della banda musicale. Intanto superiori e gio­
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37.10 Page 370

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vani, anch’essi in rumorosa e simpatica confusione, gli si serravano intorno per
baciargli la mano. Un suo sorriso, una sua parola, un suo cenno dava un momento
di felicità a chi n’era l ’oggetto. Nè, quantunque bisognoso di quiete, aveva fretta
di liberarsi da quell’accerchiamento. Nella “ buona notte ” poi sapeva dire cose
che mandavano in visibilio. Il dì appresso nel refettorio gli si leggevano affettuose
felicitazioni in prosa e in verso. Per alcuni giorni la sua cameretta era in stato
d’assedio. Insomma Don Bosco nell’Oratorio non era il superiore, cioè colui che
sta sopra, ma il padre in mezzo ai figli.
Il dilatarsi delle opere portò per conseguenza che Don Bosco si dovesse ritrarre
a poco a poco dal regime interno, assumendo il titolo di rettore e creando un
direttore responsabile; pur tuttavia non rinunciò all’alta direzione. Il direttore
infatti aveva obbligo di comunicargli le faccende di maggior rilievo e divieto d'in­
trodurre innovazioni senza previa intelligenza con lui.
Varie cose però egli mai non dismise nel secondo dei periodi sopra indicati.
Anzitutto il ministero delle confessioni, su di che non occorre aggiungere altro.
Si riserbò pure di parlare lui in due occasioni solenni, cioè nell’ultimo giorno del'
l ’anno civile e nell’ultimo dell’anno scolastico. La sera del 31 dicembre convocava
tutta la casa nella chiesa di Maria Ausiliatrice, dove dal pulpito proponeva e illu­
strava una strenna per l ’anno nuovo. La costumanza datava dai primissimi tempi
dell’Oratorio. Consistevano le strenne in consigli pratici per passare bene gli anni
vicini a cominciare. Regalava pure in bigliettini strenne personali, adatte ai bisogni
individuali di certuni. Di queste esortazioni, come anche di quelle che rivolgeva
pure nella chiesa ai giovani partenti per le vacanze, buon numero si è conservato
e si leggono tuttora nelle Memorie Biografiche con commozione e con utilità. Per i
partenti il suo cuore paterno gli dettava delicate espressioni e i suoi timori di pe­
ricoli spirituali gli suggerivano consigli opportuni, che imprimeva nelle menti con
formule sintetiche e scultorie.
Anche la festa dell’onomastico fu sempre a lui solo riserbata. Dal 1849 al 1887
costituiva questa ogni anno un vero avvenimento con un crescendo di solennità
che da ultimo ebbe del grandioso, ma rivestendo sempre un carattere pedagogico
e morale di valore incalcolabile. Una storia degli onomastici di Don Bosco offri­
rebbe una lettura piacevole, edificante ed istruttiva. Dimostrazioni di tal fatta
furono per molto tempo una novità, imitata poi largamente, fino ad arrivare nei
tempi nostri, alla festa del Papa.
Queste annuali onoranze i figli riserbavano al padre solo; ma il padre riserbò
sempre a sè l ’onere di provvedere ai bisogni finanziari della grande famiglia. Entrate
fisse non c’erano. Le pensioni dei giovani, fattone un calcolo complessivo, frutta*
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v

38 Pages 371-380

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38.1 Page 371

▲torna in alto
vano sì o no venti centesimi per testa al giorno. Per un quarto dei ragazzi gravavano
sul bilancio anche le spese personali. Non parliamo della restante popolazione, che
consumava di più e rendeva meno. Dei laboratori soltanto la tipografia e la scuola
dei falegnami erano attive; ma i loro introiti non bastavano a coprire le passività
degli altri. La libreria dava pure qualche profitto, ma in scarsa misura, giacché Don
Bosco voleva prezzi minimi. I collegi gli rimettevano bensì i loro risparmi, ma questi
non raggiungevano cifre elevate, essendo le rette assai modeste. Infatti Don Bosco
in una lettera del 1875 a Don Rua, che aspettava un po’ di manna per l ’Oratorio,
scriveva da Alassio: “ Ad Alassio, Varazze, Sampierdarena le finanze segnano zero ” .
Quante e quali fossero le strettezze dell’Oratorio, colui che presiedeva a ll’am-
ministrazione se n ’avvedeva specialmente quando Don Bosco era assente. Finche
stava in casa, o i benefattori venivano a cercare lui o andava lui in cerca di bene­
fattori; ma durante le sue assenze Don Rua si trovava nelle peste. Riserve per
casi imprevisti Don Bosco non ne voleva. Una volta Don Rua teneva da parte
per questo scopo un gruppo di cartelle; ma Don Bosco lo obbligò a venderle
per soddisfare ai debiti più pressanti e gli disse, come riferisce nella sua cronaca
Don Barberis, testimonio auricolare: È un chiudere la via alla divina Provvi­
denza il voler mettere in serbo denaro per i bisogni futuri. Io desidero un economo
che sappia confidare illimitatamente nella divina Provvidenza e non cerchi di am­
massare qualche cosa per provvedere al futuro. Io temo che se ci troviamo così
allo stretto di finanze, sia perchè si vogliono fare troppi calcoli. Quando in queste
cose entra l ’uomo, Dio si ritira ” .
Interventi straordinari della Provvidenza Don Bosco ne sperimentò spesso ; aver
bisogno di tanto, e proprio quel tanto arrivare, fu un fatto non rare volte accadu­
togli. Ma infinite più volte egli dovette stendere la mano. Chiedeva a voce e per
iscritto; chiedeva a uomini pubblici e a privati; chiedeva loro perchè lo aiutassero
a fare del bene, perchè si acquistassero meriti dinanzi a Dio, perchè adempissero il
precetto evangelico di dare il superfluo ai poveri. Questo è un punto generalmente
poco inteso anche dai buoni; Don Bosco invece mirava con ciò a beneficare i suoi
benefattori, conducendoli al meritorio distacco dalle cose della terra. A persone
di fede viva egli svelava il suo pensiero. Infatti dissuadendo la fervente cooperatrice
francese Clara Louvet dal tener danaro in serbo, le scriveva il 17 giugno 1882: “ È
stato sempre mio intendimento di fare tutto il possibile per distaccare il cuore de’
miei amici dalle cose miserabili di questo mondo e innalzarli a Dio, bene eterno ” .
N ell’ultimo decennio della sua vita intraprendeva lunghi viaggi, benché trava'
gliato da gravi incomodi fisici, per limosinare a favore de’ suoi giovanetti nel nome
di Maria Ausiliatrice. In conclusione l ’ordinaria vera risorsa delPOratorio era l ’in­
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stancabile costanza di Don Bosco nell’implorare la carità. Faceva pena il vederlo
uscire, così pieno di acciacchi, dall’Oratorio e avviarsi per il mondo in cerca di
questa carità. Non valevano a rimuoverlo nè le energiche proteste dei medici nè
le amorevoli rimostranze dei figli. Erano per lui riposante pensiero le preghiere
che quotidianamente nell’Oratorio i suoi giovani innalzavano all’Ausiliatrice e le
loro numerose comunioni. Egli sentiva di possedere in ciò un ricchissimo tesoro
spirituale, su cui contare fiduciosamente sia per ottenere dal Cielo grazie abbon­
danti sia per soddisfare ai debiti di riconoscenza verso i benefattori.
Tornando a colui che fu suo braccio destro nell’Oratorio, giustizia vuole che
ci soffermiamo alquanto: poiché Don Rua ha diritto a ben più che a un cenno
fugace. Uomo che possedeva un’immensa capacità di lavoro, tutta la mise a ser­
vizio di Don Bosco per l ’Oratorio e per la Società salesiana. Propostosi fin da
fanciullo di starsene con Don Bosco e accintosi a imitarlo aiutandolo, si abbandonò
alla sua direzione e null’altro cercò che di ben conoscere e di ben attuare voleri,
desideri, intenzioni di lui. Rarissime s’incontrano nella storia coppie così elette
di anime e di cuori, che abbiano formato letteralmente come Don Rua e Don
Bosco, un cuor solo e un’anima sola. Legge costante di Don Rua nella sua condotta
fu tutto fare e nulla apparire: Don Bosco solo doveva sempre figurare agli occhi dei
dipendenti, fuorché nei provvedimenti odiosi, nei quali Valter ego del Santo agiva
in nome proprio e di propria autorità. Ecco l ’uomo che la Provvidenza fece incon­
trare a Don Bosco, e che Don Bosco plasmò a sua immagine e somiglianza, condu­
cendolo alla più alta perfezione. Senza invadere il campo soprannaturale della
grazia, si può, umanamente parlando, definire Don Rua il capolavoro di Don Bosco.
L’Oratorio, destinato a essere la casa madre di tante altre case, abbisognava di
cure eccezionali da parte di Don Bosco, perchè fosse incarnazione vivente, visibile
ed esemplare dello spirito di lui. Ecco il vero motivo per cui amò sempre l ’Ora­
torio come la pupilla de’ suoi occhi ed all’Oratorio dedicò incessantemente il
meglio delle sue cure.
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38.3 Page 373

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CAPO XXXIX
FONDAZIONI IN ITALIA
I fiumi profondi, dice un proverbio greco, scorrono lenti. Don Bosco si pre­
sentava con un esteriore che gli dava l ’aria della calma personificata. Nulla
mai lo faceva apparire agitato. Incesso, gesto, voce, parola, tutto in lui era com­
posto a pacata e soave imperturbabilità. Eppure sotto una superficie così placida e
uguale si svolgeva una vigorosa e continua intensità di vita. Fare molto senz’affan­
narsi per nulla è privilegio di chi vive profonda vita interiore con quel perfetto
dominio di sè, che imprime ordine e misura nella piena dei pensieri sgorganti
senza posa da u n ’anima feconda.
Abbiamo veduto fin qui come la mente di Don Bosco dovesse essere sempre
in moto, sospinta in opposte direzioni dalle cause più disparate; passeremo ora a
vedere altre cure, altre sollecitudini che ne occuparono lo spirito negli ultim i ven-
t ’anni della sua esistenza: i maneggi per fondazioni in Italia, in Francia, nella Spagna
e nell’America.
Cresceva la fama di Don Bosco e aumentavano le domande di oratorii festivi,
di scuole, di collegi. Il 6 giugno 1870 scriveva a Don Bonetti: <£Al giorno d ’oggi
abbiamo quaranta richieste per aprire case con buone proposte. Che messe co­
piosa! ” . Egli esaminava e discuteva: poi o mostrava il buon volere pregando
gl’interessati di attendere che le circostanze gli permettessero di contentarli, o
elaborava convenzioni nelle quali nulla sfuggiva alla sua previdente sagacia.
L’Italia alla morte di Don Bosco aveva case salesiane disseminate quasi in ogni
parte. La più antica dopo il collegio di Mirabello era quella di Lanzo Torinese,
aperta nel 1864. Un collegio municipale aveva cessato ivi di esistere; il santo par­
roco Albert, del quale è in corso la causa di beatificazione, indusse Don Bosco ad
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38.4 Page 374

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accettare di ripristinarlo e persuase il Municipio a far suo il progetto. Si protrassero
a lungo le trattative. L’apertura fu fatta nell’ottobre di quell’anno. Il personale si
componeva di un solo prete, e di sei chierici, abilitati all’insegnamento elementare
e ginnasiale. Tutti questi chierici si segnalarono poi in vario modo, massime il Pre-
fetto Apostolico Fagnano e il Vicario Apostolico Costamagna. I principii non pote­
vano essere più duri. Dentro, per tutto il primo anno scolastico si visse in povertà
più che francescana. Fuori, la gioventù del paese, aizzata da gente cattiva, prendeva
a sassate i Salesiani e ne disturbava con atti di violenza le funzioni domenicali.
L’amministrazione municipale era peggio che incurante; si aveva gran paura allora di
sembrare clericali. In primavera cadde gravemente ammalato il direttore, che do­
vette scendere all’Oratorio, dove in luglio morì, cosicché il collegio rimase per sei
mesi affidato ai soli chierici. Con lettere, con visite, con cercate protezioni Don
Bosco li incoraggiava e li aiutava. Grazie al loro spirito di sacrificio, l ’anno scola­
stico finì bene. Poi nuove costruzioni intraprese da Don Bosco permisero di por­
tare in pochi anni a più di duecento il numero dei convittori. Il Santo amò sempre
assai quel collegio. Bisogfia pure aggiungere che il collegio S. Filippo Neri di Lanzo
si mostrò sempre degno di tanta predilezione.
Nel 1869 accadde ivi un fatto clamoroso. Sette alunni giacevano infermi di
vaiuolo. Don Bosco, recatosi colà per la festa del titolare, li visitò in compagnia
del direttore Don Lemoyne. — Ci benedica e ci guarisca — gli gridarono parecchi
di essi. Egli li esortò ad aver fede nella Madonna, recitò con loro un’Ave Maria
e li benedisse. — Possiamo alzarci? — gli domandarono di scatto, seduti sul letto.
Riflettuto un istante: — Alzatevi — rispose egli, e col direttore si ritirò. Tosto il
direttore rientrò nella camera di isolamento per vedere che cosa vi si faceva. Sei
non c’erano più: uno solo, un tal Baravalle, se ne stava tuttora aggomitolato sotto
le coltri. I suoi compagni si divertivano nel cortile. La giornata umida e fredda
(Lanzo è sulle prealpi a 520 metri), la qualità del male, gli ordini tassativi del medico
di non esporsi all’aria misero in apprensione il superiore, che scese in fretta a
cercarli. Esaminatili ben bene uno per uno nella faccia e nelle mani, non vide più
segni di pustole nè di macchie.
La sera della festa venne il bello. Si premiavano pubblicamente sei alunni de­
signati come i migliori per votazione segreta dei compagni. Fu chiamato per primo
un De Magistris. —•Infermo —•disse il medico presente. Fu chiamato per secondo
un Passerini. — Infermo — ripetè il medico. Invece entrambi si avanzarono a rice­
vere dalle mani di Don Bosco il premio. Il dottore rimase interdetto; gridò all’im­
prudenza, dichiarò fatale il rientramento delle pustole e chiamò responsabili delle
conseguenze i superiori. Poi, salito nell’infermeria e trovato il solo Baravalle, se
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n ’andò dispettosamente dal collegio. Per i sei non vi furono complicazioni; quello
di poca fede si covò il male ancora per venti giorni; i due premiati, divenuti pro­
fessori governativi e vissuti fino alla più tarda vecchiaia, narrarono le mille volte a
voce e per iscritto la singolare guarigione. Don Lemoyne nei processi dice di averla
ritenuta sempre per miracolosa.
Sette anni dopo, nel collegio di Lanzo, Don Bosco offerse un ricevimento storico,
nel quale mostrò fin dove arrivasse il suo saper vivere. Inaugurandosi la ferrovia,
vi si volle inscenare una dimostrazione politica. Da poco il Governo era passato
nelle mani della sinistra democratica e anticlericale. V ’intervennero deputati, se­
natori e i tre ministri Depretis, Nicòtera e Zanardelli. In paese nessun locale si
prestava meglio del collegio per servire il rinfresco a più centinaia di persone. Don
Bosco non mosse difficoltà, anzi ci si volle trovare egli stesso a fare gli onori di casa.
Ricevette alla porta i personaggi principali, li accompagnò al luogo preparato e dopo
li condusse nel giardino in riva alla Stura. Quei signori non lo lasciarono più fino
all’ora della partenza, godendo assai della sua piacevole conversazione. I ministri
gli sedevano intorno alla meglio. Si parlò delle cose più diverse: del Papa, di politica,
di educazione e perfino di verità eterne. Molti ospiti illustri si avvicinarono, ascol­
tando curiosamente quei discorsi, nei quali anche dagli scherzi Don Bosco prendeva
occasione per toccare argomenti seri. Il dialogo proseguì mentre si ritornava in casa,
ma con una confidenza reciproca così espansiva, che metteva stupore negli astanti.
Congedandosi, i ministri non finivano più di esprimergli la loro soddisfazione.
A quei tempi era oggetto di meraviglia nei due campi opposti il vedere un prete
a familiarizzare con uomini del Governo; Don Bosco spiegò nel giorno stesso il
suo pensiero ai Salesiani che lo circondavano durante la ricreazione. Disse: “ Da
molto tempo, credo, quei ministri e deputati non ascoltavano più tante prediche
come oggi a Lanzo. Povera gente! Non sentono mai una parola detta col cuore o
una verità espressa in modo da non inasprirli. Io li ho ricevuti cordialmente e ho
detto loro col cuore alla mano quanto l ’occasione mi suggeriva; anche certe verità
che potevo dire senza offenderli, le ho dette nel modo più schietto. Non avranno
mai fatto esercizi spirituali; ma questa volta, anche senz’andare a S. Ignazio, li han
fatti. D’altra parte abbiamo quel detto evangelico: Date a Cesare quel che è di Cesare.
Anche questo va osservato. E poi avremo il vantaggio che coloro forse non saran
più troppo nemici dei preti. Essendosi visti trattati col cuore, si persuaderanno che
tanti preti desiderano solamente il bene di tutti, e chi sa che in punto di morte
non desiderino di avere un prete accanto al loro letto! ” .
Dopo il 1864, in quattro anni, Don Bosco non aperse se non un collegetto a
Cherasco nel circondario di Mondovì. Il personale gli bastava a stento per le opere
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già fondate. Ma nel 1870 due case fondò, che si acquistarono in breve grande
reputazione: i collegi di Borgo S. Martino e di Alassio.
Veramente a Borgo non fece una fondazione nuova, ma un semplice trasferi­
mento; vi trasferì il piccolo collegio di Mirabello e con maggiori proporzioni.
I motivi di questa disposizione balzano fuori dalle seguenti righe del 16 giugno 1870
alla contessa Callori: “ In Mirabello freddezza glaciale nel paese; edifìcio quasi
senza sito di ricreazione, perciò non molto salubre; lontananza dalla ferrovia
II provvedimento si rivelò ottim o; infatti l ’istituto prese subito a prosperare, man­
tenendosi poi sempre fiorente.
Aveva trasformato ivi in collegio una villa del marchese Scarampi di Villanova.
Questi non si era mai sognato di venderla, quando un giorno Don Bosco gli disse
a bruciapelo: —'Io so, signor marchese, che ella vuol cedermi la sua villa. — Pos­
siamo bene immaginare la risposta. Tuttavia Don Bosco non si scoraggio, ma ritornò
tante volte alla carica, che il marchese nella speranza di farlo desistere chiese un
prezzo piuttosto alto. Invece Don Bosco accettò, e l ’altro da gentiluomo non ritirò
la parola. Piovevano ogni anno in sì gran copia le domande, che Don Bosco nel 1880
creò a quella casa una succursale a Penango, comune poco distante, dove s’invias­
sero i giovanetti che chiedevano di frequentare a Borgo le scuole elementari.
Conchiudendo l ’affare di Borgo, venne pure alla conclusione per Alassio. La
prima idea era stata di fondare colà un ospizio per artigianelli poveri; così eransi
cominciate le trattative col Municipio per il tramite del prevosto. In seguito Don
Bosco preferì aprire l ’ospizio presso Genova e dotare Alassio di un collegio con
un corso completo di scuole, dalle elementari alle liceali. Per non allarmare le auto­
rità scolastiche parlò da principio soltanto delle classi elementari e di una prima
ginnasiale. Con licenza della Santa Sede acquistò a ll’asta pubblica un convento già
dei Minori Osservanti, che si sarebbe voluto ridurre a usi profani.
Ormai si ripeteranno con frequenza tali acquisti di edifici monastici indema­
niati. Egli un tempo vi era stato contrario, parendogli un offrire pretesti a maldi­
cenze, quasi che religiosi scacciassero altri religiosi; ma in seguito, guardando la
cosa sotto diverso aspetto, mutò pensiero. Nel febbraio del 1877 dinanzi a ll’an­
nuale assemblea dei direttori proferì queste precise parole : “ Il Papa stesso non
solo mi diede licenza, ma mi raccomandò di comperare edifici appartenenti ai frati
per farne case nostre, e ciò per restituire alla Chiesa quello che le fu tolto, per
conservare queste case nello scopo primiero della gloria di Dio e per non lasciarle
cadere in mani profane ” . Ogni volta pero compieva i passi necessari presso le
autorità ecclesiastiche.
La cittadinanza di Alassio assisteva con simpatia alla trasformazione del con­
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vento; perciò, quando in ottobre, inaugurandosi le scuole, giunsero i primi Sale­
siani, fu una festa generale. D’allora a oggi il collegio municipale di Alassio viene
considerato come la più bella gloria cittadina. Il suo liceo godette ognora rinomanza
e favore in tutta la Liguria. Del suo splendore andò il merito a un luminare maius
della Società salesiana, a Don Francesco Cerruti, uno degli aiutanti che Don Bosco
si preparò neH’Oratorio, accogliendovelo povero fanciullo, orfano di padre.
Nel 1872 due altri trasferimenti diedero origine a due case destinate a un grande
avvenire. Don Bosco, secondo l ’anzidetto divisamento, aveva aperto nel 1871 un
ospizio a Marassi presso Genova: ma l ’anno dopo lo fece passare a Sampierdarena
nei locali più adatti d ’un convento già dei Teatini, riaprendovi pure al culto una
bella chiesa dedicata a S. Gaetano Thiene. N ’ebbe la direzione un altro genuino
figlio dell’Oratorio, Don Paolo Albera, che doveva succedere a Don Rua nel
governo della Società e che allora seppe attirare sull’opera non solo le simpatie, ma
anche le liberalità dei Genovesi.
Nel medesimo anno 1872 fu trapiantato a Varazze il collegio di Cherasco. Era
il terzo sulla riviera ligure. Del collegio cheraschese ragioni igieniche imponevano
la chiusura. Come già il collegio di Cherasco, così quello di Alassio e di Varazze
presero il nome di municipali, per la parte avuta dai Municipii nella loro fondazione.
In un momento di roseo ottimismo Don Bosco aveva scritto il 29 agosto 1870 a
monsignor Svegliati: Al giorno d ’oggi abbiamo quaranta domande di Municipii,
che vorrebbero apertura di scuole sotto la direzione libera della nostra Congrega­
zione. Veda che ritorno alle idee antiche! ” .
Il 1872 addosso a Don Bosco anche l ’onere di un collegio, che egli non avrebbe
mai voluto: il collegio dei nobili a Valsalice con ginnasio e liceo, fondato nove anni
prima da una società di ecclesiastici. Ma si trattava di salvare l ’onore del clero tori­
nese: poiché l ’ente che amministrava l ’istituto correva pericolo di dover fare falli­
mento. Inoltre 1 Arcivescovo Gastaldi ne pregava Don Bosco, anzi gliene faceva
quasi un obbligo di coscienza. Per questi motivi piegò il capo, benché questo gli
costasse pure gravi sacrifici pecuniari. Nonostante le prime ripugnanze, accettato che
1 ebbe, nulla risparmiò per riordinarlo a dovere e secondo il suo spirito. Ne furono
liete le famiglie patrizie, che desideravano impartita ai loro figli un ’educazione cri­
stiana e che per sottrarli ai maligni influssi del laicismo scolastico li mandavano spesso
in collegi religiosi della Francia. Don Bosco estese così le sue relazioni con l ’aristo­
crazia, procurandosi nuovi benefattori. Tenne quel collegio per quindici anni. Nel
1887, quasi gli ripugnasse lasciarlo in eredità a ’ suoi figli, lo sciolse, sostituendo ai
convittori i suoi chierici, che dopo il noviziato intraprendevano gli studi liceali. Nel
frattempo per la gioventù aristocratica erano sorti in Italia buoni istituti educativi.
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La Liguria richiamò nuovamente a sè lo zelo di Don Bosco nel 1876 e ’77. Si
dovette questo ai protestanti. Vallecrosia, fra Ventimiglia e Bordighera, un paese
che cresceva a vista d’occhio, non aveva nè chiesa nè scuole. Pronti come sempre vi
s’installarono vecchie conoscenze di Don Bosco, i valdesi. Il vigile Pastore della
diocesi, costernato e tentati invano altri mezzi, si rivolse a Don Bosco. Il Santo,
conosciuta la gravità del pericolo, corse ai ripari. Per la gioventù maschile e fem­
minile mandò sollecitamente Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice ; poi si accinse
alla costruzione di una chiesa pubblica e di edifici scolastici. Dio solo sa i sacrifici
che si dovettero affrontare da lui e da’ suoi figli per quella fondazione. Ma erano di
gran conforto i visibili effetti: l ’invasione dei protestanti arrestata, pressoché diser­
tati il loro tempio e le loro scuole, i portatori dell’eresia costretti a constatare
fremendo il crollo delle loro mal concepite speranze.
Nella parte opposta della Liguria, verso il confine meridionale, non un villaggio,
una grande città, la futura Spezia, si veniva rapidamente formando, senza che si
vedesse modo di provvedere abbastanza ai bisogni spirituali della crescente popo­
lazione. Fra quella gente avventizia si cacciarono tosto gli evangelici, spiegandovi
un’operosità proporzionata ai mezzi che ricevevano in copia dall’estero.
Il Vescovo di Sarzana, da cui La Spezia dipendeva, supplicava a mani giunte
Don Bosco di accorrere in suo aiuto. Don Bosco, persuaso della grave necessità,
non fu sordo a tali istanze, e nel dicembre del 1877 mise a disposizione del Ve­
scovo alcuni Salesiani. Pochi giorni dopo, recandosi a Roma, li volle visitare. Li
trovò disorientati, incerti sul da fare, che era molto, e quasi paurosi dei potenti
avversari. Poi tutto era incomodo nella casa e nelle aule scolastiche; di beneficenza,
nessun indizio. Egli li confortò col ricordo dei tempi eroici dell’Oratorio. Così
rianimati si lanciarono al lavoro. I protestanti e i loro giornali sbraitavano contro
di essi, come a Vallecrosia. Si lottò per circa dieci anni, finché, sempre come a
Vallecrosia, ampliati i locali e accresciuto il personale, spuntarono i frutti di tanti
sacrifici. Ogni forma di attività salesiana era entrata in azione. Appresso venne un
grande ospizio, venne pure una grande chiesa, e l ’opera fu forte baluardo contro
l ’irrompere dell’eresia.
Ormai ogni anno voleva qualche fondazione. Il 1878 portò il collegio di Este,
conservatosi anche questo costantemente in fiore. Là, come altrove, i promotori
mirarono a preservare la gioventù dal contagio/del laicismo. Uomo provvidenziale
fu il ricco signor Benedetto Pelà che dischiuse a Don Bosco il suo scrigno. Astro
minore si levò quattro anni dopo nel Veneto il collegio di Mogliano, la cui discreta
luce non ha cessato di brillare. Prima intenzione di Don Bosco sarebbe stata di stabi­
lirvi una scuola d’agricoltura; ma visto che il luogo mal si prestava, cambiò disegno.
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Fatto assai notevole del 1878 fu il trasporto della casa madre delle Suore da
Mornese a Nizza Monferrato, come si accennò precedentemente. Ai bisogni finan­
ziari delle Figlie di Maria Ausiliatrice provvedevano Don Bosco e il suo Consiglio;
quindi egli sostenne tutte le ingenti spese per la nuova residenza. Spese per l ’acquisto
del locale, un vecchio convento appartenuto ai Cappuccini e allora proprietà del
M unicipio; spese per l ’adattamento, non essendovi che le nude muraglie e in stato
deplorevole; spese per l ’arredamento. Le prime Suore vi s’insediarono nel mese
di settembre. La casa di Nizza diventò non soltanto luogo di formazione religiosa,
ma anche palestra di studi e di cultura. Da quella scuola normale uscirono centinaia
di maestre cristiane. Là Don Bosco ogni anno durante le vacanze estive invitava
maestre e signore a fare un corso di esercizi spirituali, come a Lanzo faceva per
g l’insegnanti.
Nel 1879 gli estremi si toccano: Piemonte e Sicilia. A S. Benigno Canavese
la prima casa di noviziato, a Randazzo il primo dei numerosi collegi che oggi
fioriscono nell’isola del sole.
Il noviziato salesiano compiè la sua evoluzione passando per tre fasi. Nei pri­
mordi i novizi crescevano come in famiglia, partecipando alla vita comune e così
esercitandosi nella pietà e nelle attività proprie della esordiente Società; quindi chi
assisteva i giovani, chi insegnava, chi faceva il catechismo, chi si occupava negli
oratorii festivi, chi aiutava negli uffici, sempre sotto la dipendenza diretta dei supe­
riori della casa. Avevano da Don Bosco particolari conferenze e per gli studi filo­
sofici e teologici andavano nel seminario arcivescovile. In un secondo tempo ebbero
scuole a sè ed anche un superiore immediato in Don Giulio Barberis; ma conti­
nuarono per qualche anno a prestarsi nelle assistenze dei giovani. Durante questo
periodo con progressivo isolamento vennero segregati dal resto della casa, formando
nell’Oratorio un’oasi distinta.
Se Don Bosco fosse dovuto sottostare a tutte le leggi canoniche, non avrebbe
mai fondato la Società salesiana. Ricordino i lettori le cose dette in principio.
Pio IX, buon conoscitore dei tempi e degli uomini, gli aveva concesso per il noviziato
facoltà amplissime, autorizzandolo a farne uso, finché non potesse entrare nella re­
golarità. Questa possibilità si affacciò nel 1879. Fu allora il cominciamento del terzo
periodo. Don Bosco assegnò ai novizi una casa per loro, la casa di S. Benigno Cana­
vese. Li allogò nella storica abazia di Fruttuaria, cedutagli dal Municipio. Per non
destare sospetti e sollevare ostilità credette bene sulle prime di dissimulare lo scopo,
dichiarando ufficialmente che i Salesiani avrebbero assunto l ’istruzione elementare
del paese, fatto scuole serali per adulti, tenuto un ricreatorio festivo e aperto un
ospizio per poveri artigianelli. Quindi proseguiva: “ Se il locale lo comporterà, fare
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eziandio uno studentato di preparazione per nostri assistenti nel tempo che fanno
il loro tirocinio per imparare le regole pratiche, con cui tenere la disciplina nei dor-
mitorii, nei laboratorii, nei catechismi e nelle classi d ’insegnamento ” . Così in una
lettera del 10 marzo 1879 al prefetto della provincia. Ecco perchè accanto ai chierici
presero stanza nel medesimo edificio, ma senza che tale coabitazione disturbasse il
noviziato, un centinaio di artigiani, distribuiti in cinque laboratori. Nel mese di
ottobre Don Bosco vestì i novelli chierici, dando l ’abito fra gli altri a Michele Unia,
l ’eroico apostolo dei lebbrosi in Colombia, ed a Filippo Rinaldi, terzo successore
del Santo.
Una delle fondazioni che più onorarono e onorano il nome di Don Bosco è
il collegio municipale di Randazzo, nella provincia di Catania; in più di mezzo secolo
ha educato un gran numero di figli delle migliori famiglie siciliane. Per parecchio
tempo fu l ’unico istituto non solo salesiano, ma religioso in Sicilia. Nell’isola il
clero comprese presto Don Bosco e le finalità della sua Opera; Vescovi e sacerdoti
ricevevano con entusiasmo il diploma di Cooperatori. La lontananza della Sicilia
dal Piemonte si sentiva allora cento volte più che al presente. A procacciarle i primi
Salesiani contribuì più di tutti un influentissimo cittadino randazzese, Giuseppe
Vagliasindi Romeo, e se il collegio vi piantò salde radici, il merito va attribuito a
un degno rappresentante di Don Bosco, a Don Pietro Guidazio, il cui nome risuona
tuttodì ammirato in molti ambienti isolani.
Don Bosco fondò poi a Catania nel 1885 l ’oratorio così detto dei Filippini, che
divenne presto la più fiorente istituzione giovanile della città. Egli volle risoluta-
mente quella fondazione ostacolata da varie difficoltà, per il desiderio che aveva di
ottemperare alle istanze del santo Arcivescovo Dusmet. Diede pure alla Sicilia ben
cinque case di Suore in Bronte, Catania, Trecastagni, Màscali e Cesarò con asili
e collegi, e a Bronte anche con l ’ospedale.
Nella storia della Società salesiana il 1880 va segnalato per la chiamata a Roma,
del che si dirà nel capo seguente. L’anno appresso fu la volta di Firenze e di Faenza.
A Firenze Don Bosco aveva molte e alte amicizie. Quattro anni durarono le pratiche
per concretare qualche cosa con chi v ’invitava i Salesiani. L’Arcivescovo Cecconi
scrisse il 1° agosto del 1880 a Don Bosco: “ Quattrini ce ne sono pochi; ma Ella
è abituata a cominciare dal poco ” . Il lavorìo dei protestanti in mezzo al popolo
fiorentino indusse il Santo a fare l ’impossibile, come dicono i Piemontesi. I primi
Salesiani vi si recarono nel marzo del 1881. Quante peripezie resero loro dura la
vita per parecchi anni, ritardandone l ’assetto definitivo! Come già il Vescovo di
Casale per Borgo S. Martino, così l ’Ordinario di Firenze, affinchè il ginnasio non
urtasse in un probabile diniego dell’autorizzazione governativa, eresse con suo de­
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creto il collegio a piccolo seminario. Anche le scuole professionali, a cui il ginnasio
era annesso, servirono da paravento. Sicuro, benché lento, fu il cammino.
Poche case urtarono da principio in tante contrarietà come questa di Firenze ;
si sarebbe detto che Don Bosco fosse venuto meno alla sua abituale circospezione
durante le pratiche preparatorie. Ma egli aveva ascoltato più che mai la voce del
suo zelo. Un doloroso ricordo dell’aprile 1874 gli stava fitto nel cuore. Ritornando
per di là da Roma a Torino, nell’attraversare una via si era imbattuto in una lunga
fila di ragazzi. Domandato chi fossero, intese essere figli di cattolici guidati alle
scuole e al tempio dei protestanti, e altre squadre o averli preceduti o doverli seguire.
Quella vista lo riempì di angoscia. Scrivendo poi al cardinale Nina, Segretario di
Stato, gli narrò l ’accaduto; al che Sua Eminenza rispose il 5 maggio, esprimendogli
col proprio anche il rammarico del Santo Padre e incoraggiandolo ne’ suoi sforzi
per far argine a ll’eresia. Ecco perchè nel fondare la casa di Firenze egli chiuse,
diciamo così, un occhio e mezzo.
I precedenti della fondazione faentina richiederebbero molte pagine a raccontarli.
I Romagnoli non scherzano. Parlano chiaro e agiscono come parlano. Il partito
repubblicano, locale denominazione generica degli anticlericali d ’ogni tinta, avevano
in pugno la città; ma gli altri non dormivano e lotte scoppiavano per dei nonnulla.
I primi Salesiani giunti là ebbero grandemente a soffrire. Vi fu perfino un attentato
con arma da fuoco. Don Paolo Taroni, il santo amico di Don Bosco, mise a loro
servizio tutta la sua influenza. Nel 1882 Don Bosco, visitandoli, volle fare una con­
ferenza in una grande chiesa contro il parere dei prudenti, che paventavano il fini­
mondo. — Vogliamo, diss’egli, che si sappia da tutti di che si tratta e che noi non
congiuriamo con chicchessia, nè siamo venuti qui con cattive intenzioni. — La co­
raggiosa franchezza suol essere rispettata dagli uomini animosi. Non accadde nulla;
ma il fiorire dell’oratorio festivo mise il diavolo in corpo agli avversari. I buoni
temettero che Don Bosco per prudenza richiamasse i suoi a Torino; egli invece
scrisse il 17 settembre 1883 al canonico Gavina: Ho con gran pena intese le cose
che rendono difficile l ’opera diretta al bene della povera e pericolante gioventù. Do­
vremo abbandonare il campo nelle mani del nemico? Non mai. Nei grandi pericoli
bisogna raddoppiare gli sforzi ed i sacrifici ” . Dal poco s’arrivò al molto: d all’ora­
torio festivo e da alcune scolette professionali, si passò pure a un ginnasio, al quale
affluirono allievi da tutte le parti della Romagna e dell’Emilia propriamente detta.
Dell’ospizio di S. Giovanni Evangelista a Torino, inaugurato nel 1882, non
c ’è bisogno di aggiungere altro al già detto. Fra il 1882 e il 1886 s ’inserirono alcune
iniziative precarie; assetto duraturo ebbe invece nel 1886 l ’ordinamento definitivo
del noviziato secondo le prescrizioni canoniche. È legge che i novizi vivano intera­
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mente separati dai professi. A Roma, quando si esaminavano le Regole per l ’ap-
provazione, era stata intimata l ’osservanza di questo punto; ma Don Bosco aveva
rappresentato al Papa l ’impossibilità di farlo per allora. — Andate e fate come
potete — gli rispose Pio IX. Andò dunque e fece come meglio potè; ma non inten­
deva di partire da questo mondo senz’aver regolato anche tale faccenda. A S. Be­
nigno dopo il primo anno di noviziato si erano venuti a trovare insieme novizi e
professi. Per separare gli uni dagli altri acquistò nel non lontano comune di Foglizzo
dal conte Ceresa di Bonvillaret un edificio che mediante opportune modificazioni
potesse contenere, pur senza tante comodità, un centinaio di persone, e là furono
diretti gli ascritti del 1886. Don Bosco il 4 novembre vi procedette personalmente
all’inaugurazione e benedisse l ’abito chiericale a una ottantina di gióvani, fra i quali
il servo di Dio Andrea Beltrami.
Due fatti parvero forieri delle benedizioni divine riservate a quella casa. Poco
dopo l ’apertura urgeva al direttore la somma di lire 1960 per saldare un debito.
Non avendola, pensò di andare a Valdocco per chiederla a Don Bosco; ma il Santo
aveva un momento prima consegnato tutto il danaro a Don Durando, che fungeva
da prefetto generale. Tuttavia disse di voler guardare ancora. Accostatosi al tavo­
lino, tirò a sè il cassetto e vide che qualche cosa c’era dentro. Contarono: erano
esattamente lire 1960, nè una più nè una meno.
Straordinario anche l ’altro fatto accaduto poco dopo. Si trovava fra i novizi
il giovane marsigliese Lodovico Olive, figlio di genitori molto agiati e amicissimi di
Don Bosco. Assalito dal tifo e trasportato all’Oratorio, versava in estremo pericolo;
cinque medici lo davano per spedito. Orbene nella notte sul 4 gennaio Don Bosco
fece un sogno, del quale scrisse egli stesso una breve relazione. Fra l ’altro la Ma­
donna gli annunciò che l ’ora di Olive era sonata, ma che nondimeno sarebbe gua­
rito. Guarì infatti nel corso di otto giorni, e la sua salute si mantenne così buona,
che nel 1906 egli potè prendere parte alla prima spedizione di Missionari salesiani
partiti per la Cina, dove nel 1919 con una santa morte coronò una vita di apostolato.
Il glorioso collegio di Parma richiese ben sette anni di trattative; ma dopo tante
brighe Don Bosco non ne vide l ’apertura. Sullo scorcio della vita gli riuscì di aprire
1iria casa a Trento, che però gli sopravvisse solo fino al 1894. Ma dalla città del Con­
cilio l ’Opera di Don Bosco non scomparve: quella primitiva, troppo impastoiata
per ingerenze estranee, cambiò ivi stesso sede e forma. Altre due fondazioni cessate
dopo la sua morte, ebbero vita più lunga di questa: il seminario di Magliano Sabino
e un collegio a Lucca. Assunta la direzione di quel seminario nel 1877 per com­
piacere ad alti prelati, Don Bosco ricevette in cambio molti dispiaceri; fu abbando­
nato nel 1889 insieme col prosperoso convitto che il Santo vi aveva unito. La casa
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di Lucca dal 1878 avrebbe raggiunto una notevole floridezza, se angustia di spazio
non fosse stata causa di grave disagio, impedendone anche il conveniente sviluppo.
Don Bosco ci teneva a non abbandonare questa città, dove contava molti amici;
egli avrebbe anzi voluto che quella casa diventasse una copia in piccolo dell’Oratorio
di Valdocco. Perciò nel 1884 deliberò di alienare lo stabile urbano per far acquisto
di una villa del Collegio Reale fuori dell’abitato. Ma sopraggiunse dopo il com­
promesso un impedimento governativo, che gli sbarrò la strada. Le condizioni di­
venute sempre più intollerabili consigliarono nel 1893 a chiudere e venir via. Aperse
e chiuse Don Bosco stesso le case di Albano Laziale e delFAriccia dal 1877 al 1879.
Ad Albano i Salesiani insegnavano nel seminario e a ll’Ariccia avevano scuole ele­
mentari: di qui urgeva anche snidare i protestanti, il quale intento fu presto con­
seguito. In questi due vicini castelli romani Don Bosco aveva mandato i suoi per
fare cosa grata ad alcuni Cardinali e insieme con l ’intenzione di fondarvi un collegio
e cosi secondare il desiderio di molti Piemontesi trasferitisi a Roma con le loro
famiglie ; ma quando vide inattuabile il disegno e intanto cominciavano a profilarsi
certe opposizioni, si ritiro del tutto. Aperse e chiuse la casa di Trinità presso Mon-
dovì dal 1877 al 1881 e quella di Cremona dal 1880 al 1882. La forzata partenza dei
Salesiani da questa città amareggiò il grande Vescovo Bonomelli, che ancora molti
anni dopo se ne rammaricava, facendo voti per il ritorno. Vita effimera toccò a una
casa di Brindisi nel 1880; diffidenze e ostilità locali ne soffocarono gl’indizi. Il buon
seme tuttavia rimase, tanto che germogliò rigoglioso cinquant’anni appresso. Vi
sarebbero poi da passare in rassegna numerose pratiche, alcune delle quali impor­
tanti, per proposte rimaste senza effetto; ma non est hic locus.
Tutte le enumerate fondazioni o principiavano con l ’oratorio festivo o non
continuavano senza di esso. Dappertutto l ’oratorio festivo, fatto secondo lo spirito
di Don Bosco, si rivelava mezzo irresistibile di penetrazione religiosa negli strati
popolari.
Senza una fiducia illimitata nella Provvidenza, Don Bosco non avrebbe fatto
la millesima parte di ciò che fece. Questo per altro non lo dispensava d all’aguzzare
l ’ingegno per la ricerca dei mezzi materiali. Confidare nella Provvidenza non è ten­
tarla. Pochi al mondo possedettero come lui l ’arte o il dono di sapersi procacciare
gl’indispensabili soccorsi per compiere tante e sì grandi opere di bene. Ogni opera
nuova gli portava una nuova serie di brighe, e le opere nuove negli ultimi vent’anni,
come si è visto e come si vedrà ancora, non si succedevano, ma si sovrapponevano
le une alle altre.
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CAPO XL
CHIESA E OSPIZIO DEL S. CUORE DI GESÙ IN ROMA
Due chiese Don Bosco veniva costruendo nel 1880: quella di S. Giovanni Evan­
gelista a Torino e un ’altra di Maria Ausiliatrice a Vallecrosia, quando una
terza vi si aggiunse, che in importanza e sontuosità doveva superare di gran lunga
le due prime prese insieme. Ci vuole qui un poco di preistoria. Nel 1871 i Vescovi
d ’Italia consacrarono le loro diocesi al Sacro Cuore di Gesù. Parve allora un vuoto
deplorevole la mancanza in Roma di una bella chiesa dedicata al divin Cuore del
Redentore; onde la stampa religiosa bandì l ’idea di colmare quel vuoto. Pio IX ap­
provò; anzi offerse un terreno da lui acquistato per altro scopo su ll’Esquilino. La
località aveva veramente bisogno di una chiesa. Il piano edilizio dell’Urbe steso dal
De Merode, ministro di Pio IX, prevedeva lo sviluppo della città nei quartieri alti,
specialmente nelle vicinanze del Castro Pretorio, poco lungi dalla stazione ferro­
viaria. Il 20 settembre 1870, non che arrestare tale espansione, l ’accelerò; ma con
l ’allargarsi dell’abitato nessuno pensava a ll’assistenza spirituale della popolazione
addensantesi ognor più nella saluberrima zona. Le tre parrocchie limitrofe non
bastavano alla cura di tante anime. Se non che per la progettata chiesa le cose
andarono così a rilento, che alla morte del Papa tutto restava da fare.
Leone XIII, conosciuta l ’intenzione del suo predecessore, ne fece propria l ’idea.
Infatti il 1° agosto 1878 per mezzo del Card. Vicario Monaco La Vailetta invitò l ’Epi-
scopato cattolico a concorrervi mediante collette diocesane. La raccolta delle offerte
fu affidata alla Federazione Piana delle Società Cattoliche; una commissione di ari­
stocratici presieduta dal marchese Merighi invigilava su ll’andamento dei lavori. Il di­
segno era stato preparato dal conte Francesco Vespignani, architetto dei Sacri Palazzi.
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Ma purtroppo l ’iniziativa, benché lanciata così dall’alto e raccomandata da nomi
di principesca risonanza, dopo le prime mosse si arenò del tutto. Mancava il de­
naro. Il Papa addolorato non sapeva rassegnarsi a simile insuccesso: ne andava di
mezzo con l ’onore della Santa Sede il bene delle anime. Ed ecco chiamato in scena
Don Bosco.
Era il marzo del 1880. Per suggerimento del cardinale Alimonda il Pontefice
fermò il suo pensiero sopra di lui. Inteso che egli trovavasi a Roma, gliene fece par­
lare indirettamente; Don Bosco intuì di netto le difficoltà dell’impresa e non rispose
nè sì nè no. Difficoltà di ordine finanziario. Dai Romani si aspettava ben poco; non
molto sperava dai Francesi, obbligati a spendere per le scuole libere e impegnati già
per l ’erezione della chiesa dal Sacro Cuore a Montmartre; nemmeno sull’Italia si
poteva fare grande assegnamento, nè lo incoraggiava la freddezza con cui il progetto
era stato accolto nel mondo. Ed egli oltre alle due chiese suddette fabbricava a Mar­
siglia, a Nizza Marittima, a Nizza Monferrato e a La Spezia. Difficoltà di ordine ammi­
nistrativo. Avrebbe dovuto ratificare contratti già stipulati dalla precedente ammi­
nistrazione, che inoltre aveva diritto d’ingerirsi nell’opera; ora quei contratti egli sa­
peva come si solevano fare, e quell’ingerenza gli sembrava oltremodo imbarazzante.
Ma la parola del Papa troncò le sue esitazioni. Leone XIII in un’udienza del
5 aprile gli palesò il suo desiderio. — Il desiderio del Papa, rispose Don Bosco, è
per me un comando. — Il Papa soggiunse che non avrebbe potuto dargli denari.
Don Bosco disse che neppure lui gliene chiedeva ; domandò anzi il permesso di edifi­
care accanto alla chiesa un grande ospizio per giovani bisognosi.
Dopo l ’udienza Don Bosco non perdette tempo. Abbozzò tosto un promemoria
che rimise al Cardinale Vicario, condensandovi gli elementi essenziali da servire
di base per una convenzione definitiva. Oltre a questo, avanti di partire, ordinò
l ’acquisto di un’area confinante col terreno primitivo e di una casetta che sorgeva
in fondo a quella. Prese così non due, ma quattro colombi con una fava. Si assicurò
10 spazio per l ’erezione dell’ospizio; provvide una dimora per i Salesiani durante
11 periodo dei lavori; sventò senza saperlo gl’intrighi dei protestanti, che proprio
là macchinavano d’innalzare un loro tempio. Non basta. La chiesa secondo il di­
segno gli pareva troppo piccola; quindi senza modificare la larghezza volle che ai
trentacinque metri di lunghezza se ne aggiungessero ventinove, di cui undici in fronte
per due altre arcate e diciotto a tergo per un ampio spazio absidale. L’ampliata
superficie del suolo rendeva possibile siffatto prolungamento.
Per questi e altri affari egli aveva a Roma il suo uomo. Ogni Ordine e Congre­
gazione tiene ivi un procuratore generale che li rappresenti ufficialmente presso la
Santa Sede. Dal mese di gennaio rivestiva per lui tale ufficio Don Francesco Dalmazzo,
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dimorando allora in un appartamento posto a disposizione di Don Bosco dalle no­
bili Oblate di Tor de’ Specchi e più tardi nella casina suddetta, soprelevata di due
piani. Per la chiesa il Santo lo imbarcò subito in un mare di faccende. “ Per tua
norma, gli scrisse il 9 luglio, se facciamo bancarotta, andremo a rifugiarci nella
Patagonia. Dunque avanti con tranquillità E il 18: “ Fede, preghiera e avanti ” .
Al pagamento del terreno, della casa e dei materiali da costruzione provvide
con un mutuo presso la Banca Tiberina, che poco dopo gli aperse un conto corrente.
Questo istituto di credito gli accordava tutte le agevolezze senza ipoteche, perchè,
come disse una volta il suo direttore, Don Bosco aveva ai suoi cenni la Provvidenza.
Le modalità per la costituzione dell’ente parrocchiale e per la sistemazione della
proprietà richiese tempo e scambi di lettere. Finalmente la convenzione fu sotto­
scritta l ’i l dicembre da Don Bosco e il 18 dal Cardinale Vicario. In ottobre adagio
adagio erano stati ripresi i lavori. Già l ’economo generale Don Sala andava in cerca
•delle colonne di granito volute dall’architetto. Insomma, Don Bosco faceva.
Ma intanto l ’impresa inghiottiva denaro, nè si potevano lasciar languire le altre
opere. Don Bosco incominciò a imitare quei pescatori che per buscarsi abbondante
preda gettano in acqua lunghissime le reti. Nel gennaio del 1881 lanciò ai quattro
venti migliaia di circolari in italiano, francese, spagnolo, tedesco e inglese. Orga­
nizzò insieme un esercito di collettori. Più: diramò circolari speciali ai Vescovi e
ai giornalisti italiani, e in latino a quelli stranieri. Indirizzava pure suppliche indivi­
duali a persone facoltose. Nei collegi salesiani raccomandava economie per man­
dare a lui i risparmi. Interessò il Municipio di Roma, vari ministeri e l ’economato
dei benefici vacanti. Ricorse a ll’esca delle onorificenze equestri. Inviò suoi sacer­
doti a collcttare dove ci fosse speranza d ’incontrare buone accoglienze. Le offerte
affluivano discretamente. Il 14 settembre scrisse da Sampierdarena al Cardinale Vi­
cario: “ Io lavoro incessantemente per trovar danari, e Dio ci favorisce e se ne
trova, ma Don Dalmazzo me li spende tutti e non dice mai basta ” .
Era necessario che Sua Eminenza sapesse questo, perchè lo aiutasse sul serio a
sbarazzarsi delle vecchie camarille. Infinite noie intralciavano il proseguimento del­
l ’impresa per causa dell’accennata commissione. Bisognava sciogliere i contratti
anteriori che ne recavano la firma, e liquidare il passato; ma gli interessati accam­
pavano diritti e pretese esorbitanti. Il presidente stesso considerava i Salesiani come
intrusi. Fu per una quindicina d ’anni costume dei Romani de Roma gratificare i ve­
nuti dopo il ’70 col nomignolo di buzzurri, specialmente i Piemontesi, scansandoli
volentieri o accostandoli con diffidenza. Intorno al presidente si era formata contro
i nostri una coalizione di scalpellini e marmisti, pronti a tutti gli eccessi. Più acca­
nitamente infieriva l ’impresario, che esigeva un compenso esagerato dell’opera sua,
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minacciando di adire le vie giudiziarie. Don Bosco, recatosi a Roma nella primavera
del 1882, si studiò di chiarire esistenti malintesi e d’impedire che ne nascessero di
nuovi. Tuttavia in giugno fu forza chiudere il cantiere. Il 5 luglio Don Bosco scrisse
al Cardinale Vicario: “ Io desidero che i lavori progrediscano, fo degli sforzi incre­
dibili per trovare danaro; ma se le cose vanno così, quando si vedrà la chiesa
finita ? ” . Il mal d’occhi non gli permise di spiegarsi più diffusamente nella sua lettera.
Nonostante il vivo desiderio che aveva di far ripigliare presto i lavori, passò
l ’estate, s’inoltrava l’autunno e si era sempre al sicut erat. Don Dalmazzo, venuto
in ottobre a Torino per gli esercizi spirituali, trovò al ritorno la matassa più intri­
cata che mai. La si dipanò finalmente sul principio del nuovo anno. Il primo gran
passo fu quando il conte Vespignani presentò la liquidazione di tutto il lavoro
dell’impresario in lire quarantamila. Don Bosco autorizzò al pagamento immediato,
sia per agevolare il ritiro di quell’uomo, sia perchè non la si sarebbe finita più. Que­
st’atto spianò la via all’annullamento del vecchio contratto; quindi il rappresen­
tante di Don Bosco comprò attrezzi, legnami, steccati, materiali esistenti e s’entrò
in libero possesso di tutto. Così fu facile rompere le varie camorre ordite quando,
anziché vigilare, si lasciava che ognuno, come dicono a Roma, facesse il comodaccio
suo. Allora, cessato il gelo di quel crudo inverno, gli operai rimisero mano ai lavori.
Sorvoliamo qui su impicci d’altra natura. Per rimediare agl’indugi frappostigli,
Don Bosco risolse di dare a questi lavori un impulso vigoroso; ma occorrevano altri
denari e molti. Per raccoglierne decise di fare un giro in Francia, spingendosi fino a
Parigi. Il buon Padre sentiva bene che le forze gli s’illanguidivano, ma l ’amore al
Papa lo stimolava ad agire con tutta la sua energia. Ne informò così il Cardinale
Vicario in una lettera del 30 gennaio 1883: “ Dimani mattina, a Dio piacendo, parto
per Genova e quindi farò una visita alle case della Liguria. Vado di casa in casa fino
a Marsiglia e di là, se la sanità e i pubblici avvenimenti lo permetteranno, farò una
gita fino a Lione ed a Parigi questuando pel Sacro Cuore e raccomandando il denaro
di S. Pietro. Ma mi raccomando quanto so e posso alla E. V. perchè si adoperi per
togliere di mezzo gli imbarazzi che impediscono il nostro lavoro. Io lo desidero
tanto e sono pronto anche a sacrifici poco ragionevoli, purché si possano continuare
i lavori purtroppo sospesi I “ sacrifici poco ragionevoli ” erano le migliaia di
lire da buttar via, se si voleva finir di fare una buona volta piazza pulita.
I Francesi furono con lui molto generosi. La loro generosità, sebbene in minor
misura, si ripetè l ’anno seguente. Questo aiutò a portare innanzi i lavori della chiesa
in modo che nella primavera del 1884 presbiterio e abside erano già in condizione
da potersi adibire al culto.
Ma la carità francese era stata di mano in mano assorbita. Con Roma ne avevano
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usufruito le Missioni, l ’Oratorio e altri luoghi nella Francia stessa e fuori. Poi presso
la chiesa si era dato cominciamento ai lavori per l ’ospizio. Don Bosco dunque sentì
imperiosa la necessità di appigliarsi anche al mezzo sperimentato già da lui tante
volte efficace: a una lotteria. Ci aveva pensato da tempo; qualche cosa si era già
fatto. Quand’egli nell’aprile del 1884 dalla Francia proseguì direttamente per Roma,
trovò un migliaio e mezzo di oggetti raccolti. Buoni signori, non romani e impiegati
in ministeri, prestavano l ’opera loro nei preparativi. Un gruppo di gentildonne con
a capo la contessa della Somaglia, dama di Corte della regina Margherita, s’inge­
gnavano a cercare la via per istrappare l ’approvazione prefettizia. Forti opposizioni
aperte e [palesi bisognò vincere per riuscirvi.
Intanto il numero dei doni cresceva. Dall’elenco stampato ne risultano 5700;
ma dopo la stampa se ne aggiunsero altri 2600. Don Bosco mise in movimento un
mondo di persone italiane e straniere per la vendita dei biglietti, che durò fino al
dicembre del 1885. L’esposizione occupò cinque sale, attirando folle di visitatori:
non erasi mai vista una mostra simile a Roma. Papa e Re vi figuravano l ’uno presso
l ’altro. L ’estrazione fu indetta per il 31 dicembre. Nel febbraio seguente un supple­
mento del Bollettino ne pubblicò l ’esito. La vendita dei premi non ritirati fruttò
ancora un utile discreto. Alla fine Don Bosco parve soddisfatto, poiché nella sua
circolare del gennaio 1886 ai Cooperatori diceva: “ In tutto l ’anno i biglietti smer­
ciati furono la più grande risorsa per la continuazione dei lavori ” .
Esaurita quella risorsa, bisognava escogitarne un ’altra. Nemmeno qui Don
Bosco aveva aspettato l ’ultima ora. Già nell’udienza pontificia del 1884 aveva pro­
posto alla munificenza del Santo Padre che si degnasse assumersi la spesa della
facciata, nel che egli vedeva segretamente un nuovo mezzo a stimolare vieppiù la
generosità dei fedeli. Ottenuto il sovrano gradimento, ne comunicò la notizia ai
Cooperatori torinesi nella conferenza del 23 maggio, e quindi ai Cooperatori tutti
con una circolare del 31 successivo. L ’Unità Cattolica del 20 giugno con due articoli
da lui ispirati esortava i cattolici italiani a inviare offerte per alleviare al Papa l ’onere
assunto. Ma il pensiero di Don Bosco non era ancora tutto colorito. Sempre per
sua ispirazione il conte Balbo propose e il Cardinale Arcivescovo ottenne che
l ’erezione della facciata venisse presentata agli Italiani come voto nazionale al Sacro
Cuore di Gesù in Roma con invito a contribuirvi. Un appello dell’Alimonda a ll’Epi­
scopato nel 1885 e una pubblica sottoscrizione aperta sul giornale cattolico divul­
garono in tutta la penisola il progetto. Solo con questo espediente si raccolsero
172 mila lire. Si sarebbe raccolto di più, se, celebrandosi nel 1886 il giubileo sacer­
dotale d ’oro del Santo Padre, non si fosse creduto prudente arrestare nel luglio
di quell’anno la questua, per non paralizzare le offerte dell’obolo.
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Neppure questo sarebbe stato sufficiente alla prosecuzione dei lavori; ma Don
Bosco aveva trovato altre fonti di soccorsi, fra le quali la carità del conte Colle
e un viaggio in Francia e nella Spagna durante la primavera del 1886. Anche l ’opera
di Roma andò debitrice di molto al generoso Conte tolonese, vero strumento della
Provvidenza per Don Bosco in momenti critici; le tre maggiori campane del Sacro
Cuore, ultima sua larghezza, ne cantano a gran voce la cristiana liberalità. Riguardo
al viaggio, appena se ne sparse la notizia, Salesiani e amici trasalirono, temendo
che egli avesse a soccombere per via, tanto pietose apparivano le condizioni della
sua salute; ma nessuno lo potè distogliere dall’avventurarvisi. Disse tutto Don
Cerruti nei processi. Avendolo accompagnato più volte per l ’Italia e per la Francia
in cerca dei mezzi indispensabili alla costruzione di quella chiesa, egli era stato
testimonio de’ suoi strapazzi e delle sue sofferenze fisiche e morali per eseguire il
desiderio del Papa; quindi si dichiarò persuaso che quegli strapazzi e quelle soffe­
renze avevano abbreviato la vita di lui, già cadente e logoro dal lavoro.
Se stava così male nel 1886, doveva stare peggio l ’anno dopo, quando si espose
ai disagi dell’andata a Roma per assistere alla consacrazione. La partenza avvenne
il 20 aprile. “ Partì da casa, scrisse Don Lazzero a monsignor Cagliero, che pareva
non potesse resistere al viaggio nemmeno sino a Moncalieri Fece varie tappe lungo
il percorso, giungendo a Roma il 30. Il suo stato era ivi migliore che a Torino;
infatti ricevette fin dai primi giorni molti illustri visitatori, compresi sette Cardinali.
Tuttavia egli non s’illudeva, ma sentiva ognor più che i suoi giorni si avvici­
navano al termine. Ecco perchè aveva voluto la consacrazione in maggio, sebbene
dieci altri mesi non bastassero a ultimare i lavori. A chi gli proponeva un rinvio a
dicembre, fece chiaramente comprendere che, se s’indugiava oltre il maggio, egli
non ci si sarebbe più potuto trovare. Aveva quindi mandato a Roma Don Sala,
affinchè.sollecitasse, raddoppiando anche, se occorresse, gli operai; quello che non
si poteva fare subito, si sarebbe fatto in seguito.
La chiesa fu consacrata il 14 maggio. Anche allora, come per S. Giovanni Evan­
gelista, servì di norma il programma svolto da lui nel 1868 alla consacrazione di
Maria Ausiliatrice. Vi andarono dall’Oratorio i cantori sotto la direzione del Do-
gliani; anzi Don Bosco fece un atto che non deve passare inavvertito. Da pochi anni
si affacciava qua e là un movimento di riforma della musica sacra e di restaurazione
delle melodie gregoriane. Orbene il Santo chiamò da Marsiglia il salesiano Don
Grosso, profondo conoscitore ed esperto maestro di canto gregoriano, che con can­
tori dell’Oratorio ne desse saggio specialmente durante le cerimonie della consacra­
zione, nelle quali nulla si cantò in polifonia. Fu questa una sorpresa che gl’intelligenti
apprezzarono assai. Alle feste poi dell’ottavario Don Bosco impresse un carattere in-
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CAPO XLI
FONDAZIONI IN FRANCIA
Il 1875 è Tanno, nel quale Dio diede Don Bosco alla Francia. Così fu detto pub­
blicamente venticinque anni dopo nella casa salesiana di Nizza Marittima di­
nanzi all’immediato successore del Santo. Questa città ne accolse allora per la prima
in Francia l ’opera, del che il merito va ai membri della Conferenza di S. Vincenzo,
particolarmente a ll’avvocato Michel e al barone Héraud. Pur abbondandovi pie isti­
tuzioni, mancava a Nizza un ospizio, che ricevesse giovanetti poveri e abbandonati.
Il Vescovo Sola, venerando vegliardo, non voleva chiudere la sua vita pastorale
senz’avervi provveduto. Venne a parlare con Don Bosco; ci vennero poco dopo quei
due signori, il primo dei quali, avendo compiuto i suoi studi universitari a Torino,
conosceva l ’apostolo della gioventù. Si giunse così facilmente agli accordi, che già
in novembre i Salesiani erano a Nizza. Nessuna casa salesiana cominciò più mode­
stamente: una vecchia filanda presa in affitto, poche masserizie indispensabili, tre­
cento metri quadrati di cortile per i giovani nel giardino del Vescovo e lo strettissimo
necessario per vivere. Il direttore, italiano della frontiera, portava un cognome
francese, Don Ronchail, e parlava speditamente la lingua, appresa dalle labbra ma­
terne. Don Bosco vi mandò pure alcuni giovanetti nizzardi che stavano nell’Oratorio,
perchè fossero buon lievito fra i compagni, e insieme un gruppetto di algerini invia­
tigli da monsignor Lavigerie. Il buon padre non lasciò finire il mese, che andò a
visitarli. Fu il primo di quattordici suoi viaggi in Francia. Di là scrisse a Don Rua:
“ Molta benevolenza, molto trasporto per noi e per il novello ospizio, che è sulle
basi di quello di Torino. Preghiamo Dio che ci benedica in questa nuova impresa ” .
A ispirare simpatia e fiducia contribuì il disinteresse da lui dimostrato. I pro­
motori proponevano di assegnare come corrispettivo ai maestri ottocento franchi;
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ma egli non volle, dicendo che era troppo e che bastava la meta. Fu convenuto per
quattrocentocinquanta. Quel rifiutare sì gran parte dello stipendio, saputosi nella
città, vi sollevò un coro di lodi al suo indirizzo. — Di denaro ho molto bisogno,
spiegò egli; ma trattandosi del mantenimento, basta quel tanto e non più.
Il Patronage Saint-Pierre, come fu denominato, non poteva vivere a lungo ran­
nicchiato nel pianterreno e nel sotterra di una filanda abbandonata. Trovavasi in
vendita un capace edificio con terreno attiguo nei pressi della piazza d armi. L ac­
quisto importava la spesa di centomila franchi. Don Bosco, quando vedeva la neces­
sità di una cosa che servisse a promuovere la maggior gloria di Dio, fidava nella
Provvidenza e non faceva tanti ragionamenti. Stipulò dunque egli stesso sul luogo
il contratto. Ritornato a Torino, disse, come riferisce Don Barberis nella sua Cro­
naca: ‘ ‘ Passi ne feci, non istetti inoperoso, ma ho potuto portare le cose a un punto
che oramai possono andare avanti da sè. In Francia capiscono quello che veramente
può fare del bene e quando vedono che un’istituzione è buona, largheggiano in
elemosine
Le cose, sì, potevano andare avanti da sè, ma pian piano e non senza la sua
valida cooperazione. Ond’egli iscriveva sovente al giovane direttore, sì da sem,
brare che lo conducesse per mano dai benefattori e attraverso le pratiche intricate
che precedettero la legale presa di possesso♦Le elemosine raggiunsero le somme
necessarie per effettuare i pagamenti al termine fissato. Nella nuova sede l ’ospizio
prosperò rapidamente. Infatti subito nei primi anni bisognò ingrandire i locali e
costruire una vasta cappella. Era un Oratorio di Valdocco in minori proporzioni
con artigiani e studenti, con scuole esterne diurne e serali e con due oratorii festivi.
Nell’autunno del 1877 Don Bosco potè mandare anche le Figlie di Maria Ausilia-
trice ad aprirvi una loro casa. I giornali dicevano un gran bene dei Salesiani, il che
provocava domande da altre città della Francia. Il 19 febbraio 1877 Don Bosco
aveva parlato di ventiquattro città francesi, che volevano la sua Opera.
Fra tante domande Marsiglia ebbe la preferenza. L’avvocato Michel nel 1876
vi aveva tenuto una conferenza sulle Opere di Don Bosco a vantaggio della biso­
gnosa gioventù. Uno de’ suoi uditori, l ’abate Guiol, curato di S. Giuseppe, si mise
tosto in relazione col Santo, il quale l ’anno dopo, visitata la casa di Nizza, prosegui
fino a Marsiglia. Che cosa precisamente siasi fra loro concertato, non si sa; certo
però le relazioni strette da Don Bosco con i Marsigliesi e le sue conversazioni con
l ’abate segnarono il punto di partenza per la casa aperta l ’anno dopo in quella città.
Egli albergava dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Messosi a confessare i giovani
del collegio, corse la voce che scoprisse i peccati occulti. La voce attraverso il parla­
torio si sparse fuori, insieme con le lodi della sua bontà; se ne parlava come d’un
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santo. Cominciò quindi un viavai di visitatori. Ma egli dovette sospendere le udienze,
perchè uno sbocco di sangue lo costrinse ad assoluto riposo. Stette a Marsiglia una
settimana. “ Vado scoprendo terreno, scrisse a Don Rua, e darò la zappata dove
il terreno sarà più conveniente ” .
L’abate Guiol non soffriva indugi; quindi per intendersi venne in maggio a
visitare Don Bosco e l ’Oratorio. Si rividero a Marsiglia verso la metà di luglio. Don
Bosco vi accompagnava monsignor Aneyros, Arcivescovo di Buenos Aires, che da
quel porto doveva risalpare per l ’America. Il prelato argentino, recandosi a Roma,
era stato incontrato a Sampierdarena da Don Bosco, che non gli si spiccò più dal
fianco fino alla sua partenza. L’Oratorio lo ebbe ospite alcuni giorni. È indescrivibile
l ’entusiasmo da lui suscitato nella casa. Egli non dimenticò mai più le amabilità
di Don Bosco, l ’allegria e la pietà dei giovani, il buono spirito dei Salesiani e l ’im­
ponenza delle loro opere. A Marsiglia il Santo, datogli l ’estremo saluto a bordo
della nave, non potè combinare nulla con l ’abate, perchè assalito da gravi incomodi;
poi aveva premura di fare ritorno. Ma nell’aprile del 1878 egli era nuovamente là.
Nel frattempo l ’idea di una fondazione salesiana vi aveva fatto del buon cam­
mino; si voleva u n ’opera come quella di Valdocco, e furono studiati i procedimenti
da seguire per gettarne le basi. Esisteva a Marsiglia una Società Beaujour, costituita
da ottimi cattolici e avente per iscopo di favorire istituzioni benefiche a vantaggio
della gioventù pericolante; essa avrebbe assunto la proprietà degli stabili, disponendo
del loro uso in conformità delle leggi. Era suo un vasto caseggiato nella via, da cui
prendeva il nome. Il consiglio di amministrazione deliberò di farlo passare nelle
mani di Don Bosco mediante un atto di locazione per la durata di cinquant’anni.
Approvato il progetto, Don Bosco si riservò di fissarne da Torino gli articoli.
Nel viaggio di ritorno la stanchezza, i disagi e il mal tempo lo spossarono
all’eccesso, costringendolo a due settimane di letto nell’ospizio di Sampierdarena.
Il
formulare i termini della convenzione non fu cosa breve. Quando poi tutto
era concluso, Don Bosco ribadì un suo concetto, scrivendo al curato: “ È necessario
che si pensi a rendere stabile il nostro istituto, e sarà stabile se la Congregazione
sarà indipendente L’istituto col nome di Patronage Saint-Léon aperse le porte ai
Salesiani il 1° luglio. Il direttore Don Bologna valeva più che non mostrasse nel
suo esteriore. Parlava il francese ottimamente. Venuto orfanello all’Oratorio, vi
aveva trascorsi vent’anni in varie mansioni. Don Bosco gl’indirizzò a Nizza una
paterna lettera, nella quale gli diceva: “ Va’ pure in nomine Domini. Dove puoi,
risparmia; se hai bisogno, chiedi e papà farà in modo da provvederti. Va’ come
padre dei confratelli, come rappresentante della Congregazione, come caro amico
di Don Bosco. Scrivi spesso bianco e nero. Amami in Gesù Cristo
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Anche il Patronage di Marsiglia fu modellato sull’Oratorio di Torino. Nel
primo anno dodici Salesiani formavano la comunità. Don Bosco li visitò in gennaio.
Questa volta egli incontrava dappertutto indifferenza o gelida officiosità; anche il
curato di S. Giuseppe non sembrava più quello d ’una volta. Un grosso malinteso
aveva operato negli animi un sì strano mutamento. Che fare? Ci pensò la Provvi-
denza. Una donna condusse a Don Bosco un figlio che faceva pietà. Piccolo, rachi­
tico, quasi raggomitolato in se stesso, moveva a stento le povere gambe, sorretto
da due stampelle. Gli si potevano dare otto anni. Passando in mezzo a uno stuolo
di ragazzi esterni che frequentavano le scuole dei Salesiani, fanciullo e madre si pre­
sentarono a Don Bosco. Il Santo rivolse a entrambi alcune parole; poi benedisse
10 storpio e gl’ingiunse di buttare le grucce. Succedette allora una metamorfosi
istantanea: il ragazzo si raddrizza, getta via i miseri sostegni e se la dà a gambe. La
madre, quasi demente, afferra quei legni, gli si slancia dietro gridando al miracolo,
e nè l ’uno nè l ’altra si fecero più vedere.
Il fatto fin dall’inizio ebbe abbastanza pubblicità da essere in breve divulgato;
11 che risvegliò nella cittadinanza l ’interessamento per la persona del taumaturgo.
La fiumana dei visitatori aumentava di giorno in giorno e con le visite le elemosine.
Don Bosco prima di partire preparò con un architetto un disegno d ’ingrandimenti.
Quattro mesi dopo già si costruiva a tutto andare. Per alimentare i fondi necessari
a proseguire i lavori, Don Bosco vendette una delle varie cascine lasciategli in eredità
dal torinese barone Bianco di Barbania. Due benefattrici insigni, le signore Jaques
e Prat, che egli poi chiamò abitualmente mamme sue e de’ suoi giovani, recavano
un contributo continuo. Una pubblica sottoscrizione benedetta dal Vescovo inca­
nalò al Patronage un rigagnoletto di offerte.
Nel gennaio del 1880, poiché le risorse accennavano a mancare, ritornò a Mar­
siglia. Guarigioni prodigiose confermarono l ’opinione di santità che già correva
intorno alla sua persona. Il giorno 30 nel monastero della Visitazione una signorina
che vi era ospite, affetta da cancro all’ultimo stadio, dopo la sua benedizione guarì
istantaneamente. Aveva nome Périer. Resasi figlia di Maria Ausiliatrice, morì a
Nizza Monferrato sei anni dopo.
Altre benedizioni produssero altre meraviglie, che causarono un grande accor­
rere di gente all’ospizio. Marseille est bouleversée, scrisse di là Don Cagliero a Don
Rua. Nè si andava a lui con le mani vuote. Dopo la partenza di Don Bosco il di­
rettore, saldati vecchi debiti, potè comperare un terreno circostante, che gli permise
di triplicare il fabbricato e di allestire una casa per le Figlie di Maria Ausiliatrice.
Da principio l ’abate Guiol nella vivacità del suo temperamento avrebbe voluto
vedere subito mirabilia, e s’impazientiva. Ma Don Bosco l ’aveva rassicurato scri-
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vendogli il 20 luglio 1879: “ Studierò la maniera di condurre avanti i nostri affari
e non restare a metà strada. La Congregazione Salesiana è bambina, e perciò più
bambini sono tuttora i suoi figli. Ma coll’aiuto di Dio cresceranno e a suo tempo
potranno riportare senno e frutto da scomodi fatti: pazienza, costanza e preghiera
Tout vient a qui sait attendre. La casa di Marsiglia fra le sorelle francesi assurse al
posto d ’onore.
Mentre si occupava della fondazione marsigliese, Don Bosco veniva conducendo
le pratiche per un’altra assai diversa. Egli non amava le colonie agricole, sembran­
dogli queste poco atte a favorire la moralità dei giovani. Ma nell’agosto del 1875
un sogno gli fece cambiare pensiero. Vide una casa rustica in mezzo a vasta cam­
pagna. Un giovane si avanzava verso di lui cantando in francese; poi sopraggiunsero
molti altri giovani, portando mazzi di fiori e cantando. I canti erano inviti a pren­
dersi cura di loro. Una donna misteriosa gli disse: — Questi fanciulli sono miei
figli e io li affido a te. — Indi si fece innanzi una seconda schiera, sulla quale la
donna stese un amplissimo velo; quando poi lo ritrasse, erano tutti chierici e preti.
La mattina dopo ecco una lettera del Vescovo di Fréjus, che offriva a Don Bosco
una doppia colonia agricola per fanciulli e per fanciulle nella sua diocesi.
Trattavasi di due orfanotrofi situati, uno, il femminile, a Saint-Cyr e l ’altro,
maschile, alla Crau, in una località detta la Navarre. Chi li dirigeva, non si sentiva
più di tirare avanti. Don Bosco accettò. Ultimati i preliminari, i Salesiani entrarono
alla Navarre nel 1878, seguiti l ’anno dopo dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, che si
stabilirono pure a Saint-Cyr nel 1880 sotto la direzione spirituale e tecnica di un
Salesiano. Le due opere agonizzanti ripresero vita, grazie agli eroici sacrifici dei primi
figli di Don Bosco. Per la Navarre specialmente si dischiuse un periodo di rigo­
gliosa vitalità.
Don Bosco visitò le due case nel 1879, nella quale occasione provvide a farne
l ’apporto alla Beaujour. Potè allora vedere con i suoi occhi che il casolare della
Navarre rispondeva in ogni più minuto particolare a quello mostratogli nel sogno.
Una sorpresa più impressionante gli toccò nella seconda visita del 1880. La casa
ingrandita era popolata di giovani. Venendo egli innanzi attraverso al tenimento,
gli uscirono tutti incontro preceduti da un compagno che gli porgeva un mazzo di
fiori. Quando furono a pochi passi di distanza, il Santo, fissatolo, cambiò colore.
I vicini lo notarono, ma egli non disse nulla. Verso sera durante un’accademiola,
mentre nell’esecuzione di un inno composto per la circostanza il medesimo ragazzo
faceva una parte a solo, Don Bosco disse al direttore: —- È tutto tutto un gio­
vane che ho visto in sogno. — Era l ’orfanello Michelino Blain, sacerdote sale­
siano, morto di recente a Nizza. Pare che anche l ’ultima parte del sogno si sia col
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tempo avverata, allorché vi s’istituì una sezione di Figli di Maria e insieme un
noviziato di chierici.
Con le vicende delle case francesi è collegato pure un altro sogno. Un decreto
del 29 marzo 1880 metteva fuori della legge i Gesuiti di Francia e imponeva alle
Congregazioni non autorizzate di chiedere al Governo l ’autorizzazione; ma questa
era subordinata a condizioni impossibili. Il 30 giugno manu militari i padri della
Compagnia vennero espulsi dalle loro case, sulle quali furono apposti i suggelli della
Repubblica. Don Bosco in ripetute lettere impartì ai direttori istruzioni precise e
ispirate alla più alta prudenza, prospettando loro tutte le eventualità. Dal 16 ottobre
all’8 novembre la forza pubblica mosse all’assalto anche delle altre case religiose.
Il giorno dei morti si temette seriamente per il Patronage di Marsiglia. Il direttore,
nella certezza di non poterlo salvare, telegrafò ad Alassio, pregando che si prepa-
rassero nel collegio una quarantina di letti per Salesiani e loro orfani. Don Cer­
niti ne informò Don Rua, il quale, ritenendo che all’arrivo della lettera i profughi
fossero già ad Alassio, ne diede in questo senso comunicazione a Don Bosco. Don
Bosco gli rispose con tutta calma che non era possibile, e scrisse per aver notizie
non ad Alassio, ma a Marsiglia. Infatti nessuno si era mosso. La spiegazione di tutto
la diede egli stesso il 1° dicembre ai superiori del Capitolo. Tre mesi avanti, nella
festa della Natività di Maria, la Vergine Ausiliatrice eragli apparsa in sogno, rico­
prendo con un manto immenso tutte le case salesiane di Francia. Scoppiò un tem-
poralone, nel quale ai fulmini e alla grandine si univa il fragore di fucilate e di can­
nonate. Saette, chicchi, palle, cadendo sul manto, scivolavano e rotolavano a terra.
Durante il pericolo egli non ne aveva mai parlato, limitandosi invece a raccoman­
dare che si confidasse nella protezione di Maria Ausiliatrice. —■Non se ne tenne
conto, —• osservò raccontando il sogno. Poi soggiunse: —■Vedere sbandite tutte
le Congregazioni francesi che da tanto tempo facevano del bene in Francia e poi
vedere la nostra straniera che vive del pane raccolto in mezzo ai Francesi, con il
giornalismo che grida sfegatato contro il Governo perchè non ci manda via, e noi
tranquilli, è cosa proprio straordinaria. Questo ci serva d ’incoraggiamento a porre
sempre la nostra fiducia in Maria Vergine. Ma non insuperbiamocene; basterebbe
un atto di vanagloria, perchè la Madonna non si mostri più contenta di noi o lasci
che vincano i cattivi.
È del 1879 l ’apertura di una casa a Challonces nella diocesi di Annecy con ora­
torio festivo e scuole esterne. Un benefattore di Trinità presso Mondovì, oriundo
della Savoia, fece le spese. A Don Bosco arrideva il pensiero di mettere piede nella
terra del Salesio. Ma le cose presero subito una pessima piega. Sorsero fiere oppo­
sizioni da parte delle autorità scolastiche, spalleggiate da certa stampa. Dopo appena
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un anno, col vento che spirava contro le Congregazioni religiose, la prudenza consi­
gliò di non mettersi troppo in vista ; quindi i Salesiani in buon ordine si ritirarono.
Alla fondazione di Challonces è legato un gran nome. Ne fu direttore il tori­
nese conte Cays di Giletta e Caselette, discendente da antichissima famiglia niz­
zarda. Era stato deputato al parlamento subalpino dal 1850 al 1860. Vedovo, con
un figlio, si ritirò poscia a vita privata, facendosi padre dei poveri. Don Bosco l ’aveva
avuto fra i primissimi suoi benefattori e catechisti. Un antico desiderio di appartarsi
dal mondo gli si ravvivò in cuore verso il 1877, e ruminava di farsi salesiano.
Il 23 maggio di quell’anno, mentre attendeva il suo turno per essere ricevuto da
Don Bosco, entro nell’anticamera una signora di Torino, che portava quasi di peso
una figlia undicenne priva di favella e mezzo paralitica. Essendo la vigilia di Maria
Ausiliatrice, 1afflitta madre sperava un beneficio dalla Vergine per la benedizione di
Don Bosco. Su proposta del conte gli astanti consentirono di cederle la precedenza;
egli intanto pensava fra se e sè che, avvenendo la guarigine, l ’avrebbe considerata
come indizio essere volontà di Dio che stesse con Don Bosco. Infatti la giovinetta
uscì che era un’altra, e narrava con disinvoltura ai presenti quello che era accaduto.
Allora il conte ruppe gl’indugi. Colui che nel suo castello durante il colera del 1854
aveva dato per tre mesi conveniente ospitalità alla famiglia reale, si ridusse nel 1877
a vivere la povera vita dell’Oratorio. Essendo già molto istruito anche in materie
religiose, ricevette l ’ordinazione sacerdotale nell’autunno del 1878. Pio, umile, obbe­
diente, caritatevolissimo edificò per soli cinque anni i suoi confratelli, avendolo
l ’angelo della morte rapito loro il 4 ottobre 1882. Nelle crescenti e talora delicate
relazioni con la Francia Don Bosco trovò in lui un ausiliare di gran tatto, e se ne
valse anche in affari, che andavano trattati personalmente sul posto.
Le quattro case scampate dall’uragano dell’80 dovevano superare anche la bur­
rasca del 1902. Non così altre due fondate posteriormente dal Santo, una a Lilla e
l ’altra a Parigi, nel 1884. Dopo un fecondo lavoro di più che tre lustri, quei Salesiani
seguirono la sorte comune e i loro immobili, costituiti dalla carità pubblica e adibiti
per molteplice beneficenza, andarono a finire negli artigli degli ebrei. A Parigi l ’opera
risorse nel quartiere di prima, a Ménilmontant, nome caro a tutti i Salesiani. A Lilla
invece quanti rimpiangono tuttora la scomparsa dei figli di Don Bosco!
Nel 1883 Don Bosco aperse presso Marsiglia un’altra casa per i novizi francesi.
È curiosa la storia di questa fondazione. Egli la preannuncio più di tre anni prima
all’abate Guiol e al salesiano savoiardo Don Cartier. — Io, diceva, ho a mia dispo­
sizione un vasto edificio in luogo ameno e con larga pineta; vi si accede per ma­
gnifici viali di platani; un abbondante corso d ’acqua attraversa tutto il podere. —■
In realtà non aveva niente, ma aveva visto così in sogno. Respinse l ’offerta di una
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villa presso Aubagne, perchè diversa da quella descritta. Stette incerto per un’altra
appartenente a una signora Pastré, ricca vedova parigina, a cui egli aveva guarita
la figlia. Sorgeva questa seconda a S. Margherita, poco lungi da Marsiglia. Facen-
doglisi vive insistenze perchè accettasse, rispose che se vi erano i pini e i platani
e il corso d’acqua, bene; se no, no. Il direttore del S. Leone, visitato il luogo, gli
riferì d ’aver veduto centinaia di pini, viali di platani e acqua corrente per il fondo.
Allora accettò. Motivi speciali obbligarono la proprietaria a non fargliene dona­
zione, ma a cedergliene l ’usufrutto per quindici anni. Don Bosco vi pose il novi­
ziato francese, detto della Provvidenza. Trasferito questo altrove dopo la morte del
Santo, vi sottentrarono le Figlie di Maria Ausiliatrice, che non ricevettero nocu­
mento dal ciclone del 1902.
La stima, l ’affetto e la venerazione dei Francesi per Don Bosco si manifestarono
in vita e in morte di lui con testimonianze eloquenti ed universali. Una briosa
monografìa del dottore d ’Espiney, edita a Nizza nel 1881 e intitolata Don Bosco,
incontrò largo favore: in dieci anni ebbe undici edizioni. Nel 1884 il magistrato
Alberto Du Boys diede alle stampe un interessante volume su Don Bosco e la Pia
Società Salesiana. Ma il viaggio del 1883 a Parigi fu quello che nel cuore dei Fran­
cesi impresse il più indelebile ricordo dell’Uomo di Dio.
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CAPO XLII
DON BOSCO A PARIGI
D on Bosco giunse a Parigi la sera del 18 aprile 1883. Lo accompagnava Don
De Barruel, salesiano francese di Valenza. Una carrozza lo attendeva per
condurlo al palazzo De Combaud sul corso Messina. La signora De Combaud
l ’aveva conosciuto personalmente a La Navarre, nelle cui vicinanze possedeva una
villa; ma era già in relazione con lui per via del giovanotto Malan, suo impiegato,
che poi fu salesiano e Vescovo. Ella mise a disposizione di Don Bosco un apparta­
mento comodo e isolato, nel quale egli potesse starsene a suo bell’agio. Il Santo
veniva a Parigi per domandare la carità.
Non vi arrivò sconosciuto nè inatteso. Recenti pratiche protrattesi a lungo con
l ’abate Roussel, che avrebbe voluto i Salesiani al suo grande orfanotrofio, ne ave­
vano fatto circolare il nome nelle sfere ecclesiastiche e fra i laici che si occupavano
d ’istituzioni benefiche. La sua attività a prò della gioventù abbandonata era citata
spesso a stimolo e a modello nei sermons de charité e nella stampa cattolica. Inoltre
ogni anno, prima che finisse l ’inverno, egli aveva avuto contatti con la colonia
parigina, che passava la stagione a Nizza e lungo la Costa Azzurra, specialmente a
Cannes. Visitando quei signori per raccomandar loro le sue opere, svegliava in essi
con l ’ammirazione anche il desiderio di vederlo nella capitale. Per loro mezzo
penetrò a Parigi e si sparse nelle famiglie aristocratiche il mentovato libro del
d ’Espiney. Alla notizia della sua probabile venuta, parecchi gentiluomini gli ave­
vano offerto ospitalità nei propri palazzi.
Una città come Parigi non si commuove per poco; eppure per la presenza di
Don Bosco si commosse. Dal giorno dopo il suo arrivo comincia un movimento
incessante verso di lui. Dovunque si sappia che egli si trova, è un accorrere per
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vederlo e ascoltarlo. I giornali cercheranno poi il perchè di tanto interessamento,
non mancando di mettere in rilievo, come l ’esteriore dell’uomo non avesse speciali
attrattive. Statura mediocre, andare barcollante, vista stentata, tono di voce fievole,
parlare lento, accento straniero e fraseggiare più straniero ancora, estrema sempli­
cità di tratto. La causa del fenomeno sarà ravvisata nella bontà squisita, nella dol­
cezza inalterabile, nella pazienza eroica, nella modestia non tocca dalla fama di
taumaturgo. Gli intendenti scopriranno il vero segreto nella santità, che nulla
valeva a nascondere.
La crescente affluenza di persone che assediavano il palazzo De Combaud fece
sentire la necessità di cercare un’altra dimora, nella quale potesse dare le udienze
durante le ore più affollate del pomeriggio. La si trovò presso una comunità reli­
giosa in via Ville l ’Evêque. Or ecco l ’orario delle sue giornate parigine. Si levava
alle cinque e, pregato alquanto, spogliava la corrispondenza recatagli dall’ultima
posta della sera innanzi; era sempre un monte di lettere. Recavasi quindi a cele­
brare, dove l ’avessero invitato; poi dava udienze ivi stesso o al palazzo De Combaud
fino al tempo di recarsi alla refezione di mezzogiorno da alcuno di coloro, che
quotidianamente lo tempestavano d ’inviti. Alle quattordici passava in via Ville
l ’Evêque per le udienze serali, durandola non meno di sei ore, senza poter mai
contentare tutti gli accorsi. D i ritorno all’ospitale dimora, esaminava coi segretari
la corrispondenza della giornata, osservando se le lettere erano state classificate
bene per le risposte. Infine, dette le preghiere, si coricava verso la mezzanotte.
L’affare della corrispondenza divenne presto così serio, che sul finire di aprile
chiamò a Parigi Don Rua. Non bastando neppure lui, vi si aggiunse spontanea­
mente un buon religioso. “ Non tre, ma sei o sette segretari sarebbero necessari ” ,
scrisse Don Rua il 2 maggio all’Oratorio.
Gli si dava la caccia per averlo a celebrare o a mensa o a benedire infermi. Si
volevano suoi autografi. Un signore, fattegli firmare cinquanta immagini sacre,
tornò dopo due giorni a portargli duemila franchi, somma di offerte da parte di
quelli a cui le aveva distribuite. Non pochi presentavano al segretario penne da
scrivere con preghiera di porgerle a lui, affinchè le usasse anche una sola volta, e poi
di restituirle per essere conservate come reliquie.. Anche le vesti gli si tagliuzzavano
per portarne via qualche brandello. Gli furono ripetutamente cambiati pastrano e
cappello. E che dire delle migliaia di medaglie che distribuì, ricevute come doni
preziosi? La baronessa Reille, esibitasi a provvedergliele e lieta di mantenere la
promessa, diceva alla fine che non avrebbe mai creduto di dover spendere tanto.
Tutti sapevano lo scopo del suo viaggio, perciò lo compensavano generosa­
mente di ogni cosa. Non c’era, si può dire, visitatore, e furono migliaia, che non
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gli offrisse il suo obolo. Anche nelle moltitudini che spesso lo circondavano, molte
mani si allungavano a deporre nelle sue biglietti di banca o monete. Le prime
famiglie, grate dell’onore di averlo a mensa, dopo essersi edificate della sua con­
versazione, lo pregavano di accettare vistose elemosine. Cinque anni dopo, in occa­
sione della sua morte, numerose lettere di condoglianza ricorderanno con commosse
espressioni la fortuna di coloro che l ’avevano avuto anche per breve ora in casa.
Diciamo qualche cosa in particolare delle udienze. Furono dette regali. Ore di
regalità si poterono considerare quelle, in cui i rappresentanti dell’aristocrazia pa­
rigina, quasi dimentichi dell’etichetta, riempivano la grande sala d ’aspetto in via
Ville l ’Evêque. Ma col passare dei giorni le classi vi si mescolarono senza distinzione.
La sala non si vuotava mai, perchè, quanti sgombravano, altrettanti ne prendevano
il posto. Dame di primo grado aiutavano le religiose a regolare il servizio di antica­
mera. La folla si addensava anche per le scale e nel cortile, aspettando impaziente,
ma ferma per ore e ore. Sul tardi Don Bosco si affacciava e impartiva una benedi­
zione generale. Allora la nervosità troppo compressa scattava e si levavano grida
d ’invocazione; chi implorava per sè, chi per il figlio o la figlia, chi per il padre o
la madre. Malati autentici attendevano che la sua mano si levasse benedicente su
di loro; parenti di malati giungevano con carrozze per prenderlo e condurlo dai
loro cari. Il diario di una delle religiose che montavano la guardia, registra scene
tragiche e comiche, frequenti in quei parapiglia. Fatti prodigiosi accaddero anche
sotto gli occhi del pubblico. Un idropico, entrato mostruosamente gonfio, usci che
pareva un otre svuotato. Ma il più delle volte gli effetti delle sante benedizioni si
verificarono dopo. Egli pregava appunto che le grazie clamorose non avvenissero
subito, ma fossero differite. Del resto, come disse il Signore alla Beata Taigi, tali
prodigi sono soltanto un mezzo per guarire le anime.
Coloro che non volevano sottostare al supplizio delle lunghe attese, chiedevano
per iscritto luogo e tempo per un’udienza. Anche Vescovi scrivevano raccoman­
dando persone, che avevano necessità di parlargli. Più fortunati di tutti erano i
pochi che ricevevano l ’appuntamento nel palazzo De Combaud o che potevano
accompagnarlo nel recarsi in qualche luogo. Moltissimi non ricorrevano all’opera­
tore di miracoli, ma andavano in cerca dell’uomo di Dio, ricco di lumi celesti.
Avvisi opportuni, specialmente in affari di coscienza, egli ne dispensava a tutti
senz’essere richiesto. Innumerevoli confessioni ascoltò in quelle udienze infinite.
Disse una volta che in quei giorni per il bene delle anime si era dovuto occupare
di cento e più casi, per ognuno dei quali valeva la pena di fare un viaggio a Parigi.
U n ’udienza restò memorabile, quella di Victor Hugo. Il parigino avvocato
Boullay disse pochi anni fa d’aver visto il noto poeta e romanziere uscire dalla
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casa dell’abate Roussel, dove Don Bosco l ’aveva ricevuto, e che l ’abate e Don Bosco
gli avevano confermato essere stato proprio lai. Era naturale in un uomo come
Victor Hugo il desiderio d ’incontrarsi con un personaggio, che si presentava alla
immaginazione popolare circonfuso di leggenda. Fino alla morte dello scrittore
Don Bosco non diede pubblicità all’incontro; ma la pagana empietà dei funerali
lo indusse a rendere noti i sentimenti da lui manifestatigli. Onde nel 1885 dettò al
segretario e rivide con la penna in mano il colloquio di due anni innanzi. Gli
aveva parlato da amico. Tutto il discorso si era aggirato sull’immortalità del'
l ’anima e sulla vita futura. Victor Hugo gli disse esplicitamente che credeva in
Dio. La Revue des Deux Mondes del 15 maggio 1935, analizzato quel dialogo, os­
servava che “ ognuno dei due rimase sulle sue posizioni: il moralista laico non
sdottorò, il prete mantenne la propria dignità, e il Santo non piegò le ginocchia
dinanzi al filosofo ” .
Come i pomeriggi alle udienze, così le ore antimeridiane erano per lo più ri­
serbate alle visite. Visitava chiese, comunità e famiglie. Anzitutto celebrava la Messa
in chiese pubbliche o in cappelle di comunità religiose e in oratorii domestici. Dopo
riceveva sul posto fino al momento di doversi recare altrove. Non si scomponeva
mai per interminabili che fossero le processioni dei visitatori. Il M onde del 15 maggio
scrisse: “ Il caritatevole sacerdote non licenzia nessuno, non respinge nessuno, non
fa premura a nessuno di quanti ricorrono a lui per sollievo nelle loro pene. La svia
anima tutta di Dio è tutta di chiunque a lui si rivolga ” .
Nelle chiese pubbliche il concorso dei fedeli alla sua Messa superava quello
delle grandi solennità. Ascoltata la Messa, quasi tutti si riversavano dove potessero
avvicinarlo. Stretto da ogni parte, egli non si turbava, ma dispensava sorrisi, buone
parole e benedizioni. Uscendo dalla chiesa del Gesù, là sulla soglia, tra una folla
che gli si stipava dietro e un’altra gremita nella via, guarì una signora, inferma da
molti anni, che lo aspettava adagiata sopra una poltrona a ruote. Ve l ’aveva sospinta
uno studente, colui che diventò poi il celebre storico Francesco Funk-Brentano
dell’istituto di Francia, e che rendeva ancora pochi anni fa testimonianza del fatto.
Quanto vi sarebbe da dire sulle visite a conventi e ad educandati! Ivi alle sue
Messe assistevano quanti potessero capire nelle cappelle, tutte persone della mi­
gliore società, mentre nelle adiacenze si affollava gente d ’ogni condizione per atten­
derne l ’uscita. Quand’egli era in mezzo a quelle turbe, sembrava di vedere lo spet­
tacolo delle moltitudini imploranti intorno al Redentore. Chi gli voleva toccare
le vesti, chi chiedergli una benedizione, chi ottenere la sua intercessione per una
grazia. Esistono memorie di tali visite in cronache locali o in relazioni posteriori,
dalle quali traspira gioia, venerazione e illimitata fiducia nelle sue preghiere. Vi si
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riferiscono pure episodi graziosi e altri prodigiosi. Nella cronaca delle religiose del
Sacro Cuore di Comflans, sotto il 2 maggio, viene così ritratto: Quello che ci
ha maggiormente colpite in Don Bosco è la sua semplicità. Sembra non accorgersi
dell’interessamento che suscita intorno a sè, poiché si mostra sempre calmo, fa­
cendo ogni cosa adagio, come se non avesse altro a cui attendere. Ha un aspetto
semplicissimo senza nulla che possa destare entusiasmo, tranne la santità. Da tutta
la sua persona spira umiltà
Negli oratorii domestici gli si faceva trovare il fiore della nobiltà parigina. Dopo
la Messa rivolgeva ai presenti alcune parole intorno alla carità; quindi, trattenutosi
coi signori del luogo e ascoltato privatamente chi desiderava conferire con lui, bene­
diceva tutti e si allontanava, lasciando dietro di sè un profumo di celestiali impres­
sioni. Per il 18 maggio la principessa Margherita d ’Orléans, sorella del conte di
Parigi Luigi Filippo Alberto e seconda moglie del principe Ladislao Czartoryski, lo
invitò a celebrare nel suo palazzo Lambert. Sette Principi ve lo attendevano, che
tutti, compreso il Conte di Parigi, si comunicarono. Servirono all’altare i principi
Czartoryski padre e figlio. Risale a quel tempo il destarsi della vocazione religiosa
in quest’ultimo. Egli non sapeva più staccarsi dal Santo. Nulla si disse allora di
vocazione; ma il giovane principe rimase conquiso dalle maniere di Don Bosco. Tre
anni dopo otteneva, come per somma grazia, di essere ammesso al noviziato salesiano.
Portò la benedizione di Maria Ausiliatrice in molte case private, nel cui segreto
si operarono veri miracoli di conversioni e di guarigioni. Don Rua nei processi
testifica di un portento, che più degli altri impressionò i parigini. Chiamato una
sera a benedire un giovanetto infermo, rispose che vi sarebbe andato a condizione
che questi la mattina seguente venisse a servirgli la Messa. S’immagini lo stupore
dei parenti! Eppure bisognò che consentissero. A ll’infermo poi egli ripetè la stessa
cosa. Visto lo stato del poverino, i presenti, se non si fosse trattato di Don Bosco,
avrebbero preso la sua esigenza come uno scherzo di pessimo gusto. Orbene la
mattina appresso, quando il Santo arrivò alla chiesa indicata, il fanciullo stava già
là ad aspettarlo. La sera innanzi erasi trovata nella casa una signora Ortega, colom­
biana di Bogotá, figlia d ’un medico, la quale, tornata in patria, con la narrazione
del prodigioso avvenimento eccitò ne’ suoi concittadini un vivo desiderio di avere
fra loro i figli di Don Bosco, desiderio appagato nel 1890.
Fu per un paio d ’ore dagli Assunzionisti, che redigevano il settimanale Pèlerin
e che allora ventilavano il disegno della quotidiana Croix; la sua parola incitatrice
sommerse qualche superstite indecisione. Fu dai chierici di S. Sulpizio, uno dei
più gloriosi seminari cattolici, lasciando in tutti un’impressione profondissima,
come attestava pochi anni fa uno dei testimoni, il Cardinale Bourne, Arcivescovo
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di Westminster. Fu due volte a Auteuil nell’istituto dell’abate Roussel, che, quan­
tunque non appagato nella sua brama di ottenere da Don Bosco i Salesiani per i
suoi giovani, gli continuava la più cordiale benevolenza. Fu pure all’istituto Catto­
lico. Ebbe l ’incarico d’impadronirsi di lui a ogni costo e di portarvelo il futuro
Cardinale Gasparri, allora professore di diritto canonico in quell’Ateneo. Prima
il rettore monsignor d ’Hulst diede un banchetto in suo onore; poi lo condusse
a un ricevimento nell’aula magna, dove lo accolsero tutti i professori e quasi tutti
gli studenti.
Da parecchi pulpiti parigini Don Bosco parlò a numerosi uditorii. Erano di­
scorsi come le conferenze che soleva tenere ai Cooperatori in Italia. Salì a questo
modo il pergamo alla Madonna delle Vittorie, alla Maddalena, a S. Sulpizio, a
S. Clotilde, a S. Agostino, a S. Pietro del Gros-Caillou. La trama dei sermoni
consisteva invariabilmente in esporre l ’origine delle sue opere e rappresentare la
necessità di provvedere alla gioventù abbandonata. Seguiva una colletta, raccolta
da un comitato di dame, che egli chiamava le quêteuses a servizio della sua grande
Quêteuse Maria Ausiliatrice. I giornali pubblicavano poi i riassunti delle conferenze,
descrivevano i pienoni di uditori e gli effetti della sua singolare eloquenza. Infatti non
omettevano di rilevare la sproporzione fra l ’efficacia delle allocuzioni e la povertà
oratoria del dicitore. I più non potevano afferrare le sue parole; eppure non si move­
vano. Tutti, come nota l ’Aubineau in un suo opuscolo di quell’anno su Don Bosco e
il suo viaggio a Parigi, “ contemplavano l ’uomo di Dio, la cui persona aveva un’elo­
quenza fatta di semplicità, di modestia, di um iltà, di abbandono in Dio e di proprio
oblio, tutte luci che s’irradiavano da lui, aureolandone le modeste sembianze ” .
La chiesa della Maddalena fu sempre la più aristocratica di Parigi. Predicatori
di cartello sogliono montarvi in pergamo. Don Bosco non avrebbe forse ardito di
parlare da sì alto luogo, se non ve l ’avesse indotto l ’Arcivescovo Cardinale Guibert.
— Parigi crederà più a voi, che ad altri, — gli aveva detto questi nell’udienza con­
cessagli all’arrivo. Gli fece anche una confidenza. Un noto prelato italiano, saputo
del viaggio di Don Bosco, aveva scritto a Sua Eminenza cose atte a indisporlo verso
il Santo; ma Sua Eminenza dichiarò di non averne tenuto conto. Invece il Cardi­
nale di Lione, ricevuta una comunicazione identica, vi aveva dato qualche peso,
non permettendogli di parlare entro la città.
La conferenza era fissata per le quindici; ma la chièsa cominciò a riempirsi
due ore prima, sicché quelli dell’ultima ora rimasero fuor della porta. Al cospetto
dell’immenso uditorio, con quelle forze'così logore e con quell’esperienza così
scarsa della lingua, uno straniero, un italiano, che non fosse Don Bosco, si sarebbe
sentito mancare l ’animo e messe insieme quattro frasi per raccomandare l ’elemosina,
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avrebbe cercato di liberarsi al più presto da una situazione tanto imbarazzante. Egli
invece, senza perdere la sua calma abituale, tenne un discorso relativamente lungo
e, quel che è di più, ascoltatissimo.
Dopo, mentre si avviava alla sagrestia, fu un vero spettacolo di fede: tutti di
mano in mano inchinarsi per riceverne la benedizione, le madri presentargli i figli
perchè li benedicesse, molti fargli benedire o toccare oggetti religiosi. Personaggi
ragguardevoli lo aspettavano nella sagrestia, sperando di ottenere qualche minuto
di udienza, ed egli si fermò a riceverli in una stanzetta attigua.
Il giorno seguente ritornò, come aveva promesso, a celebrare per le collettrici
e per tutti i benefattori. Dopo la Messa l ’abate De Bonnefoy, più tardi Vescovo di
La Rochelle, lo condusse da un’etica sedicenne, che aveva poc’anzi ricevuto gli
ultimi sacramenti, perchè prossima alla fine. Don Bosco, esortatala ad aver fede,
le prescrisse, con meraviglia di tutti e con delusione di alcuni, certe preghiere da
recitarsi fino alla festa dell’Assunta. Chi poteva credere che la moribonda cam­
passe ancora tre mesi e mezzo? Ebbene il mattino della solennità, la giovane, risu­
scitata quasi da morte, si alzò da sè, si vestì e fra lo stupore di quanti la conosce­
vano si recò alla chiesa. Nel 1898, come riferiva monsignor De Bonnefoy, essa era
madre di tre bambini sani e robusti.
Quante cose bisogna che restino nella penna! Dal 5 al 16 maggio Don Bosco
stette a Lilla, ospite dei signori di Montigny, promotori della fondazione, a cui si
è accennato nel capo antecedente. Anche là udienze, visite, conferenze, inviti,
moltitudini e fatti straordinari. Cose notevoli sarebbero pur da dire di una gita a
Versailles il 24 maggio; ma i limiti di questo lavoro non lo consentono.
Partì da Parigi il 26 maggio. Aveva tenuto nascosta l ’ora della partenza; tut­
tavia nell’interno della stazione il suo nome corse di bocca in bocca ed egli fu
oggetto di attenzione fino a che non si mosse il treno. Allora saluti calorosi gli
augurarono il buon viaggio; egli con la sua bonarietà e grazia si affacciò a ringra­
ziare nei presenti anche tutti i loro concittadini.
Per buon tratto di via si tenne in silenzioso raccoglimento. Anche Don Rua
e Don Barruel tacevano. Finalmente Don Bosco esclamò: — Ricordi, Don Rua,
la strada che mena da Buttigliera a Morialdo? Là a destra vi è una collina e sulla
collina una casetta e attorno un prato. Quella casetta fu l ’abitazione mia e di mia
madre; in quel prato io pascolava due vacche. Se tutti quei signori di Parigi sapes­
sero che hanno portato così in trionfo un povero contadino dei Becchi, eh?!...
Scherzi della Provvidenza! — In questi umili e santi parlari facevano ritorno a
Torino, ma dopo una riposante sosta di tre giorni a Digione, ospiti della marchesa
De Saint-Seine.
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41.10 Page 410

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Tentare di tener conto delle somme raccolte a Parigi sarebbe fatica sprecata.
Neppure Don Bosco avrà saputo quanto denaro fosse passato per le sue mani.
Quasi ogni sera il fratello della De Combaud, banchiere, spediva in varie direzioni
i frutti della carità parigina. I santi della carità, veri canali straordinari della bene­
ficenza cristiana, distribuiscono senza interruzione le loro acque, lasciando a Dio
la cura di misurarne il quanto. Parimente nelle mani di Dio rimettono la cura di
rimunerare quelli che fanno loro la carità. Un giorno Don Bosco al suo futuro
successore Don Albera, che trovava duro l ’insistere nel limosinare per il suo ospizio
di Sampierdarena, disse: — M olti in paradiso ci saranno riconoscenti, perchè li
avremo costretti a farci la carità.
Nella storia della Società salesiana il soggiorno di Don Bosco a Parigi segna
un momento di sommo rilievo. Don Bosco e la sua Opera vi fecero la loro pre­
sentazione al mondo. Da quel punto cominciò intorno al fondatore dei Salesiani
il fiorire di una multiforme letteratura che ne diffuse la conoscenza presso gli
uomini della dottrina, dell’autorità e della ricchezza, aprendo a’ suoi figli le vie
del bene in tutte le parti della terra.
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42 Pages 411-420

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42.1 Page 411

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CAPO XLIII
VICARIATO APOSTOLICO E PREFETTURA APOSTOLICA
N el suo discorso del 1875 per la prima spedizione americana Don Bosco aveva
detto : ‘‘ Noi diamo principio a una grande opera La Provvidenza dispose
che egli non lasciasse la terra senza vedere della grande opera gli splendidi comincia-
menti, i quali, come ora vedremo, egli non aveva indugiato a porre su salde basi.
Quanto più i Missionari salesiani guadagnavano terreno nell ’evangelizzazione
della Patagonia, tanto più evidente appariva a Don Bosco la necessità d ’imprimere
alla loro azione un carattere normale e duraturo. Per questo occorreva istituirvi
l ’autonomia giurisdizionale, sicché i Missionari non dipendessero più dagli Ordinari
bonariensi, ma da Propaganda; solo così era possibile ottenere omogenea e organica
compattezza di personale, libertà di movimento nell’esercizio dell’apostolato e age­
volezza di rapporti diretti, continuati e ufficiali col Governo, senza le cui buone
disposizioni ben poco era da attendersi. L’articolo 67 della Costituzione argentina
attribuiva al Congresso la cura di favorire insieme con l ’incivilimento anche la con­
versione degli Indi al cattolicismo ; tuttavia nel sud della Repubblica questa dispo­
sizione legislativa rimaneva ancor sempre lettera morta. Don Bosco dunque, che
porgeva una mano per l ’attuazione di un tale programma, aveva bisogno di poter
spiegare liberamente tutte le energie proprie di una vera Missione cattolica. Ecco
perchè dal 1880 in poi condusse risolutamente le pratiche per ottenere dalla Santa
Sede l ’erezione di un Vicariato Apostolico nella Patagonia settentrionale, esten-
dentesi dal Rio Negro al Rio Santa Cruz, e un altro Vicariato per il territorio più
meridionale e per la Terra del Fuoco.
Egli vi pensava già da un paio d ’anni; ma solamente nell’aprile del 1880 fece il
primo passo a Roma con l ’esporre a Leone XIII il suo disegno. A studiare la cosa
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il Papa deputò ufficiosamente alcuni prelati, fra i quali era il cardinale Alimonda,
membro della Congregazione di Propaganda. Dopo alcune conferenze con quei per-
sonaggi Don Bosco stese un memoriale, in cui non mancava nulla: dati geografici
ed etnografici, attività svolte dai Salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, pro­
gramma da svolgersi, proposta di un Vicariato Apostolico. Il documento fu tosto
umiliato al Santo Padre. A Roma però gli affari si trattano con somma pondera-
tezza e quindi senza risparmio di tempo.
Dum Romae consulitur, nella Patagonia si lavorava con ardore. Il capo della
Missione Don Fagnano, uomo intraprendente e intrepido, si slanciava alla cam­
pagna, esplorando le zone più impervie e remote, ma intanto rafforzando la sua resi'
denza di Patagones con l ’erezione di una chiesa e di due collegi, uno dei Salesiani,
delle Suore l ’altro. Anche Don Beauvoir e Don Milanesio, infaticabili operai evan­
gelici, s’inoltravano dovunque sapessero essere colonie di civilizzati e famiglie o
tribù indie. D i queste studiavano gl’idiomi, più difficili perchè privi di scrittura.
Tuttavia il po’ di spagnolo che nel volgere dei secoli vi era pur penetrato, agevolava
loro la fatica. Bisognava correre giornate e giornate a cavallo con l ’occhio alla bus­
sola per non perdere la tramontana. Nessuna lode umana eguaglierà mai il merito
di quegli zelanti figli dell’Oratorio. Orbene le relazioni di là inviate offrivano a
Don Bosco sempre nuovi elementi in sostegno della sua tesi del Vicariato.
Quando i risultati ottenuti parvero sufficienti, Roma giudicò arrivato il mo­
mento di addivenire alla invocata sistemazione. Nel luglio del 1883 il cardinale
Simeoni, Prefetto di Propaganda, richiese Don Bosco del suo parere definitivo. Egli
allora propose, non più uno, ma tre Vicariati. Invitato poi a indicare i nomi dei
candidati che gli sembrassero più adatti, presentò Don Cagliero, Don Costamagna e
Don Fagnano. I Cardinali di Propaganda il 27 agosto decisero la creazione di due
sole circoscrizioni ecclesiastiche, le quali comprendessero la Patagonia settentrionale
e centrale con Don Cagliero Provicario Apostolico, e la Patagonia meridionale, la
Terra del Fuoco e le Isole Malvine con Prefetto Apostolico Don Fagnano. La qualità
di Provicario escludeva il carattere vescovile, che sarebbe stato conferito più tardi.
I Brevi pontifici di erezione e di nomina per il Provicariato giunsero in novembre,
come anche i decreti per la Prefettura emanati dal Prefetto di Propaganda.
Don Bosco preferiva rimandare Don Cagliero in America insignito della dignità
episcopale. L’Arcivescovo Alimonda, che era del medesimo avviso, ne supplicò
nel 1884 il Santo Padre adducendo tre motivi: consolazione di Don Bosco, onore
della Società salesiana e maggiore facilità ed efficacia di ministero nell’eletto. La
pratica, facendo il suo corso, intoppò nell’opposizione del cardinale Ferrieri, Pre­
fetto dei Vescovi e Regolari, sempre convinto che i Salesiani avessero esistenza pre­
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caria. Ma il 9 ottobre monsignor Jacobini, segretario di Propaganda, scrisse all’Ali-
monda: “ Il Santo Padre nell’udienza di domenica scorsa esaudì la preghiera di
Don Bosco e consentì di dare il carattere vescovile a Don Cagliero, nuovo Provi­
cario Apostolico in Patagonia. Credo che dopo ciò bisognerà togliere il Pro, ma per
questo aspetto di parlarne al Card. Prefetto. Intanto La prego di avvisare il caro
Don Bosco che ne sarà contentissimo. La prego, se non è ardire, di fare a Don
Bosco i rallegramenti da mia parte pel nuovo onore che ottiene l ’Oratorio ” . Il Pro
fu tolto; al novello Vescovo venne dato il titolo di Màgida.
Un Vescovo salesiano era davvero un grande onore per l ’Oratorio, ma insieme
anche la più solenne valutazione del metodo educativo di Don Bosco. Soltanto un
educatore di tal fatta, come si è già accennato, poteva da quella natura esuberante
e insofferente di giogo e in quell’ambiente poverissimo di comodi materiali trarre
un così invitto Pastore della Chiesa. /Tutto l ’Oratorio si mise in festa, in festa si
mise tutta la Società salesiana; ma più d ’ogni altro gioiva Don Bosco vedendo coro­
nato con sì glorioso avvenimento il primo decennio dalla pontifìcia approvazione
delle Regole.
La consacrazione fu compiuta con grande gioia dal cardinale Arcivescovo Ali-
monda il 7 dicembre. Giunse in tempo per assistervi monsignor De Macedo Costa,
Vescovo di Belem del Para nel Brasile, che, viaggiando da Parigi a Roma, si era
soffermato a Torino per vedere Don Bosco e chiedergli i Salesiani. Curva sotto il
peso de’ suoi ottantotto anni si vedeva assorta in preghiera la veneranda madre del
consacrato, e nella penombra del presbiterio il gran Padre attirava su di sè gli
sguardi commossi di numerosi ammiratori e benefattori.
Durante la novena del Natale Monsignore partì per Roma, dove ebbe la con­
solazione di udire dalle labbra di Leone XIII che la salute di Don Bosco era pre­
ziosa non solo per la Società salesiana, ma per tutta la Chiesa. E veramente la
salute di Don Bosco declinava in modo impressionante; quando il Vicario Aposto­
lico tolse da lui l ’ultimo commiato, egli teneva il letto.
Monsignore, salpato da Marsiglia il 14 febbraio del 1885, arrivò a Buenos
Aires in un brutto momento. Nei tempi ordinari egli sarebbe passato senza che
quasi gli si badasse; ma da parecchi mesi nella capitale infieriva la lotta antireligiosa.
La stampa attaccava anche i Salesiani, cercando di renderli odiosi agli Argentini.
Inoltre un dissidio del Governo col Delegato Apostolico aveva prodotto la rottura
delle relazioni con la Santa Sede e causato l ’espulsione del suo rappresentante.
Monsignore non fu risparmiato dai giornali settari. Tutto insomma faceva temere
che il Governo non avrebbe approvato l ’erezione di un Vicariato entro il territorio
della Repubblica senza il suo beneplacito.
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Pur di arrivare a piantar le sue tende nella Patagonia, Monsignore si prote­
stava disposto ad andarvi anche vestito da sagrestano. Tuttavia sperò di ottenere
qualche cosa, se gli riuscisse di abboccarsi col Presidente della Repubblica, che era
quel generale Roca a noi già noto, e vi riuscì. Si recò da lui con Don Costamagna,
che aveva seguito il Generale nella spedizione armata del 1879. Con militare ru­
dezza quegli disse a Monsignore: —■Non sa che il Papa non ha diritto di mandare
Vescovi nella Repubblica senza intendersi col Governo ? -—• Pronto e felice Mon­
signore gli rispose che egli era Vescovo di una città dell’Asia e che quindi non
aveva diocesi nell’Argentina ; essersi egli recato colà per aiutare i Missionari sale­
siani nella Patagonia. Bastò questo per disarmarlo e per dar luogo a una conver­
sazione sempre più pacifica e infine amichevole. Prima di accomiatarsi, Monsi­
gnore lo pregò d ’un biglietto di presentazione per il Governatore del territorio
patagonico. Il Presidente glielo fece con termini assai benevoli. Governava quel
paese un Generale Winter, persecutore di Don Fagnano e smanioso di scacciare i
Salesiani da Viedma e da Patagónes; ma quando vide i buoni rapporti del Vicario
col Generale Roca, abbassò la cresta, lo accolse onorevolmente e gli promise il
suo appoggio.
Sotto il comando e dietro la guida e l ’esempio dell’impavido apostolo, vecchi
e nuovi Missionari attraversavano i deserti in cerca di Indi da guadagnare alla fede
e alla civiltà; in pari tempo iniziavano un p o ’ di vita parrocchiale nelle colonie miste,
che erano in via di sviluppo lungo le sponde del Rio Negro e del Rio Colorado.
Due pionieri, Don Savio e Don Beauvoir, scesero fino a Santa Cruz, capitale in
embrione della governazione omonima, alla foce dell’omonimo fiume, che segnava
il limite meridionale del Vicariato, e di là correvano in traccia dei poveri Indi.
Frattanto, nel centro della Missione a Patagónes e a Viedma, sua residenza, mon­
signor Cagliero si adoperava a svegliare la vita e la pietà cristiana: due cose di cui
non si aveva più idea. Gli giovò molto per questo la cura della gioventù mediante
gli oratorii festivi e le scuole. I figliuoli scossero a poco a poco le madri e i padri.
Le Suore di Maria Ausiliatrice dalle loro due case di Viedma e di Patagónes face­
vano miracoli e Dio ne benediceva lo zelo e l ’abnegazione. Anch’esse nella storia
di quelle Missioni scrissero pagine d ’oro. Un collaboratore del Vicario, Don Pic­
cono, scriveva di lui a Don Lemoyne il 14 maggio 1886: “ La sua persona diffonde
intorno a sè la soavità e la letizia, e nelle sue azioni vanno unite la semplicità e la
prudenza, la dolcezza e l ’energia di un vero primogenito di Don Bosco ” .
Le relazioni sue e dei Missionari, che narravano le loro peregrinazioni e descri­
vevano i frutti del loro apostolato, furono le cose che maggiormente rallegrarono
Don Bosco negli ultimi due anni della sua vita; quand’egli morì, la Missione pata-
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gonica, anelito del suo gran cuore, poteva dirsi organizzata in modo da far conce­
pire le più fondate speranze di successo, come infatti l ’avvenire dimostrò.
Egli intanto non cessava di spronare monsignor Fagnano, perchè raggiungesse
anche lui la sua Prefettura. Il motivo più impellente, per il quale lo sollecitava a far
presto, era il sapere che nella Patagonia meridionale e più ancora nella Terra del
Fuoco erano penetrati i ministri protestanti anglicani. Ma gravi difficoltà si oppo­
nevano a quell’andata. Finalmente la buona occasione venne. Il Governo argentino,
risoluto di sistemare l ’amministrazione civile e di arrestare l ’invadenza inglese nella
parte della Terra del Fuoco che gli apparteneva, ordinò un’esplorazione sulla costa
orientale dell’isola Grande. La spedizione armata partì nel novembre del 1886.
Il Prefetto Apostolico ottenne di esservi aggregato come cappellano.
L’Isola Grande è la Terra del Fuoco propriamente detta. Essa campeggia in
un arcipelago immenso d ’infinite isole maggiori, minori e minime, sparpagliate
oltre la punta meridionale del continente. La parte orientale di detta isola appar­
tiene all’Argentina, il resto e quasi tutto l ’arcipelago al Cile. La spedizione approdò
il 21 novembre nella baia di S. Sebastiano, che si apre larga e profonda a nord-est
e il 24 dicembre dopo molte e gravi peripezie arrivò alla baia Thetis nell’estremo
sud. Si era costeggiata l ’isola Grande in tutta la sua lunghezza, facendovi sbarchi.
Accampatisi presso il lido, gli esploratori vi rimasero tre settimane. Monsignore
prese immediatamente a occuparsi di una tribù che ogni mattina veniva all’accam­
pamento. Due volte al giorno riuniva ragazzi e ragazze per insegnar loro a pregare.
Con sua grande pena il 16 gennaio 1887 dovette abbandonare quelle povere anime,
perchè la spedizione riprendeva la via del ritorno. Egli si staccò dai compagni di
viaggio a Patagones, sua residenza, dove sbarcò il 25.
Tre vantaggi principali egli aveva ritratti dalla sua esplorazione: una discreta
conoscenza dei luoghi, un’idea approssimativa sulle condizioni di quegli Indi e la
constatazione importante che conveniva collocare la sede di tutta la Missione a
Puntarenas, oggi Magallanes, essendo questo il punto più centrale di comunica­
zione con il Cile, la Terra del Fuoco e le Isole Malvine; poiché la sua Prefettura
si estendeva anche alla parte cilena dell’arcipelago fueghino e alle isole anzidette,
oltreché alla Patagonia meridionale.
Da Patagónes verso la fine di febbraio si recò a Buenos Aires col proposito di
muovere cielo e terra per procacciarsi protezione, sussidi e personale, con cui
dare serio cominciamento all’impresa. Intanto consolava Don Bosco, scrivendogli
il I o di marzo: “ Si rallegri, Don Bosco, che uno de’ suoi figli si è spinto sino al
grado 55° di latitudine meridionale, e ha potuto vestire duecento selvaggi, predi­
care la religione cattolica e battezzarne già alcuni
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A Viedma egli non aveva trovato monsignor Cagliero; lo rivide alcuni mesi
dopo, ma dove e come non si sarebbe mai immaginato. Il Vicario stava guidando
una missione lungo la valle del Rio Negro, fino alle Cordigliere, con il proposito di
valicare questa catena e di arrivare a Concepción nel Cile : un percorso di 1500 chi­
lometri. Per circa 1300 tutto andò bene; poi accadde l ’imprevisto. Era il mattino
del 3 marzo. Lasciato Malbarco, specie di villaggio isolato sulle rive del Neuquen,
affluente del Rio Negro, si cavalcava su per i dirupi andini, quand’ecco il cavallo
del Vescovo impennarsi, spiccar salti e sprangar calci, gettare la sella a traverso e,
presa la mano al cavaliere, darsi a pazza fuga per uno stretto sentiero in pendìo,
con sporgenti macigni da un lato e dall’altro un precipizio senza fondo. Monsi­
gnore, senza perdere la sua presenza di spirito, adocchia un punto meno acciden­
tato, libera i piedi dalle staffe e vi si getta giù. Se non avesse fatto quella mossa
fulminea e ardita, sarebbe andato a sfracellarsi nell’abisso, dove un sordo tonfo
indicò pochi istanti dopo essere piombata la bestia in furia.
I compagni atterriti gli apprestarono i primi soccorsi; poi, adagiatolo alla meglio
sopra una cavalcatura, lo riportarono a Malbarco presso una famiglia di coloni
cristiani. Quella discesa fu un martirio per il povero paziente. Gli si erano staccate
due costole al lato sinistro con rotture muscolari e lesioni polmonari; aveva anche
ammaccature al volto e alle braccia. Tuttavia dopo dieci giorni di letto potè al­
zarsi e celebrare e dopo altri tre giorni volle ripigliare il suo cammino verso la
mèta prefissa.
Alle prime confuse notizie monsignor Fagnano, inforcato il cavallo, era volato
sulle tracce dei Missionari, che raggiunse quando già si trovavano a Concepción.
Quivi il caduto finì con ristabilirsi così bene, che per più d ’un mese percorse il Cile,
lavorando nel sacro ministero. Lo accompagnò quasi sempre monsignor Fagnano,
che per altro aveva continuamente la testa a* suoi Fueghini. Fece una corsa ad
Ancud e s’intese col Vescovo, dal quale dipendevano Puntarenas e la parte cilena
della Terra del Fuoco. Ne ebbe commendatizie che gli giovarono poi molto ad am­
mansare il Governatore, uomo ostilissimo alla religione. I due nostri Monsignori,
detto addio al Cile e imbarcatisi [insieme, navigarono verso sud e attraverso lo
stretto magellanico arrivarono alla baia di Puntarenas proprio il 24 maggio. In giorno
per loro così fausto avrebbero desiderato scendere a terra, celebrare e vedere la
futura residenza; ma lo stato del mare non permise di gettare le ancore, sicché,
benedetta da bordo la sede divisata della Missione, proseguirono per Buenos Aires.
Monsignor Fagnano stava sulle spine. Ansioso di tornare nel campo del suo
apostolato, avuti dall’ispettore bonariense tre confratelli, si rimise in mare. Presero
terra a Puntarenas il 21 luglio di quell’anno 1887. Oggi Puntarenas conta i suoi
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trentamila abitanti. G l’immigrati europei ne hanno fatto una città cosmopolita e
trafficante. Due chiese salesiane e i collegi annessi, prime fabbriche a mattoni, sono
fra i più notevoli edifici che vi siano sorti da poi. Ma allora si vedeva appena un
meschino mucchio di casupole con un migliaio e non più di persone. Monsignore
scrisse il 7 agosto all’amico Don Lemoyne: “ Ci troviamo a cinquantadue gradi e
mezzo di latitudine sud; siamo i figli più lontani del caro Don Bosco, ma forse i
più vicini a lui per la tenerezza colla quale pensa a noi ” .
Difficoltà economiche, climatiche e politiche non ispaventarono il Missionario
dalla tempra di acciaio, che aveva pure l ’arte di entusiasmare gli altri all’arduo
lavoro. Fissata come potè l ’umile dimora, non pensò più che ai Fueghini. “ Io,
scrisse l ’8 ottobre a Don Lazzero, non posso star tranquillo finché non abbia otte­
nuto i mezzi per redimerli dalla schiavitù dell’ignoranza, della miseria e special­
mente del demonio ” . Mezzo indispensabile sarebbe stato un vaporino, col quale
correre canali e isole in cerca di selvaggi. I protestanti disponevano di due ben
attrezzati. Mancandogli allora la possibilità di farne acquisto, noleggiò una goletta
Vittoria, capace di quaranta tonnellate. Con quella sul finire del 1887 visitò l ’isola
Dawson, punto centrale, dove approdavano continuamente Indi con le loro canoe;
perlustrò quindi la parte cilena dell’isola Grande. In entrambe le località incontrò
gran numero d ’indigeni; s’intrattenne con loro, li invitò a Puntarenas, li regalò di
vestiari e di viveri. —■Tu sei il capitano buono, — gli dicevano essi, memori di
altri capitani che ne avevano fatto strage. E Capitano buono divenne poi il termine
usuale, con cui i poveri perseguitati designarono il loro provvidenziale apostolo.
Pochi mesi avanti la sua dipartita da questo mondo, Don Bosco fu consolato
dalla vista di un primo fiore di quelle lontane e barbare contrade. Monsignor Fa-
gnano nella prima esplorazione aveva raccolta un’orfanella india di circa otto anni
e condottala a Patagones, l ’aveva consegnata alle Figlie di Maria Ausiliatrice, che
la prepararono al battesimo. Orbene monsignor Cagliero, venendo in Italia nel
dicembre del 1887, la menò a Torino con due suore per presentarla a Don Bosco.
La fanciulla, convenientemente predisposta, sapeva abbastanza chi egli fosse. Era
una primizia che, come si espresse Monsignore, gli mandavano i suoi figli Missio­
nari ex ultimis finibus terrae. La piccola India, inginocchiata dinanzi a lui, gli rivolse
in italiano e col suo accento semiselvaggio alcune parole insegnatele dalle maestre.
Don Bosco l’ascoltò commosso, la benedisse e ringraziò il Signore.
La storia della Missione di monsignor Fagnano è delle più fantastiche che si
possano scrivere. Allorché il Missionario, affranto dall’età, dalle fatiche e dalle sof­
ferenze morali, scese nella tomba, tutta una rete di opere missionarie avvolgeva la
sua sconfinata Prefettura. Un altro suo titolo alla riconoscenza dei posteri è d ’aver
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promosso lo sviluppo industriale e commerciale, che mise la Terra del Fuoco sulla
via del progresso. Non fu certamente questa l ’idea, per cui tanto fece e patì, ma è
nella natura delle cose che la fiaccola del Vangelo, dovunque arrivi a splendere,
irradi intorno a sè luce di vera civiltà.
A Santiago del Cile nella seduta del 10 agosto 1937 il Parlamento discuteva
sulla partecipazione del Governo alle onoranze da tributarsi ai Salesiani, ricorrendo
il cinquantesimo anniversario della fondazione delle loro Missioni nelle zone ma­
gellaniche. Il capo del Deputati socialisti, vincendo le proteste de’ suoi amici,
dichiarò essere doveroso riconoscere quanto quelle lontane terre fossero state bene­
ficate dai Salesiani. “ Non si deve dimenticare, disse, che 14.000 dei 30.000 abi­
tanti di Magellano han ricevuto l ’istruzione dai Salesiani, i quali con scuole e labo­
ratori incivilirono contrade semibarbare ” . Invitò quindi la Camera ad aderire alle
onoranze ai figli di Don Bosco, come fu fatto.
Il magnanimo apostolo proveniva, come tanti altri valenti Salesiani d ’allora,
da quelle vocazioni tardive, che il Santo coltivò assai prima di farne un’istituzione,
come si è narrato a suo luogo. Oggi i suoi resti mortali riposano nella chiesa del
Sacro Cuore di Gesù a Puntarenas ; ma il suo spirito aleggia da Santa Cruz a Ushuaya
e la sua memoria vive e vivrà in benedizione nel cuore di tutti i Salesiani.
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42.9 Page 419

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CAPO XLIV
ALTRE FONDAZIONI NELL’AMERICA
Le Missioni degl’infedeli furono il principale obiettivo di Don Bosco nell’inviare
À in America i Salesiani. Le prime fondazioni argentine ci si presentano nei
documenti ufficiali come punti di partenza, da cui si dovesse muovere all’evangeliz­
zazione della Patagonia. Organizzate poi le Missioni, tanto quelle case quanto le altre
aperte successivamente da lui nella Repubblica non differiscono più dalle case sale­
siane d ’Europa. In tutti per altro gli Stati dell’America latina, dove fondò istituti,
se nel territorio vivevano ancora Indi, egli non voleva che i suoi figli si occupassero
esclusivamente dei civili, ma intendeva che s’interessassero pure della sorte dei
selvaggi. Ecco perchè i Salesiani che di anno in anno mandava da quelle parti, li
considerava un po’ tutti come Missionari. In realtà le case argentine preparavano
e somministravano personale missionario alla Patagonia e alla Terra del Fuoco, e
nell’estensione dell’Opera salesiana sotto i successori del Santo presero a fare così
anche le case aperte dove ci fosse bisogno di apostolato missionario. Continueremo
a vedere in questo capo ciò che Don Bosco fece per l ’America latina.
Nell’Argentina ripetono la loro origine da Don Bosco sei fondazioni tuttavia
fiorenti dirette dai Salesiani e parecchie altre governate dalle Figlie di Maria Ausi-
liatrice. Sono in ordine cronologico: la chiesa degli Italiani di Nostra Signora della
Misericordia a Buenos Aires e l ’annesso collegio; il collegio di S. Nicolás de los
Arroyos; la parrocchia di S. Giovanni Evangelista con collegio a Boca di Buenos
Aires; il grande ospizio con chiesa pubblica ad Almagro, un vero Oratorio di Val-
docco nella metropoli bonariense; chiesa e scuole esterne di S. Caterina a Buenos
Aires, erette per arrestare la propaganda protestante; chiesa e collegio di La Piata.
Vi si aggiunga la Nizza americana delle Figlie di Maria Ausiliatrice, come si può
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42.10 Page 420

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chiamare il loro istituto di Almagro, perchè fu vera casa madre per le loro opere
nell’Argentina e nell’Uruguay. In quest’ultima Repubblica Don Bosco le mandò
a lavorare accanto ai Salesiani a Villa Colón presso Montevideo, a Las Piedras,
a Paysandu e a Montevideo. Ognuna di tutte le accennate fondazioni meriterebbe,
se fosse possibile, almeno una pagina. Limitiamoci invece a dire delle fonda-
zioni posteriormente fatte da Don Bosco in altri Stati, dei quali non si è detto
ancora nulla.
Dall’Argentina e dall’Uruguay la rinomanza delle Opere di Don Bosco si andò
propagando in ogni angolo dell’America latina, sicché destava nei Vescovi ed anche
nei Governi una gara per avere loro scuole professionali. Nell’Impero del Brasile
monsignor Lacerda, Vescovo di Rio de Janeiro, voleva a tutti i costi i figli di Don
Bosco in quella capitale. Di lui scrive Don Albera nella sua Vita di Mons. Lasagna:
“ Non potrebbe dirsi, se vi sia stato altro Prelato che più intimamente abbia cono­
sciuto Don Bosco, più l ’abbia amato e più teneramente a lui si sia affezionato ” .
Egli aveva fatto conoscenza personale con Don Bosco nel 1877, nel qual anno era
venuto all’Oratorio per istrappargli alcuni Salesiani; ma se ne ripartì rassegnato
di dover portare seco soltanto buone promesse a lunga scadenza. Don Bosco pero
non prometteva per promettere: infatti nel 1881 mandò a Rio de Janeiro Don La­
sagna, Ispettore dei Salesiani nell’Uruguay, con l ’incarico di concertare col Vescovo
l ’apertura di una casa. L’Imperatore Don Pedro II, ricevutolo in particolare udienza,
volle essere informato di tutto quello che riguardava l ’Opera salesiana. Altamente
soddisfatto, manifestò vivo desiderio che la provvida istituzione fosse presto tra­
piantata nell’impero. Visitati parecchi Vescovi e osservate le condizioni delle loro
diocesi, Don Lasagna perorò con infocata eloquenza presso Don Bosco la causa
del Brasile.
Don Lasagna fu quello che si dice un uomo superiore. Prestante della persona,
d ’ingegno versatile e colto, buon parlatore, esperto negli affari, bastava vederlo per
dire che era una personalità eccezionale. Infatti divenne Vescovo e iniziatore delle
Missioni salesiane nelle foreste brasiliane, secondo il volere di Don Bosco. Il santo
educatore, raccoltolo piccolo sbarazzino a Montemagno nel Monferrato durante
una delle descritte gite autunnali e condottolo all’Oratorio, ne aveva fatto uno
strenuo apostolo.
Due anni dopo quella visita il Vescovo di Rio De Janeiro potè finalmente venire
esaudito. Lo stesso Don Lasagna gli condusse nel 1883 sette Salesiani, per stabilire
una casa a Nictheroy nelle vicinanze della capitale. Influì sulla scelta del luogo la
presenza dei protestanti, che in quel centro di novella formazione si erano minac­
ciosamente acquartierati. Rallegrato da tale notizia, Don Bosco nella conferenza
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del gennaio 1884 ai Cooperatori torinesi, predisse che assai numerosi sarebbero
sorti in quell’immenso paese gl’istituti salesiani. Ancora uno egli ne fondò a San
Paolo nel 1886, il Liceo del Sacro Cuore, che forse è nel Brasile il maggiore istituto
di cristiana educazione. D ’allora a oggi il numero delle case dirette ivi dai Salesiani
e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice ha superato il centinaio.
Il Cile, quando vi capitò monsignor Cagliero, era già pieno del nome di Don
Bosco. Nel 1886 il Vicario generale di Concepción aveva scritto una lunga e com­
movente lettera a Don Bosco, sollecitando l ’invio di almeno sei preti. Non sei, ma
cinquanta gli rispose il Santo che ne avrebbe voluto mandare, se avesse saputo dove
prenderli; anzi, benché vecchio e infermo, avrebbe desiderato di volare lui stesso
colà, dove si sentiva tanto bisogno di sacerdoti. Gli prometteva per altro che in
settembre, tenendosi il Capitolo generale, avrebbe studiato il modo di esaudirlo.
E mantenne la parola: infatti nel febbraio dell’anno appresso sei Salesiani sotto la
scorta del giovane sacerdote Don Evasio Rabagliati partivano da Buenos Aires per
Concepción e davano principio all’opera di Don Bosco nella Repubblica cilena.
Il passaggio di monsignor Cagliero dopo la sua caduta determinò poi varie altre
proposte da Linares, da Valparaiso, da Los Angeles, da Talea e dalla capitale San­
tiago: tutti luoghi dove col tempo s’andò; ma solo per Talea potè Don Bosco
disporre di una fondazione, compiutasi nel 1888, quand’egli non era più.
Due settimane prima di allettarsi il Santo aveva ricevuto la visita di tre ragguar­
devoli signori cileni, venuti in Italia con Monsignor Cagliero e desiderosi di studiare
sul posto l ’Opera salesiana. Con non piccola sorpresa essi incontrarono nell’Ora-
torio un loro connazionale, conosciutissimo nella Repubblica per le sue pubblica­
zioni, per l ’importanza della sua famiglia e per il suo zelo sacerdotale: Don Ca­
millo Ortuzar di Santiago, che, allontanatosi segretamente dalla patria, perchè
temeva di esservi fatto Vescovo, era da qualche mese novizio salesiano.
Anche la Repubblica dell’Equatore fece in tempo a ricevere da Don Bosco un
manipolo di Salesiani. Nel 1885 il signor Tobar, sottosegretario alla pubblica istru­
zione, aveva rappresentato alle due Camere la convenienza di chiamarveli per l ’istitu­
zione di buone scuole professionali. Essendo stata approvata la proposta, il Presi­
dente della Repubblica d ’accordo con l ’Arcivescovo di Quito diede ordine al Con­
sole generale dell’Equatore a Parigi di trattare con Don Bosco, il che egli eseguì
il 7 agosto. La risposta consistette in chiedere la dilazione di alcuni anni. Non si
replicò; ma, dovendosi l ’Arcivescovo recare a Roma sul principio del 1887, parve
bene al Presidente di aspettare per profittare di quell’occasione. Monsignore giunse
a Torino il 5 gennaio. Il suo colloquio con Don Bosco durò a lungo; egli protestava
di non voler partire finché non gli si promettessero almeno quattro Salesiani. Don
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Bosco finì con dichiararsi pronto ad accordarglieli, se la Santa Sede non sollevasse
difficoltà in vista del piccol numero.
Contento di questo risultato, Monsignore riprese il suo viaggio per Roma.
Quivi fece presenti a Leone X III le richieste del Governo e le intenzioni di Don
Bosco. Il Papa non solo approvò, ma gli disse di scrivere a Don Bosco essere suo
desiderio che mandasse Salesiani a Quito. Non c’era più da discutere. Ritornato
l ’Arcivescovo a Valdocco, vennero fissati gli articoli di una convenzione, sotto-
scritta da lui e dal Santo il 14 febbraio. È questo l ’ultimo documento di tal genere,
che rechi la firma di Don Bosco. Il 7 marzo egli volle scrivere al Presidente della
Repubblica, il quale con molta amabilità gli rispose.
Otto Salesiani si disponevano a partire, condotti dal valoroso Don Luigi Cai'
cagno, reduce dall’Uruguay, dov’era approdato ancora semplice chierico nel 1878.
Ma i preparativi per questa spedizione imponevano sacrifici aggiunti a sacrifici. La
necessità di trovar denaro stringeva da ogni lato, massime da Roma per la chiesa
del Sacro Cuore e dall’America per la Missione della Terra del Fuoco. Don Bosco,
fatte stendere due circolari, una più comprensiva che abbracciasse tutte le Missioni,
e l ’altra più ristretta che limitasse l ’appello a favore della Patagonia e della Terra
del Fuoco, senza che vi si parlasse di Roma, ordinò di tradurle in francese, spagnolo,
inglese e tedesco e di spedirle ai quattro venti. Erano gli ultimi documenti di tal
fatta, che uscissero con la sua firma.
Nella chiesa di Maria Ausiliatrice si compiè la cerimonia dell’addio il 6 di­
cembre. Benché stremato di forze, Don Bosco volle scendere. Entrò nel presbiterio
sorretto dai segretari. Don Bonetti predicò, ma, come scrive Don Viglietti in un
suo diario che sarà citato ancora, “ la predica più bella e più efficace la fece il
povero Don Bosco, così strascinantesi sulla sua persona
Ai partenti egli diede lettere per il Presidente e per l ’Arcivescovo. A quest’ul­
timo diceva fra l ’altro: “ Quando saranno in maggior numero, ben volentieri si
consacreranno al bene spirituale e morale di quelle tribù che forse abbisognassero
dell’opera loro per conoscere e battere la via del Cielo ” . Ma gli occhi mortali del
Santo non lessero più le risposte. I viaggiatori cinquantatrè giorni dopo la partenza
giunsero a Quito il 28 gennaio 1888. Don Calcagno telegrafò a Don Bosco il felice
arrivo. Il telegramma gli fu letto la mattina del 30, vigilia del suo beato transito.
Parve a taluno ch’egli capisse e benedicesse.
I suoi figli e le sue figlie, quando furono in numero bastevole, vi si dedicarono
realmente, secondo il desiderio paterno, alle Missioni, occupandosi dei Kivari nel
Vicariato Apostolico di Mendez e Gualaquiza. Primo Vicario fu Don Costamagna,
terzo Vescovo salesiano, educato da Don Bosco nell’Oratorio.
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Allorché la morte venne a rapire l ’Uomo di Dio, tre altre Repubbliche erano
in trattative con lui per avere Salesiani: il Venezuela, il Perù e la Colombia. Di­
ciamo qualche cosa di ciascuna.
Per il Venezuela, il Vescovo della capitale Caracas, trattò personalmente col
Santo a Torino nel 1886, facendogli un quadro desolante della sua diocesi. Vi si
potè andare solo nel 1895; ma nel frattempo si erano moltiplicati in numero stra­
grande i Cooperatori venezuelani, il che ci dice la ragione del rapido incremento
preso ivi dall Opera salesiana. Anche nel Venezuela è stato fedelmente eseguito
il desiderio di Don Bosco circa le Missioni: i Salesiani vi reggono la Missione
difficilissima dell’Alto Orinoco.
Per il Perù, il 23 giugno 1886 Don Bosco aveva conferito con il Presidente
della Repubblica, venuto a visitarlo con suo figlio. Si mostrava quegli abbastanza
al corrente delle cose salesiane. Un libro del Vescovo spagnolo di Milo, intitolato
Don Bosco y su Obra, era stato molto letto a Lima e in altre città. L’aveva diffuso
il provinciale dei Francescani, che se l ’era portato con sé durante un viaggio at­
traverso l ’Oceano. Sollevatasi una tremenda burrasca, egli, dinanzi al pericolo d ’im­
minente naufragio, invitò i passeggeri a pregare la Madonna che in riguardo al suo
servo Don Bosco li salvasse, e promise con voto di spargere largamente quel libro
fra i suoi compatrioti. Formulato quel voto, il mare si abbonì. Egli poi, fatta un’edi­
zione economica, distribuì copie del volumetto in tutto il Perù a Vescovi e a preti,
a ricchi e a poveri, sicché le vicende di Don Bosco formarono un tema generale
di conversazione, suscitando in più luoghi il desiderio di avere i suoi figli. Uno
degli effetti fu appunto l ’incontro accennato sopra e la conseguente apertura delle
scuole professionali di S. Rosa nella capitale, seguite poi da molte fondazioni in
altre città. Due di queste fondazioni sono le scuole agricole e professionali di
Pumo e di Yucay, destinate all’educazione dei ragazzi indi.
Per la Colombia, la signora che a Parigi nel 1883 aveva visto il miracolo del
giovanetto moribondo invitato da Don Bosco a servirgli la Messa, non finiva più
di scrivere a parenti e conoscenti colombiani, magnificando la santità del tauma­
turgo prete torinese e le sue benemerenze nell’educazione della gioventù povera e
abbandonata. A poco a poco se ne interessò anche il Governo, conscio della ne­
cessità di scuole professionali per i figli del popolo. Il Ministro di Colombia presso
la Santa Sede ricevette nel 1886 il mandato di trattare con Don Bosco. Poi nel gen­
naio del 1887 l ’Arcivescovo di Bogotá aggiunse di suo la richiesta di Missionari
per gli Indi. Poiché le risposte erano sempre dilatorie, il Governo invocò l ’inter­
vento della Santa Sede. L’effetto fu che il cardinale Rampolla, Segretario di Stato,
l ’i l novembre scrisse a Don Bosco essere desiderio del Papa che i Salesiani an­
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dassero in Colombia. La morte del Santo cagionò una sospensione della pratica.
Ma il 24 aprile 1888 ecco da Roma un secondo invito. Ottenuto il respiro di un
anno e otto mesi, Don Rua potè aprire nel 1890 a Bogotá il collegio Leone X III
con scuole professionali, chiesa pubblica e assistenza degli emigrati italiani. In Co-
lombia e fuori echeggiò ben presto il nome di Don Michele Unia, l ’apostolo dei
lebbrosi nel lazzaretto di Agua de Dios. Oggi sono tre i grandi lebbrosari, dove mi­
gliaia d’infelici godono l ’assistenza dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
L’accenno agli emigrati italiani richiede alcune parole di chiarimento. Nelle
sue istruzioni ai Salesiani d ’America Don Bosco assegnava loro anche il còmpito
di assistere i connazionali. A torme sbarcavano allora nell’America meridionale
gli operai d’Italia. Già mal disposti verso la patria riguardata da essi quale matrigna,
umiliati poi dal generale dispregio a cui erano fatti segno, e sfruttati barbaramente
da speculatori ingordi, non trovavano chi si levasse in loro difesa a nome del pa­
trio Governo. Soltanto i preti di Don Bosco, parlanti la loro lingua e i loro dialetti
li comprendevano, li confortavano e si mostravano larghi con essi di aiuti spirituali
e temporali, sebbene dovessero non di rado lottare con rappresentanti del lon­
tano anticlericalismo massonico, che si arrovellavano per accaparrarsi quegl’infe­
lici. Sembrano favole queste cose oggi che il Governo arriva con lunghe braccia
dovunque viva un Italiano all’estero; ma a quei tempi non era cosi e le nuove ge­
nerazioni faranno bene a non dimenticare i meriti di Don Bosco anche in questo
campo.
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CAPO XLV
IL CONTE Di CHAMBORD, IL DUCA DI NORFOLK
E IL PRINCIPE CZARTORYSKI
Lumile popolano dei Becchi sapeva stare coi signori, come se fosse uno di essi
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Dice di lui la contessa di Viry, figlia dei conti Callori di Vignale, in un suo
scritto autobiografico inedito: “ Veniva ogni anno a passare qualche giorno di va,
canza in campagna presso mia madre. Celebrava la Messa con una pietà angelica;
ma poi si prestava gentilmente ai giuochi dei ragazzi e prendeva parte ai pasti di
famiglia, sapendosi comportare tanto a tavola come nel salotto da persona fine e
distinta. Bisogna avere un tatto speciale e una rara intelligenza per sapersi conte­
nere in un mondo e in una società in cui non si è nati; la mediocrità ci arriva dif­
ficilmente, e ha sempre l ’aria di fare uno sforzo ” . Per motivi speciali emergono
fra innumerevoli altre le relazioni da lui avute con tre grandi case dell’aristocrazia
francese, inglese e polacca.
E sia per primo un principe ereditario francese, per quanto privato de’ suoi
diritti al trono. Nel 1883 l ’idea monarchica in Francia era meno spenta che comu­
nemente non si pensasse; bastò infatti che ammalasse il legittimo erede della co­
rona, perchè l ’opinione pubblica si commovesse. Ultimo rampollo del principale
ramo borbonico e salutato dai legittimisti col nome di Enrico V, il conte di Cham-
bord se ne viveva esule a Frohsdorf nella Stiria. Ai primi di luglio un male, covato
da parecchio tempo, lo ridusse agli estremi; tuttavia i familiari sperarono che
Maria Ausiliatrice, pregata da Don Bosco, avrebbe operato un miracolo.
Il
principe sapeva già di Don Bosco. Molto gli si era parlato di lui durante e
dopo il viaggio parigino; ma più di tutti gliel’aveva fatto conoscere uno del suo
seguito, il tolonese conte Du Bourg, genero del conte Carlo De Maistre, ami­
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cissimo del Santo, che ne frequentava il castello a Borgo Cornalese nel Monferrato.
L’infermo espresse il desiderio di vederlo. A un telegramma del 4 luglio Don Bo­
sco rispose con un telegramma, scusandosi di non poter intraprendere il lungo
viaggio e promettendo preghiere. A una insistente lettera rispose con una lettera,
spiegando i motivi, che erano la stanchezza della recente peregrinazione in Francia
e la malferma salute. Ma ecco il 13 luglio piombare all’Oratorio il conte Du Bourg
per prenderlo e condurlo a Frohsdorf. A ll’invio di una persona egli rispose di per­
sona. Partì con lui la sera medesima, accompagnato da Don Rua.
Un duro contrattempo incolse loro a Mestre: perdettero la coincidenza con
l ’espresso di Vienna, il che allungava di dodici ore il viaggio, obbligandoli a pas­
sare due notti e un giorno in ferrovia. — Pazienza! esclamò Don Bosco sorridendo.
La Provvidenza vuole così. — Benché stanco, alleviava in treno la noia del Du
Bourg con interessanti conversazioni, che il conte riferisce in un suo libro su gli
avvenimenti di Frohsdorf.
I viaggiatori giunsero al castello fra le sei e le sette del 15. Don Bosco vi ce­
lebrò la Messa. 11 principe era impaziente di vederlo. Durante il ringraziamento,
avvertito che sua Altezza lo attendeva, fé’ cenno col capo d’aver inteso, ma con­
tinuò a pregare. Si tornò poco dopo ad avvertirlo, e Du Bourg, mezzo scandolez-
zato, gli disse che non si poteva far aspettare così monsignore. Nuovo cenno del
capo, ma nessun segno di muoversi. Alla fine si alzò adagio adagio, accettò un
po’ di ristoro, ed ecco un terzo messo a replicare l ’avviso. Il Du Bourg si affanna
a spiegare all’inviato il ritardo, perchè ne informi il principe; Don Bosco invece
è là quieto e sereno. “ Egli aveva, nota il Du Bourg nel suo libro, la calma del
cielo nell’anima, nel cuore, nello spirito e nelle abitudini ” .
Introdotto presso l ’infermo, Don Bosco rimase con lui a colloquio per lungo
tempo. Quegli dopo era molto gaio e parlava con voce chiara e forte, come da due
settimane non faceva più. — È un santo! disse al Du Bourg. Sono contento d ’averlo
veduto. Tutti quanti siamo qui non gli arriviamo alla caviglia. —•Egli provava l ’im­
pressione di guarire.
Quel giorno era S. Enrico, suo onomastico. Sull’imbrunire vi fu pranzo di
gala con diciotto coperti. Presiedeva alla mensa la consorte, arciduchessa Maria
Teresa d’Austria-Este, figlia del duca di Parma Francesco IV e di Beatrice di Sa­
voia, il cui padre era stato Vittorio Emanuele I* Don Bosco vi aveva il suo posto
distinto. Regnava abbastanza l ’allegria. Allo champagne, fra lo stupore e il tri­
pudio di tutti, si affaccia alla sala il principe, sospinto dai domestici sopra lina
poltrona a ruote. La principessa, fuori di sé dalla gioia, gli balzò accanto. La com­
mozione non lasciò ciglio asciutto. Egli sembrava uno spettro; ma disse con voce vi­
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brata: — Non volevo che si bevesse alla mia salute senza esserci anch’io. — Si
fece portare una coppa e brindò alla consorte, ai presenti e a Don Bosco.
Le speranze si ravvivavano. La mattina del 16 Don Bosco celebrò alle quattro
nella camera del malato, che insieme con la contessa ricevette dalle sue mani la
santa comunione. L’Uomo di Dio, ogni volta che fu al suo capezzale, e non vi
andò mai senza essere chiamato, gli parlò sempre da sacerdote, alle buone spe­
ranze facendo seguire il pensiero che la vita e la morte sono nelle mani di Dio ;
doversi tutti, grandi e piccoli, conformare a’ suoi voleri. E il conte, uomo di viva
fede e di soda religione, assentiva pienamente. La sera del 16 Don Bosco, licen­
ziandosi, vide che il miglioramento si accentuava.
Don Bosco e Don Rua partirono per Torino la mattina dopo, accompagnati
dal generale De Charette fino alla stazione, e rientrarono nell’Oratorio il 18 verso
mezzogiorno. Il principe aveva fatto rimettere loro u n ’elemosina di ventimila franchi.
I
bollettini medici, comunicati quotidianamente alla stampa, davano luogo a
un crescente ottimismo. A una lettera di Don Rua scritta in nome di Don Bosco
la contessa di Chambord rispose il 29: Grazie a Dio, sebbene lentamente, pure
si scorge ogni giorno un miglioramento progressivo [...]. La memoria di quei due
giorni che Don Bosco con Lei, ottimo Don Rua, passava qui tra noi, ci rimarrà
sempre carissima ” . E il segretario Huet du Pavillon l ’ultimo di luglio al medesimo
Don Rua: “ Dopo la loro partenza le condizioni di Sua Altezza sono sensibilmente,
ma lentamente migliorate, e i medici cominciano a esprimere qualche speranza ” .
La Croix del 25 nella rubrica M aladie du comte de Chambord aveva a Maladie so­
stituito Santé e dal 31 in poi Convalescence.
In agosto i medici sospesero il loro bollettino. Il principe leggeva la corri­
spondenza, scherzava sulle notizie che davano di lui i giornali, si faceva portare
per più ore nel parco e assisteva a partite di caccia. Appassionato cacciatore, il
4 agosto chiese un fucile e dalla sua poltrona, appostatoselo al petto, prese di mira
un cervo e lo colpì. I medici allarmati gli proibirono severamente di ripetere un
simile sforzo. E avevano ragione: l ’imprudenza riuscì fatale. Una lettera del suo
gentiluomo De Monti a Don Bosco diceva che la caccia era durata cinque ore e
che, mentre il principe sparava, il calcio del fucile gli aveva dato un colpo allo
stomaco. Quattro giorni dopo i bollettini ricomparvero con notizie di colore oscuro.
Nè fu più possibile sostenere la debolezza dell’infermo, che la mattina del 24 rese
l ’anima a Dio.
Don Bosco fece pervenire le condoglianze alla vedova, che il 14 ottobre, scu­
satasi della tardiva risposta, gli diceva del defunto: “ Da che Ella lo lasciò, mai un
lamento, mai un’impazienza, sempre offrendo a Dio i suoi dolori in unione della
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Passione di Gesù Cristo e ringraziandolo di farlo patire in questo mondo ancora ” .
I sentimenti di venerazione per Don Bosco si mantennero vivi in lei anche appresso,
come ne fa fede una sua lettera del marzo 1885, che termina cosi: La sua cara
scrittura la decifro benone e mi fa consolazione a vederla e non posso abbastanza
ringraziarla delle preghiere che Ella e i suoi cari orfanelli fanno per me e che sento
essermi così salutari! Pregandola di continuarmele, le resto unita nel Cuore di Gesù
e di Maria e mi dico con effusione, sua riconoscentissima M ARIA TERESA
Il male dèi defunto era stato un cancro allo stomaco. Quanto alla causa pros­
sima della morte fu persuasione comune che fosse il colpo del fucile. Cosi ripete­
rono nell’autunno del 1884 i conti De Charette e De Maistre e tre o quattro altri
signori francesi venuti a Valsalice per visitare Don Bosco.
Passiamo ora al primo duca, primo marchese, primo conte e primo barone
d ’Inghilterra, al quale compete nel Regno Unito il primo posto dopo i principi
del sangue. Egli è il duca di Norfolk, la cui famiglia di antichissima nobiltà non si
staccò mai dalla Chiesa Romana. L’ultimo discendente che portava quel titolo,
aveva un unico figlio cieco dalla nascita e affetto da infermità incurabile. Se il
bimbo fosse morto, il patrimonio ducale sarebbe stato devoluto, secondo la legge
inglese, a un ramo protestante; perciò tutta l ’Inghilterra cattolica pregava per la
guarigione del piccolo. Anche Don Bosco nel 1882 ordino speciali preghiere a tale
scopo. Il padre, venutone a conoscenza, gli scrisse in ottobre di suo pugno e rin­
graziandolo diceva: “ Questa prova di bontà così grande ha cagionato tanto a me
che a mia moglie la più grande soddisfazione ’’. Quindi lo pregava di gradire un of­
ferta di quaranta sterline.
Attratti dalla fama di santità che circondava il nome di Don Bosco, i pii geni­
tori desideravano di fargli una visita portando seco il malatino, nella fiduciosa spe­
ranza che la sua benedizione fosse per impetrargli la vista e la salute. D i questa in­
tenzione la madre gli aveva scritto nell’aprile del 1885. Della sua lettera gli archivi
salesiani conservano soltanto la traduzione dall’inglese. Vi si legge fra 1altro : Dob­
biamo ringraziarla della promessa di tenere per noi un piccolo posticino nel suo
cuore. Oh quante disgrazie, quanti dolori saranno già stati depositati in cotesto
cuore così caritatevole, in confronto dei quali i nostri sono un nulla! Ed ora, Padre,
le voglio dire una cosa in tutta confidenza ed è questa: io sono di famiglia prote­
stante (ma ora convertita) e molti de’ miei antenati hanno fatto male, e male molto.
Ora quando divenni madre, e madre di un fanciullo, ho supplicato il buon Dio,
facendogli una quasi promessa, a mandargli qualunque male, anche la morte, piut­
tosto che permettergli di fare un peccato. Questo voto io l ’ho fatto quando stava
male e senza renderne consapevole il mio marito, ed in causa di questo io talvolta
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mi sento angustiata e tormentata da dubbi ” . Voleva dunque anche mettere in
pace la sua coscienza. Gli notificava intanto la loro venuta per il 5 maggio.
Arrivarono invece la sera del 6 a Torino, forse perchè avvertiti che solo quella
sera Don Bosco sarebbe stato di ritorno dalla Francia. Il duca fu a incontrarlo nel-
l ’Oratorio, proprio mentre egli entrava. La mattina dopo quattro carrozze vi con­
dussero il padre, la madre e il figlio con tutta la comitiva.
Il
piccino aveva allora cinque anni. I genitori lo portarono direttamente nella
chiesa di Maria Ausiliatrice; poi, pregato a lungo, salirono dal Santo. Al sentir
salutare Don Bosco, il bambino si mise ad agitare con vivacità verso di lui le ma­
nine quasi lo vedesse. La madre commossa diceva di non averlo mai visto fare così(
neppure quando andava in braccio a suo padre. Il giorno 8 ascoltarono tutti la
Messa di Don Bosco nella sua cappellina; quindi i signori presero con lui il caffè,
incantati da’ suoi modi e dalle sue parole. Mattina e sera venivano al santuario,
edificando con la loro pietà gli astanti. Partirono il 20 per Firenze e per Roma.
Ma partirono per ritornare, e questo fu il 23. La mattina seguente, giorno di
Maria Ausiliatrice, Don Bosco scese a celebrare all’altare di S. Pietro. La festa
quell’anno era rimandata al 2 giugno. I duchi, preso posto entro la balaustra, si
comunicarono con gran fervore.
Si rinnovò in quella circostanza un prodigio del 1848. Vive tuttora il chieri­
chetto che serviva la Messa e che ne fu testimonio oculare e oculato, poiché fre­
quentava già la quarta ginnasiale: il sacerdote Giuseppe Grossani, parroco a Mon-
cucco di Vernate nel Milanese. Come si fa quando poche persone si debbono
comunicare infra M issam a un altare dove il tabernacolo non racchiude il Santis­
simo Sacramento, fu posta là sulla mensa una piccola pisside con appena quante
particole bastassero a comunicare i duchi e il seguito, in tutto diciotto persone:
non vi erano più di venti ostie. Il Santo le consacrò. Alla comunione, divoti in
gran numero, appena videro che Don Bosco comunicava anche la gente dei
duchi, fecero ressa per venire essi pure comunicati. Il salesiano Don Deperì, pre­
fetto di sagrestia, aiutato dal chierichetto si sforzava di persuadere gli accorrenti
che le particole scarseggiavano e che bisognava lasciare per gl’inglesi quelle che
c ’erano. Ma tutto fu inutile: nessuno voleva dar retta. Don Bosco, notando quel-
l ’affannarsi per rimuovere gli estranei, disse al giovane. — Lascia fare. — Rispose
questi che le particole erano contate e gli domandò se dovesse farne portare dal-
l ’altar maggiore. — Lascia! — ripetè egli, continuando a distribuire. I comunicati
non furono meno di duecento.
I
pellegrini britannici lasciarono Torino il 25. Don Bosco il 26 scrisse al conte
Colle: “ Sono stati tutti assai lieti del loro soggiorno fra noi e del miglioramento
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riscontrato nel fanciullo infermo ” . Invero la sera del 26 Don Bosco aveva otte­
nuto che egli facesse pure alcuni passi, cosa impossibile per l ’addietro.
Dopo, fino al 1887 non si sa più nulla di relazioni fra Don Bosco e il duca
di Norfolk. Questi, recandosi allora a Roma, fece il 26 maggio una fermata a To­
rino per rivedere il Santo. Venuto nell’Oratorio, conferì con lui per buon tratto
di tempo; anzi ebbe la bontà di rimanere a pranzo.
È del medesimo anno un fatto singolare. La duchessa di Newcastle, molto
amica dei Norfolk, andò a Lourdes per implorare la guarigione del loro figliuolo.
Ora, mentre pregava alla grotta, le parve di sentire distintamente una voce che le
dicesse: — Prega per la madre, non pregare per il figlio. — Intorno non c’era
anima viva. La signora, che aveva un temperamento piuttosto freddo, non facile
a emozioni o ad allucinazioni, accertatasi che nessuno poteva aver parlato, non
vi fece caso e continuò la sua preghiera. Ma di lì a poco le risonarono nuovamente
dietro le stesse parole. Da Lourdes venne a Torino da Don Bosco, portata dal­
l ’identico motivo. Qui ottenne subito udienza. Al suo entrare il Santo scriveva
e tirò via a scrivere senza badare alla visitatrice, che non sapeva spiegarsi quel
modo di fare in un sacerdote da lei tanto stimato. Infine Don Bosco, deposta con
tutta calma la penna e voltosi alla duchessa, le disse ex abrupto e in tono pacato:
— Preghi per la madre, non preghi per il figlio. — Impensierita la signora pregò
nella chiesa di Maria Ausiliatrice come le era stato indicato. Ritornata poi a
Londra, ecco che la duchessa di Norfolk cessava di vivere quattro giorni dopo*
La cosa è attestata dal venerando Padre Cirillo Martindale, gesuita, vivente al tempo
della prima edizione di questo libro, e imparentato con i Newcastle. Nella famiglia
di lord Martindale, benché protestante (il gesuita era un convertito), perdura per
questo fatto una grande simpatia alla memoria di Don Bosco.
Una terza visita fece il duca di Norfolk a Don Bosco nel 1888. Guidando a
Roma la missione inviata dalla regina Vittoria a Leone XIII per il suo giubileo
d ’oro episcopale, tornò l ’8 gennaio all’Oratorio, si accostò con somma riverenza
al Santo che giaceva sul letto del suo dolore e rimase per circa mezz’ora inginoc­
chiato sul pavimento accanto al suo capezzale.
Il
povero figliuolo, oggetto di tante sollecitudini, non guarì. Nel 1904 il pa­
dre contrasse un secondo matrimonio con la baronessa di Herries, che nel 1908 gli
die’ l ’attuale erede Bernardo di Norfolk. In una sua lettera al salesiano Don Eu­
genio Rabagliati, vissuto molti anni in Inghilterra, il cristianissimo duca, ringra­
ziandolo di una copia dei Primi cinque lustri di storia dell’Oratorio da lui inviatagli,,
diceva che, se Don Bosco non gli aveva guarito il figlio, avevagli però detto cose
di tale conforto da valere più che quella guarigione.
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44.1 Page 431

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Diciamo infine del principe Augusto Czartoryski. Dopo aver parlato con Don
Bosco a Parigi, egli non ebbe più altro pensiero dominante che quello di farsi sa­
lesiano. Ma dovette fare i conti col padre e con Don Bosco. Sì, anche con Don
Bosco, che esitò molto a riceverlo. Il padre naturalmente non si poteva rassegnare
a perdere il suo primogenito.
L’origine della famiglia Czartoryski si perde nella notte dei tempi. Lo splen­
dore del casato si eclissò nel secolo XIX, quando l ’avolo di Augusto, il principe
Adamo, espose fortune e vita per l ’indipendenza della sua Polonia durante la
disperata riscossa del 1830. Caduta Varsavia, i Russi lo condannarono a morte e
ne confiscarono i beni; ma egli potè scampare, esulando a Parigi, dove a poco a
poco si rifece il patrimonio. Il suo secondogenito Ladislao, rimasto capo della
famiglia, sposò la principessa Maria Amparo, figlia di Maria Cristina, regina di
Spagna. Dalla loro unione nacque Augusto.
Egli dunque bramava ardentemente di visitare Don Bosco a Torino. L’occasione
gli si presentò nel settembre del 1883, allorché si recava a Roma, membro di una
deputazione che portava a Leone XIII gli omaggi della Polonia nel secondo cente­
nario della vittoria di Giovanni Sobieski sui Turchi sotto le mura a Vienna. Ma
Don Bosco non c’era. Vide tuttavia tutto l ’Oratorio, accompagnato da Don Rua,
che gli consigliò di tornare per la prima festa di Maria Ausiliatrice. E così egli fece
il 24 maggio 1884. Godeva tanto di trattenersi spesso con Don Bosco, che prolungò
fino a S. Giovanni il suo soggiorno a Torino. Fu un mese dei più belli di tutta la
sua vita, com’egli diceva in seguito.
Frattanto il padre, dovendo stabilire il maggiorasco che spettava a lui, voleva
che si addestrasse nel maneggio degli affari e che frequentasse di più l ’alta società.
Per compiacere al genitore che desiderava distrarlo dai pensieri in cui lo vedeva
immerso, fece un viaggio a Londra; ma, tornato a Parigi, sentiva il bisogno di con­
ferire nuovamente con Don Bosco. Venne a Torino nella prima metà di giugno del
1885 per fare sotto la sua direzione un ritiro spirituale. Prese alloggio all’albergo,
come l ’altra volta; ma dopo qualche giorno pregò Don Bosco di dargli ospitalità
nell’Oratorio. — Potrà ella, gli chiese sorridendo il Santo, adattarsi alla nostra
parca mensa? — Rispose che quello che bastava per Don Bosco, sarebbe bastato
anche per lui. Così, stando al suo fianco, potè con tutta comodità manifestargli
i propri sentimenti e osservare da vicino la santità di lui e la vita de’ suoi figli. La
maggior parte del tempo la passava in meditazione, nella preghiera e in pie letture.
Ma un sì dolce soggiorno gli fu troncato dal padre che, preoccupato sempre del
suo avvenire, lo obbligò a rimpatriare. Giunto a Sieniawa, dov’erano i beni della
famiglia, fece quanto gli aveva detto Don Bosco, applicandosi, per obbedire al
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padre, aU’aifrministrazione de’ suoi averi. Il suo cuore tuttavia era altrove. Di
quando in quando per lettera dava conto della propria vita a Don Bosco, come si
rileva dalle risposte, di cui si conservano copie negli archivi salesiani.
Padre e figlio, durante un loro viaggio in Italia, comparvero a Torino la sera
del 5 luglio 1886. Annunciatisi subito all’Oratorio, si presentarono poco dopo e
gradirono l ’invito per le dodici del dì appresso. A onorare gli ospiti Don Bosco
chiamò alcuni signori dell’aristocrazia torinese, fra gli altri il conte Prospero Balbo,
compagno d’armi del principe Ladislao nel 1864 a Peschiera, dove avevano mili­
tato col grado di tenenti d ’artiglieria. La conversazione si mantenne animata fino
alla fine. Dopo, Don Bosco e i due principi si appartarono a intimo colloquio.
Il padre gli espose i disegni della famiglia su Augusto e lo pregò del suo illumi­
nato parere. Il Santo ripetè quanto aveva raccomandato per iscritto al figlio stesso;
tuttavia soggiunse: — Se però la volontà di Dio si mostrasse contraria al volere
di vostra Altezza, ella non vi si dovrebbe opporre. — Il principe rispose che con
piacere avrebbe veduto uno de’ suoi figli nello stato ecclesiastico.
Entrambi si separarono contenti di Don Bosco. Il padre si teneva sicuro che
finalmente Augusto si sarebbe conformato ai disegni paterni, e il figlio godette
che il genitore avesse di Don Bosco miglior concetto che non per l ’addietro. A
Sieniawa poi, seguendo i consigli del Santo, si applicò agli affari, compiendo ope­
razioni finanziarie di gran valore e mantenendo degnamente le tradizioni della pro­
sapia. Il principe Ladislao era al colmo della gioia. Ma quante volte, riguardo alla
sorte dei figli, il padre propone e Dio dispone!
Le preoccupazioni sulle aspirazioni del figlio si ridestarono presto; ma, sup­
ponendolo ancora indeciso, moltiplicava gli assalti per istornarlo, massime col met­
tergli e rimettergli dinanzi l ’affare del matrimonio. S’arrivò così all’aprile del 1887,
quando ritroviamo Augusto Bell’Oratorio, più che mai risoluto di raggiungere il
suo ideale. Dovendo allora il Santo andare a Roma per la consacrazione della chiesa
del Sacro Cuore, egli ve lo precedette di alcuni giorni. Fermo nel proposito di non
lasciare questa volta l ’Italia senz’aver conchiuso tutto, pensava di mettere la sua
sorte nelle mani del Papa. Fu costretto di aspettare a lungo l ’udienza, sicché, quando
l ’ottenne, Don Bosco era già a Valdocco. Leone X III, avuto riguardo alla sua con­
dizione, gl’insinuò, come aveva già fatto anche Don Bosco, di rivolgersi piuttosto
alla Compagnia di Gesù; ma, udito che solamente nella Società salesiana trovava
appagamento il suo spirito, benedisse quel disegno. Sentendo poi che Don Bosco
esitava ad accettarlo, gli disse di presentarsi a lui e dirgli essere desiderio del Papa
che lo accettasse fra i Salesiani. Avendo il principe accennato pure a difficoltà pro­
venienti dalla famiglia, il Papa tagliò corto dicendo: — Prima di tutto si faccia la
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volontà di Dio. — Confortato dalla parola del Vicario di Gesù Cristo, volò da Don
Bosco, s’intese con lui e partì tostamente per Parigi.
Il
padre, persuaso che l ’opposizione sistematica non sarebbe giovata a nulla,
prese a mostrarsi più arrendevole; esigeva però che espletasse le pratiche per la
formazione del maggiorasco. Fino allora aveva intestato al figlio i propri teni-
menti e immobili; ma bisognava che vi aggiungesse anche nuovi capitali per poter
ottenere la necessaria autorizzazione dall’imperatore d ’Austria. Il giovane signore
intanto si riserbava un patrimonio personale da potersi rivendicare, quando, fa­
cendosi religioso, rinunciasse al maggiorasco in favore del fratellastro.
Nel corso di questi maneggi però egli agiva in modo da lasciar intendere ogni
dì più che non aveva in animo di adagiarsi nella condizione di vita voluta dalla
famiglia; onde a un certo punto il padre, credendo di non doverlo contrariare oltre,
lo lasciò libero di seguire il suo ideale. Strappato così il consenso paterno e partito
per Torino il 20 giugno, divenne dall’8 luglio aspirante salesiano. I parenti s’illu­
devano ancora che una velleità passeggera l ’avesse spinto a quel passo e che i primi
disagi della nuova vita l ’avrebbero richiamato alla realtà. Perciò rimasero male
quando ricevettero l ’invito alla cerimonia della vestizione. Gli scrissero chi prò
chi contro. Il padre nondimeno decise di recarsi a Torino. Ve lo accompagnarono
la seconda moglie con i due fratellastri di Augusto, una zia e il medico di famiglia.
Perdurava in tutti la fiducia di ritrarlo dal suo divisamento; quindi per aver
agio di mettere in opera qualche tentativo, arrivarono alcuni giorni prima della
funzione, fissata al 24 novembre. Irritatissima si mostrava la zia a causa del sospetto
che pressioni si fossero esercitate sul principe per fini interessati. Egli, accortosi
delle loro intenzioni, avrebbe voluto privarsi del piacere d ’intrattenersi con essi;
ma si rimise al consiglio dei superiori, che gli dissero di trattare i suoi con ogni
dimostrazione d ’affetto. Quelli tirarono in campo motivi di cuore e ragioni d ’inte­
resse: vi furono momenti di vera tragicità. Augusto con dolcezza inalterabile, ma
con pari energia seppe difendere strenuamente la propria vocazione, sicché i con­
giunti finirono con fare di necessità virtù assistendo alla cerimonia.
Si svolse questa nella chiesa di Maria Ausiliatrice alla presenza di gran folla.
Un francese, un inglese e un polacco ricevettero con Augusto l ’abito chiericale.
Dopo, i signori ascesero alle camere di Don Bosco, acclamati da tutti i giovani
dell’Oratorio. Quando si accomiatarono da Don Augusto, come da quel giorno
venne chiamato fra i Salesiani il novello chierico, lo fecero con signorile corret­
tezza. Le nubi tuttavia non erano dileguate. Il padre tornò in seguito all’assalto,
ricorrendo perfino alla Santa Sede, perchè in vista della salute fosse vietato al
figlio di legarsi in perpetuo alla Società; ma tutto riuscì inutile.
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Quella sera, prima di ritornare a Valsalice, luogo del suo noviziato, Don
Augusto andò a ringraziare il Santo, che benedicendolo gli disse: ■Oggi abbiamo
riportato una bella vittoria. Verrà giorno che lei sarà sacerdote e per volontà di
Dio farà molto bene alla Polonia. — Infatti il suo ingresso nella Società determinò
un afflusso incessante di gioventù polacca a Torino per seguire l ’esempio di lui.
Si vennero così preparando gli elementi che dovevano servire alla fondazione di
collegi e scuole professionali nella Polonia, dove tosto le opere salesiane si molti­
plicarono e fiorirono in modo prodigioso. Dalle schiere di quei primi sorse anche
il cardinale salesiano Augusto Hlond, Arcivescovo di Gniezno e Poznan, Primate
di Polonia. Oggi il virtuoso precursore va verso la gloria degli altari.
376

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CAPO XLVI
DON BOSCO NELLA SPAGNA
In tre modi Don Bosco fu nella Spagna: prima con le sue opere, poi per bilo-
cazione e finalmente in persona.
Sembrò quasi uno scherzo della Provvidenza la congiuntura che lo condusse
a occuparsi della Spagna. Il marchese Don Diego di Casa Ulloa, volendo aprire in
Utrera, sua patria, un ospizio per fanciulli poveri, scrisse a un superiore religioso
offrendogliene la direzione e pregandolo di passare da lui per concertare. Il reli'
gioso andò due volte senza mai trovarlo; quindi, quasi stizzito, non si fece più
vedere. Il marchese, non ricevendo risposta, si rivolse per consiglio all’Arcivescovo
di Siviglia, dal quale Utrera dipendeva. Questi, essendo carmelitano, era dimo­
rato nel convento di Lucca, e là aveva conosciuto i Salesiani; perciò suggerì al
marchese di chiamare quelli a Utrera, anzi ne scrisse egli stesso a Don Bosco.
La risposta dava luogo solamente a vaghe speranze. Ciò avveniva nel 1879.
L’anno seguente tuttavia Don Bosco mandò a Siviglia Don Cagliero, che presso
l ’Arcivescovo incontrò pure il marchese e con lui si recò a Utrera. E situata questa
città a trenta chilometri da Siviglia, verso sud-est. Contava allora poco più di do­
dicimila abitanti, piuttosto indifferenti in fatto di religione; del che profittavano i
protestanti per il loro proselitismo. Don Cagliero conchiuse facilmente le tratta­
tive. Don Bosco approvò, ma solo nel gennaio 1881 vi spedì alcuni Salesiani, ac­
compagnati dallo stesso Don Cagliero. Furono ricevuti in trionfo. Tutto il clero
secolare e regolare dell’archidiocesi manifestava simpatia per Don Bosco e per
la sua Opera, destinata, dicevano, a salvare la gioventù spagnola.
E di questa azione salvatrice si sentiva grandemente la necessità. Dal 1868,
quando il radicalismo aveva cominciato ad attecchire nella Spagna, il guasto si al­
largava nella gioventù. Anche i Vescovi di Valenza e di Malaga vollero vedere
4s
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l’inviato di Don Bosco e lo pregarono di ottener loro la fondazione di scuole pro­
fessionali. Da quanto osservò, Don Cagliero, come scrisse a Don Bosco, raccolse
l ’impressione che vi si sentisse “ possente il bisogno di moralizzare la classe ope­
raia ” e che si fosse persuasi essere l ’istituzione salesiana “ l ’unico rimedio ai mali
sociali ” del tempo. Vedevano giusto i vigilanti Pastori!
Anche dal vicino Portogallo si levavano a Don Bosco voci imploratrici. Solle­
citato dal Nunzio portoghese, Don Cagliero andò a Lisbona. La regina Maria Pia,
figlia di Vittorio Emanuele II, lo ricevette con molta bontà e s’interessò assai delle
cose di Don Bosco. Egli passò quindi ad Oporto, pregatone dal Cardinale Vescovo.
Dappertutto si volevano i Salesiani; ma Don Cagliero, non avendo istruzioni in
proposito, affrettò la sua partenza. Quelle due città poterono poi avere dal suc­
cessore di Don Bosco istituti di arti e mestieri.
Direttore della nuova casa di Spagna era Don Branda, già povero orfanello
dell’Oratorio e santo uomo. A lui nel giorno di S. Teresa del 1880 Don Bosco,
parlandogli di Utrera, aveva detto: — A Utrera ci prepareremo per un’azione
assai più vasta. D i qui a non molto una signora, oggi maritata in Barcellona (e
adesso io non sogno certamente) restando vedova, inviterà noi a fondare una casa,
e dopo ne saranno aperte molte altre. — Vedovanza, invito, fondazione e fonda'
zioni si verificarono a puntino.
Viveva a Barcellona una signora oriunda del Cile, molto ricca di beni mate­
riali, ma non meno di carità cristiana: donna Dorotea Chopitea. Mortole il marito
nel 1882 e persuasa che urgesse prendersi cura della gioventù povera, deliberò d’im­
piegare le sue sostanze in quest’opera buona. Mentre ne studiava il modo, le cadde
sott’occhio un numero del Bollettino spagnolo, dal quale apprese chi fosse Don
Bosco e a che mirasse la sua istituzione e come i suoi Salesiani lavorassero già da
due arirn' a Utrera. Assunte informazioni da varie parti, scrisse il 20 settembre a
Don Bosco. Non ricevendone risposta, riscrisse il 12 ottobre, proponendogli d ’in­
viare sùbito un suo rappresentante a trattare con lei e col Vescovo. Ma Don Bo­
sco le fece intendere che non avrebbe potuto tanto presto appagare i suoi voti.
Afflitta, ma non scoraggiata, la signora ricorse al Santo Padre. Don Bosco allora
mandò a Barcellona Don Cagliero e Don Albera. La munifica gentildonna eseguì
senz’altro tutto quello che si volle da lei, cosicché il 15 febbraio 1884 una casa
fu aperta a Sarrià, sobborgo di Barcellona. A dirigerla venne trasferito Don Branda.
Come un tempo i laboratori di Valdocco, così i Talleres di Sarrià ebbero inizi ben
piccoli rispetto a ciò che diventarono da poi. Donna Dorotea fino al 1891, anno
della sua santa morte, fu sempre la mamma dei Salesiani. Per questa incompara­
bile Cooperatrice è avviata la causa di beatificazione.
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A Sarrià Don Branda ricevette da Don Bosco una visita, di cui egli ripetè le
cento volte il racconto durante la sua lunga vita e su cui depose minutamente nei
processi. Era la notte del 29 gennaio 1886. Il direttore dormiva nel suo letto, quando
la nota voce di Don Bosco, chiamandolo per nome, gli ruppe il sonno. Disse tosto
fra sè: — Ho bisogno di dormire e non di sognare. Don Bosco ora è a Torino. —
E si voltò dall’altra parte. Passarono otto giorni, nei quali, come avviene dei sogni,
non si rammentava più di nulla. Nella notte del 6 febbraio ecco nuovamente la
stessa voce a svegliarlo; ma quella volta dopo la chiamata soggiunse: — Adesso
non dormi; àlzati. — Obbedì. Una luce di giorno inondava la camera. Egli, indos­
sata la sottana, tirò la cortina, uscì e vide là in piedi Don Bosco che lo aspettava.
Era vestito come nell’Oratorio, e gli disse: — La tua casa va bene, ma... — E in­
vece di finire la frase si volse a destra. Come all’alzarsi di un sipario, comparvero
ai loro occhi un prete salesiano tutto malinconico, un laico non salesiano e due
giovani della casa. — Al primo raccomanda maggior prudenza e ritiratezza, disse
Don Bosco. Gli altri tre toglili energicamente di mezzo quanto prima. — E gliene
spiegò per filo e per segno la causa, tutto corrucciato e infiammato nel volto.
Ad un suo cenno, Don Branda uscì con lui dalla stanza, percorrendo insieme
i due dormitori, che al loro passaggio erano rischiarati da piena luce. Il direttore
ravvisava distintamente i giovani e Don Bosco gliene indicava alcuni, che avevano
bisogno di cure speciali. Camminava il Santo con passo franco e più celere del­
l ’ordinario. Ritornati nella camera, la ritrovarono illuminata. Qui Don Bosco lo
salutò nello stesso modo che faceva a Torino, e sparve, lasciandolo nell’oscurità.
Acceso il lume, Don Branda vide che erano le due e mezzo. Non si coricò più
ma, dicendo l ’ufficio, aspettò il mattino.
Più che rallegrato dalla visita di Don Bosco, si sentiva preoccupato dell’ordine
datogli, nè sapeva da che parte rifarsi per eseguirlo. Eppure l ’indugiare gli cagio­
nava rimorsi ogni dì più acuti. Finalmente un giorno incaricò il prefetto Don Aime
d ’interrogare i tre indiziati, facendo in modo da strappar loro la confessione. Que­
gli seppe agire così bene, che tornò da lui riferendogli le stesse cose che gli aveva
dette Don Bosco e che egli non aveva punto svelate. Chiamato allora il principale
colpevole, che era maestro dei legatori, se lo vide dinanzi nel posto e nell’atteg­
giamento, in cui l ’aveva osservato, presente Don Bosco: ritto, la testa inchinata
sul petto, il pollice puntato al mento e lo sguardo al suolo. Il disgraziato non negò,
ma chiese pietà. Il direttore, senza precipitazione per non compromettere l ’isti­
tuto, restituì i due giovani ai parenti e licenziò l ’altro.
Nel frattempo, prima che egli fiatasse con chicchessia sull’accaduto, gli era
giunta da Don Rua una lettera con un poscritto che diceva: “ Ieri passeggiando
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con Don Bosco sotto i portici dell’Oratorio, ci raccontò di una visita che ti fece
a Barcellona. Tu forse dormivi in quel mentre ” . Questa lettera andò smarrita,
ma la lessero parecchi della casa ed anche alcuni Salesiani che due mesi dopo
furono là di passaggio diretti al Cile; tutti costoro ne parlarono a più riprese, se-
condo l ’occasione. Don Rua nei processi confermò d ’averla scritta.
Don Branda al tempo di questi fatti non supponeva certo che fra un paio di
mesi Don Bosco sarebbe stato a Sarrià in persona. Egli conosceva troppo bene le
sue condizioni di salute, per ripromettersi tanta fortuna. A Torino, sparsasi la no-
tizia che il Santo si sarebbe avventurato a quel viaggio, Salesiani e Cooperatori si
spaventarono, temendo che soccombesse per via. Ma egli fu irremovibile. Parti il
12 marzo col chierico Viglietti segretario e con due superiori del Capitolo, Don
Cerniti e Don Sala. Traeva a stento la persona, bisognosa di appoggio. Impiegò
otto giorni ad attraversare la Liguria, dove intere popolazioni mossero a incon-
trarlo. In Francia si trattenne due settimane e mezzo. Di qua e di là dalle Alpi
grazie straordinarie segnalarono in vari luoghi il suo passaggio. Lasciò per sem­
pre Marsiglia nel pomeriggio del 7 aprile. — A rivederci in Paradiso — fu la sua
parola di addio in francese. In italiano salutò i Salesiani dicendo: — Rammentatevi
che siete fratelli. — Don Rua era venuto a prendere il posto dei due capitolari.
A Barcellona regnava la più grande aspettazione. Anche in molte altre parti
della Spagna il suo nome era conosciuto, grazie all’accennato opuscolo Don Bosco
y su Obra. ¡L’aveva scritto monsignor Spinola, titolare di M ilo, poi Arcivescovo
di Malaga e Cardinale, prelato di così santa vita, che ne fu introdotta la causa di
beatificazione. Personalità influenti del clero e del laicato portavano con vanto il
titolo di Cooperatori. La stampa richiamava di quando in quando l ’attenzione del
pubblico sulle case di Utrera e di Sarrià. Da Madrid uomini di Stato conduce-
vano pratiche col Santo per una fondazione nella capitale. Insomma non poteva
il terreno essere meglio preparato.
Don Bosco si fermò nella Spagna dall’8 aprile al 6 maggio. Quando giunse a
Barcellona, rappresentanti di tutte le classi sociali si trovarono a dargli il benvenuto;
ma quello non fu nulla rispetto a ciò che succedette durante i giorni della sua per­
manenza a Sarrià. Per più ore del giorno la sua anticamera si riempiva continua-
mente di signori e signore, venuti anche da lontano. La lingua non costituiva im­
pedimento. “ Don Bosco, scrive il Viglietti nel suo diario, parla in italiano e tutti
lo intendono; egli poi intende assai bene lo spagnuolo ” .
Quotidiano pure era il flusso e riflusso della gente, che inondava la casa e
dilagava all’intorno. Quelli che potevano, lo avvicinavano in certi momenti a gruppi
di quaranta o cinquanta persone. Egli li benediceva tutti insieme, dava a ciascuno
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una medaglia, e poi via per far luogo ad altri. Spesse volte, affinchè le moltitudini
se n ’andassero, si affacciava dall’alto e impartiva loro la benedizione di Maria Au-
siliatrice. Sotto il 20 aprile il segretario scrive: “ Don Bosco è senza fiato e senza
forze, soltanto per la fatica d’impartire benedizioni e di dire: Dios os bendiga ” .
Questa fu la cronaca di ogni giorno, tranne i tre ultimi della settimana santa e la
festa di Pasqua, nel qual tempo gli Spagnoli sospendono le visite.
Se usciva a celebrare o a visitare qualche famiglia, lo aspettavano fuori del col­
legio per mezze giornate e per giornate intere. Nelle chiese o in carrozza lo blocca­
vano si strettamente, che i suoi liberatori dovevano fare sforzi erculei per condurlo
in salvo. Una volta stette fuori tutto il giorno. A impedire soverchi agglomeramenti
quei di casa presentavano a chiunque venisse un foglio, invitandoli a firmarsi e di­
cendo che Don Bosco al ritorno avrebbe benedette le firme con l ’intenzione di be­
nedire i firmatari. Quando egli rincasò, gli venne portato un voluminoso incarta­
mento con circa settemila firme. Questo però non valse a esimerlo dall’affacciarsi
al balcone per benedire i moltissimi che stavano là in attesa. Per trasportare a Sarrià
tanti passeggeri, si triplicarono negli ultimi giorni le corse del treno e talora si
attaccarono due macchine, essendo aumentato oltremodo il numero dei carrozzoni.
Donna Dorotea da vera madre pensava a tutto che potesse occorrere a Don
Bosco, a Don Rua e al segretario. Biancheria personale, ordine e nettezza delle ca­
mere, servizio di cucina, a tutto provvedevano persone di casa sua e sotto la sua
immediata sorveglianza.
Il
15 aprile la Società Cattolica di Barcellona, composta di nobili, diede un
solenne ricevimento in suo onore. Pregato di gradire la nomina a socio, gli fu of­
ferto e appeso al collo il distintivo sociale, una grossa medaglia d ’oro con gli em­
blemi di S. Giorgio e di S. Giuseppe. In mezzo a tutta quell’aristocrazia spiccava
maggiormente il contrasto tra lo sfarzo circostante e l ’umile semplicità di Don Bo­
sco. Da ultimo stimò di dover prendere la parola. Ringraziò, spiegò la natura e
lo scopo dei Talleres salesiani e disse testualmente: “ Il giovane che cresce per le
vostre strade, vi chiederà da prima una limosina, poi la pretenderà e infine se la
farà dare con la rivoltella in pugno ” .
Talvolta con equipaggi di gran lusso veniva condotto a celebrare in oratorii
domestici. Il giorno 21 aprile, tornando da dire la Messa in casa della marchesa
di Comillas, visitò il convento delle Suore Lauretane per confortare la Superiora,
ridotta in fin di vita da un’ulcere maligna. Dopo da tutta la comunità e dal cap­
pellano gli fu presentata una religiosa vissuta molti anni con le gambe accavalcate
senza poter mai fare un passo. Orbene il dì innanzi, avvertita che Don Bosco sa­
rebbe passato vicino alla porta del convento, si era fatta portar fuori sopra una
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barella per essere da lui benedetta. A quella benedizione data così in passando
erasi rizzata da sè bell’e guarita; allora poi alla presenza di Don Bosco camminava
e salterellava senza la menoma difficoltà. Si chiamava Suor Candida; nel 1935 vi­
veva ancora, vecchia stravecchia, presso S. Sebastiano.
Un altro fatto tuttora verificabile accadde nel collegio dei Gesuiti. Il Padre
Viladevall v’insegnava matematica; ma un’ostinata laringite lo rendeva afono, sic'
chè non poteva più fare la scuola. Tutte le cure tornavano vane. Un suo alunno,
Giuseppe De Salas, ne parlò alla madre, e la madre a Don Bosco. Il Santo le diede
una medaglia di Maria Ausiliatrice, perchè la portasse al religioso e gli dicesse di
metterla in un po’ d’acqua e di bere quest’acqua pregando la Madonna di guarirlo.
Il Padre eseguì il consiglio con non molta fede, com’egli scrive. Eppure la voce
gli tornò all’istante senza che gli restasse residuo del male. Il 25 giugno 1933, scri­
vendoci di questo dall’Argentina, diceva che Don Bosco, visitando il collegio bar-
cellonese, aveva edificato tutti per mezz’ora con la stia santa conversazione, dol­
cezza e umiltà.
Don Filippo Rinaldi, terzo successore di Don Bosco, raccolse nella Spagna le
prove di tre predizioni fatte ivi dal Santo e avveratesi. Una signora desolatissima
perchè tutti i figli le nascevano morti, sfogò con Don Bosco il suo immenso do­
lore. — Stia tranquilla, le diss’egli, da qui innanzi non sarà più così. — Infatti
essa ebbe ancora sette figli, tutti sani e robusti.
Un professore Dolman andò da lui con la moglie e i figli. La signora por­
tava in braccio un bimbo di uno o due anni. Padre e madre raccomandarono alle
sue preghiere le loro creature, affinchè crescessero nel santo timor di Dio. Don
Bosco, rimase un minuto in raccoglimento e poi accennando ai più grandicelli,
disse sorridendo: — Questi li faremo tutti religiosi. — Voltosi quindi al bambinello
ripigliò: — E questo sarà per Don Bosco. —■I genitori non fecero mai motto ad
alcuno di quelle parole, ma aspettavano gli eventi. Orbene uno dopo l ’altro i
figli maggiori entrarono in diversi istituti religiosi e uno divenne gesuita; il più
piccolo si fece salesiano.
Don Bosco desiderava di mandare a Sarrià anche le Figlie di Maria Ausilia-
trice. Un giorno, indicando una villa poco lungi dalla casa, disse al direttore:
— Quello è il luogo che dovrà servire per le nostre Suore. — Ma tutto congiurava
in senso contrario. Quando ogni speranza sembrava svanita e si stava per cercare
altrove, il proprietario improvvisamente morì. Suo figlio, unico erede, non potendo
più rimanere là, dove tutto gli rinnovellava l ’acerbo dolore, spontaneamente of­
ferse la casa a mitissimo prezzo; inoltre un benefattore sopperì alle spese di ac­
quisto, sicché le Suore non tardarono a prenderne possesso.
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45.1 Page 441

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La vigilia della partenza Don Bosco celebrò nel palazzo di Donna Dorotea,
indugiandosi ivi con la famiglia fin dopo il mezzogiorno. Appresso fu condotto
alla Madonna della Mercede. Non c’era forestiere credente, che lasciasse Barcel­
lona senza fare un visita a quel santuario. Molta gente ne attese il passaggio per
le vie, dalle verande e nella chiesa. Lo ricevettero all’ingresso molti nobili signori,
che gli fecero corteggio fino al presbiterio, invitandolo ad accomodarsi in un
posto distinto. Qui si compiè un atto importantissimo.
Sorge presso Barcellona una collina chiamata TIBIDABO; nulla si può imma­
ginare di più ameno. L’immaginazione popolare vi ha localizzato la terza tentazione
di Gesù, quando il demonio, mostrando al Salvatore tutti i regni del mondo, gli
disse: Tutto questo ti darò (tibi dabo), se prostrandoti mi adorerai. Uomini spregiu­
dicati macchinavano di creare lassù un lussuoso albergo, allettante richiamo a
gaudenti cosmopoliti; altri caldeggiavano l ’erezione di un tempio protestante.
Sette buoni signori invece, proprietari del terreno, vi avevano eretto una cappella
al Sacro Cuore di Gesù.
Ora la presenza di Don Bosco a Barcellona ispirò l ’idea di fargliene un pre­
sente. Mentre egli dunque pregava, si avanzarono verso di lui i detti signori, die­
dero lettura dello strumento col quale gli cedevano la proprietà del luogo e rasse­
gnarono nelle sue mani le carte relative. A tale sorpresa Don Bosco rispose ringra­
ziando; poi narrò ai donatori com’essi fossero strumenti della Provvidenza. Nel
venire via da Torino egli pensava fra sè che, essendo quasi terminata la chiesa a
Roma, bisognava studiare qualche altro mezzo per onorare il Sacro Cuore di Gesù.
Ed ecco una tranquillante voce interna ripetergli: Tibi dabo, tibi dabo. La voce mi­
steriosa trovava allora la sua spiegazione. Egli accettando il dono, promise che
avrebbe innalzato su quell’altura un santuario al Sacro Cuore di Gesù. Le commosse
parole da lui proferite comunicarono la sua commozione agli astanti.
Uscì da quella chiesa ben sapendo di essersi addossata un’impresa, della cui
attuazione egli non avrebbe veduto neppure il principio; ma, appena fu a Torino,
investì della cosa il suo Consiglio. I successori di lui misero vigorosamente mano
all’opera. Già un tempio monumentale giganteggiava sul TIBIDABO, quando nella
tremenda guerra civile, mani sacrileghe si levarono a profanarlo; non lo distrus­
sero però, come fecero di tante altre case del Signore.
Giovedì 6 maggio era il giorno della partenza. Don Bosco inaugurò con la ce­
lebrazione della Messa un nuovo altare nella cappella del collegio. Dopo, risalito
in camera, benedisse la moltitudine che ad alte grida lo chiamava fuori. Non avendo
mai potuto parlare ai giovani riuniti, entrò all’ultimo momento in chiesa, dove
stavano raccolti per ricevere i suoi ricordi. Rivolse loro poche parole, li benedisse,
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45.2 Page 442

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li salutò e si avviò alla ferrovia. Salirono con lui in treno i maggiorenti di Sarrià
e vari Cooperatori; ma altri Cooperatori, sapendo che una gran folla di gente
gremiva la stazione di Barcellona, si fecero trovare con le carrozze alla penultima
fermata, donde lo condussero per riposto cammino al treno di Francia, rispar­
miandogli così strapazzi ed emozioni.
Presso il treno di Francia lo incontrò Donna Dorotea con uno stuolo di si­
gnori e signore, convenuti per l ’estremo addio. La grande Cooperatrice aveva fatto
veramente da Marta e da Maria. Semprechè le era stato possibile, aveva ascoltato
con angelica pietà la Messa del Santo e aveva accudito anche con le proprie mani
ai servizi necessari. Partito ch’ei fu, conservò come una reliquia la sala del suo pa­
lazzo dove l ’aveva accolto, convertendola in cappella e riunendo ivi i mobili e
gli oggetti da lui usati.
Per l ’ultima volta Don Bosco attraversò la Francia, fermandosi a Montpellier,
Valenza e Grenoble. Rientrato in Italia il 15 maggio, rivide la sera stessa il suo
caro Oratorio, che lo ricevette con immenso tripudio. Durante questo viaggio
aveva operato un gran bene nelle anime con l ’efficacia della sua parola e raccolto
aiuti materiali, di cui estremamente abbisognava. Per il medesimo viaggio la sua
Opera fu nella Spagna universalmente conosciuta, acclamata e desiderata; del che
si videro gli effetti nello sviluppo ampio e solido ivi preso da essa in un breve vol­
gere di anni.
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45.3 Page 443

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CAPO XLVII
S PI RI TO DI PROFEZIA
Che Don Bosco vedesse nel futuro, era nell’Oratorio poco meno che una
verità di vangelo. Mettiamo pure che in ciò vi sia stato dell’esagerazione
e che da taluno si corresse un po’ troppo a interpretare profeticamente espressioni
da intendersi in senso più ovvio; resta però sempre vero che i fatti abbondano e
sovrabbondano. Il non dare rilievo a questo elemento sarebbe eliminare dalla fi­
gura di Don Bosco uno de’ suoi tratti più caratteristici. Copiose informazioni per
i tempi più antichi si attingono da tre cronache, nelle quali giorno per giorno ve­
nivano accuratamente registrati fatti e detti di Don Bosco e avvenimenti dell’Ora-
torio. Le compilarono per proprio conto Don Bonetti dal 1858 al 1863, Don Ruf­
fino dal 1859 al 1864 e Don Lemoyne dal 1864 in poi. Qui per altro ci bisogna
non correre, ma volare.
Fu sempre opinione generale che Don Bosco, quando ancora non possedeva
assolutamente nulla, già annunciasse di dover avere una bella casa di forma qua­
drilatera, aperta verso mezzodì, con cappella spaziosa, con officine e scuole e con
molte centinaia di allievi esterni e interni. L ’annuncio appunto di queste mirabo­
lanti cose offerse a certuni la prova palmare che gli dava di volta il cervello. Don
Rua, sempre assai misurato nelle sue deposizioni dinanzi ai giudici della causa,
mette questo punto fuori di dubbio, affermando che D. Borei, al vedere l ’Ora­
torio come si presentava nel 1858, gli disse essere quale Don Bosco gliel’aveva de­
scritto nel 1845, allorché convivevano al Rifugio della marchesa Barolo. Anche
riguardo alla Società salesiana, mentre i suoi membri si riducevano a dodici o
quindici, egli ci annunciava, attesta Don Rua, che da quella sarebbero partiti
molti operai a lavorare nella messe evangelica per tutte le parti del mondo
49
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Lungo sarebbe raccogliere dai sogni le infinite particolarità riferentisi allo sviluppo
dell’opera salesiana durante la vita e dopo la morte del fondatore. Tocchiamo
invece di alcune altre categorie de’ suoi annunci profetici.
Le più frequenti e più sorprendenti profezie di Don Bosco erano quelle che
predicevano morti di giovani. Le faceva spesso dinanzi a settecento e più ascolta­
tori. Don Rua assicura che queste predizioni cominciarono prima del 1850; la
qual cosa è confermata dalla testimonianza di persone, che, vissute sempre al suo
fianco, asserivano essere state da lui predette tutte le morti avvenute nell’Oratorio
nel corso di quarant’anni. Generalmente precisava il tempo più o meno lungo che
doveva precedere ai decessi. Per vari anni di seguito la sera del 31 dicembre de­
terminò esattamente il numero di coloro che sarebbero passati all’eternità l ’anno
dopo; nel 1872 disse quanti sarebbero morti nei tre anni seguenti, specificando
il numero per i singoli anni. Don Lemoyne dice nei processi che egli con l ’aiuto
di un confratello eseguì diligenti ricerche su tutti questi numeri collettivi e che ne
verificò l ’esattezza.
Nella moltitudine degli ascoltatori non mancarono quasi mai gli scettici, che,
entrati di fresco nell’Oratorio, alzavano le spalle e per prenderlo in parola scri­
vevano ciò che diceva e poi stavano attenti per iscoprire il fallimento delle sue
profezie. Anche per questo motivo Don Bosco non si sarebbe mai azzardato a lan­
ciare predizioni così circostanziate come soleva, se non si fosse sentito ben sicuro
del fatto suo. Altri invece brontolavano perchè ne parlasse in pubblico, mentre sa­
rebbe bastato avvertire gl’interessati senza gettare il turbamento in tutti gli altri.
Egli, consapevole di questi umori, il giorno dopo la morte di Francesco Besucco,
cioè la sera dell’11 gennaio 1864, annunciato che un altro voleva andare a terminare
il carnevale in paradiso, aggiunse: “ Io non farei il mio dovere se non vi dicessi
queste cose ” . Evidentemente intendeva significare che, se Dio gliele rivelava, era
perchè ciò servisse a bene della comunità.
Dei morituri si prendeva cura egli stesso; li raccomandava anche alle speciali
attenzioni di bravi loro compagni senza palesare il perchè, ovvero ne confidava
segretamente il nome a qualche superiore. La sera del 10 febbraio 1865 disse nella
“ buona notte” che uno sarebbe morto presto, forse poco dopo aver fatto il
mensile esercizio della buona morte nel prossimo marzo; poi nell’andar via sussurrò
all’orecchio di Don Lemoyne Ferraris, ma portando l ’indice alle labbra per ingiun­
gergli il segreto. Don Lemoyne, com’egli depone, fattosi amico il giovane, lo te­
neva lontano da compagni meno buoni e lo conduceva ai sacramenti. Poi una
mattina lo cercò invano. Più tardi lo vide affacciato alla finestra dell’infermeria.
Accusava un’indisposizione da nulla; ma il 16 marzo morì.
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Talvolta fece conoscere soltanto l ’iniziale del nome, di chi era in procinto
di partire per l ’eternità. Così il 21 marzo 1862, dopo aver preannunciata in pub­
blico una morte improvvisa, sceso che fu dalla cattedra, cedette alle istanze di al­
cuni che volevano sapere, se dovesse essere tosto o tardi. Rispose a tre o quat­
tro: — Non passeranno due solennità comincianti per la lettera P. —- Poi il
17 aprile durante la ricreazione del dopopranzo, pressato da parecchi giovani che gli
domandavano almeno l ’iniziale del nome, rispose che questo cominciava con le
lettere iniziali del nome di Maria. Orbene il 25 morì improvvisamente l ’alunno
Maestro. Si era fra la Pasqua e la Pentecoste.
Un caso simile si ripetè a Lanzo nel marzo del 1869. Visitando quel collegio,
Don Bosco annuncio ai giovani che prima della fine dell’anno scolastico uno sa­
rebbe morto; poi ad alcuni insegnanti disse in disparte che l ’alunno indicato fa­
ceva la seconda elementare e aveva il cognome cominciante per V. Il direttore
Don Lemoyne, che non era là, apprese la cosa dai confratelli e dall’avvocato lan-
zese Luigi Andreis. Pochi mesi dopo cessava di vivere lo studentino Vaiaguzzo
Olderico della seconda elementare.
Rare volte, svelati segretamente i nomi, permise di scriverli e di tenerli suggel­
lati sino alla data prefìssa. Fin verso il 1870 dopo la cena, molti giovani, appena
usciti i superiori, irrompevano nel loro refettorio e si agglomeravano intorno alla
tavola di Don Bosco, che profittava dell’occasione per fare loro del bene. Una sera
del marzo 1862 lascio cadere in mezzo a quella folta e vivace corona l ’annuncio
che uno della casa sarebbe volato al cielo verso la fine di maggio. Tutti smania­
vano di sapere chi fosse; ma egli non lo volle dire. Allora lo pregarono di scri­
verne il nome in un biglietto da chiudersi in una busta, che si sarebbe aperta dopo
il tempo indicato. Don Rua unì le sue istanze. Allora Don Bosco si arrese, e scritto
il nome, lo consegno suggellato a un certo Ferdinando Imoda, uomo maturo e
fidato. La sera del 23 maggio Don Bosco diede la notizia che era morto il com­
pagno Marchisio Luigi in casa sua a Calliano. Dissuggellato dinanzi a Don Rua
ed a parecchi altri il misterioso biglietto, vi si trovò scritto per mano di Don Bo­
sco: Marchisio.
Analogo, ma più notevole è il seguente fatto del ’64. Il 29 gennaio Don Bosco
paleso all infermiere che gli prestava un servizio, la non lontana morte di due arti­
giani e gliene disse i nomi, raccomandandogli di assisterli. Tosto l ’infermiere scrisse
quei nomi sopra un foglio, che chiuse in una busta, portandola poi suggellata nella
prefettura dell’Oratorio con l ’indirizzo: “ Al Chiarissimo Sig. D. Alasonatti Pre­
fetto. - Moncardi , Don Alasonatti, saputone in confidenza il contenuto, vi
scrisse sopra: “ Predizione di D. Bosco: da aprirsi dopo Pasqua 1864 La Pasqua
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cadeva il 27 marzo. La busta venne aperta quel giorno stesso. Vi si leggeva, o me­
glio vi si legge, perchè l ’originale esiste tuttora: “ P. Memoria. Oratorio di S. Fran-
cesco di Sales il 30 gennaio 1864. Ecco qui sotto vergate le precise parole dettemi
dalPIll.mo e M . Rev. Sig. Don Bosco, mio padrone, tutore delPanima mia, la
sera del 29 gennaio mentre si coricava: — Caro Moncardi. Nota bene. Due sono
li artigiani che prima del finire della vegnente quaresima dovrebbero andare in
Paradiso. Sono Tarditi e Polo. Sta bene attento. - Moncardi Ignazio, infermiere
Orbene il 26 febbraio era morto Polo e il 12 marzo Tarditi.
Come si è detto, certe volte queste predizioni davano motivo a critiche. Nel­
l ’ottobre del 1866 Don Bosco, dopo le preghiere della sera, aveva detto a tutti che
stessero preparati, perchè uno dell’Oratorio sarebbe passato all’altra vita prima
di Natale. I nuovi entrati, non avvezzi a tali annunci, furono presi da tale spavento
che volevano tornarsene a casa; alcuni scrissero ai genitori. Il padre di uno av­
vertì la questura, la quale mandò un delegato ad ammonire Don Bosco non essere
adatto all’educazione dei giovani un mezzo così imprudente. L’inviato, non sapendo
che rispondere alle repliche di Don Bosco, lo pregò di fargli conoscere il nome di
colui che doveva morire, promettendogli il segreto. Don Bosco gli disse: Roggero
Giuseppe. Quegli ne prese nota e uscì. Dopo le feste natalizie venne a esplorare.
Entrato nel cortile e interrogati i primi giovani che incontrò, seppe essere morto
Don Giuseppe Roggero, colpito da apoplessia il 14 dicembre.
A non pochi Salesiani predisse quanto tempo sarebbero vissuti. Nella cronaca
di Don Ruffino sotto il 16 febbraio 1861 si legge: “ D. Bosco disse oggi al gio­
vane Dalmazzo Francesco: — Tu vivrai 49 anni, vestirai l ’abito da chierico e sta­
rai nell’Oratorio. Dopo la morte di D. Bosco sarai fatto canonico ” . Don Dal-
mazzo, nato il 18 luglio 1845, morì tragicamente il 10 marzo 1895, Rettore del
seminario di Catanzaro con titolo di canonico, ma sempre salesiano. A Don Ta-
mietti predisse che avrebbe lavorato fino a 50 anni e che non avrebbe raggiunto
i 72. Nato nel 1848 fu colpito nel 1898 da gravissimo malore, per il quale per­
dette la memoria e benché sanissimo condusse vita inoperosa fino al 18 ottobre
1920, quando gli mancavano circa due mesi a compire l ’anno settantaduesimo.
Simili predizioni fece pure a non Salesiani. Carlo Gastini, nome caro agli an­
ziani della Società e uno dei primissimi allievi di Don Bosco, interveniva a tutte le
feste dell’Oratorio, rallegrandole con certe sue originali trovate poetiche. Il Santo
molto tempo prima che morisse, gli aveva detto: — Tu, Gastini, sarai il menestrello
dei Salesiani fino a settant’anni. — Entrato da poco in quell’età, fece una santa
morte assistito da Don Rua.
Fra le carte dell’ingegnere Buffa, torinese, ottimo cattolico e ispettore ferro­
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viario, fu trovato entro una busta un foglio, dove si dice: “ Qualche anno prima di
morire il venerato Don Bosco parlando familiarmente della sua età in confronto
della mia mi disse: ■—•Lei faccia conto di vivere ancora otto anni dopo la mia morte.
— Li 30 maggio 1892 Orbene egli chiuse i suoi giorni il 16 febbraio 1895,
entrato da due mesi nell’ottavo anno dalla morte di Don Bosco. Nel 1883 a Roma,
complimentando il Bernasconi, costruttore dell’organo per la chiesa del Sacro
Cuore, lo invitò scherzevolmente alle feste per la sua Messa d ’oro nel 1891 e
gli disse: — Poi, finite le feste, ci troveremo insieme per il 1892 in paradiso. —
Morì infatti nel gennaio di quell’anno. Era questa una maniera offertagli dal Signore
per ricambiare benefattori e amici: li aiutava a star preparati per fare una buona
morte, e questo agli occhi di chi ha fede non è piccolo beneficio.
Non prediceva solo morti, ma anche guarigioni e lieti eventi. Per le guarigioni
basti il caso certissimo di Don Rua. Sviluppataglisi durante un’infermità la peri­
tonite, era agli estremi. Don Bosco, avvertitone mentre rientrava dalla città, ri­
spose senza scomporsi: — Conosco Don Rua; egli non partirà senza il mio per­
messo. — Poi senz’affrettarsi andò a visitarlo. “ Infatti, depone Don Rua, non sono
partito, non avendomi egli dato il permesso ” .
Le profezie di lieti eventi sono in buon numero, ma la più documentata è
una del 1867. Ne fa fede una relazione stesa il 20 gennaio 1887 dal canonico Grana,
già segretario del cardinale Benedetto Barberini e poi del principe Enrico Barbe­
rini. Questi e la sua consorte, nata Orsini, erano in grandi angustie per la man­
canza di prole. La piissima principessa, trovandosi Don Bosco a Roma, andò in
persona a pregarlo di recarsi a celebrare nella cappella del palazzo, facendogli co­
noscere il perchè ricorreva alle sue orazioni. Dopo la Messa Don Bosco, essendo
solo con quel sacerdote e parlandogli dell’affare, gli disse: — Ebbene, sì, il Signore
vuole consolare la principessa. Poverina! Ella vorrebbe un figlio, ma il Signore
vuole accordarle una figlia. Bisogna che si rassegni e si contenti. Ma questa sarà
la sua consolazione. — Nell’anno appresso, diciottesimo dal matrimonio, nacque
realmente una figlia, alla quale fu imposto il nome di Maria. Vent’anni dopo quella
predizione, scriveva nella citata lettera il detto Don Grana: “ Maria vive attual­
mente sana, robusta, virtuosa ” .
Sono poi innumerevoli le profezie di vocazioni. In Francia durante il viaggio
del 1883 ne seminò a piene mani. Il 15 maggio a Lilla presso una famiglia fece
cinque predizioni in un quarto d ’ora, e tre riguardavano la vocazione. C ’erano là
due sorelle inferme. A una predisse che sarebbe andata presto in paradiso e che sa­
rebbe venuta a prenderla il Sacro Cuore; morì poche settimane dopo nella festa
del Cuor di Gesù. A ll’altra, divorata dalla cancrena a una gamba, assicurò la gua­
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rigione; infatti, il male scomparve a poco a poco. Alla domanda della sorella mag­
giore se si sarebbe potuta fare religiosa come desiderava, chiese quanti anni avesse.
— Ventuno —■rispose. Ed egli: — Tanti anni ancora in aiuto della famiglia, e poi
tutta del Signore. — A 42 anni essa potè entrare nel noviziato delle Dame del
Sacro Cuore a Jette. A un loro fratellino : — Sii sempre pio, e il Signore ti condurrà
molto, molto lontano. —• Professato tra i Padri dello Spirito Santo, egli andò Mis­
sionario nell’Africa centrale. Rimaneva una sorellina di dieci anni, ultima di un­
dici figli. Don Bosco le pose una mano sul capo e rivolto al padre gli disse: — Que­
sta sarà per il Signore. — Il padre trasalì, pensando che dovesse morire presto. —
Voglio dire, spiegò il Santo, che si farà religiosa. — La piccina non udì, ma lo
seppe dieci anni dopo, quando emise la sua professione. Di tutto questo vi sono
testimoni viventi a Lilla, Rue Royale.
E poiché siamo in Francia, narriamone ancora una. Nel 1935 i giornali anche
italiani fecero gran chiasso intorno al nome di monsignor De la Vilierabel, che
circostanze non interamente note al pubblico forzarono a ritirarsi dal governo del-
l ’archidiocesi di Rouen. Orbene, nell’ottobre del 1887 egli era venuto, giovane
prete, a Torino per vedere Don Bosco. Ottenne a stento di essergli presentato. Il
Santo stava già male; ma lo accolse con benevolenza paterna. Durante la conver­
sazione si fece improvvisamente serio e gli disse: — Nella sua vecchiaia il demonio
le si metterà attorno. Allora stia in guardia, perchè le tenderà agguati incredibili
e moltiplicherà i raggiri. Lei dovrà combattere molto contro i suoi emissari, che la
assedieranno da ogni parte. Soffrirà molto dalle sue insidie. — Divenuto Arcive­
scovo titolare di Mitilene, il Prelato scriveva il 13 marzo 1937 a un salesiano fran­
cese: “ Scrissi allora queste parole alla mia famiglia in una lettera che procurerò
di ritrovare. Da tre anni sono stato fatto segno a intrighi veramente diabolici, che
mi richiamarono alla memoria la predizione. Tutti i miei amici ritengono che le
trame orditemi contro provenivano da persona dominata dal demonio. Ne sono
persuaso anch’io ” . I medesimi amici dicono che le parole di Don Bosco furono
al perseguitato di grande conforto.
Di profezie riguardanti avvenimenti pubblici si è fatta già qualche menzione;
altre ve ne sarebbero, ma non è opportuno dilungarci in esse. I sanguinosi fatti
del 1931 nella Spagna confermarono una predizione di Don Bosco. Il suo terzo
successore Don Filippo Rinaldi, che ne ricevette la confidenza, non osava parlarne;
che ne abbia parlato a Salesiani, non risulta, e s’intenderà facilmente il perchè;
ne parlò con una persona estranea e confidente, quando scoppiarono quei moti
spagnoli. La predizione risale al luglio del 1887 durante un soggiorno estivo del
Santo nel collegio di Lanzo. Don Rinaldi, direttore dei Figli di Maria a San
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Giovanni Evangelista, recatosi a fargli una visita, lo trovò intento a osservare un
mappamondo. Prima Don Bosco gl’indicò l ’Australia e gli disse che col tempo i
Salesiani sarebbero andati anche là. Questo si avverò. Poi, puntando il dito sulla
Spagna, proseguì: — Ecco dove sarà il tuo campo di azione. — Il che pure si av­
verò; infatti Don Rinaldi, mandatovi nel 1889, vi lavorò per circa dodici anni,
costituendovi la prima Ispettoria spagnola. Infine Don Bosco dopo un breve si­
lenzio riprese con aria pensierosa: — La Spagna avrà tre grandi rivolgimenti. Nel
terzo si verserà molto sangue, anche salesiano. — Quest’ultima particolarità aveva
allora dell’incredibile e tale fu da poi per oltre quarant’anni; ma Don Bosco non
astrologava annunciando il futuro. I Salesiani di Spagna, usciti incolumi dai rivol­
gimenti del 1931 e del 1934, hanno avuto anch’essi nel terzo tragicissimo periodo
della guerra civile più di settanta vittime.
Una predizione assai curiosa è quella riferita da Don Ruffino nella sua cronaca ;
sembra uno squillo apocalittico sull’avvenire dell’impero Austro-ungarico. Don
Bosco volentieri improvvisava rime, parlando familiarmente. Ecco le parole te­
stuali del documento: “ Il 19 settembre [1860] Don Bosco fece il seguente sogno:
Ecco, una gran vittoria
Segue il valor dell’Austria;
M a poi con essa gloria
Il trono insiem cadrà
Se avesse voluto alludere a Caporetto e a Vittorio Veneto non avrebbe potuto
farlo in forma più precisa e drammatica. Pensare allora al vicino crollo del trono
absburgico sarebbe stato davvero quello che si dice sognare a occhi aperti. Don
Bosco non era un sognatore di tal fatta.
Le profezie qui riferite sono appena un saggio delle tante che noi cono­
sciamo. Due poi ne esistono, delle quali possediamo relazioni autografe di Don
Bosco e che riguardano pubblici avvenimenti. Una porta la data del 5 gennaio 1870
e l’altra del 24 maggio 1873. Buona parte della prima è già avverata; del rima­
nente di essa e della seconda si aspetta l’avveramento, forse non lontano.
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CAPO XLVIII
PER L’INGHILTERRA E PER IL BELGIO
Prossimo al termine della sua carriera mortale, Don Bosco rivolse la mente e
il cuore all’isola dei Santi e alla città del Corpus Domini.
Il suo nome era conosciuto in Inghilterra. Sarebbe sufficiente a dimostrarlo
quello che si è narrato del duca di Norfolk. A Roma egli contava amicizie fra per­
sonalità inglesi; con Inglesi s’incontrava ne’ suoi viaggi per la Costa Azzurra. I
due seminari irlandese e inglese lo festeggiavano molto, quando andava a Roma;
anzi gli alunni dell’inglese ripresero un uso dei tempi di S. Filippo Neri. Come
allora i novelli sacerdoti inglesi di quel seminario non rimpatriavano senz’aver ri­
cevuto la benedizione dell’apostolo di Roma, così negli ultimi anni di Don Bosco
i loro lontani compatrioti prima di lasciare l ’Italia passavano spesso alPOratorio
per essere benedetti dall’apostolo della gioventù. Inoltre nobili inglesi, venendo a
Torino, visitavano l ’Oratorio, condotti da signori dell’aristocrazia torinese. Così
appunto fu avvicinato Don Bosco nel 1877 dal segretario del consiglio generale
londinese della Società di S. Vincenzo de’ Paoli e da altri gentiluomini che viaggia­
vano con lui. D i questa visita una scrittrice narrò i particolari nel Month del gen­
naio 1884, dicendo che Don Bosco aveva espresso il desiderio di fondare una sua
casa a Londra. Ecco perchè nel 1884 la Società Vincenziana fece appello alla sua
carita in favore di quella gioventù povera e abbandonata. Quei cattolici sentivano
fortemente la necessità dell’Opera di Don Bosco nell’immensa metropoli. “ Al
presente, gli scriveva allora il suddetto segretario, noi ci troviamo con un solo
asilo per la gioventù operaia in questa città di quattro milioni d ’anime, perchè sol­
tanto Lord Douglas raduna gli operai cattolici. Esisteva un nostro Patronage di­
retto dai Fratelli della Carità di Gand; ma questi religiosi se ne sono andati e la
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casa è chiusa ” . Il Lord qui ricordato era il venerando Padre Douglas Hope, assi­
stente ecclesiastico della Società; egli pure si sarebbe stimato felice di vedere a
Londra i figli di Don Bosco. Ma per altra via ve li condusse la Provvidenza.
La maggior difficoltà di Don Bosco stava nel non aver pronto un personale di
lingua inglese; ne aveva però in preparazione. Nel 1882 l ’irlandese monsignor Lynch,
Arcivescovo di Toronto nel Canadà, visitando Don Bosco, gli aveva promesso di
cercargli buoni soggetti nella sua patria. Infatti, poco dopo, sette chierici irlandesi
che venivano in Italia per prepararsi al sacerdozio, prima di recarsi al luogo desi­
gnato, ascoltarono il consiglio dell’Arcivescovo, fermandosi a Torino per vedere
Don Bosco e le sue Opere. Giunsero qui all’improvviso, mentre Don Bosco, ce­
lebrata la Messa, confessava i giovani. Lo aspettarono, e quando uscì, gli si misero
attorno con tutta confidenza. Uno faceva da interprete parlando francese. Intanto
Don Bosco si avvide presto che essi avevano bisogno di cibo e di riposo, e si
avviò con loro al refettorio, dando nell’andare una lezioncina d ’italiano consistente
in tre vocaboli: mangiare, bere, giocare. La bontà del Santo li conquise; la vita del-
l’Oratorio li incantò. Il capo del gruppo, Patrizio O ’ Grady, si presentò a Don
Bosco per dirgli che era deciso di stare con lui. Ne seguirono l ’esempio altri tre:
Carlo Redahan, Patrizio Diamond e Francesco O ’ Donnellan. I primi tre mori­
rono sacerdoti salesiani: O ’ Grady in estrema vecchiaia; il quarto morì chierico
nell’Oratorio il 19 ottobre 1885 e tre. giorni dopo Don Bosco in un sogno lo
vide salire al cielo. A questi quattro se ne aggiunsero tosto altri, pure irlandesi,
ma anche qualche inglese, di modo che nel 1887 il Santo poteva già disporre di
alcuni buoni soggetti per mandarli a Londra.
A farveli andare contribuì più di tutti la contessa di Stackpool, che dimorava
a Roma ed era benefattrice di Don Bosco. L’Arcivescovo Kirby, rettore del se­
minario irlandese e vecchio amico del Santo, nel 1887, nonostante i suoi ottanta-
cinque anni, fu da lui tre volte al Sacro Cuore per indurlo a troncare gl indugi.
Il 12 maggio, impedito di recarvisi una quarta volta, gli scrisse: “ Ieri ebbi l ’onore
di un’udienza del Santo Padre, nella quale si degnò esternarmi la sua grande sod­
disfazione e contentezza dell’aver V. S. accettata la cura della chiesa di Londra
della sig. contessa di Stackpool ” . Questa comunicazione determinò Don Bosco
a non più procrastinare, benché il Vescovo, da cui si doveva dipendere, disap­
provasse la scelta del luogo.
La giurisdizione ecclesiastica della Chiesa Romana a Londra è divisa fra la
sede arcivescovile di Westminster alla sinistra del Tamigi e la sede vescovile di
Southwark alla destra. Appartiene alla seconda il quartiere popolare di Battersea,
dov’erano chiamati i Salesiani. Il suo Vescovo Butt,che nel 1887 si trovava a Roma,
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46.3 Page 453

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tentò di rimuovere Don Bosco da quel disegno, allegando la povertà della popola­
zione e l ’impossibilità di mantenervi anche un solo prete. Ma Don Bosco gli disse:
— A Battersea avremo una grande chiesa e vasti cortili. Quella casa diverrà una
delle più importanti della nostra Congregazione.
A Battersea sotto il pontificato di Pio IX la contessa di Stackpool aveva eretto
a sue spese una chiesa parrocchiale dedicata al Sacro Cuore di Gesù con annessi
locali scolastici; ma dopo breve tempo il parroco se n ’era andato, nè si era po­
tuto più trovare chi ne prendesse il posto. I cattolici, in massima parte operai
irlandesi, restarono così privi di assistenza religiosa e la gioventù cresceva nell’ab­
bandono. Per rimediare a questi mali la contessa ricorse a Don Bosco. L’aveva
veduto la prima volta a Valdocco nel 1881, rimanendone così colpita che scrisse
di lui al conte Cays il 29 novembre da Londra : ‘‘ Ho ancora fresco in mente il
suono della sua voce, le sue parole, i suoi sguardi e la sua benedizione ” . Quindi
non si stancò più d ’insistere, finché nell’autunno del 1887 tutto non fu pronto
per l ’andata dei Salesiani.
Ma Don Bosco volle prima inviare a Battersea Don Dalmazzo, perchè esa­
minasse da vicino lo stato delle cose e preparasse convenientemente il nido. Egli
giunse a Londra il 9 ottobre, ospite del rettore di una chiesa nelle vicinanze di
Battersea, nè venne via se non quando vide i Salesiani in condizione di provvedere
a se stessi. Erano questi i sacerdoti Don Mac Kiernan, irlandese, parroco e diret­
tore, e Don Macey, inglese e viceparroco, più un coadiutore italiano. Partirono
da Torino il 14 novembre. Don Bosco aveva consegnato loro parecchie lettere di
presentazione e di raccomandazione, una delle quali per il duca di Norfolk e un’al­
tra per il Console italiano. Al Duca diceva: “ Certamente un’opera di questo ge­
nere dimanda coraggio, specialmente nella grande città di Londra. Ma Dio che ci
aiutò in altre fondazioni ci verrà anche in aiuto in questa che spera l ’appoggio di
Vostra Altezza ” . Al Console presentava i due sacerdoti come suoi allievi, istruiti
e ordinati in Italia e come aventi da lui l ’incarico di occuparsi anche della povera
gioventù italiana domiciliata a Londra.
Nei primi mesi quei Salesiani lottarono contro difficoltà molto serie. Buon per
loro che non si perdettero d ’animo! Nonostante tutto, del bene se ne fece fin da
principio. Il popolo mostrava di amarli. Quella casa avverò pienamente in sè la
predizione del fondatore, che due mesi e mezzo dopo andava a ricevere il premio
delle sue virtù e opere sante.
Per il Belgio egli non potè avere la stessa consolazione di veder coronate tratta­
tive, che duravano già da cinque anni; ma venne da lui, come diremo, l ’ultima pa­
rola, che decise la fondazione. Spetta al grande Vescovo di Liegi monsignor Dou-
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treloux tutto il merito dell’iniziativa. Egli anelava di suscitare nella sua città un’opera
come quella dell’Oratorio, che avesse il doppio scopo di educare cristianamente
la gioventù operaia e di coltivare le vocazioni ecclesiastiche. Alla sua prima ri­
chiesta del 1883 si rispose con buone intenzioni e a tempo indefinito. Don Bosco
per altro, non ignorando quanto bene la sua Opera avrebbe potuto fare in un am­
biente di quella natura, volle alimentare nel Vescovo la speranza, proponendogli
un incontro a Nizza Marittima, dov’egli pensava di recarsi verso la fine di set-
tembre. Ma monsignore non potè trovarsi all’appuntamento; si abboccarono invece
l ’anno seguente nell’Oratorio durante la novena di Maria Ausiliatrice. Il Vescovo,
diretto a Roma, fece una fermata a Torino appositamente per conferire col Santo.
Ricevuto da Don Bosco con la sua rispettosa e affascinante cordialità, uscì
dalla sua camera col cuore inondato di consolazione. A Roma parlò di lui con
Leone X III, che si compiacque ricordare d’aver veduto Don Bosco pochi giorni
avanti e disse al Vescovo di scrivergli che il Santo Padre, conoscendo assai bene
la città di Liegi (era stato Nunzio nel Belgio), l ’aveva molto cara e desiderava vi-
vamente di saperla dotata d’un orfanotrofio diretto dai Salesiani. Benché impa­
ziente di arrivare all’appagamento de’ suoi voti, Monsignore non importunò più
Don Bosco con insistenze premature. Non perdette però mai di vista il suo ideale.
Trascorsi due anni, nella novena di Maria Ausiliatrice del 1886 inviò al Santo
l ’avvocato Doreye, strenuo organizzatore delle opere cattoliche a Liegi. Questi,
che pure s’interessava della cosa e voleva formarsi un concetto preciso dell’Opera
di Don Bosco, visitò minutamente l ’Oratorio.
Intanto il Vescovo non era rimasto inoperoso, ma teneva già pronto un ampio
locale adibito a Patronage e circondato da un terreno libero, che avrebbe agevolato
qualsiasi ingrandimento. Le notizie che nel 1887 circolavano sulla salute di Don
Bosco, lo misero in grande apprensione. Sentendo poi che egli andava di male
in peggio, venne a Torino, ordinando preghiere in tutti i monasteri della diocesi,
perchè avesse effetto lo scopo del suo viaggio.
Arrivò a Torino la sera del 7 dicembre, vigilia dell’immacolata Concezione,
e, preso posto in un albergo, venne subito all’Oratorio. Non sembra che abbia
potuto parlare immediatamente con Don Bosco; parlò invece con Don Durando,
che conduceva le pratiche per le nuove fondazioni. Vide Don Bosco la mattina
appresso con monsignor Cagliero, arrivato dall’America, e col predetto Don Du­
rando. Bisogna sapere che la sera innanzi, Don Bosco, aderendo al parere degli
altri ’superiori, aveva deciso che per Liegi si prendesse ancora tempo. Allora al
contrario, con sbalordimento di Don Durando, rispose senz’altro di sì alla do­
manda del Vescovo, come se non esistessero più le difficoltà prospettate il giorno
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prima. A mezzodì invitò a pranzo Monsignore, che gli offerse il braccio, sorreggen­
dolo con gioia fino al refettorio.
Il Vescovo dunque si allontanò recando in cuore la consolante certezza che
le tante preghiere non erano state vane, ma ignorando perchè Don Bosco avesse
cosi da sera a mattina cambiato sentimento. Nel giorno dell’immacolata, dopo la
Messa, il Santo aveva ordinato al segretario Don Viglietti di prendere penna, cala­
maio e carta e di scrivere quello che egli avrebbe dettato. E dettò: “ Parole lette­
rali che la Vergine Immacolata, apparsami questa notte, mi disse: — Piace a Dio
ed alla Beata Vergine Maria che i figli di S. Francesco di Sales vadano ad aprire
una casa a Liegi in onore del Santissimo Sacramento. Qui incominciarono le
glorie di Gesù pubblicamente, e qui essi dovranno dilatare le medesime sue glorie
in tutte le loro famiglie e segnatamente tra i molti giovanetti che nelle varie parti
del mondo sono o saranno affidati alle loro cure. — Il giorno dell’immacolato
Concepimento di Maria 1887 Qui cessò di dettare. Il suo accento, come il suo
spirito, vibrava d ’intensa commozione.
Non manco di li a poco la riprova. Ritornato alla sua diocesi, monsignor Dou-
treloux si diede d ’attorno per tirar su presto l ’edificio. Il terreno adatto c’era, ma
costava carissimo; egli nondimeno indusse il proprietario a esigenze più modeste,
concretate in cinquantamila franchi, ma da pagarsi nel rogito. Il Vescovo, ben con­
tento, lo pregò di aspettare fino a sera perchè non aveva la somma voluta. Li­
cenziato quel signore, si chiuse in preghiera dinanzi al Santissimo Sacramento. Al
tramonto ecco giungergli in palazzo un parroco della sua diocesi che gli portava
cinquantamila franchi da parte di una persona che non voleva essere nominata.
Era proprio il Signore che l ’aveva mandato. Monsignore prese, andò egli stesso
dal proprietario del terreno e un’ora dopo, atto notarile e pagamento erano due
fatti compiuti.
Monsignore trepidava per la vita di Don Bosco. Essendosi diffusa la notizia di
un improvviso miglioramento, scrisse a Don Rua il 2 gennaio 1888: “ Io ne godo
come se si trattasse di mio padre ” . Il 21 gennaio mandò a Torino l ’architetto, a
cui intendeva commettere la costruzione, perchè si formasse una giusta idea del
suo compito. Morto Don Bosco, egli concentrò in Don Rua la devota affezione
nutrita verso il Santo, di cui visitò la tomba nell’aprile seguente.
Il successore di Don Bosco nel maggio del 1890 andò a benedire la prima
pietra delPedificio. Allora Monsignore scrisse di lui a Don Durando: “ Debbo
dirle quanto egli ci abbia edificati con le sue belle maniere unite alle virtù interne ?
Le sue parole così piene di sentimento e di pietà e la sua fisionomia così soave gli
guadagnavano il cuore di tutti. Io non saprei benedire abbastanza la Provvidenza
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che ci abbia procurato la presenza di lui alla benedizione della prima pietra del-
l ’Orfanotrofio S. Giovanni Berchmans
Con i figli di Don Bosco e coi loro artigianelli ebbe sempre tenerezze paterne.
Per essi serbava una preghiera speciale nel ringraziamento della Messa e nelle sue
orazioni della sera. A ricordo del giorno in cui Don Bosco aveva accolta la sua
domanda, festeggiava con loro ogni anno l ’immacolata Concezione. Ritornando
da viaggi, la sua prima visita era all’ospizio; ricevendo persone ragguardevoli, le
conduceva a visitarlo. Si compiaceva poi di ripetere: — Don Bosco mi ha pro­
messo che i Salesiani in sei anni si sarebbero triplicati nel Belgio. — Infatti, andati
nel 1891, avevano nel 1897 tre case, essendosi aggiunti all’ospizio di Liegi quello
di Tournai e il noviziato di Hechtel.
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CAPO XLIX
S P I R I T O DI O R A Z I O N E
D icono che Pio XI, sentendo che un personaggio si domandava quando mai
Don Bosco pregasse, facesse osservare doversi piuttosto domandare quando
mai Don Bosco non pregasse. Questo era appunto il concetto rimastogli nella
mente dopo la visita fatta al servo di Dio nel 1883. “ La sua vita di tutti i giorni,
disse il Papa ai seminaristi di Roma il 17 giugno 1932, era un’immolazione continua
di carità, un continuo raccoglimento di preghiera [...]. Il suo pensiero era con Dio
in spirito di unione [...]. Vita di santità e di raccoglimento, di assiduità alla pre-
ghiera il Beato menava nelle ore notturne e fra tutte le occupazioni continue e im
placabili delle ore diurne
L’unione attuale dell’anima con Dio fu veramente l ’abituale suo stato. I tesù
della causa esprimono all’unisono questa loro persuasione, fondata su non dubbi
accertamenti di fatto. “ Quello che ho potuto continuamente scorgere, depone il
testimonio più qualificato di tutti, Don Rua, fu la sua continua unione con Dio [...].
E sentimenti d ’amor di Dio manifestava con tanta spontaneità, che si vedeva che
sgorgavano da una mente e da un cuore sempre immersi nella contemplazione di
Dio e de’ suoi attributi ” . Don Albera, vissuto da ragazzo per tanti anni vicino a
lui, conferma: “ Era tanta la sua unione con Dio, che pareva ricevere da Dio quei
consigli e incoraggiamenti che dava a’ suoi figli ” . Anche Don Rinaldi fece in tempo
a constatare la medesima cosa, sì da poter asserire: “ È mia intima convinzione
che egli fu proprio uomo di Dio, continuamente unito a Dio nella preghiera ” . Ai
tre primi successori del Santo nel governo della Società salesiana sta bene unire
Don Francesia, che visse fanciullo, chierico e prete sotto la disciplina paterna del
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fondatore. Ora, di scienza propria, attesta: “ Io vedeva che egli era facile a racco­
gliersi nel Signore ” . Non si potrebbe dire di più, benché in sì poche parole.
Figurano fra i testi sette ragguardevoli Salesiani, dalle cui deposizioni si ricava
che “ la vita di Don Bosco parve sempre un ’unione costante con Dio ” , sicché
“ in qualunque momento lo si interrogasse, anche in mezzo agli affari più aridi e
più distraenti, egli rispondeva come uno che fosse assorto nella meditazione” ;
che la carità verso Dio risplendeva nell’unione sua con Lui ” ; che “ viveva sem­
pre alla presenza di Dio ” e “ i suoi pensieri erano sempre rivolti al Signore ” ; che
“ la preghiera mentale si può dire essere stata una pratica connaturale in lui che
“ aveva il cuore così pieno d ’amore verso il Signore, che il suo pensiero, la sua
parola erano sempre a Lui rivolti ” ; che “ sempre dimostrò un vero e profondo
spirito di preghiera e di unione con Dio, come era dato di assicurarsi ogni qual­
volta i suoi lo avessero avvicinato ” ; che “ aveva una perfetta unione con Dio ” .
Su questo concerto così uniforme di testimonianze si levano le voci di due
prelati, che vanno uditi a parte per l ’autorità del loro grado nella Chiesa. Il primo,
monsignor Tasso, alunno dell’Oratorio dal 1861 al 1865 e poi Vescovo di Aosta,
dice: “ Egli ardeva sempre della più grande carità verso Dio, e io sono persuaso
che viveva in continua unione con Dio. Ricordo che tra noi ragazzi c’era questa
persuasione che egli parlasse direttamente col Signore, specialmente quando ci
aveva da dar consigli riguardo al nostro avvenire ” . L’altro, il Cardinale Cagliero,
che non abbisogna di presentazione, testifica: “ Era sempre in intima unione con
Dio quando dava udienza, quando era al tavolino intento a’ suoi lavori, quando
s’intratteneva insieme con noi in ricreazione, quando pregava con fervore da an­
gelo dinanzi a Gesù Sacramentato, o allorché si trovava all’altare. In qualunque
momento lo avvicinassimo, ci accoglieva sempre con squisita carita e con tanta
serena amabilità, come se allora allora si levasse dalla più accesa orazione o dalla
divina presenza. Io torno a ripetere ciò che disse a me il Cardinale Alimonda, che
Don Bosco era sempre in intima unione con Dio ” .
Fin dai primi anni Don Bosco si abituò a unirsi con Dio nella preghiera. Era
appena undicenne quando, com’egli scrive nelle sue Memorie, comprese l ’utilità
di “ fare ogni giorno una breve meditazione ” , dalla quale pratica ricavò tosto,
come pure egli ci fa sapere, due insigni vantaggi: di “ gustare che cosa sia vita spi­
rituale ” e di non agire più “ come macchina che fa una cosa senza saperne la ra­
gione Aveva ben appreso dalla madre l ’amore alla preghiera. Mamma Marghe­
rita glie n ’era stata maestra con la parola e con l ’esempio; all’insegnamento materno
egli aveva apportato buon volere e intimo diletto. Così nel suo cuore sappiamo es­
sersi insinuato per tempo il sentimento vivo della presenza di Dio, la candida am-
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mirazione delle opere di Dio nel creato, la riconoscenza per i suoi benefici, la con­
formità a’ suoi voleri, il timore di offenderlo.
La preghiera gli fu poi alimento e conforto durante il biennio di vita servile,
in cui il suo spirito eletto si macero in duro esercizio di umiltà. Ed era umiliazione
consapevole la sua, perchè egli si sentiva atto e chiamato a cose ben più alte che
non fosse il vivere in mezzo a contadini e bestie. Soltanto Dio lo sostenne in quel
desolato abbandono, soltanto nell’effusione della preghiera il suo cuore si apriva
a consolazione. Il figlioletto del suo padrone che dormiva nella stessa sua camera,
amava ricordare da vecchio che di notte Giovannino pregava, pregava e col pre­
gare impediva a lui di dormire e che talora la madre intervenne a farlo smettere,
affinchè il figlio potesse prendere sonno.
A Chieri, dove fece il ginnasio, una pietà illuminata lo preservò dai pericoli
degli studenti nell’età così detta critica. Un periodo delle sue Memorie rivela tutto
il tenore della sua vita spirituale in quel tempo. Fattosi amico di quella perla di
compagno che fu Luigi Comollo, ecco di che natura fossero i suoi amichevoli rap­
porti con lui: Andavamo insieme a confessarci, a comunicarci, a fare la medi­
tazione, la lettura spirituale, la visita al Santissimo Sacramento, a servire la santa
Messa ” . Da questa e da altre confessioni si rileva che unicamente il vivere unito
a Dio ne invigorì la costanza in quei quattro anni di difficoltà, di angustie e di
privazioni.
Entrato quindi nel seminario, sua prima preoccupazione fu d ’informarsi come
vi si stesse quanto a pratiche di pietà. Trovò tutto bene per la Messa, la medita­
zione, la terza parte del rosario e per la confessione settimanale; ma, come si è
detto sopra, non rimase contento per la comunione. Non volendo privarsi del
quotidiano pane eucaristico, si privava nei giorni feriali del pane materiale, perchè,
passando nella chiesa pubblica tutto il tempo della colazione, doveva poi subito
seguire i compagni allo studio, ed era un bel sacrificio in un giovanotto sano e ro­
busto come lui il restare a stomaco digiuno fino all’ora del pranzo! Sei anni di
questo sacrificio mostrano abbastanza di che tempra fosse la pietà di Giovanni
Bosco seminarista. È naturale che dopo una simile preparazione egli, divenuto
prete, non iscompagnasse l ’orazione dall’azione.
Nel periodo della sua maggiore attività non tutti credettero che Don Bosco
fosse uomo di orazione e di grande orazione; vi furono anzi di coloro che lo giu­
dicarono tutto assorbito dalle cure esteriori e poco o punto dedito alla preghiera.
La pensavano a questo modo perchè egli non si faceva vedere, come altri Santi,
lungo tempo della giornata immerso nella contemplazione delle cose celesti, nè a
recitare lunghe preghiere; anzi la naturalezza che metteva in tutti gli atti della
SI
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sua vita non offriva manifestazioni esterne che dessero l ’immediata percezione del
suo intenso spirito interiore. Certuni lo stimavano un buon prete e nulla più.
Ma l ’opinione stessa di santità che godeva presso i suoi intimi, non sarebbe stata
possibile se non si fosse ravvisato in lui l ’uomo di orazione. A scemare questo
concetto non ci voleva molto: sarebbe bastato vederlo fare sbadatamente il segno
della croce. E la sua vita si svolgeva sotto gli occhi dell’intera comunità, sicché
una parola, un’azione, un gesto che fosse mal conciliabile col pensiero di Dio,
non sarebbe passato inavvertito. È appunto quello che nessuno potè mai asserire
d ’aver scorto in Don Bosco. Lo spirito di orazione era in lui quello che nel condot'
tiero lo spirito marziale, nell’artista e nello scienziato lo spirito di osservazione,
nell’uomo d’affari lo spirito d ’iniziativa, nello statista lo spirito di governo: una
disposizione abituale dell’animo a operare in un dato genere di cose con facilità,
costanza e diletto. Nei processi, tutti qua o là lo dicono o lo lasciano intendere e
un’accurata analisi della sua maniera di agire nei casi ordinari e straordinari lo fa­
rebbe a ogni tratto quasi toccare con mano.
D i qui gli veniva quella serenità e sicurezza di spirito che tutti ammiravano
in lui. Nel discorso del 19 marzo 1929 per il decreto sui miracoli, Pio XI disse che,
passando qualche giorno della sua vita con Don Bosco, sotto lo stesso tetto, alla
stessa mensa e gustandovi più volte la gioia di potersi intrattenere lungamente col
servo di Dio, benché sempre occupatissimo, ne aveva notata appunto questa im­
pressionante caratteristica, “ una calma somma, una padronanza del tempo, da
fargli ascoltare tutti quelli che a lui accorrevano con tanta tranquillità come se non
avesse null’altro da fare ” . Era proprio così, sempre, dovunque, con chicchessia.
Il sentire Dio del continuo presente in sè, mentre lo teneva costantemente vigile
e intento all’unico fine di servire a lui solo, gli era anche fonte perenne di quiete
e pace nel mare agitato degli affari.
L’osservazione del Papa va applicata al dominio non solo del tempo, ma anche-
dei contrattempi; poiché la stessa calma e tranquillità lo assisteva inalterata di fronte
a ostacoli, a inciampi, a disgrazie, che, per quanto gravi, non arrivavano a fare
ch’egli si scomponesse. Il suo primo successore ripete nei processi quello che più
volte soleva dire, che cioè quando Don Bosco appariva più gaio e più contento
del consueto, i suoi collaboratori, edotti dall’esperienza, si sussurravano con pena
all’orecchio: — Oggi Don Bosco dev’essere in qualche imbarazzo ben serio, giac­
ché si mostra più lieto dell’ordinario. — Orbene il medesimo Don Rua depone
testualmente : “ In queste circostanze la sua forza era la preghiera .
Indizi certi di abituale elevazione della mente in Dio sono la facilità a parlare
di lui e l ’unzione a ragionare del paradiso. Depone Don Rua: Talvolta, quando
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10 accompagnavamo ad ora tarda a riposo, si fermava a contemplare il cielo stel­
lato e ci intratteneva, immemore della sua stanchezza, a discorrere dell’immensità,
onnipotenza e sapienza divina. Altre volte per la campagna ci faceva osservare la
bellezza dei campi e dei prati, 1abbondanza e ricchezza dei frutti, e così conduceva
11discorso sulla divina bontà e provvidenza, di modo che ben sovente si esclamava
coi discepoli di Emmaus: Nonne cor nostrum dvdens excLt in nobis, duvn. loqueretur in
via? . E del paradiso, come attesta il Cardinale Cagliero, parlava con tanta vi­
vacità, gusto ed effusione, da innamorare chiunque l ’udiva. Ne ragionava come
un figlio parla della casa del proprio padre; il desiderio di posseder Dio lo accen­
deva più ancora che la mercede da lui promessa ” , Un giorno a Penango, sedendo
a mensa con parecchi ecclesiastici, piglio argomento a dire del paradiso dalla bel­
lezza e bontà di certi frutti recati in tavola; a poco a poco si accalorò tanto, che
i commensali, sospeso il mangiare, pendevano estatici dal suo labbro. <c Se alcuno,
asserisce un teste, gli avesse domandato a bruciapelo dove fosse incamminato,
avrebbe risposto: • • Andiamo in paradiso ” . Ora, anche il continuo desiderio
del paradiso, scrive S. Agostino nella lettera CXXX, è continua preghiera.
Nel pregare, dicevamo, Don Bosco non prendeva atteggiamenti che dessero
nell’occhio. Bisogna però eccettuare la celebrazione della Messa. Qui la grandezza
dell’azione lo rapiva fuori di sè; chi l ’aveva veduto una volta all’altare, non se ne
dimenticava più. A Marsiglia, nell’aprile del 1878 la signora Prat-Noailly, divenuta
poi sua generosa benefattrice, ascoltandone la Messa nella chiesa di San Giuseppe
senza punto sapere chi egli fosse, rimase fortemente colpita dal suo contegno, tanto
che un desiderio irresistibile di conoscere il celebrante la spinse nella sagrestia a
domandare di lui. Non oltrepassava la mezz’ora; tuttavia faceva divotamente e di­
stintamente anche le minime cerimonie. Molte persone, dicono i testi, venivano
ad assistere alla sua Messa, perchè lo vedevano celebrare come un serafino. “ Ba­
stava osservarlo all’altare, osserva monsignor Tasso, per essere eccitati alla pietà
e alla divozione
Vi ricevette pure da Dio grazie straordinarie. Nel gennaio del 1879, celebrando
a un altarino posto nella sua anticamera, giunto che fu all’elevazione, prese un
aspetto di paradiso, irradiando dalla persona una luce che rischiarava la stanza;
quindi lieve lieve si staccò dalla predella e rimase una decina di minuti sospeso in
aria. Il salesiano Don Garrone, che gli serviva la Messa, fu altre due volte spet­
tatore dello stesso fenomeno.
Una seconda eccezione si deve fare per i suoi ultimi due anni di vita. Allora,
spese le mattinate nelle udienze, soleva, o all’Oratorio o altrove, passare le prime
ore del pomeriggio nella propria camera; e quello era il tempo in cui i suoi intimi
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lo sorprendevano talora in positure affatto inconsuete. Seduto allo scrittoio, con
le dita delle mani incrocicchiate dinanzi al petto, in atteggiamento di gran dol­
cezza, appariva tutto rapito nella contemplazione delle cose soprannaturali. Nel­
l’agosto del 1887 una Figlia di Maria Ausiliatrice ebbe in quelle ore a Lanzo una
bella sorpresa, come ci riferì. Entrò nell’anticamera e, non essendovi il segre­
tario, si appressò allo studio del Santo. La porta era semiaperta. Vide Don Bosco
in piedi presso il tavolino, con la persona eretta e più alta del solito e col viso
trasfigurato e come cinto da un’aureola luminosa. Aveva le labbra atteggiate a un
sorriso soave e tranquillo, gli occhi fissi in alto e le braccia aperte come le oranti
delle catacombe. I movimenti del capo lo facevano sembrare in colloquio con un
essere invisibile. Chiamato dalla visitatrice, non si dava per inteso. Alla fine, fatto
un segno di croce e un inchino riverenziale che la penna della relatrice non è ca­
pace di descrivere, posò con espressione di santa gioia le mani sul tavolo e come
se nulla fosse, prese a discorrere placidamente con la suora.
Ma questi sono doni di natura troppo fuori dell’ordinario; lo spirito di ora­
zione del Santo va ricercato nella sua vita d ’ogni giorno. San Bonaventura nel De
sex alis Seraphim, distinte tre sorta di preghiera, la comune, la privata e la continua,
raccomanda quest’ultima specialmente ai superiori che siano molto occupati. Esige
essa tre cose: tenere il pensiero rivolto a Dio in tutte le occupazioni, cercare co­
stantemente con tutta l ’anima l ’onore di Dio e di tanto in tanto quasi furtivamente
raccogliersi in orazione. In questo senso possiamo dire che tutto l ’operare di Don
Bosco era compenetrato di preghiera.
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47.5 Page 465

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CAPO L
SINTOMI FORIERI DELLA FINE
Che un uomo sano faccia tutto quello che fece Don Bosco, è cosa che riempie
di ammirazione; ma che faccia tanto un uomo abitualmente afflitto da ma­
lattie e lo faccia con tanta superiorità dello spirito sulle infermità della carne, non
basta davvero a spiegarlo la forza dell’umano volere. Questo spiega ancor meno
come mai negli ultimi anni al cominciare e al progredire dell’accasciamento finale
Don Bosco opponesse una sì sbalorditiva resistenza, quale in gran parte abbiamo
potuto vedere fin qui. La grazia ingagliardiva la natura.
Dalle testimonianze giurate di coloro che ebbero col Santo relazioni di con­
suetudine, si raccolgono elementi sicuri per formare quasi un grafico dei mali che
or più or meno gli travagliarono l ’esistenza. Si può applicare a lui e notevolmente
estendere una frase di S. Paolo: la sua carne per molti anni non ebbe mai sollievo.
Sputi sanguigni cominciati sul principio del suo sacerdozio e periodicamente rin-
novantisi. Dal 1843, mal d ’occhi con bruciore e da ultimo perdita completa del-
1 occhio destro. Dal 1846 crescente enfiagione alle gambe e ai piedi, obbligandolo
infine all’uso di calze elastiche, perchè la carne afflosciata, come vide chi gli rendeva
il pietoso ufficio di aiutarlo a calzarsi e scalzarsi, scendeva a coprirgli Porlo delle
scarpe. Dio sa come facesse a resistere lungo tempo in piedi! Egli chiamò questa
gonfiezza la sua croce quotidiana. Forti dolori al capo, sì da parere che il cranio
gli si fosse dilatato ; atroci nevralgie che gli torturavano per intere settimane le gen­
give; digestioni a volte assai laboriose; palpitazione di cuore fino a sembrare che
una costa avesse ceduto all’impulso. Negli ultimi quindici anni, febbri intermit­
tenti con eruzioni cutanee; poi sull’osso sacro un’escrescenza di carne viva, grossa
come una noce, immaginiamoci con quanta sua pena sedendo o posando in letto.
Di questa tribolazione, per motivi facili a intendersi, non disse mai nulla a nessuno,
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neppure al medico, che con un piccolo taglio vi avrebbe tosto rimediato; come
difatti vi rimediò durante l ’ultima malattia, essendosene accorto e volendogli ren­
dere meno penoso il decubito. Ai familiari, che notavano un cotal suo disagio a
star seduto, si contentava di dire: — Veramente sto meglio in piedi o passeggiando.
M i dà fastidio il sedermi. — U n’altra di queste croci, della quale trapelò qualche
vaga notizia senza che mai se ne conoscesse tutta l ’entità, fu rilevata dopo la sua
morte. La portava dal 1845, allorché, come già dissi, scoppiata al Cottolengo 1 epi­
demia petecchiale, Don Bosco, che vi faceva frequenti visite di carità, contrasse
il morbo, conservandone poi sempre le tracce. Don Sala nel curarne piamente la
salma, vide cose da far pietà: una specie di erpete diffusa su tutta la cute, massime
nelle spalle. Più orribile cilicio non avrebbe potuto straziarlo! Nel quinquennio
estremo, indebolimento della spina dorsale.
Per quest’ultimo scorcio della sua vita abbiamo l ’autorità di due sanitari, che
concretarono con differenti immagini i risultati delle loro diagnosi. Il dottor Gio­
vanni Albertotti, suo medico curante, lasciò di lui una Biografia fisio'psico'patolo-
gica, nella quale scrive che “ dopo l ’anno 1880 circa, l ’organismo di Don Bosco
era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante ” . Tre incomodi speciali
egli riscontrò che gli si andarono accentuando dal 1884: la diminuzione del visus,
la nefrite e l ’indebolimento spinale. Per emorragie retiniche la sua forza visiva di­
minuì talmente, che ottenne il 14 ottobre di quell’anno dalla Sacra Penitenzieria
l ’indulto di poter celebrare nei giorni festivi e di rito doppio la messa della Beata
Vergine e negli altri giorni la Messa dei defunti, poiché le sapeva a memoria.
I disturbi renali crebbero a segno da causargli verso la fine del 1887 enorme albu-
minuria. E l ’indebolimento spinale iniziatosi, pare, nel 1871, progredì sensibilmente
dal 1884 in poi, finché lo fece andare curvo e portando le braccia al dorso per
equilibrarsi.
L’altro medico era il professor Combai dell’Università di Montpellier. Lo
chiamò a visitarlo Don Paolo Albera nel marzo del 1884, mentre il Santo si tro­
vava a Marsiglia. Dopo minuzioso esame, il rinomato clinico formulò il suo giudizio
nei termini seguenti: Il suo organismo è un abito logoro. Per conservare que­
st’abito ancora un po’ di tempo l ’unico mezzo sarebbe di riporlo in guardaroba .
Volle dire che per Don Bosco la medicina delle medicine doveva essere l ’assoluto
riposo. I lettori sanno in che modo egli si sia assoggettato a questa cura.
Era naturale che l ’affievolirsi delle forze gli facesse riguardare sin d allora come
non più tanto lontana la sua fine; perciò egli precorreva col pensiero a quello che
sarebbe accaduto dopo la sua dipartita. Ecco perchè durante il mese di settembre
del 1884 andò affidando di tratto in tratto alla carta quanto parevagli dover tornare
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47.7 Page 467

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utile ai suoi, quand’egli non fosse più. Ne venne fuori così una specie di testa­
mento spirituale che conteneva norme precise per molte eventualità, intercalato
qua e là da lettere italiane e francesi, con obbligo al suo successore di trascriverle
e spedirle a determinate persone. Anche il Papa cominciava a preoccuparsi delle
sorti che sarebbero toccate alla Società salesiana, venendole a mancare il fonda­
tore; quindi per mezzo del cardinale Alimonda lo invitò a designare il soggetto
da lui creduto idoneo a prendere il titolo di suo Vicario con futura successione.
Egli propose Don Rua, perchè anche in ordine di tempo era uno dei primi della
Società, perchè da molti anni esercitava già in gran parte tale ufficio, e per,chè la
sua nomina avrebbe incontrato il gradimento universale. Leone X III approvò,
sicché Don Rua con piena soddisfazione di tutti assunse la nuova carica.
Le notizie della sua malferma salute, passando di bocca in bocca, si erano tal­
mente esagerate, che tra il febbraio e il marzo del 1885 i giornali spacciarono che
egli fosse morto; ma era tanto poco morto che, passando sopra alle proteste dei
medici, stava per intraprendere il tredicesimo e penultimo suo viaggio in Francia.
Dava gran pena senza dubbio il vederlo camminare facendo arco della persona,
sicché senza appoggio sarebbe caduto. Per questo aveva sempre al fianco Don Vi-
glietti, che, aitante insieme e delicato, poteva dirsi davvero il bastone della sua vec­
chiaia. In tale stato che lo rendeva continuamente bisognoso dell’aiuto altrui, edi­
ficava al sommo la sua maniera di fare; poiché si comportava con la docilità di
un bambino o meglio come perfetto figlio d ’obbedienza, lasciandosi condurre do­
vunque si volesse senza manifestare preferenze o desideri. In certi momenti sof­
friva pensando al gran lavoro degli anni passati, mentre ormai non gli bastavano
più nè le forze nè la vista per fare la ventesima parte. Talvolta malinconicamente
ricordava come un tempo scrivesse perfino cento e più lettere al giorno. Non sce­
mava tuttavia la sua attività mentale, benché anche questa lo affaticasse non poco.
Nè lieve occupazione era il presiedere alle adunanze capitolari, in cui si trattavano
gli affari della Società e a cui prendeva parte attiva.
Gli acciacchi della vecchiaia, aggravati dai lunghi strapazzi, se gli causavano sof­
ferenze, non gli toglievano però la sua gioviale serenità; quindi accoglieva sempre
amabilmente le innumerevoli persone che dall’Italia e dall’estero accorrevano a
lui per riceverne conforto nelle pene, consiglio nei dubbi, soccorso di preghiere
nelle infermità. Inoltre la dignità del portamento, la veneranda compostezza del
volto e soprattutto la penetrante vivezza dello sguardo non lo abbandonarono mai.
Fino all’estremo della vita in quel corpo logoro e sfinito si vedeva che albergava
un’anima presente a sè e più gagliarda di ogni fralezza. Nonostante poi i carismi
soprannaturali che lo accompagnavano, non lasciava di paventare i giudizi di Dio;
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onde, quanto più si avvicinava al termine, tanto più si raccomandava alle preghiere
altrui, perchè potesse salvare l ’anima sua. Una volta nella casa di S. Benigno un
signore, alle cui orazioni si era raccomandato, credette di dovergli risponde che Don
Bosco non ne aveva bisogno. Allora egli si fece serio, due lacrime gli spuntarono
sugli occhi e disse con accento di intima convinzione: — Ne ho molto bisogno!
I
figli vicini, che doloranti e impotenti assistevano allo sfacelo del suo orga­
nismo, comunicavano ai lontani le loro trepidazioni. Così Don Lazzero il 10 gen­
naio 1886 scriveva al Vicario Apostolico della Patagonia: “ Don Bosco si lagna
che non può più occupare la sua testa; per poco che faccia, si sente subito un forte
mal di capo. Pazienza che non si occupi; purché esista, o in piedi o seduto, poco
importa: per noi basta, per noi è tutto ” . E Don Rua in una circolare del 27 infor­
mava: “ La sanità del nostro caro Padre, grazie a Dio, non peggiora, ma purtroppo
non vi è miglioramento considerevole; le gambe ricusano sempre di portarlo, la
vista è sempre debole, lo stomaco ognora molto stanco. Egli tuttavia ancora con­
fessa e dà udienza quando può, e non sa riposarsi mai
Quanto al confessare, non potendo più scendere come prima nella chiesa di
Maria Ausiliatrice, ascoltava in camera le confessioni dei Salesiani e quelle degl1
alunni della quarta e quinta ginnasiale. Questi inoltre li convocava di quando in
quando per dir loro qualche buona parola sulla scelta dello stato. In una di tali
adunanze, che fu la sera del 3 gennaio 1886, essi videro con i loro occhi una delle
solite moltiplicazioni. Una signora aveva consegnato ai segretari un bel sacchetto
di nocciuole, perchè le regalassero ai giovani. Quella sera Don Bosco, fattesele
portare, prese a distribuirle, ma con tanta larghezza, che sarebbero finite ben presto,
senza contentare che una minima parte dei presenti. Avvertito dal segretario che
bisognava darne poche a ciascuno: — Lascia fare a me — gli rispose. Anche uno
dei giovani che reggevano il sacchetto, gli fece la medesima osservazione: — Tu
taci, gli disse. Hai paura di restar senza? — A quel punto i giovani cominciarono
a notare che, dentro, il livello non si abbassava mai: sembrava che una mano in­
visibile ve ne rimettesse tante quante ne uscivano. Poi, come tutti furono serviti,
ed erano sessantaquattro, osservarono che il sacchetto ne conteneva precisamente
la quantità di prima. Allora, manifestando il loro stupore, gli domandarono con
l ’abituale confidenza, in che modo avesse fatto una cosa simile. — Oh io non lo
so, rispose con tutta semplicità sorridendo. Ma a voi che siete miei amici, posso
fare delle confidenze. Vi conterò dunque ciò che accadde nell’Oratorio tanti anni
fa. — Narrò quindi con eguale semplicità la moltiplicazione delle castagne e delle
ostie descritta nei primi capi di questo libro.
Anche per la celebrazione della Messa bisognò provvedere stabilmente nelle
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vicinanze della sua abitazione. Perciò nel 1885 la camera attigua alla piccola sala
d ’aspetto venne trasformata in cappella con il suo altare e tutto l ’occorrente. L’Ar­
civescovo la benedisse nel giorno di San Francesco di Sales; ivi Don Bosco ce­
lebrò fino a quando si pose a letto per non più rialzarsi.
In quella festa di San Francesco non tenne più la conferenza ai Cooperatori;
ma, assegnatone il tema a Don Bonetti, volle scendere ad ascoltarlo. Diede però la
benedizione. Don Lazzero scrisse a monsignor Cagliero il 3 febbraio: “ Il veder Don
Bosco all’altare è cosa che rallegra tutti, ma d ’altra parte a tutti fa compassione il
vederlo stentare tanto nel montare e discendere i gradini; egli però lo fa volentieri ” .
Eppure nessuno avrebbe potuto immaginare che in tali condizioni egli medi­
tasse il viaggio di Spagna. Risoluto di appagare questo suo desiderio, sentiva che
bisognava far presto. Quando partì, tranquillò i suoi figli dicendo che avrebbe pro­
vato prima la sua resistenza col percorrere bel bello la riviera ligure e la costa fran­
cese e che, se fosse impossibile continuare, sarebbe tornato indietro. Ma non
ostante tutti i timori, non si arrestò a mezza via. Alludendo a questo viaggio, Don
Lazzero in una lettera del 28 marzo a monsignor Cagliero scrisse: “ Se ciò sarà,
si potrà con tutta verità chiamare un miracolo, giacché, umanamente parlando,
considerato lo stato fisico di Don Bosco, sarebbe cosa da neppur sognare Tut­
tavia conchiudeva: È l ’uomo della Provvidenza e tanto basta
Ritornò per la festa di Maria Ausiliatrice. Durante la conferenza della vigilia
ai Cooperatori, se ne stette nuovamente nel presbiterio ad ascoltare. Aveva un at­
teggiamento composto e accasciato che commoveva quanti lo miravano. Dopo nel
cortile i Cooperatori lo attorniarono in gran numero e con grande affetto. — Come
è invecchiato! —■esclamavano. Don Viglietti poco dopo rilevava nel suo diario:
È stanco, è senza fiato, è sfinito che cade; eppure vuole contentare tutti, parlare
con tutti, chiedere a tutti notizie
Sopraggiunta l ’estate, il caldo lo sfibrava e disturbi intestinali lo molestavano
oltremodo. Una settimana nella più tollerabile temperatura di Valsalice dal 7 al
15 luglio gli fece bene. Interruppe tuttavia due volte quel soggiorno per interve­
nire nell’Oratorio a due convegni. Tutti gli anni, dopo la sua festa del 24 giugno,
costumavano adunarsi intorno a lui prima gli ex-allievi laici e poi quelli ecclesia­
stici. Erano due festicciuole di famiglia, nelle quali i non più giovani figli trascor­
revano liete ore col vecchio padre. Al pranzo egli prese, come sempre, la parola,
mescolando ai ricordi e ai consigli la nota mesta della sua prossima fine.
Compiuta questa specie di doppio rito, si recò a Pinerolo, perchè i medici gli ave­
vano prescritto l ’aria di montagna. Quel Vescovo monsignor Chiesa, a lui affeziona­
tissimo, mise a sua disposizione la propria villa. Giudicando anche solo dalle molte
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lettere scritte di lassù, si vede che vi fu un tal quale rifiorire della sua salute. Ne
scese il 13 agosto per assistere alla premiazione dei giovani, solita a farsi nel dì del-
l ’Assunta. Durante il trattenimento accadde un bel colpo di scena: comparve all’im­
provviso Don Lasagna, reduce dall’Uruguay. Si portò egli difilato a Don Bosco, che
fra la commozione degli astanti abbracciò con filiale affetto; poi gli si assise accanto.
Il vantaggio procuratogli dalla villeggiatura lo spendeva occupandosi di cose
ordinarie e straordinarie. Fra queste ultime è da mettere il quarto Capitolo gene­
rale della Società. I Capitoli generali si tenevano ogni tre anni, svolgendosi in nu­
merose sedute, il presiedere alle quali importava per Don Bosco non leggera fa­
tica; poiché nelle discussioni si aspettava sempre da lui la soluzione di difficoltà
e la parola definitiva sulle vie da seguirsi. Quella volta poi il venerato Maestro,
vicino a lasciare gli amati discepoli, voleva profittare dell’occasione per riassumere
i suoi insegnamenti e tutta la sua lunga esperienza.
Era chiuso da tre giorni il Capitolo, quando l ’i l settembre partì per Milano.
Quanto non gli si disse su l ’impossibilità o l ’inopportunità di quel viaggio! Ma egli
volle esaudire a ogni costo i voti dei Cooperatori lombardi. Il gran cuore dei Mi­
lanesi gli preparò e gli fece accoglienze indimenticabili. L ’Arcivescovo Nazari di
Calabiana, che durante il suo episcopato casalese l ’aveva in tutte le congiunture
sommamente protetto e favorito, gli offerse cordiale ospitalità nel proprio palazzo.
Nell’atrio lo incontrarono i sacerdoti della curia, che gli fecero scorta d ’onore
fino a Sua Eccellenza. Salì lo scalone molto a stento, sostenuto e quasi portato da
vigorose braccia; ma tutti commentavano la vivacità de’ suoi occhi e la sua lucidità
di mente. Il venerando prelato pressoché ottuagenario, mossogli incontro, se lo
strinse fra le braccia. Don Bosco gli disse che prima di morire aveva voluto rive­
derlo ancora una volta per ringraziarlo e riceverne la benedizione. Al termine della
giornata Monsignore con atto devotissimo e improvviso gli s’inginocchiò davanti,
nè si alzò prima di essere da lui benedetto.
Piacque molto alla cittadinanza una conferenza missionaria di Don Lasagna
nella Chiesa delle Grazie con l ’intervento dell’Arcivescovo e di Don Bosco. In fine
il Santo, condiscendendo alle preghiere di autorevoli persone, anziché uscire per
la sagrestia, percorse la lunga navata del tempio. V ’impiegò non meno di un’ora,
rinnovandovisi le scene di Parigi e di Barcellona. Con bontà squisita anche l ’Ar­
civescovo lo prese sotto il braccio; fra coloro che gli aprivano il passo, si notava
l ’austera figura di Cesare Cantù, Cooperatore salesiano dal 1878.
Le udienze gli diedero molto da fare; ma ordinò segretamente a Don Viglietti
di disporre le cose in modo che fosse accelerato il ritorno all’Oratorio. Disturbi
funzionali gli rendevano da qualche tempo assai fastidioso il dimorare fuori
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di casa. Si fermò dunque a Milano solamente due giorni; eppure ne venne
via affranto.
Sebbene i tempi d ’allora non avessero consentito alle autorità civili e politiche
di secondare il sentimento popolare col rendersi presenti in qualche maniera a pub­
bliche manifestazioni in suo onore, tuttavia si sa che guardavano di buon occhio
quel movimento di folla, affatto insolito intorno a un prete. La correttezza abituale
del Santo verso i poteri dello Stato era generalmente apprezzata in alto luogo. Se
n’ebbe subito una prova pochi giorni dopo. Festeggiandosi al Nichelino presso
Torino la distribuzione dei premi nelle scuole delle Figlie di Maria Ausiliatrice,
il conte di Robilant, Ministro degli Esteri, incontratovi Don Tamietti che lo salutò
in nome di Don Bosco, non solo gradì l ’atto cortese, ma lo pregò di dirgli che si
servisse di lui, perchè egli si teneva tutto a’ suoi ordini.
Verso la fine del mese, giornali francesi annunciarono di bel nuovo la morte
di Don Bosco e giornali italiani parlavano di una sua grave malattia. Quasi a smen­
tire tali notizie, il 29 decise di recarsi a S. Benigno per ricevervi le professioni re­
ligiose degli ascritti.
Quel mite autunno gli permetteva uscite pomeridiane in vettura. Giungendo
all’aperta campagna, discendeva e appoggiato al braccio di Don Viglietti tentava di
fare un po’ di moto, discorrendo piacevolmente di molte cose. Era questo per lui
un vero riposo, di cui sperimentava il beneficio. Rientrato poi nella sua camera,
come cessava la luce naturale, mal soffrendo i suoi occhi il lume della lucerna, tras­
correva le ultime ore della giornata seduto sul suo povero sofà con la corona in
mano e dando udienza a qualcuno della casa, raramente a estranei. Don Cerruti
così ce lo rappresenta in una sua deposizione: “ Lo trovavamo sempre come uno
che attende alla più profonda meditazione, pur senza darne segno esteriore, chè
il suo volto era sempre lieto, sereno e tranquillo, com’erano di pace, di carità e
di fede, le parole che gli uscivano di bocca ” .
Una di quelle sere al veterano de’ suoi segretari, che, recatagli la corrispon­
denza, erasi fermato un tantino in religioso silenzio presso di lui, disse tentennando
il capo: Iam delibor, iam delibor. Il che era come dire: Siamo agli sgoccioli. Poi
continuò commosso la citazione dell’Apostolo: Tempus resolutionis meae instai, cur-
sum consummavi: la mia ultima ora è imminente, la mia carriera è bell’e compiuta.
Il segretario allora completò il testo di S. Paolo: Bonum certamen certavi, fidem ser­
vavi; in reliquo reposita est mihi corona iustitiae: ho combattuto il buon combatti­
mento, ho mantenuto la fede; nel resto mi sta serbata la giusta corona. Ma il Servo
di Dio cambiò discorso.
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C A P O LI
PLACIDO TRAMONTO
T ’inverno, grave per tutti i vecchi, aggiungeva in Don Bosco incomodi a in-
, . COm° dÌ’ forzand° l° a vivere tappato nel suo modesto appartamento, co­
sicché i giovani non lo vedevano più, all’infuori dei pochi fortunati che erano am­
messi a confessarsi da lui. Il 22 gennaio 1887 li confessò per oltre due ore; vi Gi­
rono al solito rivelazioni di coscienze. Continuava intanto il viavai dei forestieri,
sebbene un po’ meno di prima, perchè i segretari avevano l ’ordine di limitare il
numero e la durata delle udienze. Venne fra i tanti Don Guanella. Nel 1878, spirato
il tempo dei voti triennali, erasi allontanato dall’Oratorio per andar a fondare
la Congregazione dei Servi della Carità, nè aveva ardito più comparirvi; solo il
22 gennaio di quest’anno si fece animo e visitò Don Bosco. Dopo la morte del Santo,
scrivendo di tale visita, diceva: “ Don Bosco mi parve trasformato. Nel diafano
volto mi sembrava scorgere un raggio della divina grazia. Benediva di gran cuore
a me genuflesso a’ suoi piedi e alle minime opere mie ” .
Nella quiete della sua stanzetta dedicava parte del tempo al disbrigo della
corrispondenza. Gli arrivavano quotidianamente in quantità incredibile lettere da
ogni angolo della terra. Terminatone lo spoglio, si faceva leggere da persone fidate
quelle che avevano carattere personale; poi non potendo più rispondere sempre
egli stesso, incaricava altri delle risposte.
Conversazioni propriamente dette, raramente era in grado di tenerne, ma si
compiaceva assai a sentir parlare delle Missioni salesiane, e gioiva al sommo quando
gli si leggevano relazioni inviate dai suoi cari Missionari. A tavola rompeva di rado
il silenzio, ma sembrava in continua meditazione. Un giorno, mescendo acqua con
vino, mormorò: — Anche Gesù in croce volle che il suo sangue fosse mescolato
con acqua.
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Benché il gran freddo sconsigliasse le uscite, andò fuori parecchie volte nel
mese di febbraio. Il 3 si recò a San Giovanni Evangelista per la conferenza dei
Cooperatori. Un corrispondente della Difesa di Venezia diceva: Si sperava che
il sant’uomo parlasse, ma gli anni, le fatiche, le prove durissime hanno stremata
quella fibra gagliarda. Don Bosco non si regge più sulle gambe, soffre d ’oppres­
sione di petto e sente il peso d ’una vita meravigliosamente operosa ’’. Nei giorni
seguenti andò pure a visitare due benefattrici gravemente inferme.
L ’ultimo giorno di carnevale assistette dal suo ballatoio ai chiassosi diverti­
menti, che secondo il consueto si facevano dai giovani nel cortile, e prima di riti­
rarsi lanciò manate di nocciuole, che i ragazzi si buttavano a raccogliere. Più tardi
agli alunni della quarta ginnasiale (in quell’anno scolastico non c era più la quinta)
distribuì medaglie, raccomandando loro di tenersele care, perchè sarebbero così
preservati da qualsiasi disastro. E un disastro accadde subito la mattina appresso,
26 febbraio: un terremoto, che dalla Liguria si ripercosse fortemente anche nel
Piemonte. Il centro della massima attività era stato nel golfo di Genova, lungo una
linea che da Savona si protendeva a Mentone. Le vittime ascesero a parecchie
migliaia. Dappertutto case diroccate o pericolanti, alcune chiese crollate, in tutta
la regione immensi disastri. Don Bosco fece scrivere ai direttori delle case sale­
siane liguri che si prestassero all’opera di soccorso con ogni possibile mezzo, ma,
teriale, personale e morale. Ai Vescovi di Savona, Albenga e Ventimiglia si prof-
ferse per ricoverare gratuitamente da ognuna delle tre diocesi quattro giovanetti
rimasti abbandonati in causa del terremoto.
Parve grazia singolare della Madonna che i Salesiani e i loro alunni fossero
andati esenti da disgrazie personali, ma i danni materiali furono rilevanti. In Pie­
monte gli edifici soffersero lesioni facilmente riparabili; nella Liguria invece alcuni
collegi restarono molto malconci, massime quello femminile di Vallecrosia che
bisognò sgombrare del tutto. Don Bosco diramò tosto due circolari. Con una in­
giunse ai Salesiani di destinare in ogni casa un giorno per suffragare le vittime e
per ringraziare Iddio dell’incolumità concessa a tutti gli abitatori delle case sale­
siane; inoltre proibiva di mettere mano durante un anno a fabbriche, a lavori, ad
acquisti non richiesti dalla necessità e raccomandava di sopportare volentieri i sa­
crifìci imposti dalle circostanze. Con l ’altra circolare informava i Cooperatori dei
danni patiti e delle conseguenti spese, domandando loro umilmente la carità. Sol­
lecitò inoltre con lettere personali la generosità dei più insigni benefattori.
Con tante preoccupazioni non è da stupire che l ’addolcirsi della stagione, an­
ziché lenirgli le sofferenze, sembrasse da prima acuirgliele. La sera del 5 aprile stette
assai male. Rimase affatto senza parola, respirava affannosamente, non poteva muo­
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vere le membra. La mattina dopo non potè celebrare. Alzatosi tardi, prese un po’
di ristoro, ma non lo ritenne. Verso mezzodì ripigliò alquanto le forze. Sebbene
così malandato in salute, si accingeva proprio allora ai nuovi disagi del viaggio a
Roma per la consacrazione della chiesa del Sacro Cuore. Si deve forse ritenere che
egli avesse ragione di confidare in uno speciale aiuto dalla Provvidenza. Il fatto è
che a Sampierdarena non solo non si mostrava stanco delle tre ore e mezzo di
treno, ma appariva rinvigorito. Fu una vera gioia per tutti.
Il giorno dopo le cose cambiarono alquanto, perchè la celebrazione della Messa
gli costò molta fatica; tuttavia diede udienza alle persone che riempivano la casa.
Nel pomeriggio si recò a Genova. L’eloquente monsignor Omodei-Zorini doveva
tenere la conferenza ai Cooperatori nella chiesa di S. Siro. Gran moltitudine di
gente stava affollata sul suo passaggio. Il vasto tempio divenne angusto a contenere
quanti fecero a gara per conquistarvi un posto. — È un santo — si udiva ripetere
da ogni parte.
Prolungò ancora di un giorno e mezzo la sua dimora a Sampierdarena, asse-
diato sempre da visitatori. Due volte la moltitudine impaziente irruppe nella sua
camera, gettandosi ivi in ginocchio. Scale e corridoi erano pieni di gente. L ’entu­
siasmo popolare veniva alimentato da voci che riferivano straordinarie grazie tem­
porali e spirituali; ma di una sua curiosa predizione nessuno allora ebbe sentore.
Disse a una signora: — Voi, quando sarete vecchia, verrete ad abitare qui nella
casa delle Suore, dove avrete per compagna una capra... Non mica di quelle che
mangiano l ’erba, ma una capra con due gambe... Vi farete compagnia anche in
morte. — La signora, cognata del sacerdote salesiano Don Borio, allorché in vec­
chiaia si vide sola al mondo, si ritirò colà presso le Figlie di Maria Ausiliatrice,
con le quali visse dieci anni. Una suor Olimpia era la sua compagna prediletta,
nè, chiamandola sempre Suor Olimpia e standosene abitualmente appartata, sentì
mai il bisogno di conoscere che cognome avesse. Suora e signora ammalarono
entrambe ai primi giorni di gennaio del 1936, entrambe peggiorarono in un batter
d ’occhio, si spensero entrambe a sole quattro ore di distanza nel dì dell’Epifania,
6 del mese. Orbene Suor Olimpia aveva cognome Capra.
Lasciò Sampierdarena verso il tocco del 23, senza che per l ’opprimente stan­
chezza potesse confortare di qualche alimento lo stomaco. Attraversò il cortile pieno
di gente che s’inginocchiò con i giovani per ricevere la sua benedizione; altri molti
lo attendevano alla ferrovia. Era diretto alla Spezia. Qui, benché ancora digiuno,
si prestò con l ’inalterabile sua amabilità alle cortesi manifestazioni di cittadini ve­
nutigli incontro e poi alle festose accoglienze degli alunni. Sacerdoti e laici, e fra
questi parecchi ufficiali della regia Marina, si succedettero poi a visitarlo. Al pranzo
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dato in casa parteciparono autorità ecclesiastiche, civili e militari. Fu veramente
una bella giornata, scrive Don Viglietti nel suo diario. Erano tutti entusiasmati di
lui, ne parlavano con venerazione e amore e partirono tardi a malincuore, profe-
rendoglisi um ili servi in tutto ciò che fossero capaci
La sera del 25 partì per Firenze, dove si fermò tre giorni. Rimessosi in treno,
interruppe il viaggio ad Arezzo. Alla stazione accadde l ’episodio narrato nel capo
diciassettesimo. In città quel buon Vescovo monsignor Giusti, che lo aspettava,
lo circondò delle più delicate attenzioni. A qualcuno meravigliato che rendesse
tanti onori a chi non era nè Cardinale nè Vescovo, ma semplice prete, rispose:
— È più che un Vescovo, più che un Cardinale: è un Santo.
Trascorse ad Arezzo in perfetta quiete tutto il 29 aprile; la mattina del 30
proseguì per Roma. Si era temuto che questa volta a Roma egli se ne dovesse restare
tutto il tempo fra quattro pareti; invece Don Viglietti scriveva all’Oratorio: Chi
sta meglio di noi tutti è Don Bosco, che è in faccende per i suoi figli. Scrive lettere,
dà udienze ed è pieno di vita Ottimismo esagerato per tranquillare gli animi; ma in
realtà egli potè subito nei primi giorni ricevere molte visite, come dicevamo altrove.
Consacrata che fu la chiesa, manifestò una certa fretta di partire. Lasciò per la
ventesima ed ultima volta l ’eterna città tre giorni dopo. La necessità di spezzare i
seicento sessantasette chilometri di ferrovia che separano Roma da Torino, con­
sigliò una fermata a Pisa presso l ’amorevolissimo Arcivescovo Capponi, il quale
nulla omise per rinfrancarlo. Finalmente, accolto con immenso giubilo, rientrava
nel suo Oratorio il sesto giorno della novena di Maria Ausiliatrice.
Non mai le altre volte era apparsa così piccola la chiesa nella festa della
Patrona. Fu veramente straordinaria la ressa dei cittadini e dei forestieri, venuti
questi ultimi anche da luoghi molto lontani. Il fervore religioso andò crescendo di
mano in mano che si udivano o si vedevano grazie prodigiose concesse dalla Ma­
donna, con o senza la benedizione di Don Bosco. D i simili favori i pellegrini di­
vulgarono la notizia in ogni parte, dilatando così la divozione popolare verso
la Madonna di Don Bosco.
Dalla festa di Maria Ausiliatrice a quella di S. Giovanni egli non ebbe altra no­
tevole variazione di vita che un suo trasferimento a Valsalice per un paio di setti­
mane. Quanto alla salute, il fatto più preoccupante era la cresciuta enfiagione delle
gambe, che gli rendeva tormentoso il muoversi. Mentre scendeva le scale per andare
alla carrozza, si fermò alla porta dell’infermeria. Vi giaceva, tocco nei polmoni, il
coadiutore Carlo Fontana. Sentendo che era piuttosto grave, Don Bosco aveva
promesso di andarlo a visitare, ma non vi era ancora andato. Ivi dunque senza en­
trare gli fece dire: — Don Bosco non è venuto per non chiuderti gli occhi. Ti
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aspetta a Valsalice. Vieni poi a trovarlo. — Infatti l ’infermo guarì così presto, che
potè ancora visitarlo lassù, e guarì così bene, che potè ancora campare fino al 1912.
A Valsalice Don Bosco sperimentò subito un sensibile refrigerio, come lo di­
mostrava l ’allegria delle sue conversazioni. Godeva specialmente nel ricordo delle
antiche vicende oratoriane. Vedendo che in questo egli pigliava tanto gusto, i più
anziani gareggiavano a rammentarne chi una chi un’altra vicenda.
Da Valsalice venne via la sera del 23 giugno per essere presente alle due acca­
demie dell’onomastico. In entrambi i trattenimenti, canti e suoni, versi e prose con
doni svariati fecero palese al folto pubblico l ’affetto dei figli verso il loro padre.
Incombeva però su tutti il triste presentimento che quella fosse l ’ultima festa di
Don Bosco.
L’afa di Torino gli toglieva il respiro, aggiungendo sofferenze a sofferenze; onde
medici e superiori lo persuasero a partire per Lanzo. Vi andò il 4 luglio. Sorge quel
collegio parte sul fianco, parte in vetta a una collina interamente sgombra di altri
edifici. U n ’alta ripa erbosa a levante è coronata sulla sommità da una comoda strada,
che va a girare in riva alla Stura. Ogni sera Don Bosco vi faceva la sua passeggiata,
ma assiso su d ’una sedia con ruote a mo’ di carrozzella; gliela sospingevano per lo
più Don Viglietti o altri della casa, talora anche visitatori di confidenza. Quel­
l ’aria fresca e ossigenata gli ridonava la vita.
Si fermò colà fino al 19 agosto, nel qual giorno volle essere a Valsalice, perchè
vi si cominciavano gli esercizi spirituali. Terminati i vari corsi, la sua salute tornò
ad andar male. Lo assaliva spesso mal di capo con febbre; in una settimana ben
tre volte dovette privarsi del conforto di celebrare la Messa. Eppure, nota il dia_
rista, “ è sempre allegro, lavora, scrive, dà udienza e mentre abbisognerebbe egli
di consolazione, va confortando gli altri ” .
Ridiscese all’Oratorio la sera del 2 ottobre. Passando dinanzi all’educandato
delle Dame del Sacro Cuore, fece fermare la carrozza e visitò ancora una volta quelle
religiose. Nell’Oratorio i ragazzi lo aspettavano. U n’onda di entusiasmo lo salutò
al suo entrare; quando poi, fatte le scale, si affacciò dal ballatoio, ecco un coro
generale intonare l ’inno antico echeggiato la prima volta nell’onomastico del 1849:
Andiamo, compagni,
Don Bosco ci aspetta,
la gioia perfetta
Si desta nel cuor.
Erano centinaia di giovani che tenevano, cantando, gli occhi fissi sopra di lui,
mentr’egli ascoltando moveva lentamente il passo verso la sua cameretta.
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48.8 Page 478

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L’ottobre, il novembre e due terzi del dicembre li passò fuori di letto, occu­
pandosi quanto poteva. Il 13 ottobre giunse a Torino dal Nord della Francia un
pellegrinaggio di Associazioni Operaie Cattoliche, guidato dal celebre Leone Harmel
e diretto a Roma per il giubileo sacerdotale del Papa. Si componeva di 953 persone
con una cinquantina di preti. Don Bosco, accompagnato da Don Rua, andò a sa­
lutarli presso il Ristorante del Parco nel Valentino. L’Harmel e l ’assistente eccle­
siastico gli si posero ai fianchi, aiutandolo a camminare. Don Bosco aveva fatto
la personale conoscenza col primo alla stazione di Reims nel 1883, recandosi da
Parigi a Lilla. Il bon pere degli operai era andato là da Val des Bois appositamente
per incontrare il Santo fra un treno e l ’altro. I pellegrini circondarono Don Bosco
e tutti insieme ricevettero la sua benedizione. Egli avrebbe voluto anche dire qual­
che cosa, ma, non avendo voce per farsi udire più in là delle prime file, invitò
Don Rua a parlare in suo nome. Dopo sfilarono tutti davanti a lui seduto, che
dava a ciascuno una medaglia e talora diceva anche qualche parolina. I più gli de­
ponevano nella mano qualche moneta, ch’egli consegnava a Don Rua. Fu una di­
mostrazione molto edificante di pietà e di fede.
Per il 20 nella casa di Foglizzo si preparava la cerimonia della vestizione di 94
ascritti. Quello che nessuno avrebbe osato sperare, Don Bosco lo fece con animo
superiore a tutti i suoi incomodi fisici, andando a compiere quel rito. Il mattino
seguente la gratitudine lo portò con suo grave disagio a passare da S. Benigno per
rivedere un ’ultima volta l ’ultranovantenne parroco Don Benone, che gli aveva
sempre voluto molto bene e l ’aveva in varie circostanze grandemente aiutato.
Coloro che più l ’avvicinavano, non potevano nascondere l ’interna afflizione
da essi provata nell’osservare il suo stato. Egli accorgendosene si studiava di con­
fortarli e diceva che la Società salesiana non avrebbe sofferto danno per la sua
morte; che anzi dopo le sarebbe venuto straordinario incremento. Inoltre, quando
non prendeva le sue refezioni con gli altri, si faceva accompagnare egualmente
nel refettorio e scherzando cercava di tenerli allegri.
Ogni anno la sera d ’Ognissanti aveva recitato in chiesa con i giovani il rosario
intero per i defunti; ma allora soddisfece alla pia usanza recitandolo con i segretari
e con alcuni coadiutori nella sua cappella. Tuttavia poche ore dopo usci a passeggio
in carrozza con Don Viglietti. Il 15 andò a visitare il figlio ammalato del dottor
Vignolo, uno dei medici dell’Oratorio.
Alle altre pene se ne aggiunse in dicembre una nuova, il timore di dover presto
cessare dalla celebrazione della Messa. Soffriva visibilmente nel celebrare e proferiva
le parole con isforzo e con un filo di voce, interrotto spesso da soverchiante com­
mozione. Non si voltava più nel dire il Dominus vobiscum. Durante la comunione dei
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fedeli che assistevano, si sedeva, mentre un altro distribuiva l ’ostia santa. Da un
altro pure venivano dette le tre Ave M aria finali, accompagnando egli con la mente.
Quello che tanto temeva, stava divenendo realtà. Il 2 dicembre dopo una
notte assai travagliata non si arrischiò a celebrare, ma ascoltò la Messa del segre­
tario e fece la comunione. A ll’Ecce Agnus Dei ruppe in lacrime. Celebrò ancora
il 4 e il 6; ritentò la domenica 11, ma arrivò alla fine che non ne poteva più.
Subito dopo la partenza dei Salesiani per la Repubblica dell’Equatore, la Provvi­
denza gli aveva procurato una grande consolazione con l ’arrivo di monsignor Ca-
gliero. Le notizie sempre più allarmanti sulla salute del padre gli avevano fatto com­
prendere che la catastrofe non sarebbe stata lontana; accorse dunque per raccoglierne
con l ’ultimo respiro l ’estrema benedizione. Dopo tre anni, come lo rivide invecchiato!
Sedeva talora accanto a lui, narrandogli tante cose che lo consolavano. Visto che
ascoltava ancora le confessioni, ne approfittò egli stesso, temendo che all’improvviso
gli divenisse impossibile aprirgli ancora una volta il suo cuore. Depose nei processi:
“ M i diede allora tali consigli, che non li dimenticherò più, perchè erano pari alla sua
esperienza consumata, alla mia età e alla dignità della quale mi trovavo investito ”
Una simpatica festicciuola era stata sempre la piccola vendemmia del pergolato
ai finestroni della loggetta. Quell’anno l ’aveva differita, perchè vi partecipasse mon­
signor Cagliero. Egli, seduto, si dilettava a vedere i suoi figli con il Vescovo spic­
care i grappoli, ripulirli e mangiarne allegramente. Onoravano della loro presenza
quella ricreazione anche un altro Vescovo e un Provinciale dei Fratelli delle Scuole
Cristiane, accompagnato da un religioso del medesimo Istituto. Non derogò nem­
meno allora alla consuetudine di far parte della sua vendemmietta a famiglie
amiche, come si rileva da qualche lettera di ringraziamento. I destinatari solevano
ricevere quei doni come se fossero cose sacre.
Le gambe non lo reggevano più nemmeno per fare un passo; tuttavia,-deside-
rando assistere alla mensa comune, vi si faceva condurre nel seggiolone a ruote.
Gradiva di trovarvi benefattori e amici. Ancora il 18 dicembre fece invitare parecchi
signori, affinchè visitassero certe curiosità della Patagonia, portate per suo ordine
da monsignor Cagliero e destinate a onorare nell’Esposizione vaticana del 1888 il
giubileo di Leone XIII. Dopo il pranzo tenne circolo con gl’invitati, dando a ognuno
segni di particolare affetto.
Tutte le occupazioni che avevano formato la sua consuetudine di vita, erano ces­
sate a poco a poco una dopo l ’altra. Rimaneva quella delle udienze. Da quarant’anni
consacrava tutte le mattine a consigliare, a benedire, a consolare, a soccorrere, a
rallegrare quanti lo desideravano. Fu questa senza dubbio una delle sue maggiori
fatiche. La serie infinita delle udienze si chiuse per sempre con quella della contessa
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Soranzo Mocenigo, venuta a chiedere consiglio sopra un delicato affare. Erano le
dodici e mezzo del giorno 20 dicembre.
Negli ultimi quattro giorni era uscito ancora due sere a passeggio in carrozza,
perchè così consigliavano i medici. La prima volta, il 16 dicembre, lo accompa­
gnava anche Don Rua. Fuori di città prese a recitare brani di Virgilio e di Dante,
mettendone in rilievo le bellezze della forma e il valore del contenuto. Don Rua
era di parere che dopo gli studi ginnasiali di Chieri egli non avesse più riletto un
verso di quei poeti. Al ritorno per il corso Vittorio, s’imbatterono nel cardinale
Alimonda, che passeggiava col segretario sotto i portici. Sua Eminenza si mosse
tosto verso Don Bosco, tendendo le braccia ed esclamando: —• Oh Don Giovanni,
Don Giovanni! — Giunto alla vettura, lo abbraccio e bacio con viva dimostrazione
di affetto. Che bella scena! Due venerandi vegliardi, uno porporato romano e l ’al­
tro semplice prete, che pubblicamente si effondevano la mutua affezione, e i pas­
santi, che s’arrestavano a contemplare edificati e inteneriti.
La seconda e ultima uscita fu nel pomeriggio del 20; ma allora si dovette por­
tarlo giù a braccia in seggiolone. Durante il passeggio i due che erano con lui, per­
chè egli non si stancasse a parlare, attaccarono conversazione fra loro, discorrendo
di varie cose. Essendo venuti a dire come per tutti nell’Oratorio fosse il più gran
regalo poter prestare qualche servizio a Don Bosco, egli che ascoltava, li interruppe
e disse a Don Viglietti: — Appena tornato a casa, ricordati di scrivere a nome
mio queste parole per tutti i Salesiani: “ I superiori salesiani abbiano sempre una
grande benevolenza verso i loro inferiori, e specialmente trattino bene e con carità
le persone di servizio ” . — Rientrato nell’Oratorio, fu nuovamente trasportato di
peso in camera. A quello dei due portatori che si affaticava di più per evitargli
scosse, disse: — Fa’ lista, sai; ti pagherò poi tutto in una volta.
Sull’imbrunire venne il dottore Albertotti, il quale lo trovò così grave, che
lo fece mettere a letto. A uno dei segretari, che gli domandava come realmente si
sentisse, rispose: —• Ora non mi resta che fare una buona conclusione. — Com’è
costume in simili casi, gli si osservò che mediante il riposo si sarebbe riavuto;
ma egli con la mano fe’ cenno di no, ripetendo: — Non resta che fare una buona
conclusione.
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CAPO LII
IL PRIMO PERIODO DELL’ULTIMA MALATTIA
D on Bosco tenne il letto quarantadue giorni. Il suo modo di sopportare le sof­
ferenze è così descritto nel processo ordinario dal coadiutore salesiano
Enria, che ogni notte vegliò nella camera di lui: “ La sua rassegnazione era grandis­
sima; metteva in pratica il suo motto Fare, patire, tacere, che mi ripeteva sovente
quando stava bene. Allora, non potendo più fare, pativa e taceva ” . Taceva natu­
ralmente del suo patire, chè della parola si servì sempre quanto potè a vario scopo
di bene.
Il primo periodo della malattia ebbe due fasi distinte. Dal 20 al 31 dicembre
s’andò di male in peggio; dal 1° al 20 gennaio fu un rifiorire di speranze. In quel
primo tempo i giovani si succedevano per gruppi ogni mezz’ora a pregare dinanzi
a Gesù Sacramentato. L ’infermo raccomandava ai Superiori: —• Dite a tutti i Sa­
lesiani che preghino, perchè io muoia in grazia di Dio. Non desidero altro.
Il 23 dicembre vi fu consulto medico fra il dottore curante Albertotti e i dot­
tori consulenti Fissore e Vignolo. Pur essendo sempre grave lo stato dell’infermo,
non riscontrarono per il momento nulla di allarmante. Il dottor Vignolo, che pos­
sedeva una singolare abilità in sollevare il morale de’ suoi clienti, volle provarne
la forza e gli disse di stringergli fortemente la mano. — Badi che le farò male, dot­
tore —'lo avvertì Don Bosco ridendo. Ma l ’altro insisteva: — Forte... forte! __
A un certo punto però, ritraendosi in fretta, esclamò: — Oh non pensi a morire!
Con tanta forza in corpo lei potrebbe ancora sfidarmi alla lotta.
Partiti i medici, ecco affacciarsi la maestosa figura del cardinale Alimonda,
che, appressatosi, lo abbracciò e baciò. Don Bosco si tolse il berrettino da notte
e disse: — Eminenza, mi raccomando alle sue preghiere, perchè possa salvare
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l ’anima mia. — Poi soggiunse: — Le raccomando la mia Congregazione. Ne sia
il protettore.
Il Cardinale, vedendolo lacrimante, gli faceva coraggio, gli parlava dell’uni­
formità alla volontà di Dio e gli ricordò quanto avesse lavorato per il Signore.
Quindi, accortosi che teneva il berrettino in mano, glielo ripose in capo. Don Bo­
sco gli disse commosso: — Ho fatto sempre quello che ho potuto. Sia di me se­
condo la santa volontà di Dio.
— Pochi, osservò allora il Cardinale, possono dire come lei al punto di morte.
— Tempi difficili, Eminenza, ho passato tempi difficili... Ma l ’autorità del
Papa... l ’autorità del Papa... L’ho detto qui a monsignor Cagliero che lo dica al
Santo Padre che i Salesiani sono per la difesa dell’autorità del Papa, dovunque la­
vorino, dovunque si trovino. Desidero che si dica al Santo Padre.
— Sì, caro Don Bosco, rispose monsignor Cagliero, ritto ai piedi del letto.
Stia tranquillo che farò la sua commissione al Santo Padre.
— Certo lei, Don Giovanni, riprese il Cardinale, non deve temere la morte_
Ha raccomandato tante volte agli altri di star preparati!
— Ce ne parlò tante volte! confermò Monsignore. Questo anzi era il suo
tema principale.
— L’ho detto agli altri, soggiunse umilmente Don Bosco, ed ora ho bisogno
che gli altri lo dicano a me.
Chiese quindi la benedizione al Cardinale, che gliela diede, e nel congedarsi
lo riabbracciò, baciandolo con profonda commozione.
Pochi istanti dopo entrò il suo confessore e condiscepolo Don Giacomelli.
Rimasero soli per alcuni minuti. Appresso, l ’infermo parlò del Viatico, espri­
mendo il suo desiderio in termini cosi risoluti, che nessuno ardì assumersi la re­
sponsabilità di procrastinare; perciò la mattina del 24 tutto era pronto. Il corteo
uscì dalla porta grande della chiesa ed entrato nell’Oratorio per il portone, attra­
versava il cortile cantando con voce sommessa. Don Bosco, appena sentì che si
veniva, si raccomandò ai sacerdoti vicini che lo aiutassero a ricevere Gesù. Al
comparire del Santissimo recato da monsignor Cagliero, gli si riempirono gli
occhi di lacrime. Rivestito della stola, aveva un aspetto angelico.
Da quel punto si produsse in lui un notevole miglioramento. Non più vomiti,
come prima, non più affanno; anzi dormì alcune ore, cosa che da parecchio non
aveva più fatto. Ma a tarda sera l ’agitazione lo riprese. Monsignore credette oppor­
tuno amministrargli l ’estrema unzione. Prima però Don Bosco volle che si do­
mandasse per lui la benedizione del Santo Padre. Ricevuto l ’ultimo sacramento,
non parlò più che di eternità, intercalando qualche buon consiglio. A Monsignore
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che doveva andar a celebrare pontificalmente la Messa di mezzanotte nella chiesa
di Maria Ausiliatrice, disse: — Domando una cosa sola al Signore, che possa sai-
vare la povera anima mia. D i’ a tutti i Salesiani che lavorino, lavorino con zelo.
Adoperatevi sempre con tutte le forze a salvare anime. — Quindi prese sonno.
Spuntò il Natale assai meno lieto del solito. L ’infermo ascoltò la Messa del-
1alba e ricevette la comunione, come faceva tutte le mattine. Un telegramma del
cardinale Rampolla, comunicando l ’implorata benedizione, diceva che il Papa pre­
gava per lui. Don Bosco ne fu assai consolato.
Il Cardinale, dovendosi recare prossimamente a Roma per il giubileo papale,
non ebbe cuore di allontanarsi da Torino senza rivederlo. I medici non permette­
vano visite; per questo, Sua Eminenza, venuto una prima volta, si limitò a chie­
dere notizie. Ma poi tornò e infranse la consegna. Appena scorse su quel viso gli
effetti del male, non potè frenare il pianto. Senza farlo parlare, lo abbracciò, lo
baciò due volte, lo benedisse e si ritirò.
Esigenze igieniche obbligavano a mutarlo quasi quotidianamente di letto. Egli
soffriva già molto, quando semplicemente gli si accomodavano i guanciali o gli si
tirava un po’ su la persona; s’immagini quanto lo facessero soffrire simili sposta­
menti! Copriva però le sofferenze con qualche piacevolezza.
Il suo bollettino sanitario compariva regolarmente in molti giornali italiani ed
esteri, talora accompagnato da articoli. I corrispondenti si mescolavano con la
folla, che in certe ore assediava la casa. Dai più remoti paesi s’annunciavano pre­
ghiere pubbliche e private; specialmente le comunità religiose facevano violenza
al Cielo per istrappare la grazia. Nelle famiglie dei Cooperatori si seguivano con
ansia le alternative del male.
Il servo di Dio pregava ogni tanto i medici che gli dicessero chiaramente la
verità e perchè parlassero, soggiungeva: — Sappiano che non temo nulla. Sono
tranquillo e disposto. — Del resto egli non s’illudeva punto. Don Albera, arri­
vato da Marsiglia, gli aveva detto: — È la terza volta che giunge alle porte dell’eter­
nità. Due volte ritornò indietro per le preghiere de’ suoi figli. Sarà così anche
questa volta. — Rispose: — Questa volta non ritorno più.
Sbigottimento, cordoglio, fiducia in Dio e nella Vergine Ausiliatrice erano i
tre sentimenti che si leggevano in lettere sempre più numerose, di mano in mano
che i giornali diffondevano la notizia del suo grave stato. Il Corriere Nazionale di
Torino nel numero del 28 scriveva: “ Non poche anime innocenti e di grande virtù
fanno voti così ardenti da offrire a Dio chi parte e chi tutta la propria vita per ot­
tenere alcun poco di più all’amico sincero, al padre tenerissimo della gioventù,
per il cui benessere si è tutto consacrato ” . E il Cittadino di Genova dello stesso
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giorno: “ Difficilmente si hanno casi di malattia che suscitino tanta trepidazione,
e giustamente, giacché Don Bosco colle sue virtù seppe guadagnarsi la stima e
l ’affetto di tutti e gode una fama mondiale ” .
La sera del 29 fece chiamare Don Rua e monsignor Cagliero e raccogliendo le
sue poche forze, disse loro: — Aggiustate tutti i vostri affari. Vogliatevi tutti bene
come fratelli, amatevi, aiutatevi, sopportatevi gli uni gli altri come fratelli. L’aiuto
di Dio e di Maria Ausiliatrice non vi mancherà. Raccomandate a tutti la mia sal­
vezza eterna e pregate... Promettetemi di amarvi come fratelli... Raccomandate la
frequente comunione e la divozione a Maria Santissima Ausiliatrice. — Verso
le ore 20 Monsignore gl’impartì la benedizione papale; ma prima l ’infermo gli
aveva detto di recitare ad alta voce l ’atto di contrizione, che egli accompagnò con
la mente.
L ’ultimo giorno dell’anno portò una grande sorpresa: parve che le preghiere
innalzate al Cielo da tante migliaia di cuori avessero ottenuto grazia. Infatti i me­
dici riscontrarono un notevole miglioramento e l ’assenza di sintomi d’imminente
pericolo. Sia benedetto Iddio, scrisse l ’Unità Cattolica del 1° gennaio, che fa­
vorì questa consolazione allo spirare dell’anno 1887 e al nascere del 1888! ” .
Il 1888 si apriva con l ’inizio dei festeggiamenti in onore di Leone X III per il
suo giubileo sacerdotale. A tali festeggiamenti partecipava il mondo intero, in
forma forse unica fino allora nella storia del Papato. In mezzo a sì generale letizia
la bontà di Dio mandava un buon capo d ’anno ai Salesiani e ai loro amici, allon­
tanando la falce della morte dal capo dell’amato padre. Al dolore dei giorni pre­
cedenti sottentrò la gioia con auguri che il miglioramento avesse a durare e con
promesse di continuate preghiere. Una signora scriveva dal Principato di Monaco
che era disposta a dare per questo scopo la propria vita. E Don Rigoli, prevosto
di Somma Lombardo e gran Cooperatore: “ Se Dio vuole anche la mia vita per
quella di Don Bosco, gliela offro con tutta l ’umiltà del cuore
Che Don Bosco sperasse di scamparla, non esiste il menomo indizio che ci
permetta di supporlo. In certi momenti le facoltà mentali gli si annebbiavano; onde
il 6 gennaio disse a Don Viglietti: — Sarà bene che tu dica a Don Rua che mi stia
attento. M i sento un po’ meglio, ma la mia testa non sa più nulla. Non ricordo
se sia mattino o sera, che anno o che giorno sia, se sia festa o giorno feriale...
Non so orizzontarmi... non so dove mi trovi... Appena conosco le persone... Non
ricordo le circostanze... M i pare di pregare sempre, ma non lo so di certo... Aiu­
tatemi voi.
Era opinione generale e anche sua che quel miglioramento fosse dovuto alle
molte preghiere. Infatti la sera del 7 mandò a dire a Don Lemoyne che spiegasse
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come mai una persona dopo tanti giorni di letto, quasi senza mangiare, colla mente
indebolita all estremo, ad un tratto ritornasse in sè, percepisse ogni cosa e si
sentisse in forze e quasi capace di alzarsi, scrivere, lavorare. — Sì, continuava,
mi sento sano in questi momenti come se non fossi mai stato ammalato. — A
chi domandasse il come, gli si può rispondere così: Quod Deus imperio, tu prece,
Virgo, potes.
Certo e che quella sosta inaspettata della malattia fu provvidenziale. Rese possi­
bile sistemare molti affari, impartire istruzioni per l ’ordinamento materiale dell’Ora-
torio, prendere decisioni sul personale di qualche casa. A volte egli, scotendosi
dal sopore, segnalava pratiche da iniziare, provvedimenti da prendere, disposizioni
legali cadute di mente a chi doveva eseguire. I medici stessi non nascondevano la
loro meraviglia al vedere come conservasse tanta attività e lucidità di spirito.
Il cardinale Alimonda, pieno di allegrezza, gli scriveva il 7 da Roma : ‘‘ Non
può immaginare, venerat.mo Don Giovanni, quale e quanta parte prenda Roma
cattolica a riguardo di V. S. molto Reverenda. Cardinali, Arcivescovi, signori e
signore, tutti, posso dire, mi domandano ansiosamente le notizie di Lei ” . Anche
il Papa gliele domandò. Poi nell’udienza del pellegrinaggio piemontese, Sua Santità,
passando dinanzi al missionario salesiano Don Cassini e udita da lui la conferma
delle buone notizie, disse: La vita di Don Bosco è preziosa, e la sua morte in
questi giorni avrebbe funestato le nostre feste di Roma.
Quante lettere giungevano indirizzate a Don Bosco o a Don Rua! Quale af­
fluenza di personaggi nella portineria d d l’Oratorio! Non solo poi i giornali catto­
lici, ma anche altri che avevano avversato Don Bosco, scrivevano di lui con rispetto
e simpatia. A Don Rua che gli segnalò la cosa, disse: —■Facciamo sempre del
bene a tutti, del male a nessuno.
Il buon umore non lo abbandonava. La mattina del 15, udita la Messa e fatta
la comunione, stentando a respirare, disse agli astanti: — Trovatemi un fabbricante
di mantici, che venga ad accomodare i miei. M i fareste un buon servizio. — Nella
stessa giornata, sebbene da un pezzo non avesse più visto il calendario, disse:
Domani e S. Marcello. Mandate a Marcello un canestrino di quell’uva che
ci hanno regalato.
grave malattia.
Marcello era il figlio del dottor Vignolo, convalescente da
Una visita importante ricevette il 18. Venne monsignor Goosens, Arcivescovo
di Mahnes, accompagnato dal suo vicario generale e da altri ecclesiastici. Poche
parole furono scambiate. I visitatori si ritirarono fortemente impressionati.
Rimasto solo con monsignor Cagliero, gli disse: — Prendi a cuore la Con­
gregazione. Aiuta gli altri superiori in tutto quello che potrai. — E dopo alcuni
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istanti di silenzio ripigliò: — Quelli che desiderano grazie da Maria Ausiliatrice,
aiutino le nostre Missioni e saranno sicuri di ottenerle.
Le speranze si ravvivavano a tal segno, che il buon Don Viglietti scrisse con
mano sicura nel suo diario: “ Sebbene adagio, Don Bosco va sempre migliorando.
Si può ormai dire che non gli rimane che acquistar forze per lasciare il letto
Quae volumus, facile credimus. È del 5 gennaio anche questa comunicazione di Don
Rua ai Salesiani: “ Con viva consolazione posso finalmente scrivervi che il nostro
amatissimo Padre va di meglio in meglio. Ha il respiro più libero, più facile e chiara
la parola e può agevolmente nutrirsi ” . Il suo ottimismo pigliava alimento dalle
buone parole dei medici, che accennavano a prossima convalescenza.
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CAPO LUI
LA SA N T A FINE
La malattia di Don Bosco fu un lento martirio, ma fu anche un crogiuolo, in cui
rifulse l ’oro puro della sua virtù. Una tranquillità inalterabile tra le sofferenze,
una carità delicata verso coloro che lo assistevano, una rassegnazione perfetta ai
divini voleri sono tre cose che più si ammirarono in lui sul letto de’ suoi dolori.
Il peggioramento, cominciato il 21, si accentuava ognor più. Il 22 lo visitarono
i monsignori Krementz, Arcivescovo di Colonia, e Korum, Vescovo di Treveri,
con il loro seguito. Parlando a stento, raccomandò loro la gioventù derelitta. La
mattina del 24 ricevette la visita di monsignor Richard, Arcivescovo di Parigi.
Don Bosco volle essere da lui benedetto. Lo contentò Monsignore; ma poi, pie­
gate le ginocchia, pregò lui di benedirlo. — Sì, rispose, benedico lei e Parigi. —
Al che l ’Arcivescovo : — Annunzierò a Parigi che porto la benedizione di Don Bosco.
Nel pomeriggio i medici trovarono che egli era tornato nelle peggiori condi­
zioni. La difficoltà del parlare andava crescendo e stringeva il cuore a chi lo ascol­
tava. Chiedeva che gli si suggerissero giaculatorie divote.
Non c’era mai nè acqua nè ghiaccio che valesse a spegnerne l ’ardente sete;
perciò si provvide acqua di seltz, che infatti gli arrecava sollievo. Ma, credendo che
fosse una bevanda costosa, in principio la rifiutava. Se si volle che l ’accettasse,
bisognò dirgli che costava soltanto pochi centesimi alla bottiglia.
La sera del 27 monsignor Cagliero, ritornato dopo un’assenza di alcuni giorni
e ancora propenso a sperare, fece un tentativo per conoscere il suo sentimento.
Gli domandò licenza di andare a Roma. —•Andrai, ma dopo — rispose con grande
sforzo. — Ma, Don Bosco, replicò il Vescovo, mi dica se, andando dopo S. Fran­
cesco, posso stare tranquillo. Devo andare anche in Sicilia... — Ripetè: — Sì,
andrai, ma aspetta dopo. — Era facile capire quale fosse il “ dopo
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Ne’ suoi dolori non poteva più nemmeno procurarsi il sollievo di cambiare
posizione. Chi l ’assisteva, lo esortò una volta a ricordarsi di Gesù, che sulla croce
soffriva tanto senza potersi muovere. Rispose: — Sì, è quello che faccio sempre. —
Nel trasportarlo di letto Don Bonetti gli disse: — Le facciamo male, povero Don
Bosco! Siamo così inetti! Pensi alla passione di Gesù Cristo. — Egli fe’ cenno di sì.
Sul tardi Don Sala si trovò solo nella camera. Colto il momento, in cui vide
che l ’infermo aveva più libero il respiro: — Don Bosco, gli domandò, si sente
molto male, è vero ?
— Eh sì, rispose. Ma tutto passa, e passerà anche questo.
— Che cosa potrei fare per sollevarla un poco?
— Prega.
Ciò detto, congiunse le mani in atto di preghiera. Lasciatolo riposare alcuni
minuti, Don Sala ripigliò: — Don Bosco, ora sarà contento, pensando che dopo
una vita di tanti stenti e fatiche è riuscito a fondare case in varie parti del mondo
e stabilire bene la Congregazione. —• Rispose: — Sì. Quello che ho fatto l ’ho fatto
per il Signore... Si sarebbe potuto fare di più... Ma faranno i miei figli... La no­
stra Congregazione è condotta da Dio e protetta da Maria Ausiliatrice.
La notizia che Don Bosco s’avvicinava alla guarigione, aveva riempito il mondo,
procurando lettere gratulatorie da molte parti, anche da paesi assai remoti, per­
fino dalla Lituania. Era uno strazio al cuore il leggere, per esempio, la speranza
della contessa d ’Oncieu di rivedere presto Don Bosco a Milano, o queste parole
della contessa Lemoyne: “ A Genova non si parla che della sua malattia e della
speranza della sua guarigione ” .
Durante il 27 e nella notte e al mattino seguente vaneggiava di quando in
quando. Ascoltò tuttavia la Messa. A ll’Agnus Dei chi l ’assisteva gli domandò se
volesse fare la comunione. Egli disse fra sè: — È tosto la fine... — Poi rispose: —
Conto di fare la Santa Comunione. — Così dicendo, si tolse il berrettino e giunse
le mani con un raccoglimento tale che nei riguardanti destava sensi di viva fede.
I
medici lo trovarono gravissimo. Il Fissore gli disse: —• Don Bosco, si faccia
coraggio... Vi è speranza che domani le cose vadano meglio. È già accaduto così
altre volte... Oggi il cattivo tempo influisce... — Don Bosco, rimasto fino allora
immobile, sorrise e minacciando col dito il dottore, riuscì a dire: — Dottore, che
vuol far risorgere i morti! Domani?... Domani?... Farò un viaggio lungo. — La
notte fu molto agitata.
A ll’alba del 29, festa di S. Francesco di Sales, bisognò scampanare, cantare,
pontificare; ma nei cuori regnava la mestizia. Quella mattina, sembrando che fosse
fuori dei sensi, non si voleva dargli la comunione. Dopo l ’elevazione disse a Don
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Sala: —■E se dopo la comunione mi venisse vomito? — Don Sala lo rassicurò.
Quando il celebrante si accostò con l ’ostia, egli pareva assopito. Pochi minuti prima
Don Sala l ’aveva avvisato che presto sarebbe venuto il Signore a confortarlo e gli
aveva messo la stola al collo e steso sul petto un candido lino, senza che l ’infermo
si movesse. Ma appena udito il Corpus Domini nostri lesti Christi, si scosse, aprì
gli occhi, fissò l ’ostia, giunse le mani e, fatta la comunione, ripeteva le parole di
ringraziamento suggeritegli da Don Sala. Quella fu l ’ultima comunione di Don Bosco.
Verso sera riconobbe ancora e benedisse il conte Incisa, priore della festa di
S. Francesco, e monsignor Rosaz, Vescovo di Susa, che aveva fatto il panegirico
del Santo. Dopo nel suo assopimento non intendeva più nulla, eccetto che gli si
parlasse del paradiso e di cose dell’anima. Allora faceva cenno di sì col capo; se
gli si suggeriva qualche giaculatoria, egli movendo leggermente le labbra, la com­
pieva. Al suono dell’Avemaria Don Bonetti gli sussurrò: Viva Maria. Con voce
appena percettibile, ma divota ripetè: Viva M aria.
Nella notte salutò il vigilante Enria; poi adagio adagio recitò l ’atto di contri­
zione. Qualche volta esclamò: M iserere nostri, Domine. Altre volte, alzando un tan­
tino le braccia e giungendo le mani, diceva: — Sia fatta la vostra santa volontà!__
Paralizzatagli tutta la parte destra, il braccio destro posava abbandonato e ini-
mobile sul letto; tuttavia alzava il sinistro, ripetendo: — Sia fatta la vostra santa
volontà. — Dopo la mezzanotte non parlò più; ma tutto il giorno 30 continuò a
muovere così la sinistra.
In casa tutti sapevano che Don Bosco era agli estremi. Pure nella festa di San
Francesco dodici giovani dell’Oratorio avevano sottoscritto una supplica, nella
quale per ottenere la sua conservazione offrivano a Dio in cambio la loro vita. Il
foglio era stato posto sotto il corporale durante una Messa celebrata per Don Bo­
sco e servita dall’alunno Orione Luigi, il cui nome figura tra le firme. Egli è Don
Orione, il fondatore della Congregazione dei Figli della Provvidenza.
La paralisi progrediva. Nel pomeriggio del 30 i medici dissero che al sorgere
del nuovo sole Don Bosco non sarebbe stato più in vita. Saputosi questo, i Sale­
siani chiedevano di vederlo ancora una volta. Don Rua permise che tutti andassero
a baciargli la mano. Silenziosi, dalla cappelletta sfilavano presso il sofferente. Egli
era là disteso sul suo letticciuolo, col capo alquanto rialzato sui guanciali e chino
un po sull omero destro. Calmo il viso, non scarno; gli occhi socchiusi; le mani
distese sulla coltre. Aveva sul petto un crocifisso, un altro lo stringeva con la si­
nistra, e a piè del letto pendeva la stola violacea. Accorsero anche i Salesiani dei
collegi vicini. Con questi si alternavano i giovani delle classi superiori e gli artigiani
più grandicelli. La mesta processione continuò fino a tarda ora.
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Alle diciotto venne il confessore, che, indossata la stola, lesse alcune preci del
Rituale. Poi, non sembrando prossima la fine, alcuni dei Superiori si ritirarono; ma
Don Rua con qualche altro rimase. L ’infermo respirava immobile e con affanno. Al-
l ’una e tre quarti entrò in agonia. Don Rua, quando vide che le cose precipitavano,
prese la stola e continuò le preghiere degli agonizzanti, già da lui cominciate due ore
prima. Furono chiamati in fretta gli altri Superiori. Una trentina fra sacerdoti, chie­
rici e laici inginocchiati intorno al letto pregavano. Sopraggiunto monsignor Cagliero
Don Rua gli cedette la stola, passò alla destra di Don Bosco e, dette alcune acconce
parole, ne alzò la mano paralizzata e la mosse in forma di croce, pronunciando la for­
mula della benedizione sui Salesiani presenti e assenti e in particolare sui più lontani.
Alle tre arrivò un telegramma dal Vaticano recante la benedizione papale. Mon­
signore aveva già letto il Proficiscere. Alle quattro e mezzo la campana di Maria
Ausiliatrice sonò l ’Avemaria. Don Bonetti sussurrò all’orecchio del morente il
Viva M aria dei giorni innanzi. Il rantolo, che durava da un’ora e mezzo, cessò.
Il respiro divenne libero e tranquillo; ma fu cosa di brevi istanti, poi manco. Don
Bosco moriva. Emise tre respiri. Monsignore diceva: — Gesù, Giuseppe, Maria...
__Don Bosco era morto. Tutti piangevano. Monsignore intonò il Subvenite, Sancii
Dei. Com’ebbe terminato, si recitò il De profundis, rotto da gemiti e singhiozzi.
Dinanzi alla spoglia esanime Don Rua parlò e disse: — Siamo doppiamente orfani.
Ma consoliamoci. Se abbiamo perduto un padre in terra, abbiamo acquistato
un protettore in cielo. Dimostriamoci degni di lui, seguendo i suoi santi esempi.
I medici, volendo testificare il loro amore per l ’estinto, vennero di buon’ora
e mentre in tutta la casa si piangeva e pregava, diressero le operazioni per il tratta­
mento della salma. I superiori furono contrari a imbalsamarla. Lo stesso dottor
Fissore disse: — Conosco Don Bosco da molti anni. Ho tanto rispetto al suo corpo,
che non mi sentirei di profanarlo con l ’imbalsamazione.
Cominciò presto l ’affollarsi dei cittadini per vedere la salma. Essendo troppo
ristretto lo spazio, si concedette l ’accesso unicamente alle persone più conosciute;
agli altri si diceva che l ’avrebbero veduta il giorno dopo nella chiesa di S. Francesco.
Il morto era assiso sulla sua poltrona nella galleria retrostante alla cappella. Indos­
sava i paramenti da Messa violacei e aveva il crocifisso nelle mani. I noti lineamenti
apparivano inalterati. Se non fosse stato il pallore della morte che contrastava col
paonazzo della pianeta, si sarebbe detto che placidamente dormiva. Stuoli di sacer­
doti, patrizi in gran numero, pie signore stimavano somma grazia l ’essere ammessi
a vederlo. Nessuno mostrava ribrezzo accostando le labbra al candore di quelle mani.
II solerte vicario Don Rua aveva dato sollecitamente per telegramma il doloroso
annuncio al Santo Padre, al cardinale Alimonda ancora assente da Torino, alle
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case salesiane e a un certo numero di benefattori. Stese pure e fece stampare una
lettera circolare, di cui furono spedite trentaduemila copie, oltre le ottomila tra­
dotte in ispagnolo e le tredicimila in francese.
Che immenso plebiscito di condoglianze! I vicini vennero in persona. Tele­
grammi e lettere arrivarono per più giorni a fasci, anche da remote contrade. Nelle
lettere il tema obbligato era che Don Bosco non aveva più bisogno di preghiere,
ma che piuttosto doveva essere pregato. In vario modo tutti lo proclamavano santo.
Non pochi domandavano per sommo favore qualche oggetto da lui usato o un
pizzico de’ suoi capelli.
La mattina del I o febbraio quel benedetto corpo venne trasportato nella chiesa
di S. Francesco, tutta vestita di ampie gramaglie. Non fu adagiato su letto funebre,
secondo il costume, ma assiso in seggiolone sopra un palco rilevato da terra. I
giovani furono i primi a sfilargli dinanzi. Essi lo contemplavano là nella sua posa
di dormiente, con la testa leggermente inclinata a sinistra, col sembiante calmo,
composto e quasi sorridente, con gli occhi non del tutto chiusi e come fissi nel
Crocifisso, che pareva stringere fra le mani giunte.
Aperta la chiesa al pubblico, il flusso e riflusso dei visitatori durò senza inter­
ruzione tutto il giorno. Chi vide allora i viali che portano a Valdocco, provò l ’im­
pressione che l ’intera Torino si riversasse nell’Oratorio. Una voce si udiva con­
tinuamente ripetersi: — Era un santo. — Moltissimi facevano toccare le venerate
spoglie con oggetti sacri, al che si prestavano vari sacerdoti e giovani. Alle venti
si chiusero tutte le entrate; ma più tardi bisognò riaprire per contentare nume­
rosi forestieri giunti da diversi luoghi del Piemonte.
Il
punto più commovente della giornata fu quando, prima di andare a riposo,
tutti i giovani dell’Oratorio si radunarono nella chiesina a dire le preghiere intorno
al loro padre. Come le preghiere furono terminate, si presentò, in mezzo a solenne
silenzio, Don Francesia per dare la “ buona notte ” . Il cuore e la fantasia gli misero
sulle labbra parole degne del momento. Durante la notte sacerdoti vegliarono per
turno. Don Rua stette lungo tempo genuflesso accanto alla salma, assorto in pro­
fonda meditazione.
Prima delle otto del 2 febbraio il cadavere fu rimosso e adagiato in triplice
cassa, rivestito com’era dei paramenti sacri. Allora fu condotta presso la bara una
Figlia di Maria Ausiliatrice, invocante la grazia della vista. Si chiamava Adele Mar­
chese. Dal settembre del 1887 medici specialisti l ’avevano dichiarata affetta da in­
curabile gutta serena. Arrivata appena in tempo, prese la mano del defunto, se l ’ac­
costò agli occhi e vide e continuò a vedere finché visse. Presente al fatto si trovò
anche uno dei tre signori cileni, di cui si è parlato nel capo quarantesimoterzo.
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La bara venne portata nella chiesa di Maria Ausiliatrice e posata sul catafalco
eretto dinanzi alla balaustra. Fecero ala al suo passaggio per il cortile molti pelle­
grini francesi, svizzeri e olandesi diretti a Roma. Nell’interno del tempio lo spazio
riservato al pubblico era già occupato da parecchie ore. Dal di fuori saliva il mor­
morio dell’ingente moltitudine affollata sulla piazza. Pontificò monsignor Ca-
gliero. Fu eseguita una Messa funebre da lui composta nel 1862.
Il
feretro si sarebbe dovuto chiudere e sigillare già prima che fosse recato nel
santuario; ma il Municipio concesse di sospendere, perchè avessero la consolazione
di vedere il volto del padre tanti Salesiani che stavano per giungere da lontano.
La chiusura ufficiale fu fatta alle quattordici, presenti i Superiori del Capitolo e
un centinaio fra Salesiani ed estranei.
Verso le quindici si eseguì il trasporto. La città di Torino alla periferia appa­
riva quasi deserta; formicolavano invece di gente le vie e i corsi nella regione di
Valdocco. A memoria d ’uomo non si ricordava un sì grande concorso di popolo
per assistere alla sepoltura di un semplice prete. Il feretro veniva portato a spalla
da otto sacerdoti salesiani. Mentre la testa del corteo, dopo lungo percorso, ri­
montava la gradinata del santuario, l ’estremità opposta era uscita appena dalla
via Cottolengo. La piazza e i due tratti di questa via rigurgitavano di popolo. An­
nottava. Nella chiesa entrarono solo le Figlie di Maria Ausiliatrice, il numerosissimo
clero e le rappresentanze. Un fascio luminoso, erompendo dall’aperto portone,
accolse il feretro, che avanzò in un mare di luce. Tre Vescovi lo precedevano, i
monsignori Cagliero, Leto e Bertagna. Questi impartì la rituale assoluzione.
Il trasporto era riuscito così solenne ed imponente, che lo si diceva non un rito
funebre, ma un trionfo, un’apoteosi. “ Nulla, depose Don Rua nei processi, nulla
vi fu di artificioso per promuovere tale concorso; si mandò appena, nel po’ di
tempo che si potè avere, la lettera mortuaria ai Cooperatori più vicini, e tutti i
giornali, senza esserne incaricati, diedero l ’annuncio della morte ” . In verità, per
quanto si sapesse che Don Bosco era a Torino molto amato, nessuno dell’Oratorio
si sarebbe aspettato dalla cittadinanza un concorso così mirabile per numero, per
contegno e senza distinzione di classe. Il redattore capo della Défense di Parigi,
che vi aveva assistito, disse che due cose gli avevano fatto maggior impressione
in Italia, il giubileo papale a Roma e il funerale di Don Bosco a Torino; aver anzi
in qualche cosa trovato più sorprendente il funerale di Don Bosco. Nel numero
del 3 febbraio l ’Unità Cattolica scrisse: “ Il trasporto funebre di Don Bosco non
è stato inferiore a quello d ’un Sovrano ” .
Impartita che fu l ’assoluzione alla salma e dato adito al pubblico, accadde lo
spettacolo che si legge nelle vite dei Santi. Il popolo si precipitò sul feretro per
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toccarlo, per baciarlo, per portar via qualche minuscola parte di quanto vi stava
deposto sopra. Alcune corone di fiori andarono in mille pezzi. Così sarebbe av­
venuto anche del drappo funebre, delle insegne sacerdotali e della medesima cassa,
se un forte nucleo di guardie civiche non avesse repressa in tempo e arrestata
l ’onda minacciosa.
Dopoché la moltitudine sfollò e le porte si poterono chiudere, i Salesiani con
piccolo accompagnamento riportarono la bara nella chiesa di S. Francesco, dove
la tennero finché non furono condotte a termine le pratiche per il suo definitivo
collocamento.
D i mano in mano che gli abitatori dell’Oratorio rimettevano piede in casa e
levavano istintivamente lo sguardo alle camere di Don Bosco rischiarate da fioca
luce, provavano per la prima volta la sensazione del grande vuoto prodotto in
mezzo a loro dalla scomparsa dell’angelo tutelare del luogo. Ma ecco un fatto at­
testato da tutti e che ha del prodigio. Allorché tutta la comunità fu riunita, una
pace, una serenità, una misteriosa gioia sembrò aleggiare in ogni angolo e in ogni
cuore. Quelli che poc’anzi avevano pianto, si sentivano così tranquilli come nei
giorni belli, in cui Don Bosco viveva tra i suoi figli. In realtà Don Bosco era vivo
e non lontano; egli era che diffondeva negli animi tanta quiete.
Quasi a coronare la tranquillità dell’Oratorio, più che a porgere conforto nel
duolo, giunse una lettera del Cardinale Rampolla, per la quale lo stesso Leone XIII,
come si seppe da poi, aveva voluto dettare le espressioni più significative. Diceva
fra l ’altro: “ La perdita del sacerdote Don Giovanni Bosco, che godeva la stima,
l ’affetto e l ’ammirazione universale per le Opere di cristiana carità da lui fondate,
per lo zelo onde erasi studiato mai sempre di promuovere il bene delle anime, e
per quanto aveva egli fatto perchè il nome santissimo di Dio risuonasse e fosse
venerato in ogni più remoto angolo della terra, la perdita di quest’Apostolo forma
un vuoto, di cui si duole la Chiesa, e con essa debbono meritamente dolersene i
suoi figli, che lo ebbero Padre affettuosissimo ed esempio di ogni più bella virtù.
E posso io dire che sull’animo della Santità di Nostro Signore, il tristissimo caso
ha prodotto una impressione tanto più dolorosa, quanto maggiori erano la bene­
volenza, che portava al benemerito sacerdote, il pregio, nel quale ha sempre
tenuto le sue Opere, feconde di santi e salutari frutti. E rivolgendosi alla miseri­
cordia e bontà divina, la prega di darne alla di lui anima benedetta largo premio
nella celeste gloria ” . Si può ben dire che ai tanti elogi funebri pronunciati poi in so­
lenni uffici di trigesima, questa lettera del 2 febbraio aperse pontificalmente la serie.
433
ss

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CAPO LIV
LA G L O R I A
T Tn binomio che risonava con frequenza sulle labbra di Don Bosco e che spesso
gii ricorreva sotto la penna, era la gloria di Dio e la salvezza delle anime:
la gloria di Dio come fine, la salvezza delle anime come mezzo. Promuovere la
gloria di Dio mediante il bene spirituale ed eterno delle anime fu tutta la vita di
Don Bosco. E Dio dopo la morte lo premiò non solamente con la gloria celeste,
ma glorificandolo anche straordinariamente sulla terra.
Venne per prima la gloria del sepolcro. Le autorità civili avevano autorizzato
la tumulazione della salma nel collegio di Valsalice, trasformato da poco in semi­
nario delle Missioni salesiane. Orbene quella tomba diventò in un subito mèta
di continui pellegrinaggi individuali e collettivi. Il direttore della casa Don Luigi
Piscetta, 1autorevole moralista, facendo un calcolo approssimativo, disse nei pro­
cessi che durante la buona stagione non erano mai meno di quaranta nei giorni
feriali e di sessanta nei giorni festivi le persone che vi si recavano a pregare. Ma vi
andavano pure associazioni nostrane e straniere, nè passavano per Torino pelle­
grinaggi diretti a Roma da varie parti d’Europa che non salissero a Valsalice. E
non erano solo gente del volgo, ma personaggi ragguardevoli, come vescovi e
cardinali, uomini dell aristocrazia e ministri di Stato, artisti e letterati. Non ve
li spingeva certo la curiosità. Che cosa poteva esserci d’interessante a Valsalice
che compensasse il disagio di quella diversione fuori di città? Sulla tomba si am­
monticchiavano lettere impetrative poste dai visitatori, le quali, avendo qualche
apparenza di culto, venivano ogni giorno ritirate. Lettere giungevano da molti
paesi lontani, perchè si facessero privatamente preghiere presso la tomba di Don
Bosco. Il grande concorso, cominciato pochi giorni dopo la morte, durò ben qua­
rantanni, fino cioè alla solennissima traslazione del 1929.
55*
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Descriverla qui non è possibile; sarà fatto altrove. Chi la vide, vide un trionfo
che mai l ’uguale. Da Valsalice a Valdocco Don Bosco passò su d ’una marea umana,
fra preghiere e canti, accompagnato da gioventù di tutta Italia, scortato da Salesiani di
tutto il mondo e preceduto da una lunga teoria di sacerdoti, di religiosi e di religiose,
a cui andavano innanzi migliaia di vessilli, portati dai rappresentanti d innumerevoli
associazioni, corteggiato da un magnifico stuolo di prelati, onorato lungo il tragitto da
principi del sangue e dalle maggiori autorità civili e militari. Si succedevano a inter­
valli, riempiendo l ’aria dei loro concenti, ventitré bande musicali. Nella spettacolosa
sfilata fluì per circa tre ore la grossa fiumana osannante, contenuta sempre da due po­
derose dighe viventi. La città era stata invasa da un centomila pellegrini italiani e stra­
nieri, e i Torinesi in quel pomeriggio avevano disertato le loro dimore. Al chiudersi
della fantastica serata tutti restarono col ricordo vivo di un ’apoteosi senza esempio.
D ’allora in poi quelle spoglie, divenute reliquie sacre, si venerano nel Santuario
di Maria Ausiliatrice, ove da mane a sera dinanzi all’urna che le racchiude, non cessa
un minuto il divoto appressarsi di persone che vi si succedono a pregare. Qui
non c’è ombra di rispetto umano: con la gente semplice si vedono unirsi nella pre­
ghiera uomini di elevata condizione sociale, giunti anche da lontano e da molto lon­
tano. La pietà stessa dei fedeli sembrava invocare per sì prezioso tesoro una colloca­
zione quanto mai degna. Orbene, non appena il quarto successore di Don Bosco
ebbe manifestato l ’intenzione di secondare siffatti desideri nel cinquantesimo anni­
versario della morte, le oblazioni cominciarono ad affluire in si confortante misura,
che, messa da parte ogni idea di mediocrità, si pose mano all’erezione di un son­
tuoso altare monumentale, che dicesse ai posteri col linguaggio dell’arte, 1affettuosa
ammirazione del nostro mondo contemporaneo per il grande padre della gioventù.
Come in vita, così e ancor più dopo la morte Dio onorò il suo servo con la
gloria dei miracoli. I miracoli, si sa, li fa Dio solo; ma Egli li subordina il più delle
volte all’intercessione de’ suoi migliori amici. L’universale persuasione che Don
Bosco possa moltissimo presso il Signore, muove ogni sorta di persone a invocarlo
nelle loro necessità. Quante guarigioni impensate, quante segnalate conversioni,
quante soluzioni d ’intricatissimi nodi furono attribuite alla sua efficace mediazione!
Le meraviglie ebbero principio nel momento stesso in cui la sua anima volava al
cielo, continuarono mentre la sua salma stava ancora esposta al pubblico e si mol­
tiplicarono in seguito. A tali fatti naturalmente va attribuita una fede non superiore
all’umana e proporzionata alle prove che li corredano; è indubitato però che tutte
queste grazie comunemente riferite a Don Bosco riescono a ravvivamento di fede,
a incremento di soda pietà cristiana e ad esaltazione della bontà onnipotente di
Dio, che oggi come sempre per sanctos suos mirabilia operatur.
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Terza gloria, quella del nome. La risonanza del nome di Don Bosco, già larga
in vita, si dilatò immensamente dopo; nella quale risonanza si hanno da notare due
cose. Noi viviamo in tempi di accesi nazionalismi e d ’altra parte anche i cattolici
prediligono i Santi della loro stirpe, lasciando ordinariamente a quelli stranieri un
posto nel de communi. Ma per Don Bosco sembra che non esistano frontiere e si
direbbe quasi che egli sia un Santo eminentemente internazionale. Infatti è il ben
accolto presso tutti i popoli e viene onorato dai Francesi come se fosse francese,
dagli Spagnoli come se fosse spagnolo, dagli Americani come se fosse americano
e via dicendo. In secondo luogo, ed è cosa attestata continuamente da sacerdoti
di varie nazioni, dovunque si parli di lui al popolo o alla gioventù, si determina
senz’altro un movimento di simpatica attenzione che ha del singolare. Questo ha
fatto dire a qualcuno che Don Bosco, chiedendo a Dio nella prima Messa l ’effi­
cacia della parola, ne ottenne la grazia non solo per sè e per la parola sua, ma
anche per chi parla di lui e delle sue virtù.
E poi vi e la gloria delle Opere. Fra Salesiani e Suore, Don Bosco, quando morì,
aveva a’ suoi ordini poco più d ’un migliaio di persone distribuite in centosette
luoghi. Ma poco valeva accozzare gente e moltiplicare case, ove mancasse la forza
di coesione che facesse come di tante membra un solo corpo vitale, sano, vigoroso.
Egli aveva la coscienza di aver dato tale compattezza organica a tutta la sua istitu­
zione, quando al termine della sua carriera mortale assicurò i propri eredi e continua-
tori che per 1avvenire non c era nulla da temere. Tuttavia non da tutti la si pensava
cosi. Anche in alto luogo erasi fatta strada 1 opinione che, scomparso il fondatore,
il suo edificio dovesse cadere in rovina; tant’è vero che si ventilava il disegno di sal­
vare i Salesiani fondendoli con i religiosi di un’altra Congregazione. Ma all’atto pra­
tico si dovette toccare con mano che Don Bosco aveva fatto bene tutte le cose sue,
sicché le nubi si dileguarono e il tempo fu galantuomo. L’unione che fa la forza,
non venne mai meno, nè sotto i successori di Don Bosco fecero mai difetto uomini
capaci di mantenere in efficienza e sviluppare largamente l ’Opera di lui. Nel 1881
egli aveva avuto un sogno sulle sorti della Società Salesiana. Un Angelo ammonitore,
dopo una serie di raccomandazioni, lanciava uno sguardo nel futuro e con parole
scritturali preannunziava: Qui videbunt, dicent: A Domino factum est istud et est mi­
rabile in oculis nostris. Il mondo, spettatore dell’odierna realtà, può ben confermare
il celeste presagio e dire che veramente dal Signore viene tal cosa e che è una mera­
viglia ai nostri occhi.
Ma la glorificazione che tutte le comprende e supera, doveva partire dalla
Chiesa. La fama di santità, che aveva circondato Don Bosco vivente, fece tosto na­
scere la certezza che senza indugio la Chiesa l ’avrebbe innalzato all’onore degli al­
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tari; anzi, sceso appena nella pace del sepolcro, autorevolissimi prelati sollecitavano
i Salesiani ad affrettare i preparativi per l ’inizio dei processi canonici. Questi princi­
piarono presso la curia arcivescovile di Torino alla distanza di solo due anni dalla
morte. L’immensità del campo da esplorare e le esigenze delle varie procedure ri­
chiesero trentasette anni di lavoro, perchè si giungesse al decreto sull’eroicità delle
virtù. L’esame quindi dei miracoli presentati per la Beatificazione si portò via altri
due anni, di modo che questa potè essere decretata il 24 aprile del 1929 e celebrata
il 2 giugno seguente. Non era mai avvenuto nelle beatificazioni quel che avvenne al­
lora, che cioè nella cerimonia del mattino le molte migliaia di pellegrini facessero
sembrare angusta la basilica vaticana e che in quella del pomeriggio, alla discesa del
Papa, una folla di persone fosse costretta a rimanersene sulla piazza per partecipare
in qualche modo al sacro rito. U n’altra novità fu la sfarzosa illuminazione di San
Pietro, voluta dal Pontefice; il Governo per non ostacolarla fece rinviare alla do­
menica seguente l ’accensione della popolarissima <{girandola , solita a ripetersi
nell’annuale festa dello Statuto. Nell’anno della Conciliazione fra la Chiesa e lo
Stato Italiano si volle Don Bosco a parte del giubilo universale, perche dello storico
avvenimento egli era stato provvido precorritore. Aveva infatti contribuito senza
rumore, ma efficacemente, a mantenere e a diffondere in opposti ambienti le
disposizioni di spirito che resero possibile il lento maturare dello storico
avvenimento.
Ma tutto questo non fu che un preludio di un trionfo assai più grande, il trionfo
della Canonizzazione. La Pasqua del 1934 segnò questa data in perpetuo memoranda.
La scelta del giorno, solennità delle solennità e chiusura del giubileo della Reden­
zione: la presenza del principe ereditario Umberto di Savoia, che vi rappresentava
il Re e a cui facevano corona i Sovrani del Siam e dieci principi stranieri di san­
gue reale: il corteo papale attraverso la piazza di S. Pietro fra un immensa moltitu­
dine cosmopolita, che non aveva trovato luogo nel tempio: la trasmissione radio­
fonica dell’intera cerimonia, cosa che per la prima volta si verificava, e la ripercus­
sione mondiale dell’avvenimento, tutto diede alla giornata una grandiosità senza pari.
Dal canto suo, lo Stato, non più agnostico, rese il dì dopo solenne omaggio
al Santo italiano in Campidoglio. V ’intervenne il Capo del Governo. Assistevano
insieme con il Segretario di Stato cardinale Gasparri altri tre porporati. Il mondo
politico e diplomatico vi era ben rappresentato. Dal Ministro della Pubblica Istru­
zione fu letto il discorso. La suggestione del luogo aggiungeva fascino alle civili
onoranze. D i quella commemorazione incise il ricordo re Vittorio Emanuele III
nel discorso della Corona, pronunciato il 28 aprile. Anche tutto questo costituì
un fatto assolutamente nuovo nella storia d ’Italia.
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Un altro lato caratteristico degli omaggi resi a S. Giovanni Bosco bisogna ravvi­
sarlo nella molteplice esaltazione che ne fece il Papa Pio XI. Prescindendo dai discorsi
di rito, nessun Santo novellamente canonizzato ricevette mai l ’onore di sì frequenti
ed eloquenti celebrazioni da parte del Vicario di Gesù Cristo. Non per nulla Pio XI
fu salutato allora il Papa di Don Bosco, titolo che egli pubblicamente disse di gradire.
Certo potè molto sull’animo suo la conoscenza personale del Santo; ma più della
conoscenza valse la comprensione. L’acume della sua mentalità di storico aveva
prima intuito la missione provvidenziale di Don Bosco, e poi allora dall’alto del
soglio pontificio ne misurava tutta la vasta portata nello spazio e nel tempo. Sarà
sempre bello a rileggersi un tratto dell’allocuzione da lui rivolta già fin dal 15 giu­
gno 1922 a superiori ed alunni dell’istituto salesiano del Sacro Cuore di Roma:
“ Noi siamo, disse, noi siamo con profonda compiacenza tra i più antichi amici
personali del Venerabile Don Bosco. Lo abbiamo visto, questo vostro glorioso Pa­
dre e Benefattore, lo abbiamo visto con gli occhi nostri. Siamo stati cuore a cuore
vicino a lui. È stato tra noi non breve e non volgare scambio di idee, di pensieri,
di considerazioni. Lo abbiamo visto questo grande propugnatore dell’educazione
cristiana, lo abbiamo osservato in quel modesto posto che egli si dava tra i suoi
che era pure un così eminente posto di comando, vasto come il mondo, e quanto
vasto altrettanto benefico. Siamo perciò ammiratori entusiasti dell’Opera di Don
Bosco e siamo felici di averlo conosciuto e di aver potuto aiutare per divina grazia
col modestissimo nostro concorso l ’Opera sua ” .
Dopo l ’accennato qui sopra è proprio il caso di rievocare alcune parole pro­
ferite dal Santo, il 10 giugno 1841. Era il suo quinto giorno di sacerdozio. Cele­
brate a Castelnuovo le funzioni del Corpus Domini, andò alla casa nativa e vi rivide
il luogo del primo sogno. A tal vista non potè frenare l ’interna commozione e,
come scrive nelle sue Memorie, proruppe in queste parole: “ Quanto sono mera­
vigliosi i disegni della divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un
povero fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo ” . Egli intendeva espri­
mere la sua gratitudine a Dio per la dignità sacerdotale, di cui si trovava insignito;
ma le espressioni da lui usate si prestano per noi a un’interpretazione di assai più
larga portata. Esse ci possono chiarire l ’intima ragione della gloriosa rinomanza
che di lui
... nel mondo dura
e durerà quanto il mondo lontana.
439

51.4 Page 504

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51.5 Page 505

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INDICE
Premessa ..
CAPO I.
,, II.
,, III.
,, IV.
,, V.
,, VI.
,, VII.
,, VIII.
,, IX.
,, X.
,, XI.
,, XII.
,, XIII.
,, XIV.
,, XV.
,, XVI.
,, XVII.
,, XVIII.
,, XIX.
,, XX.
,, XXI.
,, XXII.
,, XXIII.
,, XXIV.
L’Uomo e l ’Opera
L’Opera e i tempi
Madre e figlio
Primi studi e primi dolori
Scuola regolare e vario apostolato
Scienze sacre e presbiterato
Teologia pastorale e sacro ministero
La lotta per l ’esistenza
La terra promessa
L’Opera degli oratorii
Il Quarantotto
Ospizio e chiesa
Le Letture Cattoliche
Pagina d ’oro nella storia dell’Oratorio
“ Per il bene del Re e della Chiesa
Inizi della Società Salesiana
L’opera pedagogica
La Storia d ’Italia
Vessazioni politiche
“ L’Oratorio cresciuto sotto le bastonate ”
Tre biografie, tre documenti
Continuano le “ bastonate ” e il resto
Dispensatore della parola di Dio
La chiesa di Maria Ausiliatrice
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XLVIII.
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L.
LI.
LII.
LUI.
LIV.
La questione dei Vescovi italiani dopo il 1860
Durante il Concilio Vaticano
La fondazione della Società Salesiana
Ministro del perdono
Le Figlie di Maria Ausiliatrice
I Cooperatori salesiani
L’opera delle vocazioni tardive
Missioni estere salesiane
Dal tramonto di un Pontificato agli albori dell’altro
pag. 209
221
„ 227
,, 235
,, 243
„ 249
257
i> 263
,, 271
La chiesa di S. Giovanni Evangelista
I sogni di Don Bosco
La concessione dei privilegi
Apostolato della stampa
,, 279
,, 285
,, 293
,, 301
Don Bosco nell’Oratorio dal 1868 in poi
„ 309
Fondazioni in Italia
Chiesa e ospizio del Sacro Cuore di Gesù a Roma
„ 317
,, 329
Fondazioni in Francia
„ 337
Don Bosco a Parigi
Vicariato apostolico e Prefettura apostolica
„ 345
„ 353
Altre fondazioni nell’America
„ 361
Il conte di Chambord, il duca di Norfolk e il principe Czartoryski „ 367
Don Bosco nella Spagna
„ 377
Spirito di profezia
» 385
Per l ’Inghilterra e per il Belgio
„ 393
Spirito di orazione
„ 399
Sintomi forieri della fine
„ 405
Placido tramonto
„ 413
Il primo periodo dell’ultima malattia
„ 421
La santa fine
„ 427
La gloria
„ 435
442