09-Ottobre-2025

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CON GESÙ
150 anni
di MISSIONI
SALESIANE
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
OTTOBRE
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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
La CAREZZA
«S egui il tuo cuore» gli aveva
detto don Cafasso. E il
cuore di Giovanni soffriva
perché alcuni dei suoi ragazzi, alla
sera non avevano un posto per
dormire. Si raggomitolavano negli
androni dei palazzi o negli squallidi
dormitori pubblici. Da tempo
pensava di prenderli in casa. Aveva
tentato due volte ma il mattino
successivo i ragazzi si erano volatiliz-
zati portandosi via le coperte e
perfino il fieno e la paglia dei
materassi.
Ma una sera di maggio: «Mama, là
fuori c’è qualcuno».
«Ma va, è la pioggia».
Alla luce dei lampi si stagliò
al di là dei vetri, fradicio e spaurito,
l’esile volto di un ragazzo.
Don Bosco si precipitò fuori. La
madre gridò sorpresa.
«Sono orfano. Vengo dalla Valsesia.
Faccio il muratore, ma non ho
ancora trovato lavoro. Non so dove
andare».
II quindicenne giunto sulla soglia di
Casa Pinardi quella piovosa sera di
maggio 1847, tutto inzuppato d’ac-
qua e in cerca di un tozzo di pane,
non ebbe solo spalancato l’uscio, né
ottenne solo ciò che cercava. Scoprì
di essere amato. Gli sguardi del
figlio e della madre si incrociano.
Don Bosco già medita di tenere con
sé il ragazzo ma si preoccupa anche
di non forzarne la libertà.
«Dove intendi andare dopo?»
«Non so. Chiedo solo la carità
di passare qui questa not-
te, in un angolo che non
disturbi».
Scendono lacrime a rigare il
volto del muratorino. Egli
le asciuga con il dorso della
mano callosa. Don Bosco
gli parla adagio, sommes-
so. «Se io... Se io fossi
sicuro che tu non sei un
ladruncolo – gli sorride
– cercherei magari di ag-
giustarti qui come posso.
Ma altri mi hanno già
portato via lenzuola e
coperte, temo che tu mi
porti via il resto».
Il giovane lo fissa, il pianto improv-
visamente bloccato.
«Oh no, monsù reverendo, no no. Io
sono povero ma... Non ho mai ruba-
to a nessuno».
In casi come questo don Bosco senti-
va un brivido in tutta la persona. Un
groppo segreto lo afferrava alla gola.
Sua madre, che lo conosceva bene,
tagliò corto.
«Lo sistemerò in cucina per stanotte»
disse «e domani Dio provvederà».
In tre raccolsero dei mattoni e quat-
tro assi scalcinate, da sistemare sui
mattoni. Improvvisarono un letto,
ma non c’era il materasso. Don Bosco
portò il suo e Margherita rimediò un
paio di lenzuola e due coperte.
Mentre il ragazzo si sistemava, la
santa donna gli parlò con amore del
lavoro e della fede, come sogliono
fare le mamme cristiane, e mormorò
una preghiera con lui. Poi raccolse gli
indumenti, che tra macchie, buchi
e pioggia, si raccomandavano molto
alle sue cure, e posò una mano sulla
fronte di quel «figlio».
«Buona notte» gli disse.
Quella «buona notte», allo stesso
modo, o trasformata in «buon gior-
no», viene tuttora ripetuta ai ragazzi
e a chiunque vive nelle case di don
Bosco.
A Valdocco c’è una statua di Mamma Mar-
gherita collocata nel luogo in cui la mam-
ma di don Bosco aveva fatto il suo orto.
La scena raffigura un ragazzo nell’atto di
superare la soglia della casa di don Bosco
e sua madre per chiedere ospitalità. Viene
accolto dallo sguardo amorevole e da una
carezza di Mamma Margherita.
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CON GESÙ
150 anni
di MISSIONI
SALESIANE
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
OTTOBRE 2025
ANNO CXLIX
NUMERO 9
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Le missioni salesiane compiono 150 anni,
migliaia di uomini e donne hanno donato la vita sui
OTTOBRE
2025
passi di Gesù di Nazareth (Immagine Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 MISSIONI 150
6
Era un vescovo a cavallo
8 IN PRIMA LINEA
Bengala
11 INDIA
12 TEMPO DELLO SPIRITO
14 IN PRIMA PERSONA
16 MISSIONARI
Don José-Luis Carreño
20 LE CASE DI DON BOSCO
Castel Gandolfo
8
24 FMA
Angola
26 RISCOPERTE
28 INIZIATIVE
La corsa della speranza
30 SANTI
Camille Costa de Beauregard
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
16
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Fabio Attard
LA FOLLIA DIVINA
DEL SEMINATORE
che “semina nel buio”
La parabola del seminatore,
narrata nei Vangeli sinottici, è
un’immagine potente e fondante
del messaggio cristiano. A prima
vista, potrebbe sembrare una
semplice allegoria sulla diversa
accoglienza della Parola di Dio.
Tuttavia, a uno sguardo più
profondo, essa rivela una verità
radicale, specialmente se applicata
ai processi educativi e pastorali.
Questa verità è racchiusa nel gesto stesso
del seminatore, un gesto che potremmo
definire come un “seminare nel buio”: un
atto di generosità smisurata, apparente-
mente inefficiente, che sfida la logica umana del
risultato e del controllo.
Il cuore della riflessione non risiede tanto nei quat-
tro tipi di terreno, quanto nella figura del semina-
tore e nella sua azione. Egli esce e sparge il seme
con un gesto ampio, quasi sconsiderato. Non fa una
mappatura preliminare del campo, non seleziona i
lotti più promettenti, non evita con cura i sassi o i
rovi. Semina ovunque. Questa non è la tecnica di
un agricoltore moderno che mira a massimizzare
il raccolto ottimizzando le risorse. È, piuttosto, la
rappresentazione di una logica divina, una logica di
abbondanza e di dono incondizionato.
Traslato in ambito educativo e pastorale, questo ge-
sto smaschera una delle nostre più grandi tentazio-
ni: quella dell’efficienza e del risultato misurabile e
immediato. L’educatore, il catechista, il sacerdote,
il genitore, sono spesso assillati dalla “sindrome del
contadino calcolatore”. Si tende a investire tempo ed
energie dove si intravede una promessa di ritorno: lo
studente brillante, il parrocchiano devoto, il gruppo
giovanile più reattivo. Inconsciamente, si rischia di
trascurare la “strada” dei cuori induriti, il “terreno
sassoso” degli entusiasmi effimeri o le “spine” del-
le vite complicate e soffocanti. La parabola ci dice,
invece, che il seme della Parola, della cura, della
conoscenza, della testimonianza, va gettato ovun-
que, senza calcolo e senza pregiudizio. “Seminare
nel buio” significa anzitutto questo: agire per pura
gratuità, spinti non dalla probabilità di successo, ma
dalla fede incrollabile nel valore del seme stesso. È
l’amore che non fa differenze, che si offre a tutti per-
ché non è un investimento, ma un dono che straripa.
In secondo luogo, “seminare nel buio” rivela una
profonda verità sull’umiltà del nostro ruolo. Il buio
non è solo l’indifferenza del seminatore verso la
qualità del terreno, ma anche il mistero impene-
trabile che è il cuore umano. L’educatore e il pasto-
re non possono “vedere” dentro l’anima dell’altro.
Non conoscono appieno le ferite passate, le paure
nascoste, le resistenze inconsce che rendono un
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cuore duro come una strada o superficiale come un
sottile strato di terra. Non possono prevedere quale
preoccupazione mondana o quale nuova passione
soffocherà un buon proposito.
Agire in questo “buio” significa accettare di non
avere il controllo sul processo di crescita. Il no-
stro compito è seminare, non far germogliare. La
crescita appartiene a una dinamica misteriosa che
coinvolge la libertà della persona (il terreno), la
potenza intrinseca del seme (la Parola, l’amore) e
l’azione della Grazia (il sole e la pioggia che non di-
pendono dal seminatore). Questa consapevolezza ci
libera da due pesi opposti ma ugualmente dannosi:
l’arroganza di chi si sente l’artefice del successo al-
trui e la frustrazione di chi si sente responsabile del
fallimento. L’educatore che semina nel buio sa che
il suo lavoro è essenziale ma non onnipotente. Egli
offre, propone, accompagna, ma alla fine si ritrae
con rispetto di fronte al sacro recinto della libertà
dell’altro, dove avviene il vero incontro tra il seme
e la terra.
Infine, il “seminare nel buio” è un atto di speranza
radicale. Perché il seminatore continua a spargere
il seme con tanta generosità, pur sapendo che gran
parte di esso andrà perso? Perché la sua fiducia non
è riposta nell’efficienza del suo gesto, ma nella vi-
talità inesauribile del seme. Egli sa che, nonostante
le strade, i sassi e le spine, il seme ha in sé una po-
tenza di vita capace di produrre frutto “il trenta, il
sessanta, il cento per uno” laddove trovi anche solo
un piccolo angolo di terra buona.
Questa è una lezione fondamentale contro il cini-
smo e la stanchezza che possono assalire chi opera
in campo educativo e pastorale. Di fronte all’apatia,
all’indifferenza o all’ostilità, la tentazione è quella di
smettere di seminare, di concludere che “non ne vale
la pena”. La parabola ci invita, invece, a spostare il
focus dalla risposta del terreno alla qualità del seme.
Il nostro compito non è preoccuparci ossessivamen-
te del raccolto, ma assicurarci di seminare un seme
buono: una parola autentica, una testimonianza cre-
dibile, un amore paziente, una cultura solida.
La speranza del seminatore non è un vago ottimi-
smo, ma la certezza che la Verità, la Bellezza e il
Bene, se offerti con generosità, possiedono una for-
za propria che, prima o poi, in un modo che non
possiamo prevedere né controllare, troverà il modo
di germogliare.
In conclusione, la parabola del seminatore ci libera
dalla tirannia del risultato immediato e ci introduce
a una spiritualità dell’azione fondata sulla gratuità,
l’umiltà e la speranza. “Seminare nel buio” non è
un’azione cieca o ingenua, ma l’atto più realistico
e fecondo possibile, perché si fonda sulla realtà di
un Dio che dona senza misura e sul mistero del-
la libertà umana. Per l’educatore e il pastore, ciò
significa amare senza attendere ricompense, inse-
gnare senza pretendere di plasmare, testimoniare
con fedeltà senza l’ansia di vedere i frutti. Forse,
il primo e più importante frutto di questa semina
generosa non è quello che cresce nel campo, ma la
trasformazione del cuore del seminatore stesso, che
impara ad agire e ad amare con la stessa “follia”
divina, generosa e piena di speranza.
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MISSIONI 150
Ans
Era un VESCOVO
A CAVALLO
Quando
Leone era
Monsignor
Prevost,
vescovo
missionario
in Perù.
Abbiamo un Papa missionario
Un cuore traboccante di felicità è un cuore audace
e coraggioso che sfida timidezze e imbarazzi. È il
cuore di suor Grace Karina Gonzales Risco, fran-
cescana dell’Immacolata Concezione, che all’indo-
mani dell’elezione di papa Leone XIV scrive ai me-
dia vaticani per esprimere la sua gioia nel «sentire
di nuovo quella guida, quel trepidante messaggio di
speranza nella ricerca della pace». Racconta di ap-
partenere alla diocesi di Chiclayo, in Perú, la stessa
che dalla Loggia della basilica Vaticana il Pontefice
ha voluto salutare, ricordando «il popolo fedele che
ha accompagnato il suo vescovo». E quelle parole
pronunciate in spagnolo per suor Karina, da qual-
che tempo a Roma, e per le sue consorelle, sono
un tuffo nel passato quando con il vescovo Prevost
condividevano la missione nel Paese sudamericano.
«Mi ha emozionato – scrive – perché si è ricordato
della nostra terra, quel gesto dice molto di un uomo
che ha amato il suo gregge, da oggi ci terrà tutti nel
suo cuore».
Todos, todos, todos
C’è un momento che suor Karina non dimentica,
è quando proprio nel 2023 El Niño colpisce il Perú
con piogge intense e inondazioni che mettono in
ginocchio l’agricoltura del Paese e non solo. «Il ve-
scovo aveva voluto dare il suo contributo, fino alla
fine del suo mandato nella diocesi, chiedendo aiuto
per gli anziani che erano rimasti senza casa, per i
bambini che avevano perso tutto». La francescana
aggiunge poi un particolare: «Lui era così, partiva
a cavallo per raggiungere la zona della Sierra del
Nord», una regione montuosa andina. Un partico-
lare che racconta un aspetto nuovo di Leone XIV.
«In Perú – sottolinea suor Karina – misuriamo le
distanze con il tempo che impieghiamo per arriva-
re: dalla diocesi a quell’area ci vogliono tre, quattro
ore, non ci sono le strade ma dei cammini tortuosi
per raggiungere quei posti». «Lui è veramente un
missionario e ieri, con la scelta del nome, ha espres-
so il suo programma di vita richiamando Leone
XIII e la Rerum Novarum, quindi l’aspetto sociale.
Mi auguro che continui sulla linea di papa Fran-
cesco e quindi del Vangelo, che è la linea di tutti
i Papi, ognuno nel suo tempo, nel suo momento».
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L’ultimo auspicio di suor Karina è che arrivi al
Pontefice la forza della preghiera del popolo di Dio
e che si spenda per la pace: «Ne abbiamo tanto bi-
sogno – ammette la francescana –. Mi auguro che
continui a far sentire al mondo che Dio è vicino,
che Dio ci ama, ama tutti. Ieri dalla Loggia quan-
do Leone XIV ha detto “tutti”, abbiamo pensato
a Todos, todos, todos, di papa Francesco». Un segno
di continuità sul soglio di Pietro.
Un grande Papa
“Credo che l’esperienza in Perù – sottolinea il sin-
daco di Roma, Gualtieri – sia stata per lui bellis-
sima sia come missionario, sia come docente, sia
come vescovo di Chiclayo. Lui è una persona molto
semplice però determinata, un grande pastore, lo
definirei così. Sarà un grande Papa”. Un ministero
che sarà comunque impegnativo “ma – aggiunge il
presule – nel segno dell’unità, perché si possa cam-
minare insieme come una Chiesa collegiale, una
Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina come
popolo e, come lui stesso ha detto, per illuminare
la notte del mondo. È necessario infatti promuove-
re unità e pace in un mondo che vive, diceva papa
Francesco, una guerra mondiale a pezzi”.
NUMERO DEI MISSIONARI INVIATI DAL 1875 AL 2024
Don Bosco (1875 – 1888): 153;
Don Rua (1888 – 1910): 1528;
Don Albera (1910 – 1921): 501;
Don Rinaldi (1922 – 1931): 1984;
Don Ricaldone (1932 – 1951): 2665;
Don Ziggiotti (1952 – 1965): 1455;
Don Ricceri (1965 – 1977): 740;
Don Viganò (1977 – 1995): 870;
Don Vecchi (1996 – 2002): 196;
Don Chávez (2002 – 2014): 355.
Infine, tra il 2014 e il 2024 – durante il Rettorato del
Cardinale Ángel Fernández Artime, fino all’ultima
Spedizione Missionaria Salesiana presieduta dal Vicario del
Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio – i missionari
inviati sono stati 253.
LA STRATEGIA MISSIONARIA
DI DON BOSCO
L’evangelizzazione mediante
le vocazioni locali
Don Bosco aveva proprie idee sul modo di condurre le missioni tra le po-
polazioni della Patagonia. Eugenio Ceria cita la cronaca di don Barberis
del 12 agosto 1876: “Sono quindici giorni che don Bosco non sa parlare
d’altro che delle missioni e della Patagonia”. E continua: Il Beato si stu-
diava di risolvere il problema missionario sotto tutti i suoi aspetti. Così la
questione del clero indigeno, che oggi si è affacciata più imperiosa che
mai, ne preoccupava già la mente, quand’egli era appena sulla soglia
della sua attività missionaria: fin d’allora si propose la creazione di quel
clero come un obbiettivo da raggiungere nel più breve termine possibile;
in sette anni credette di potervi riuscire.
Cominciare dai piccoli
Don Bosco pensava che, per raggiungere questo scopo, più che dispiegare
una quantità di missionari sul campo, fosse preferibile aprire delle scuole
lungo il confine della Patagonia per formarvi le vocazioni dei nativi. San
Nicolàs sarebbe servito da esperimento pilota.
Certo, nessun sacerdote da solo avrebbe potuto raggiungere questo obiet-
tivo, ma una Congregazione religiosa ne aveva i mezzi. Il Santo citava l’e-
sempio di don Daniele Comboni che, nel cuore dell’Africa, aveva cercato in-
vano di formare da solo un clero locale; riteneva invece che fosse necessario
erigere un seminario minore con molti ragazzi, provvedendo a tutti i loro
bisogni, al fine di incentivare le vocazioni sacerdotali autoctone.
Nutriva grandissime speranze di un futuro carico di successo per le sue
missioni, purché i salesiani continuassero a lavorare preferibilmente tra
la gioventù povera. “Chi si mette per questa via, [...], non da più indietro”,
affermava. Inoltre, rammentava che alcune congregazioni religiose, pur
avendo operato molto bene nelle missioni, in fine avevano dovuto ritirarsi.
Era convinto che fosse necessario fare un passo oltre, ovvero raggiungere la
massa del popolo attraverso l’educazione e l’istruzione dei giovani poveri; di
conseguenza non si sarebbero mai ritirati dal proprio apostolato.
La 155° spedizione missionaria.
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IN PRIMA LINEA
C.M. Paul
BENGALA
Un’eredità di compassione
La missione tra i lebbrosi nel Bengala Occidentale.
Sopra:
Il direttore
della missione,
Dr. Mathew
George.
A destra:
Il vicedirettore,
padre Manoj
Jose.
K olkata, 18 Giugno
2025. Sulle orme di
Madre Teresa di Cal-
cutta e di illustri mis-
sionari salesiani italiani in Asia
– tra cui don Aurelio Maschio
a Mumbai, Orfeo Mantovani a
Chennai, don Nicosia Gaeta-
no in Cina e don Antonio
Alessi della Fondazione
Fratelli Dimenticati – un
salesiano indiano ha rac-
colto l’eredità del servizio ai
più emarginati.
Don Mathew George, salesiano dell’ispettoria
di Calcutta ed ex docente di Teologia Dogmati-
ca presso il Sacred Heart Theological College di
Shillong, ha avviato una missione dedicata ai pa-
zienti affetti da lebbra nel Bengala Occidentale. Il
suo impegno giunge in un momento significativo:
nel febbraio 2026, la Salesian India celebrerà il
centenario della sua ispettoria madre, Calcutta.
Nel cuore rurale del Bengala Occidentale, la mis-
sione Don Bosco HRD di Dhobasole celebra il pri-
mo anniversario del proprio impegno umanitario a
favore dei malati di lebbra e delle loro famiglie. È
un anno segnato da gesti concreti di compassione,
ascolto e riscatto sociale.
Il servizio si concentra presso l’Ospedale Gover-
nativo della Lebbra di Bankura, situato nel vil-
laggio di Anchuri, vicino alla stazione ferroviaria
locale. Nonostante la lebbra sia ufficialmente con-
siderata eradicata, migliaia di persone continuano
a combatterne gli effetti – soprattutto nelle aree
più svantaggiate dell’India. L’ospedale, con i suoi
500 letti distribuiti su dieci padiglioni, offre cure
mediche gratuite, vitto e alloggio, ma i pazienti re-
stano spesso vittime di uno stigma sociale ancora
radicato.
Durante una visita avvenuta lo scorso anno, il team
della Don Bosco HRD Mission ha evidenziato
gravi carenze materiali: mancavano armadietti per-
sonali, ausili per la mobilità e attrezzature mediche
basilari. Grazie al dialogo con i responsabili sani-
tari, è stato possibile avviare un piano di sostegno
diretto.
Come racconta il direttore della missione, Dr. Ma-
thew George: “Abbiamo fornito 500 armadietti, 50
sedie a rotelle, 20 tricicli e 50 paia di stampelle.
Piccoli strumenti, ma capaci di restituire dignità e
autonomia.”
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Il vicedirettore, padre Manoj Jose, ha coordinato la
distribuzione di 105 apparecchi acustici, 120 om-
brelloni e altrettanti ventilatori a soffitto. Inoltre,
nuovi strumenti diagnostici – come elettrocardio-
grafi, sfigmomanometri, stetoscopi e glucometri –
sono stati consegnati ai medici.
A sostenere concretamente queste iniziative è
stata Petra Theiner (Sudtirolo) dell’associazione
Hoffnung auf einen Besseren Morgen. Durante
una recente visita a marzo 2025, ha donato due ri-
sciò elettrici per il trasporto interno e due lavatrici
industriali, oltre a materassi, sgabelli, stoviglie, sa-
poni, abiti e beni per l’igiene personale.
Voci dalla sofferenza
e dalla speranza
Tra i pazienti incontriamo Keshav, 47 anni, ab-
bandonato dalla sua famiglia dopo la diagnosi:
“Mia moglie e i miei figli si sono rifiutati perfino
di guardarmi. Ma qui mi sento ancora una per-
sona.”
Meena, salvata dalla strada da un’assistente sociale,
spera in una nuova vita: “Guariamo nel corpo, ma
lo stigma ci resta sulla pelle.”
C’è anche Rambhai, ex insegnante di scuola, che
ha perso tutto: “Una volta salutato da tutti, oggi
nessuno incrocia più il mio sguardo.”
E Sarla, madre di due figli, respinta in una stazione
ferroviaria: “Mi coprivo le mani per non spaventare
chi mi incontrava. Ora sto guarendo, anche nell’a-
nima.”
Villaggi di rinascita: Pierdoba,
Garbheta, Bishnupur
Il reinserimento dei guariti è difficile. Per questo
lo Stato ha istituito tre villaggi satelliti. Qui Don
Bosco HRD Mission offre razioni alimentari agli
anziani, visite mediche, case per senzatetto, corsi
di recupero scolastico e cucito, ed ha costruito un
centro comunitario a Pierdoba.
Gopal, ex falegname, ha ritrovato uno scopo: “Non
pensavo di stringere di nuovo un martello.”
Anita si è reinventata sarta: “Questa macchina da
cucire è il mio futuro.”
A Garbheta, l’anziano Arun non chiede più l’ele-
mosina: “Ora ho un tetto, non solo un telo.”
Nel suo
primo anno,
la missione
Don Bosco
HRD Mission
Dhobasole ha
intrecciato
cura medica,
dignità e
rinascita
emotiva.
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IN PRIMA LINEA
Tumpa, vedova: “Nessuna scuola accetta i miei nipoti… ma ho ritrovato speranza.”
A Bishnupur, Shyam ora ha una casa vera. Kamala, prima mendicante, riceve pasti
regolari: “Per la prima volta mi sento vista.”
Un anno di servizio: la promessa continua
Nel suo primo anno, la missione Don Bosco HRD Mission Dhobasole ha intrec-
ciato cura medica, dignità e rinascita emotiva. Le ferite del corpo guariscono, ma è
nel rispetto ritrovato che si misura il vero impatto. In un mondo che dimentica gli
ultimi, la solidarietà può ancora illuminare i margini.
Sulle orme di don Bosco, verso un domani più giusto.
La missione Don Bosco HRD Dhobasole testimonia che la carità non è soltanto
assistenza, ma trasformazione. In un’India che cambia, accanto a ferite antiche, il
sogno salesiano continua a plasmare speranza e giustizia.
Questo primo anno è solo l’inizio. Là dove il dolore chiede ascolto e dignità, la presen-
za salesiana, sostenuta da cuori generosi in India e in Europa, continuerà a trasformare
ferite in racconti di riscatto.
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INDIA
Ans
Un ARTISTA Salesiano
I dipinti del salesiano coadiutore Mathew John Puthanangady,
dell’Ispettoria “Gesù Buon Pastore” di India-Nuova Delhi (INN)
abbracciano una vasta gamma di stili, soggetti e tecniche
di pittura ad olio, che lo hanno aiutato ad ottenere un
riconoscimento internazionale.
Ivari quadri di paesaggi e
personaggi biblici dipin-
ti dal sig. Puthanangady
sono considerati da molti
come dei capolavori e adornano
le pareti delle istituzioni sale-
siane in India e all’estero. Re-
centemente si è messo alla pro-
va, con ottimi risultati, con un
tema pittorico di antica tradi-
zione e con cui si sono cimentati
anche i massimi artisti di ogni
epoca: l’Ultima Cena di Gesù.
Il curatore e critico d’arte Uma
Nair, commentando la sua ultima opera, ha affer-
mato: “L’Ultima Cena è il soggetto pittorico di cui
si parla di più al mondo. Il signor Puthanangady
con quest’opera porta Leonardo da Vinci nel nuovo
millennio, creando un capolavoro contemporaneo
nel quale i partecipanti appartengono all’oggi. Ciò
che risulta più brillante sono la sua composizione e
la traduzione dell’espressione spirituale, insieme al
realismo della dimensione”.
Nel 2000, per celebrare il 125° anno della prima
Spedizione Missionaria Salesiana, l’allora Rettore
Maggiore, don Juan Edmundo Vecchi, invitò cia-
scuna Ispettoria a mandare missionari almeno due
dei suoi membri: il sig. Puthanangady si offrì di
partire e venne inviato in Nigeria. Nel Paese afri-
cano, quando non era impegnato nelle attività pa-
storali, trascorreva il suo tempo libero a dipingere
e a dare espressione alle sue capacità artistiche, che
oltre alla pittura includono l’animazione 2D e 3D,
la modellazione 3D, la progettazione grafica e la
fotografia.
L’allora Nunzio Apostolico in Nigeria, monsignor
Osvaldo Padilla, rimase talmente colpito dai suoi di-
pinti che gli chiese di realizzare quattro scenografie
tipiche africane per la Nunziatura della Santa Sede
in Nigeria. Nel 2002, su richiesta dell’Istituto “San
Zeno”, si è trasferito a Verona. Nel 2008, con il film
d’animazione “Il ragazzo del sogno”, ha vinto il se-
condo premio nella categoria YouTube al Festival
Internazionale del Cinema Cattolico di Niepoka-
lanów, Polonia.
Attualmente insegna Progettazione grafica e mul-
timedia presso l’Istituto Tecnico Don Bosco di
Nuova Delhi.
OTTOBRE 2025
11

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TEMPO DELLO SPIRITO
Don Silvio Roggia - Consigliere generale per la Formazione
DUE CARTE SUL TAVOLO
di ritorno dall’India
Carissimi tutti,
è martedì 19 agosto e sono in parten-
za dall’aeroporto di Mumbai dopo 20
giorni intensi di India: tanti volti, tante
storie, tanti giovani con sogni e talenti che si illu-
minano nei loro sguardi, nel loro modo di acco-
glierti, raccontarsi, fare festa.
Scelgo dal mazzo due carte, mentre inizia il boar-
ding per il volo verso Amman, e da lì poi prossimo
scalo a Fiumicino.
L’ultima sera in cui ero a Goa, prima di partire per
New Delhi, ho avuto la fortuna di incontrare il mio
confratello Father George Quadrios. Mi ha subito
contagiato l’entusiasmo con cui parlava della colti-
vazione del riso insieme alla gente dei villaggi. Non
c’era nel suo sguardo e nelle sue parole se non la gio-
ia di mettere insieme la sapienza di chi vive da ge-
nerazioni in quella terra e l’aiuto che può venire da
quanto oggi la tecnologia mette a disposizione, di
cui questo piccolo prete salesiano è un vero maestro.
Lui fa come la marea: con pazienza don George si è
messo a dirigere questa orchestra di natura e di vil-
laggi, di antica sapienza e nuovi sistemi, innescando
un circolo virtuoso di ascolto, cooperazione, incon-
tro, che ha permesso di rendere produttivi centinaia
di ettari di terreno o che erano stati abbandonati da
decenni, o che non erano ancora mai stati utilizzati,
per l’eccesso o la scarsità dell’acqua o perché manca-
va quel pizzico di nuova idea che innesca il cambia-
mento senza cancellare l’antico. “There is nothing
more practical than a good idea!”: non c’è niente di
più pratico di una buona idea! Don George in que-
sto è veramente geniale.
I droni sono tra i protagonisti di questa nuova mu-
sica agro-tradizionale-innovativa e a loro modo
sono simbolo della tecnologia “leggera”, poco inva-
siva, che permette di conoscere meglio la natura e
le potenzialità di ogni area e di riattivare una nuova
armonia tra uomo e natura, che sta riportando an-
che molti giovani a sposare l’agricoltura e la terra
come loro futuro, aprendo alternative all’esodo mi-
gratorio delle nuove generazioni, particolarmente
forte a Goa.
I droni: sono diventati simbolo quotidiano di morte
nei nostri telegiornali. A Goa con George e la sua
gente sono strumenti preziosi e perfettamente accor-
dati in questa sinfonia di vita. Come sempre dipende
dal cuore e dalla passione dell’uomo. A volte basta
uno solo per crederci e iniziare un processo che cre-
sce fino a cambiare la storia di tante comunità, di
un’intera regione. Qui tutti vincono. È possibile!
La seconda carta che condivido, mentre son già a
11 000 metri di altezza, mostra il volto di centi-
naia di giovani che ho incontrato e che desiderano
fare di don Bosco il loro futuro. Negli anni pas-
sati in Africa ho trovato questo stesso entusiasmo
e fascino per un santo piemontese dell’800 che
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OTTOBRE 2025

2.3 Page 13

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sembrerebbe a prima vista così lontano
quanto a meridiani e paralleli, e ancor più
per il numero delle generazioni intercor-
se. E invece no. Ho passato tanto tempo
ad ascoltarli a Goa, Shillong, Dimapur,
Nashik... Qualcuno mi raccontava che la
prima volta che ha letto la biografia di don
Bosco – quella scritta da Teresio, Bosco
come lui – non ha potuto trattenere le la-
crime. Anche qui c’è una segreta armonia
che si crea tra presente e passato, tra le ge-
nerazioni di giovani di oggi e qualcosa che
rimane sempre giovane pur venendo da
così lontano. Qui non si tratta di provare
la semina per qualche anno su un nuovo pezzo di
terra. Qui son pronti a regalare tutto il loro futuro
come lui ha fatto per altri ragazzi e giovani che han
bisogno di quel tipo di amico: quell’amico, padre e
maestro che lui continua ad essere.
Mi sono divertito a contemplare gruppi di ragazzi
e giovani che passano dalle danze stile “teenagers
2025”, con musiche, ritmi e movenze abbastanza
imparentate con quelle che usano i loro coetanei
negli altri continenti – son figli del loro tempo più
che dei loro padri! – e che subito dopo si mettono
a suonare una marcia con gli strumenti della “brass
band”: trombe, saxofoni, clarinetti, bombardino,
grancassa, piatti... un mix curioso di nuovo e antico
per me, ma non per loro: ciò che al mio palato ha
il sapore del “c’era una volta” per loro è un nuovo
gioco di squadra che li appassiona non meno del
cricket o del calcio. Le mie percezioni non sono la
misura della realtà: imparare a non lasciarci condi-
zionare troppo dai nostri punti di vista è una buona
idea, quanto mai pratica.
C’è un’armonia possibile nella vita tra tecnologia
e tradizione, tra quanto la natura offre e quanto
si può ottenere valorizzando le competenze e gli
strumenti oggi disponibili. C’è un’armonia ancora
più profonda tra lo spirito di chi come don Bosco
ha fatto della salvezza dei giovani la sua vita, e lo
spirito di giovani di oggi che vogliono come lui in-
contrare Dio nei loro coetanei e i ragazzi delle loro
strade, a partire dai più ai margini, incontrarli in
Dio. E questo non per una bella esperienza estiva
o un anno di volontariato, ma è quanto vogliono
essere per sempre, fino all’ultimo respiro.
Dipende dal cuore. Per me vedere che tutto questo
è possibile e che di fatto succede è già un grande
dono, che volentieri condivido mentre sto sorvo-
lando il Golfo Persico. Ciò che capita sul nostro
pianeta là sotto è senz’altro segnato da tante sfide e
immani tragedie, come sempre è stato nella storia,
ma è anche fatto di tante sinfonie nascoste, che ci fa
bene imparare ad ascoltare. Ci fa ancor meglio di-
ventarne partecipi, qualunque sia il mio strumento
e la mia parte nell’orchestra.
Mi torna in mente un paragrafo di papa Benedetto
che ho qui da qualche parte nel laptop e che vi la-
scio come ultimo souvenir: “I conquistatori vanno
e vengono. Restano i semplici, gli umili, coloro che
coltivano la terra e portano avanti semina e raccolto
tra dolori e gioie. Gli umili, i semplici sono, anche
dal punto di vista puramente storico, più durevoli
dei violenti”.
Ho ancora una manciata di centinaia di chilometri
prima di atterrare in Giordania. Vi regalo qualche
Ave Maria da quassù, per rinsaldare l’armonia più
importante di tutte, quella del “come in cielo così in
terra”. Ciao, don Silvio.
Don Silvio
con i ragazzi
di Goa.
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2.4 Page 14

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IN PRIMA PERSONA
Néstor Zubeldía (Boletín Salesiano De Argentina)
«STIAMO
TUTTI BENE»
Giovanni Battista Allavena (1855-1887)
fu il più giovane dei dieci missionari
della prima spedizione salesiana
in America e uno degli ultimi ad
aggiungersi alla lista dei passeggeri
del piroscafo Savoie.
Fu molto ben accetto nei vari luoghi in cui visse e lavorò.
Fu il primo salesiano ad arrivare in Paraguay, dove la
Congregazione si stabilì solo vent’anni dopo. Morì a Villa Colón,
in Uruguay, il 20 dicembre 1887, a soli 32 anni.
Mi chiamo Giovanni Battista, sono
nato a Pigna, un piccolo paese inca-
stonato tra le montagne della Ligu-
ria, vicino al confine con la Francia.
Ho frequentato la scuola salesiana ad Alassio e, una
volta completati gli studi, ho deciso di entrare in
noviziato. “Se crede che io possa essere utile per le mis-
sioni”, dissi una volta a don Bosco, “entrerò in Con-
gregazione, perché questo è veramente il mio desiderio”.
Entrai a far parte della Congregazione Salesiana
proprio mentre don Bosco era impegnato a prepa-
rare la prima spedizione missionaria in America.
All’inizio, non ero tra i candidati per il lungo viag-
gio. Ma non appena qualcuno si ritirò dalla lista,
don Bosco si ricordò della mia offerta e, con grande
gioia ed entusiasmo, potei unirmi al gruppo prima
del viaggio a Roma per presentarci al Papa come i
primi missionari salesiani.
Senza un soldo in tasca
“Dove sono i miei piccoli missionari?” chiese Pio
IX, vedendoci così giovani quando ci ricevette
al Palazzo Apostolico. A soli vent’anni, ero uno
dei più alti del gruppo, ma il mio viso mi tradiva
chiaramente. C’era un motivo se don Cagliero mi
chiamava “il ragazzo Allavena” nelle sue lettere.
Non avendo ancora completato il servizio milita-
re, Vicente Gioia e io, essendo i più giovani, non
potevamo imbarcarci a Genova. Così don Bosco
ebbe l’idea di attraversare il confine con la Fran-
cia, dove non era necessario fornire passaporti
per imbarcarsi. Ci unimmo al gruppo nel porto
francese di Marsiglia, il primo scalo del piroscafo
Savoie.
Cagliero scese subito aspettandosi di trovarci al
molo, ma arrivammo più tardi del previsto, appena
in tempo per imbarcarci. Tutti erano preoccupati
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per il nostro ritardo, ma noi eravamo più preoc-
cupati per la fame, perché senza una sola mone-
ta in tasca, eravamo rimasti tutto il giorno senza
mangiare. Don Cagliero ordinò una doppia cena
per noi e ci mandò subito a riposare. Lui, da parte
sua, mandò un telegramma a don Bosco il prima
possibile, secondo gli accordi. Se non ci avessero
trovati al porto, avrebbe dovuto scrivere: «Stiamo
bene». Ma se fossimo riusciti a radunare tutti e
dieci, avrebbe dovuto aggiungere «tutti». Così, con
grande soddisfazione, al calare della notte sulla
costa, il capo della spedizione poté telegrafare:
Stiamo tutti bene”.
Io, che non ero mai stato su una barca, rimasi stu-
pito quando attraversai lo Stretto di Gibilterra, rag-
giunsi le isole africane di Capo Verde e, una volta in
America, vidi la splendida baia di Rio de Janeiro.
Arrivati a Buenos Aires, alloggiammo con padre
Cagliero a casa di don Benítez, quel vecchio buono
e generoso che aveva scritto a don Bosco offrendo-
gli la scuola che stavano finendo di costruire per
noi a San Nicolás. Ci sistemammo lì. Feci subito
amicizia con i ragazzi e iniziai a parlare spagnolo,
a dare lezioni e ad andare a cavallo. Tre anni dopo,
monsignor Aneiros mi ordinò sacerdote. Iniziai il
mio sacerdozio in Paraguay, dove il rappresentante
del Papa mi portò per aiutarlo con le confessioni
della Settimana Santa. Ma alla fine, vi trascorsi
quasi due mesi. E se non fosse stato per don Fa-
gnano, che mi chiamava insistentemente da San
Nicolás, starei ancora bevendo tereré e parlando
guaraní.
I componenti
della Prima
Spedizione
missionaria.
Il chierico
Allavena
è il secondo
da destra,
in piedi.
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2.6 Page 16

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MISSIONARI
Ivo Coelho
Don José-Luis
CARREÑO
Il salesiano più
amato dell’India
Sia in India britannica, nella colonia portoghese di Goa,
nelle Filippine o in Spagna troviamo salesiani che custodiscono
con affetto la memoria di don José Luis Carreño (1905-1986).
Don Carreño è stato uno degli artefici della regione dell’Asia
Sud, e non possiamo permetterci di dimenticarlo.
José-Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao,
in Spagna, il 23 ottobre 1905. Rimasto orfa-
no di madre alla tenera età di otto anni, fu
accolto nella casa salesiana di Santander. Nel
1917, all’età di dodici anni, entrò nell’aspirantato di
Campello. Ricorda che a quei tempi “non si parlava
molto di don Bosco... Ma per noi un don Binelli era
un don Bosco, per non parlare di don Rinaldi, allo-
ra Prefetto Generale, le cui visite ci lasciavano una
sensazione soprannaturale, come quando i messag-
geri di Yahweh visitarono la tenda di Abramo”.
Dopo il noviziato e postnoviziato, svolse il tirocinio
come assistente dei novizi. Doveva essere un chieri-
co brillante, perché di lui scrive don Pedro Escursell
al Rettor Maggiore: “Sto parlando proprio in que-
sto momento con uno dei chierici modello di questa
casa. È un assistente nella formazione del personale
di questa Ispettoria; mi dice che da tempo chiede di
essere mandato nelle missioni e dice che ha rinun-
ciato a chiederlo perché non riceve risposta. È un
giovane di grande valore intellettuale e morale.”
Alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, nel
1932, il giovane José-Luis scrisse direttamente al
Rettor Maggiore, offrendosi per le missioni. L’of-
ferta fu accettata, e fu inviato in India, dove sbarcò
a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando
fu eretta l’Ispettoria dell’India del Sud, fu nomina-
to maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena
28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente
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▲torna in alto
e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa
e lasciò una profonda impressione nei suoi novizi.
“Ci conquistò con il suo cuore paterno”, scrive uno
di loro, l’arcivescovo Hubert D’Rosario di Shillong.
Il maglione blu
Don Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spes-
so come Carreño si fosse accorto che lui tremava di
freddo durante una conferenza. “Aspetta un mo-
mento, hombre,” disse il maestro dei novizi, e uscì.
Poco dopo rientrò con un maglione blu che conse-
gnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente
caldo. Poi si ricordò che sotto la talare il suo mae­
stro indossava qualcosa di blu… che adesso non
c’era più. Carreño gli aveva dato il suo maglione.
Nel 1942, quando il governo britannico in India
internò tutti gli stranieri provenienti da paesi in
guerra con la Gran Bretagna, Carreño, essendo
cittadino di un paese neutrale, non fu disturbato.
Nel 1943 ricevette un messaggio tramite la Radio
Vaticana: doveva prendere il posto di don Eligio
Cinato, ispettore dell’ispettoria dell’India del Sud,
anche egli internato. Nello stesso periodo, arcive-
scovo salesiano Louis Mathias di Madras-Mylapore
lo invitò a essere suo vicario generale.
Nel 1945 fu ufficialmente nominato ispettore, in-
carico che ricoprì dal 1945 al 1951. Uno dei suoi
primissimi atti fu consacrare l’Ispettoria al Sacro
Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che
la straordinaria crescita dell’Ispettoria del Sud fosse
dovuta proprio a questo gesto. Sotto la guida di don
Carreño, le opere salesiane raddoppiarono. Uno dei
suoi atti più lungimiranti fu l’avvio di un college
universitario nel remoto e povero villaggio di Ti-
rupattur. Il Sacred Heart College avrebbe finito per
trasformare l’intero distretto.
Un uomo dal cuore grande
Fu anche Carreño l’artefice principale della “india-
nizzazione” del volto salesiano in India, cercando
fin da subito vocazioni locali, invece di fare affida-
mento esclusivo sui missionari stranieri. Una scelta
che si rivelò provvidenziale: prima, perché il flus-
so di missionari stranieri si interruppe durante la
Guerra; poi, perché l’India indipendente decise di
non concedere più visti a nuovi missionari stranieri.
“Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il
merito di questa crescita va attribuito alle politiche
avviate da don Carreño,” scrive don Thekkedath
nella sua storia dei salesiani in India.
Don Carreño, come abbiamo detto, non era solo
ispettore, ma anche vicario di monsignor Mathias.
Questi due grandi uomini, che si stimavano profon-
damente, erano però molto diversi per temperamen-
to. L’arcivescovo era fautore di misure disciplinari
severe nei confronti dei confratelli in difficoltà, men-
tre don Carreño preferiva procedimenti più miti. Il
visitatore straordinario, don Albino Fedrigotti, sem-
bra aver dato ragione all’arcivescovo, definendo don
Carreño “un eccellente religioso, un uomo dal cuore
grande”, ma anche “un po’ troppo poeta”.
Alla vigilia
della sua
ordinazione
sacerdotale,
nel 1932, il
giovane José-
Luis scrisse
direttamente
al Rettor
Maggiore,
offrendosi per
le missioni.
L’offerta fu
accettata, e
fu inviato in
India.
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2.8 Page 18

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MISSIONARI
Non mancò neppure l’accusa di essere un cattivo
amministratore, ma è significativo che una figura
come don Aurelio Maschio, grande procuratore e
architetto delle opere salesiane di Mumbai, abbia
respinto con decisione tale accusa. In realtà, don
Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune
delle sue idee – come quella di coinvolgere volon-
tari non salesiani per un servizio di qualche anno
– erano, all’epoca, guardate con sospetto, ma oggi
sono largamente accettate e attivamente promosse.
Nel 1951, al termine del suo mandato ufficiale
come ispettore, a Carreño fu chiesto di rientrare
in Spagna per occuparsi dei Salesiani Cooperatori.
Non era questo il vero motivo della sua partenza,
dopo diciotto anni in India, ma Carreño accettò
con serenità, anche se non senza dolore.
Nel 1952 gli fu invece chiesto di andare a Goa,
dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima
vista,” scrisse in Urdimbre en el telar. Goa, da parte
sua, lo accolse nel cuore. Proseguì la tradizione dei
salesiani che prestavano servizio come direttori spi-
rituali e confessori del clero diocesano, e fu persino
patrono dell’associazione degli scrittori in lingua
konkani. Soprattutto, governò la comunità di Don
Bosco Panjim con amore, si prese cura con straor-
dinaria paternità dei tanti ragazzi poveri e, ancora
una volta, si dedicò attivamente alla ricerca di vo-
cazioni alla vita salesiana. I primi salesiani di Goa
– persone come Thomas Fernandes, Elias Diaz e
Romulo Noronha – raccontavano con le lacrime
agli occhi come Carreño e altri passassero dal Goa
Medical College, proprio accanto alla casa salesiana,
per donare il sangue e così ottenere qualche rupia
con cui comprare viveri e altri beni per i ragazzi.
Nel 1961 ebbero luogo l’azione militare indiana e
l’annessione di Goa. In quel momento don Carreño
si trovava in Spagna e non poté più fare ritorno all’a-
mata terra. Nel 1962 fu inviato nelle Filippine come
maestro dei novizi. Accompagnò solo tre gruppi di
novizi, perché nel 1965 chiese di rientrare in Spa-
gna. All’origine della sua decisione vi era una seria
divergenza di visione tra lui e i missionari salesia-
ni provenienti dalla Cina, e specialmente con don
Carlo Braga, superiore della visitatoria. Carreño si
oppose con forza alla politica di inviare i giovani sa-
lesiani filippini appena professi a Hong Kong per gli
studi di filosofia. Come accadde, alla fine i superiori
accettarono la proposta di trattenere i giovani sale-
siani nelle Filippine, ma a quel punto la richiesta di
Carreño di rientrare in patria era già stata accolta.
Con le sue
straordinarie
qualità di
mente e
di cuore,
divenne
rapidamente
l’anima della
casa e lasciò
una profonda
impressione
nei suoi
novizi. India,
Filippine,
Spagna:
ovunque
lasciò un
ricordo
indelebile.
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2.9 Page 19

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Il ritorno in Spagna
Don Carreño trascorse solo quattro anni nelle Fi-
lippine, ma anche qui, come in India, lasciò un’im-
pronta indelebile, “un contributo incommensurabi-
le e cruciale alla presenza salesiana nelle Filippine”,
secondo le parole dello storico salesiano Nestor Im-
pelido.
Rientrato in Spagna, ha collaborato con le Procure
Missionarie di Madrid e di New Rochelle, e all’a-
nimazione delle ispettorie iberiche. Molti in Spa-
gna ricordano ancora il vecchio missionario che
visitava le case salesiane, contagiando i giovani con
il suo entusiasmo missionario, le sue canzoni e la
sua musica.
Ma nella sua fantasia creativa stava prendendo
forma un nuovo progetto. Carreño si de-
dicò con tutto il cuore al sogno di
fondare un Pueblo Misionero con
due obiettivi: preparare gio-
vani missionari – per lo più
provenienti dall’Europa
dell’Est – per l’America
Latina; e offrire un rifugio
per missionari “pensionati”
come lui, i quali avrebbero
potuto servire anche come
formatori. Dopo una lun-
ga e sofferta corrispondenza
con i superiori, il progetto pre-
se finalmente forma nell’Hogar del
Misionero ad Alzuza, a pochi chilome-
tri da Pamplona. La componente vocazionale
missionaria non decollò mai, e furono pochissimi
i missionari anziani che si unirono effettivamen-
te a Carreño. Il suo principale apostolato in questi
ultimi anni rimase quello della penna. Lasciò più
di trenta libri, tra i quali cinque dedicati alla Santa
Sindone, alla quale era particolarmente devoto.
Don José-Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona,
all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della
sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di
Gesù poté affermare, nel giubileo d’oro della sua
ordinazione sacerdotale: “Se
cinquant’anni fa il mio mot-
to da giovane prete era ‘Cri-
sto è tutto’, oggi, vecchio e
sopraffatto dal suo amore,
lo scriverei in lettere d’oro,
perché in realtà cristo è
tutto”.
L’Hogar del
Misionero,
ad Alzuza,
adiacente
all’antica
chiesa. La
casa era
pronta nel
1973.
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2.10 Page 20

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LE CASE DI DON BOSCO
Andrei Munteanu
CASTEL GANDOLFO
In un contesto ricco di memoria imperiale, fede cristiana
e bellezza paesaggistica, la presenza salesiana rappresenta
un punto fermo di accoglienza, formazione e vita pastorale.
È una comunità che, da quasi un secolo, cammina al servizio
del Vangelo nel cuore stesso della tradizione cattolica.
Un luogo benedetto dalla storia
e dalla natura
Castel Gandolfo è un gioiello dei Castelli Roma-
ni, situato a circa 25 km da Roma, immerso nella
bellezza naturale dei Colli Albani e affacciato sul
suggestivo Lago Albano. A circa 426 metri di al-
titudine, questo luogo si distingue per il suo clima
mite e accogliente, un microclima che sembra pre-
parato dalla Provvidenza per accogliere chi cerca
ristoro, bellezza e silenzio.
Già in epoca romana questo territorio era parte
dell’Albanum Caesaris, un’antica tenuta imperiale
frequentata dagli imperatori sin dai tempi di Au-
gusto. Fu però l’imperatore Tiberio il primo a ri-
siedervi stabilmente, mentre più tardi Domiziano
vi fece costruire una splendida villa, i cui resti sono
oggi visibili nei giardini pontifici. La storia cri-
stiana del luogo ha inizio con la donazione di Co-
stantino alla Chiesa di Albano: un gesto che segna
simbolicamente il passaggio dalla gloria imperiale
alla luce del Vangelo.
Il nome Castel Gandolfo deriva dal latino Castrum
Gandulphi, il castello costruito dalla famiglia Gan-
dolfi nel xii secolo. Quando nel 1596 il castello
Panorama
dall’alto.
20
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3 Pages 21-30

▲torna in alto

3.1 Page 21

▲torna in alto
passò alla Santa Sede, diventò residenza estiva dei
Pontefici, e il legame tra questo luogo e il ministero
del Successore di Pietro si fece profondo e duraturo.
La Specola Vaticana: contemplare
il cielo, lodare il Creatore
Di particolare rilievo spirituale è la Specola Vatica-
na, fondata da papa Leone XIII nel 1891 e trasferita
negli anni ’30 a Castel Gandolfo a causa dell’inqui-
namento luminoso di Roma. Essa testimonia come
anche la scienza, quando orientata al vero, conduca
a lodare il Creatore.
Nel corso degli anni, la Specola ha contribuito a
progetti astronomici di grande rilievo come la Car-
te du Ciel e alla scoperta di numerosi oggetti celesti.
Con l’ulteriore peggioramento delle condizioni
di osservazione anche nei Castelli Romani, negli
anni Ottanta l’attività scientifica si spostò princi-
palmente presso il Mount Graham Observatory in
Arizona (USA), dove il Vatican Observatory Rese-
arch Group prosegue le ricerche astrofisiche. Castel
Gandolfo resta però un importante centro di studi:
dal 1986 ospita ogni due anni la Vatican Observato-
ry Summer School, dedicata a studenti e laureati in
astronomia di tutto il mondo. La Specola organiz-
za anche convegni specialistici, eventi divulgativi,
mostre di meteoriti e presentazioni di materiali
storici e artistici a tema astronomico, tutto in uno
spirito di ricerca, dialogo e contemplazione del mi-
stero della creazione.
Una chiesa nel cuore della città
e della fede
Nel xvii secolo, papa Alessandro VII affidò a Gian
Lorenzo Bernini la costruzione di una cappella
palatina per i dipendenti delle Ville Pontificie. Il
progetto, concepito inizialmente in onore di san
Nicola di Bari, fu dedicato infine a san Tommaso
da Villanova, agostiniano canonizzato nel 1658. La
chiesa fu consacrata nel 1661 e affidata agli Ago-
stiniani, che la ressero fino al 1929. Con la firma
dei Patti Lateranensi, papa Pio XI affidò agli stessi
La chiesa
parrocchiale
animata dai
Salesiani.
OTTOBRE 2025
21

3.2 Page 22

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
Il parroco,
oltre a guidare
la comunità
parrocchiale,
è anche
cappellano
delle Ville
Pontificie e
accompagna
spiritualmente
i dipendenti
vaticani che vi
lavorano.
Agostiniani la cura pastorale della nuova Pontifi-
cia Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, mentre la
chiesa di San Tommaso da Villanova venne succes-
sivamente affidata ai Salesiani.
La bellezza architettonica di questa chiesa, frutto
del genio barocco, è al servizio della fede e dell’in-
contro tra Dio e l’uomo: vi si celebrano oggi nume-
rosi matrimoni, battesimi e liturgie, richiamando
fedeli da ogni parte del mondo.
La casa salesiana
I Salesiani sono presenti a Castel Gandolfo dal
1929. In quegli anni il borgo conobbe un notevo-
le sviluppo, sia demografico sia turistico, ulterior-
mente anche grazie all’inizio delle celebrazioni
papali nella chiesa di San Tommaso da Villanova.
Ogni anno, nella solennità dell’Assunta, il papa ce-
lebrava la Santa Messa nella parrocchia pontificia,
una tradizione iniziata da san Giovanni XXIII il 15
agosto 1959, quando uscì a piedi dal Palazzo Ponti-
ficio per celebrare l’Eucaristia tra la gente. Questa
consuetudine si è mantenuta fino al pontificato di
papa Francesco, che ha interrotto i soggiorni estivi
a Castel Gandolfo. Nel 2016, infatti, l’intero com-
plesso delle Ville Pontificie è stato trasformato in
museo e aperto al pubblico.
La casa salesiana ha fatto parte dell’Ispettoria Ro-
mana e, dal 2009 al 2021, della Circoscrizione
Salesiana Italia Centrale. Dal 2021 è passata sotto
la diretta responsabilità della Sede Centrale, con
direttore e comunità nominati dal Rettor Maggio-
re. Attualmente i Salesiani presenti provengono
da diverse nazioni (Brasile, India, Italia, Polonia)
e sono attivi nella parrocchia, nelle cappellanie e
nell’oratorio.
Gli spazi pastorali, pur appartenendo allo Stato
della Città del Vaticano e quindi considerati zone
extraterritoriali, fanno parte della diocesi di Alba-
no, alla cui vita pastorale i Salesiani partecipano at-
tivamente. Sono coinvolti nella catechesi diocesana
per adulti, nell’insegnamento presso la scuola teo-
logica diocesana, e nel Consiglio Presbiterale come
rappresentanti della vita consacrata.
Oltre alla parrocchia di San Tommaso da Villa-
nova, i Salesiani gestiscono anche due altre chiese:
Maria Ausiliatrice (detta anche “San Paolo”, dal
nome del quartiere) e Madonna del Lago, voluta
da san Paolo VI. Entrambe furono costruite tra gli
anni Sessanta e Settanta per rispondere alle esigen-
ze pastorali della crescente popolazione.
La chiesa parrocchiale progettata da Bernini è oggi
meta di numerosi matrimoni e battesimi celebrati
da fedeli provenienti da tutto il mondo. Ogni anno,
con le dovute autorizzazioni, vi si tengono decine,
talvolta centinaia, di celebrazioni.
Il parroco, oltre a guidare la comunità parrocchiale,
è anche cappellano delle Ville Pontificie e accom-
pagna spiritualmente i dipendenti vaticani che vi
lavorano.
L’oratorio, attualmente gestito da laici, vede il coin-
volgimento diretto dei Salesiani, specialmente nel-
la catechesi. In occasione di fine settimana, feste e
attività estive come l’Estate Ragazzi, vi collaborano
anche studenti salesiani residenti a Roma, offren-
do un prezioso supporto. Presso la chiesa di Maria
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OTTOBRE 2025

3.3 Page 23

▲torna in alto
mente i paesi vicini. Sebbene la memoria liturgica
cada il 20 gennaio, la festa locale viene celebrata a
settembre, sia in ricordo della protezione ottenuta
sia per ragioni climatiche e pratiche.
L’8 settembre si celebra il patrono della chiesa, san
Tommaso da Villanova, in coincidenza con la Na-
tività della Beata Vergine Maria. In questa occasio-
ne si tiene anche la festa delle famiglie, rivolta alle
coppie che si sono sposate nella chiesa di Bernini:
sono invitate a tornare per una celebrazione comu-
nitaria, una processione e un momento conviviale.
L’iniziativa ha avuto ottimi riscontri e si sta conso-
lidando nel tempo.
Ausiliatrice esiste anche un teatro attivo, con grup-
pi parrocchiali che organizzano spettacoli, luogo di
incontro, cultura ed evangelizzazione.
Vita pastorale e tradizioni
La vita pastorale è scandita dalle principali feste
dell’anno: san Giovanni Bosco a gennaio, Ma-
ria Ausiliatrice a maggio con una processione nel
quartiere di San Paolo, la festa della Madonna del
Lago – e quindi la festa del Lago – l’ultimo sabato
di agosto, con la statua portata in processione su
una barca sul lago. Quest’ultima celebrazione sta
coinvolgendo sempre più anche le comunità dei
dintorni, attirando numerosi partecipanti, tra cui
molti motociclisti, con cui sono stati avviati mo-
menti di incontro.
Il primo sabato di settembre si celebra la festa pa-
tronale di Castel Gandolfo in onore di san Seba-
stiano, con una grande processione cittadina. La
devozione a san Sebastiano risale al 1867, quando la
città fu risparmiata da un’epidemia che colpì dura-
Una curiosità: la buca delle lettere
Accanto all’ingresso della casa salesiana si trova
una casella postale, nota come “Buca delle corri-
spondenze”, considerata la più antica ancora in uso.
Risale infatti al 1820, vent’anni prima dell’intro-
duzione del primo francobollo al mondo, il famoso
Penny Black (1840). È una cassetta ufficiale delle
Poste Italiane tuttora attiva, ma anche un simbolo
eloquente: un invito alla comunicazione, al dialo-
go, all’apertura del cuore. Il ritorno del papa Leone
XIV alla sua sede estiva, sicuramente lo aumenterà.
Castel Gandolfo resta un luogo dove il Crea-
tore parla attraverso la bellezza del creato, la
Parola proclamata e la testimonianza di una
comunità salesiana che, nella semplicità dello
stile di don Bosco,
continua a offrire
accoglienza, for-
mazione, liturgia
e fraternità, ri-
cordando a coloro
che si avvicinano a
queste terre in cer-
ca di pace e sereni-
tà che la vera pace
e serenità si trova
solo in Dio e nella
sua grazia.
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3.4 Page 24

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FMA
Emilia Di Massimo
ANGOLA
Il fascino della gioia
I bambini
della scuola
d’infanzia.
Hanno viaggiato di notte arrivando il
24 ottobre 1983; sono state accolte
dai Salesiani e ospitate nella comu-
nità delle suore di San Giuseppe di
Cluny, San Paolo. La missione educativa che han-
no iniziato è stata per i bambini, gli adolescenti, i
giovani, ma anche per le famiglie; si è svolta nel-
le scuole, nelle parrocchie, nei servizi sociali e nei
Centri professionali, secondo il carisma salesiano,
con l’impegno di concretizzarlo mediante un pro-
getto di educazione integrale rivolto in particolar
modo ai ragazzi poveri ed abbandonati, non solo
dal punto di vista materiale. “Educare”, per ogni
Figlia di Maria Ausiliatrice, ha la sua radice nel Si-
stema preventivo basato sulla ragione, sulla religio-
ne e sull’amorevolezza; le suore lo hanno vissuto in
una società aperta, multiculturale, pacifica, capace
di convivenza plurale. È questa l’impostazione che
in Angola hanno dato le prime sorelle giunte dal
Brasile: suor Theotonia Thiesen, suor Anna Bello
Soares, suor Juraci Maria da Silva, suor Maria das
Graças de Souza. Attualmente le Salesiane sono
presenti in 7 Comunità nelle Province di Benguela,
Cabinda, Kuanza Sul, Moxico e Luanda, le comu-
nità sono 3 e sono in Cazenga, Cacuaco, Viana.
“Gli ultimi anni sono stati di profondo cambia-
mento, pertanto si è fatto un discernimento per
comprendere le trasformazioni in atto e sintoniz-
zarsi con il cuore delle persone, con il grido degli
esclusi, con le problematiche giovanili”, ci dice suor
Maria das Graças de Souza.
L’esito lo possiamo dedurre da due testimonianze
di vita che, pur se differenti, sono strettamente col-
legate l’una all’altra.
Casa comune
«Sono suor Elsa Pulido, ho 53
anni, sono colombiana. Sin da
bambina ho sempre fatto par-
te del gruppo missionario della
scuola delle Figlie di Maria Au-
siliatrice; la gioia della dedizio-
ne e della generosità delle suore
mi ha affascinata. Ho sentito la
vocazione missionaria quando
ho visto un filmato riguardan-
te la missione svolta dalle Sa-
lesiane tra gli indigeni. Avevo
16 anni. A 17 anni ho inizia-
to la formazione per diventare
religiosa e, quando lo sono di-
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OTTOBRE 2025

3.5 Page 25

▲torna in alto
ventata, ho fatto la richiesta di essere missionaria
con la convinzione che “c’è più gioia nel dare che
nel ricevere”. Sono stata prima in Colombia, in una
missione al servizio delle giovani contadine, in un
collegio per 200 adolescenti e ragazzi, in una scuola
di educazione sociale.
Nel 1988 sono venuta in Angola; erano tempi di
guerra eppure le suore erano molto allegre e cordia-
li, soprattutto con i ragazzi. Ho lavorato in oratorio,
nella catechesi, nei gruppi giovanili, nelle scuole
della diocesi ed in seguito nelle nostre. Malgrado il
periodo difficile a causa della situazione del paese,
abbiamo condiviso tutto tra noi e fatto campi per i
giovani in città, in periferia; con i Salesiani abbia-
mo lavorato per la formazione dei ragazzi. Dopo
35 anni di vita missionaria sono molto felice ed en-
tusiata di avere l’opportunità di essere attenta agli
altri. Attualmente mi trovo a Luena, dove faccio
assistenza all’asilo nido. Siamo 6 suore ed abbiamo
una scuola con 3000 alunni, inoltre 18 giovani di
diverse province che vivono con noi perché hanno
scelto di vivere la vita consacrata».
mi ha maturata; è stato in questo ambiente educativo
che si è svegliato in me il forte desiderio di conosce-
re meglio Dio e di fare un’esperienza personale con
Lui, ciò che, con l’aiuto delle suore è stato possibile.
Quanto sono oggi lo devo principalmente al clima
vissuto nella scuola salesiana, agli svariati momenti
formativi, alle celebrazioni di fede, alle feste, al dono
di sé ai più poveri. Tutto questo ha fatto nascere
in me il desiderio e l’impegno di lasciare il mondo
migliore di come l’ho trovato. Alle Figlie di Maria
Ausiliatrice la mia gratitudine per la dedizione ai
bambini, agli adolescenti, ai giovani di Benguela. La
vostra presenza nelle terre di Ombaka ha portato e
continua a portare molti frutti trasformando il cuore
e l’esistenza di quanti vi avvicinano».
Suor Elsa e Roseira, che con la loro testimonianza
indicano come ci si può prendere cura del creato, ri-
cordano quanto afferma la sceneggiatrice LeeAnn
Taylor. “Siamo tutti farfalle. La terra è la nostra
crisalide”.
Gli ultimi anni
sono stati
di profondo
cambiamento,
pertanto si è fatto
un discernimento
per comprendere
le trasformazioni
in atto e
sintonizzarsi
con il cuore
delle persone,
con il grido degli
esclusi, con le
problematiche
giovanili.
La mia gratitudine
«Sono Roseira Correia, exallieva di Benguela; pro-
vengo da una famiglia cattolica, ho frequentato la
scuola “Laura Vicuña” dove, oltre ad arricchirmi
culturalmente, sono maturata come “buona cristiana
ed onesta cittadina”. Con lo scorrere degli anni ho
appreso le prime catechesi, ho intensificato l’amore
e la devozione a Maria Ausiliatrice, a Maria Maz-
zarello, a Laura Vicuña, a don Bosco. Vivere e spe-
rimentare l’amore di Dio per gli altri mi ha portata
ad essere attenta alla casa comune, ovvero il creato.
Ho imparato a scuola a pregare prima delle lezioni,
a curare l’igiene della nostra classe e molto altro che
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3.6 Page 26

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RISCOPERTE
Marco Panero
TI ADORO (DEL MATTINO)
C’è un tesoro da riscoprire: è il felice titolo
di un bel libro del salesiano Marco Panero.
Il tesoro, un po’ dimenticato, sono le
preghiere del buon cristiano. Quelle che sono
le “ali” della giornata. Presentiamo qualche
pensiero della prima preghiera.
«Ti adoro, mio Dio,
e ti amo con tutto
il cuore»
«Signore, se ancora non ti amo con tutto il cuore, in
questa giornata che sta iniziando lo voglio fare, al-
meno ci voglio assolutamente provare». E se, avan-
zando nel corso della giornata, mi dovessi accorgere
che non sto camminando in quella direzione, che il
mio cuore è ingombro di altre cose che prendono il
posto di Dio, non mi scoraggio né lascio perdere,
ma ripeto a me stesso quelle parole pronunciate al
mattino, che hanno il sapore di un impegno: «Ti
adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore».
Tra adorazione e amore vige dunque una stretta
connessione: se viene a mancare la riverenza verso
Dio, se cioè si smarrisce l’attitudine all’adorazio-
ne, presto si perde il gusto e la gioia delle cose
di Dio e, prima o poi, ci si disamora anche delle
creature.
«Ti ringrazio di avermi creato,
fatto cristiano e conservato
in questa notte»
Partiamo dall’ultima espressione: ti ringrazio di
avermi conservato in questa notte. Sì, perché non è
scritto da nessun parte che io oggi debba essere an-
cora in vita; la vita non è un diritto da rivendicare,
ma semmai un prestito, un credito che ci viene con-
cesso ripetutamente da Dio, al ritmo di un giorno
alla volta.
Non siamo noi i padroni della nostra vita, ma sol-
tanto gli amministratori. Non apparteniamo a noi
stessi, e questa stessa vita fisica potrebbe esser-
ci tolta da un momento all’altro, senza il nostro
consenso e senza preavviso. Così come nessuno
ha chiesto il nostro beneplacito per farci venire al
mondo!
Dopo aver ringraziato per il dono della vita, condi-
zione base di ogni altro dono, la preghiera passa a
ringraziare Dio per il dono della fede cristiana, che
di quella vita ne dischiude il senso.
«Ti offro le azioni della giornata:
fa’ che siano tutte secondo
la tua santa volontà
per la maggior tua gloria»
Siccome sappiamo che i nostri propositi di bene,
al di là delle oneste intenzioni, restano pur sempre
fragili, allora offriamo anticipatamente al Signore
le nostre azioni, chiedendogli che siano davvero
buone, ossia conformi alla sua volontà.
«Preservami dal peccato
e da ogni male»
Segue immediatamente un’altra supplica: «Pre-
servami dal peccato e da ogni male». È significativo
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l’ordine delle due richieste: si chiede anzitutto di
essere custoditi dal peccato e, dunque, da ogni altro
male che possa incombere, perché il peccato è la
sventura più grave che ci possa toccare, semplice-
mente perché ci fa perdere il bene più grande, Dio.
Un cristiano che ogni mattina preghi sinceramen-
te con queste parole, non commetterà gravi scioc-
chezze, né incorrerà facilmente in peccati mortali.
E se, sventuratamente, ciò dovesse capitare, subito
saprà ricorrere alla misericordia di Dio, distaccar-
si da quel peccato e provarne sincero dispiacere e
pentimento.
È bello fasciarle idealmente nella nostra preghiera,
anche a loro insaputa.
La preghiera cristiana sa farsi carico delle persone
singole, trova il tempo di presentare al Signore nomi
e volti che ci sono cari, o persone che ci hanno pre-
gato di un ricordo particolare al Signore per loro.
Non sfugga poi l’oggetto di questa supplica. Per noi
e per i nostri cari non chiediamo anzitutto salute,
lavoro, benessere, ma qualcosa che è più prezioso di
questi pur importanti beni: chiediamo la grazia di
Dio, il privilegio di vivere sempre sotto la copertura
di questa grazia.
«La tua grazia sia sempre con me
e con tutti i miei cari»
Parole cariche di consolazione, perché si estendono
alle persone che ci sono care, le quali si trovano ma-
gari molto lontano da noi e forse, quando recitiamo
le preghiere del mattino, stanno ancora dormendo.
Marco Panero (1982), salesiano, è professore di filosofia
morale presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma e,
attualmente, Prelato consigliere della Penitenzieria Aposto-
lica. Alla ricerca e all’insegnamento accademico affianca il
ministero della predicazione. Con Àncora ha pubblicato Nella
tenda del convegno. Meditazioni di vita spirituale (2023).
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3.8 Page 28

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INIZIATIVE
Antonio Labanca di Missioni don Bosco
La CORSA
della SPERANZA
città, dove numerose famiglie arrivano in cerca di
lavoro”. Sono sorti così quartieri popolati da un’u-
manità senza diritti, prostrata dalla miseria, che,
giorno dopo giorno, aumenta. Le persone vivono in
baraccopoli e lungo i binari ferroviari in condizioni
antigieniche e pericolose.
Per dare maggiore visibilità ai
ragazzi di Howrath e Calcutta,
l’annuale Corsa dei Santi – che si
svolge a Roma il 1° novembre –
parlerà di loro.
Calcutta conta 4,5 milioni di abitanti, ai
quali – per comprendere dimensione e
complessità della situazione – si deve som-
mare il milione di residenti di Howrath,
la città che sta a dirimpetto. Insieme costituiscono
una megalopoli unita da un massiccio ponte in me-
tallo che ne è diventato il simbolo.
“In questa zona del paese la povertà è molto diffu-
sa” spiega l’ispettore salesiano P. Joseph Pauria. “A
causa della mancanza di opportunità di sostenta-
mento nelle aree rurali – aggiunge – si assiste ad un
consistente fenomeno migratorio verso queste due
Opportunità educative
La locale ispettoria San Giovanni Bosco (che com-
prende circa 40 sedi) sta cercando di dare una ri-
sposta a questa situazione, offrendo opportunità
educative ai minori svantaggiati che vivono nelle
strade e nelle baraccopoli di Howrath e Calcutta.
Per loro hanno avviato un programma chiamato
“Educazione per tutti” che prevede la gestione di una
ventina di scuole di strada, grazie alle quali trovano
conforto e istruzione più di 760 bambini, mentre
altri 2500 circa beneficiano di attività di orienta-
mento, sensibilizzazione, sviluppo delle capacità
individuali, supporto psicologico e iniziative sani-
tarie essenziali.
I missionari indiani si sono rivolti in Italia a Mis-
sioni Don Bosco per portare avanti questo progetto
educativo, in particolare in 6 scuole di strada che
accolgono 240 bambini e ne supportano altri 1000
circa attraverso il programma di coinvolgimento
delle comunità locali. Grazie ai nuovi aiuti, verran-
no organizzate sessioni didattiche giornaliere, in-
centrate su materie fondamentali quali matematica,
lingua e scienze per colmare le lacune didattiche;
gli allievi verranno aiutati a iscriversi alle scuole
pubbliche più vicine alla loro abitazione alla fine
dell’anno scolastico: a questo scopo verranno for-
nite le uniformi e il materiale didattico necessari
ai bambini che accedono alla scuola tradizionale.
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3.9 Page 29

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Il curriculum scolastico verrà integrato con attività
sportive, artistiche e programmi culturali.
Nel cuore di Roma
Per il progetto, che è già avviato e si sviluppa su tre
anni, Missioni Don Bosco si è impegnata a dare
un contributo annuale di oltre 28mila Euro e a sua
volta fa appello ai benefattori. Per dare maggiore
visibilità ai ragazzi di Howrath e Calcutta, l’an-
nuale Corsa dei Santi – che si svolge a Roma il 1°
novembre – parlerà di loro ai corridori e agli spet-
tatori. Grazie anche all’attenzione mediatica, sarà
possibile seguire la manifestazione e partecipare da
casa alla raccolta fondi collegandosi al sito www.
missionidonbosco.org che riporta le varie modalità
possibili, compreso l’sms solidale.
Essendo nell’anno giubilare, il tracciato della corsa
è stato reso molto significativo con la fissazione di
quattro tappe per una staffetta che coprirà il per-
corso dei professionisti (19.5 km, mentre la com-
petizione per i i concorrenti amatoriali è limitata a
10 km). “Si tratta di un vero e proprio viaggio nel
cuore della Roma cristiana” spiegano gli organiz-
zatori della Corsa dei Santi: “si parte (e si arriva) a
San Pietro, si raggiunge San Paolo Fuori le Mura
attorno al km 7, si passa per San Giovanni in Late-
rano e, poco prima del km 14, si tocca anche Santa
Maria Maggiore”.
Quattro tappe simboliche per una Corsa che pro-
pone l’impegno per la pace. “Il Giubileo anzitutto
vuole proporre lo stop ai conflitti arma-
ti” ricorda Missioni Don Bosco: “si
vorrebbe fermare ogni guerra
in corso per consentire a
ciascuno – nella Grazia
che Dio dona a tutti
– di mettere in primo
piano il suo rapporto con la
vita. Invece, questa viene negata
alla radice: in Ucraina come a Gaza,
in Sudan come in Myanmar e purtrop-
po in numerosissimi altri Paesi”.
Come far stare assieme l’allegria di un grande ra-
duno in una domenica romana (lo stesso giorno si
concluderà il Giubileo del mondo educativo!), la
competizione sportiva, l’attenzione a una partico-
lare condizione di povertà per la quale stendere la
mano per una richiesta di aiuto?
“Possiamo provare a esprimere pubblicamente il
nostro desiderio di pace per le vittime dirette e
indirette” propone Missioni Don Bosco, “possia-
mo affermare ciò che si contrappone alla guerra:
la capacità di relazione senza barriere, il piacere di
una sana esperienza collettiva, la soddisfazione per
un risultato personale che non deruba nessuno di
qualcosa”. Sorrisi scambiati con tutti,
libertà di movimento in una città re-
stituita (almeno in parte) alla gente,
rumori e parole che non aggredi-
scono, traguardi raggiunti a prezzo
di vera fatica, un po’ di confu-
sione. E poi accompagnare ad
ogni tappa un pensiero legato
alle quattro basiliche: a San
Pietro, per chi opera per
la giustizia sociale e fra i
popoli; a San Paolo fuo-
ri le mura, per chi opera
per l’educazione scolastica;
a San Giovanni in Laterano,
per i diritti dei diseredati, a
Santa Maria Maggiore, per
chi si occupa dei più piccoli
fra noi.
I beneficiari
della Corsa
dei Santi.
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3.10 Page 30

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SANTI
Paul Ripaud (da Don Bosco aujourd’hui)
CAMILLE COSTA
DE BEAUREGARD
Il “don Bosco savoiardo”
Nel 1954 i Salesiani furono chiamati a
Chambéry per occuparsi dell’orfanotrofio
del Bocage, opera fondata da Camille
Costa de Beauregard, ereditando una
casa che ospitava un gruppo di bambini,
un terreno devastato e anche la causa di
canonizzazione del Fondatore, in corso da
trent’anni (1925). Padre Chambe, il primo
direttore salesiano, scoprì la personalità di
questo sacerdote diocesano, la cui fama di
santità non era cessata dopo la sua morte.
Camille Costa de Beauregard nacque nel
febbraio 1841 da una nobile famiglia
savoiarda. Suo padre, il marchese Pan-
taléon, era un proprietario terriero molto
ricco, Grand Ecuyer del re di Piemonte-Sardegna,
Carlo Alberto. Fu membro del Parlamento di To-
rino, dove si scontrò in particolare con Camillo Ca-
vour, piuttosto anticlericale. La famiglia viveva nel
castello di La Motte-Servolex, vicino a Chambéry,
nel cuore di un grande appezzamento di terreno ir-
rigato da un piccolo fiume e da uno stagno. Il gio-
vane Camille era il quinto di nove fratelli. All’età
di 11 anni viene mandato dai gesuiti a Brugelette,
in Belgio; a 15 anni va a Tolosa, sempre dai gesuiti,
prima di tornare al castello con un precettore, l’abbé
Chenal, che sarà al suo fianco per decenni.
Dalle serate mondane
al sacerdozio
Attratto dalle serate mondane, sempre vestito
all’ultima moda, Camille attraversa un periodo di
dubbi, una crisi profonda che lo porta ad abban-
donare quasi ogni pratica religiosa. Rimane però
fedele alla preghiera a Maria.
L’abbé Chenal lo accompagna senza mettergli
fretta. Un giorno fa uno strano sogno. Si trovava
a Parigi, all’uscita da una riunione sociale con i
suoi genitori. Sul marciapiede, due bambini con lo
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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scialle tendono la mano per ricevere una moneta.
Camille dà loro una stretta di mano e sale in mac-
china. Cullato dai sobbalzi, si addormenta. In so-
gno, si vede accogliere questi due ragazzi, educarli
e dar loro un mestiere. Poi ne arrivano molti altri.
Si sveglia turbato. Da quel momento in poi, il suo
comportamento inizia a cambiare e le sue letture
diventano più serie.
Un giorno, nella cattedrale di Chambery, ebbe
un’illuminazione! Ritrovò il Dio che stava fuggen-
do, versò lacrime dolci (come lui stesso racconta) e
sentì la chiamata alla donazione totale nel sacerdo-
zio. Dopo un ritiro spirituale, entrò nel Seminario
francese di Roma nel settembre 1863. Ebbe molta
difficoltà a rinunciare ai suoi gusti lussuosi e l’au-
stera tonaca, che ora indossava, era molto difficile
da portare. L’abbé Chenal, che lo aveva accom-
pagnato nella città santa, un giorno gli regalò un
quadro raffigurante san Benedetto Labre, il povero
mendicante morto in condizioni di estrema pover-
tà, dicendogli: «È lì che bisogna arrivare!». Camille
capì la lezione.
Si rivolse dapprima ai bambini di un quartiere pove-
ro di Roma, poi, nel giugno 1867, tornato a Cham-
bery, una volta diventato sacerdote, chiese al suo
vescovo un posto di quarto vicario nella cattedrale,
senza stipendio né alloggio, per mettersi al servizio
degli operai. Fondò inoltre, per loro, una «Società di
Mutuo Soccorso San Francesco di Sales».
Una vita per gli orfani
Pochi mesi dopo la sua nomina, il colera colpì la cit-
tà e decimò intere famiglie. Gli orfani si moltiplica-
rono e si ritrovarono per strada. Il cuore di Camille
non poteva rimanere insensibile. Ne accoglie alcuni
nel bilocale che occupa. Ma questa situazione non
può durare, tanto più che altri bambini arrivano in
soccorso. Il conte di Boigne, benefattore della città
di Chambéry, gli propone l’antica casa delle doga-
ne. È l’inizio dell’opera della sua vita, al servizio
dei bambini privi di genitori; è qui che il suo umile
lavoro con i piccoli lo porterà a una santità ricono-
sciuta da tutti i suoi contemporanei, compresi gli
anticlericali.
L’edificio era sufficientemente grande e adatto e
poteva essere utilizzato come giardino. L’ambien-
te naturale di questo luogo contribuì a far sì che il
quartiere venisse chiamato “Le Bocage”. Il proprie-
tario li accolse calorosamente e, in una lettera data-
ta 7 dicembre, offrì loro un contratto di locazione
per diciotto anni.
Questa offerta diede impulso al nuovo orientamen-
to di Camille: da quel momento in poi sarebbe sta-
to il “padre degli orfani” e avrebbe sacrificato la sua
vita e la sua salute a questa responsabilità. I primi
Camille a
sedici anni.
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4.2 Page 32

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SANTI
Con
L’Ispettore
dei Salesiani
il ricordo dei
150 anni della
fondazione
del Bocage.
mesi del 1868 furono dedicati alla realizzazione
dell’opera.
Il Conte trasformerà presto l’affitto in donazione,
firmando l’atto l’11 marzo 1868.
Da aprile, nella nuova casa furono ospitati dieci
ragazzi di età compresa tra 6 e 13 anni. Alla fine
dell’anno erano 21 e presto molti di più. Camille
chiese ai Fratelli delle Scuole Cristiane di prendersi
cura di loro durante il giorno e di istruirli.
Dalla mattina alla sera, al servizio dei suoi ragazzi,
sviluppò un metodo di insegnamento ereditato da
san Francesco di Sales (“Nulla con la forza, tutto
con l’amore”), molto vicino a quello di don Bosco,
che aveva visitato a Torino nel 1869. Il pilastro cen-
trale di questa pedagogia è l’affetto: “Spesso mi si
chiedeva quale sistema, quale metodo speciale usas-
simo per formare i nostri figli in questo modo. Il
nostro segreto è molto semplice, rispondevo, non è
affatto complicato: li amiamo molto, e questi bravi
bambini lo capiscono; ed è senza dubbio questo af-
fetto che ci fa trovare i modi migliori per raggiun-
gere i loro cuori e le loro menti, per formarli bene.
Questa intuizione, giudicata audace per l’epoca, gli
consentiva di mantenere una “giusta distanza” con
i ragazzi, come ricorda spesso l’associazione “Ami-
ci di Camille Costa de Beauregard”. E di avvici-
narsi all’insegnamento di san Giovanni Bosco, da
cui deriva il soprannome di “don Bosco savoiardo”.
Benché Camille non sia mai entrato nella Congre-
gazione Salesiana, i due si incontrarono a Torino nel
1879. Il legame si mantenne nel tempo: nel 1954,
Ernest, nipote di Camille, gli succedette alla guida
dell’orfanotrofio e affidò la fondazione ai salesiani,
secondo le ultime volontà dello zio. La sua opera
continua ancora oggi attraverso il liceo professionale
agricolo Costa-de-Beauregard e una casa-famiglia a
carattere sociale che accoglie 149 giovani.
Campeggiare sotto il cielo stellato
Uno dei primi orfani del Bocage era allievo di
don Bosco, fondatore dei salesiani che sarebbero
poi succeduti ai Costa nell’opera di Chambery. Si
trattava di un certo Victor Berthollier (1855-1928),
nato a Chambery ma portato all’età di cinque anni
dai genitori nel capoluogo piemontese e affidato a
don Bosco che lo preparò per la prima comunione.
Rientrato con la madre a Chambery in una situa-
zione di grande disagio familiare, il giovane Victor
fu accolto da Camille il 15 aprile 1868. Imparò il
mestiere di orticoltore e divenne responsabile della
coltivazione a La Villette, poi all’orfanotrofio delle
Marches che il fondatore avrebbe creato con la so-
rella Alix.
Uno dei primi grandi progetti, nello stesso anno
1868, fu l’inizio della costruzione di una cappella e
l’innalzamento dell’edificio di un secondo piano. Il
costo del lavoro fu sostenuto dalla madre. Il prio­
re della Grande Chartreuse, informato dall’abbé
Chenal dell’inizio dei lavori, fornì anche assistenza
finanziaria per cinque anni. Fu l’inizio di una lun-
ga solidarietà tra i Certosini e i Bocage.
Il 18 novembre, dopo un anno e qualche mese di
sacerdozio, Camillo venne insignito del titolo di ca-
nonico della cattedrale di Chambéry, allora molto
invidiato e ammirato. Il giovane sacerdote, appena
ventottenne, non fece mai sfoggio di questa distin-
zione, tanto che perfino alcuni dei suoi amici più
intimi ne vennero a conoscenza solo molto più tardi.
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OTTOBRE 2025

4.3 Page 33

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In poco tempo Camille gettò le basi dell’opera di
Bocage alla quale si sarebbe dedicato completa-
mente.
L’orticoltura era al centro della formazione impar-
tita ai giovani del Bocage. Camille voleva evitar
loro una vita da operai e vedeva nel lavoro dei cam-
pi la garanzia di un impiego ben remunerato presso
famiglie notabili della Savoia, alcune delle quali
impiegavano centinaia di giardinieri. In tal modo,
poteva collocare i suoi protetti. “Per lui era anche
una garanzia morale per i ragazzi, che desiderava
tenere fino ai 16 anni”, riporta Xavier de Roissart,
Direttore della Fondazione del Bocage.
Camille voleva formare i giovani a un mestiere, ma,
spinto dall’amore per la musica e la pittura, lasciava
ampio spazio al tempo libero nella loro educazione.
Teatro, giochi e fanfare facevano parte della quoti-
dianità dei ragazzi, insieme alle lunghe passeggiate.
La vita a contatto con la natura faceva parte delle
sue intuizioni pedagogiche. Accompagnava rego-
larmente i giovani in escursione sulle montagne: al
Monte Granier, nei massicci delle Bauges o fino
al Monte Nivolet, che domina Chambéry. “Stare
nella natura impone il senso del reale, della pre-
cauzione, ma anche una dimensione di trascenden-
za che si percepisce quando si campeggia sotto un
cielo stellato”, aggiunge ancora Xavier de Roissart.
La vita di Camille Costa de Beauregard fu intera-
mente donata, con una carità senza limiti, una po-
vertà scelta e un’umiltà senza pari. All’età di 69 anni,
logorato dalle preoccupazioni e dalla salute cagione-
vole, morì all’alba del 25 marzo 1910, Venerdì Santo
di quell’anno. Pochi mesi dopo la sua morte, al ter-
mine di una novena, un ragazzo con una grave ferita
agli occhi guarì per intercessione di Camille. Questa
guarigione, che la scienza non riusciva a spiegare, fu
riconosciuta come miracolosa.
Sopra:
L’entrata del
Bocage oggi.
Sotto: Camille
(seduto al
centro) con i
primi bambini
del Bocage.
OTTOBRE 2025
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 20
RINGRAZIARE i figli
Abbiamo mai pensato a tutto quello che riceviamo dai figli?
Mai pensato a tutto quello che dobbiamo loro?
È vero che i figli ci possono complicare la vita,
però non è meno vero che ce la possono arricchire.
«Gesù chiamò un bambino, lo mise
in mezzo a loro e disse: “Vi assi-
curo che se non cambiate e non
diventate come bambini non
entrerete nel regno di Dio”» (Matteo 18, 2-3). Frase
difficile da prendere alla lettera, soprattutto da chi
è quotidianamente esasperato dalla convivenza con
tiranni in formato ridotto. I bambini hanno davve-
ro qualcosa da insegnarci?
Il mestiere di genitore può essere una condanna alla
schiavitù e alla nevrosi o un viaggio entusiasmante
che arricchisce e trasforma. Uno degli elementi che
fa la differenza è la disponibilità ad imparare. Di
solito i genitori pensano a ciò che possono insegna-
re ai figli. Forse, una volta tanto, devono chiedersi
che cosa possono imparare da loro.
rossastra che fosse la cosa tra le mie braccia, da essa
emanava una forza invincibile».
Ci danno occhi nuovi, stupore nuovo. Una ma-
dre diceva: «Il mio terzo figlio mi sta illuminan-
do la vita, è il più bel regalo al cuore». Un padre
aggiungeva: «Guardando negli occhi di mio figlio,
vedo la luce che nei miei occhi si è affievolita: mi
accorgo d’essere rinato. Guardando negli occhi di
mio figlio sono diventato più forte insieme alla sua
innocenza». I figli ci rinnovano. Come non dar ra-
gione a Peter De Vries quando affermava che “il va-
lore del matrimonio non sta nel fatto che gli adulti
generano i bambini, ma che i bambini generano gli
adulti”?
I figli ci reinventano
Il noto scrittore ebreo mitteleuropeo Joseph Roth
nella sua opera La cripta dei Cappuccini ha que-
sto paragrafo luminoso sulla nascita dell’uomo:
«Nell’istante in cui potei prendere tra le braccia mio
figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile
sublime beatitudine che dovette colmare il Crea-
tore il sesto giorno quando egli vide la sua opera
imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo
fra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante,
brutta, paonazza, sentivo chiaramente quale muta-
mento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e
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OTTOBRE 2025

4.5 Page 35

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Nessun uomo potrà mai capire il significato della
vita, il significato del mondo, il significato di qual-
siasi altra cosa, finché non avrà un figlio da amare.
I figli ci educano
Marta, sei anni, ha educato padre e madre quando
ha gridato loro: «Smettetela di bisticciare!». Ales-
sandro, otto anni, si sentiva offeso dall’audace mi-
nigonna della giovane madre. Allora le ha detto:
«Mamma, così non mi piaci». Raccontano che una
bambina soffriva per le bestemmie del papà. Do-
vendo subire un’operazione, propose di sopportare
ogni dolore per la correzione del padre, senza dirlo
a nessuno. Ma se lo scrisse su un biglietto: «Per-
ché papà non bestemmi più». Teneva il biglietto in
mano durante l’intervento. I medici, incuriositi, le
aprirono il pugno, appena si addormentò. Quando
il papà conobbe il contenuto, il biglietto fu rimesso
in mano alla bambina, perché non si accorgesse.
Ma le bestemmie cessarono per sempre.
I figli ci costringono a diventare
adulti
Per due ragioni. La prima ce la rivela lo scritto-
re Stefano Biavaschi quando nota che: «I figli sono
chiodi che impediscono ai genitori di cadere nel
baratro. Gridano il loro biso-
PICCOLI GRANDI MAESTRI
Ecco alcune delle cose che ci possono insegnare i figli.
L’attenzione. “Guarda, papà!” I bambini desiderano la presenza
della mamma e del papà. Non un semplice “essere lì”: vogliono un’at-
tenzione totale, indivisa, senza giudizi o aspettative. Una presenza
che riscalda, che fa diventare importante, fa sentire di valere. Essere
presente significa essere disponibile: sono qui, per te. Un’attenzione
pura, che non invade e non dirige, ma è intensamente presente e ba-
sta. Noi sfioriamo tutti, non siamo più attenti alle persone, neanche
a quelle che amiamo.
La trasparente innocenza. Il mondo degli adulti è un mondo di
finzioni, convenienze sociali, compromessi. I bambini vedono le
cose come sono. Come sono capaci di squillare a voce alta, aprendo
la porta al capufficio del papà venuto in visita: “È arrivato il grande
scocciatore!”
Il rispetto e la pazienza. I figli reali non sono mai simili a quelli
sognati e aspettati. Si ribellano alle aspettative che impediscono loro
di crescere secondo le leggi interne del loro essere. Hanno un loro rit-
mo, un loro progetto interno, inclinazioni originali. Nel mondo degli
adulti troppo spesso ci diciamo come dobbiamo essere, imponiamo
ciò che dobbiamo fare, stiliamo programmi, dettiamo condizioni, for-
muliamo giudizi e ricatti. La tendenza a manipolare i figli può trasfor-
mare la vita familiare in una specie di ossessione. Tutti conosciamo
bambini per i quali suonare il violino è una tortura, giocare al pallone
un incubo, danzare una condanna ai lavori forzati. Con mite ostina-
zione reclamano quel rispetto, quello spazio, quel riconoscimento che
è dovuto ad ogni persona. E che è così spesso calpestato.
La felicità e gratitudine per la vita. I figli sono l’investimento più
importante nel campo della realizzazione e della felicità personale.
Sono un compito, talora arduo, ma anche una benedizione. La vita
con i figli può essere una faticaccia, ma quale profonda felicità può
generare una manina che si affida con tutta la fiducia del mondo alla
manona del papà?
gno d’amore e così permettono a mamma e papà
di intraprendere il loro cammino inferiore». La se-
conda ragione sta nel fatto che i figli, soprattutto
da bambini, trattano i genitori da adulti, e quindi
li fanno diventare tali. Senza saperlo, applicano il
grande principio psicologico che afferma: «Se pren-
di uno per quello che è, lo lasci tale e quale; se lo
tratti per quello che dovrebbe essere, lo fai diventa-
re quello che deve essere». Dunque essere genitori è
più un premio che un sacrificio.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
IL CAMBIAMENTO che
vogliamo nel mondo
Impara a non guardare solo l’emergenza, / vedrai che
in lontananza il cielo è rosa: / qualcosa cambia...
«Tanto non cambia mai niente!».
Quante volte abbiamo sentito ri-
petere queste parole, espressione
disincantata di una visione fatalista
e rinunciataria della realtà e monito inesorabile che
ci previene dal credere fin troppo ingenuamente in
una qualche possibilità di redenzione dalle brutture
del mondo di cui siamo quotidianamente testimo-
ni? A dispetto dei nostri sforzi, di ogni tentativo di
ribellione e di resistenza, assai spesso ci scontriamo
con situazioni che ci appaiono ineluttabili, irridu-
cibilmente immodificabili, al di fuori della nostra
portata, facendoci sprofondare nella trappola di
una rassegnazione da cui facciamo fatica a tirarci
fuori. E più ci abituiamo a ragionare in questi ter-
mini, più diventa difficile uscire dal vicolo cieco di
una disillusione che infiacchisce la nostra volontà
di azione e frustra ogni speranza di cambiamento.
Non è semplice, infatti, scrollarsi di dosso la dif-
fusa convinzione che a nulla valga l’impegno del
singolo di fronte a scenari che sfuggono alla no-
stra capacità di intervento e, talvolta, persino alla
nostra comprensione; e un simile cinismo tende a
crescere e a radicarsi sempre più profondamente in
noi man mano che procediamo verso l’età adulta,
abbandonando – di fronte alla delusione dei nostri
slanci adolescenziali e al venir meno di ogni sano
Dicevano che non era possibile
e che lo sforzo sarebbe stato inutile,
e invece eccoci qui!
Dicevano: “Non è un terreno fertile,
non c'è nessuno ormai che ha voglia di resistere”,
e invece, e invece guardaci, guardaci...
Pensavano che fossimo un'ipotesi,
un breve guizzo e poi di nuovo pavidi,
e forse, e forse un po' è così...
Ma è questo che ci ha reso imprevedibili,
sentirci solidi restando liquidi,
e infatti adesso, adesso prova a prenderci.
Perché si può vedere persino in questa nebbia
che a rimanere insieme
magari poi stavolta qualcosa cambia,
qualcosa cambia...
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idealismo – la genuina fiducia nella possibilità di
cambiare le cose. Come se il pragmatismo e la ra-
gionevolezza propri dell’adultità fossero del tutto
incompatibili con l’utopia di un futuro migliore...
Ma se è vero che in molti casi la trasformazio-
ne del reale non dipende interamente da noi, non
dobbiamo dimenticare che «niente cambia se non
cambiamo niente». Forse, ad uno sguardo superfi-
ciale, il nostro impegno per modificare in meglio
la realtà che ci circonda potrà apparire inutile, una
goccia nell’oceano che si disperde tra i marosi di
una tempesta che non siamo in grado di controlla-
re. Agli occhi di qualcuno i nostri sforzi potranno
persino sembrare ridicoli, irragionevoli, puerili,
destinati ad arenarsi di fronte a ostacoli inamo-
vibili. Ma l’essere adulti, se da un lato comporta
la capacità di restare con i piedi per terra, ben an-
corati in un presente spesso complesso e difficile
da accettare, dall’altro richiede la disponibilità ad
assumere sulle proprie spalle la scomoda respon-
sabilità di lavorare ogni giorno per costruire un
mondo diverso da quello che abbiamo ereditato
dai nostri padri.
Ricordati dei giorni più difficili,
fanne tesoro e poi fanne coriandoli,
e ridi lanciandoli.
Ritorneranno, come è logico, gli ostacoli:
saranno altissimi, inamovibili,
e invece questo è il bello,
gli andremo incontro e cresceremo scavalcandoli,
scavalcandoli, superandoli.
Perché si può vedere persino in questa gabbia
che a rimanere insieme
magari poi stavolta qualcosa cambia,
qualcosa cambia...
Una musica nuova, una strada pulita,
l'Europa sognata, la Siria guarita,
un popolo onesto, le navi nei porti,
la scuola diffusa, i processi più corti,
una generazione che corregga la rotta,
la fiducia che torna, la speranza risorta,
la lingua dei segni spiegata ai bambini,
noi due che riusciamo davvero a restare vicini.
Qualcosa cambia
e, se non cambia ancora, cambierà!
Impara a non guardare solo l'emergenza,
vedrai che in lontananza il cielo è rosa:
qualcosa cambia...
(Daniele Silvestri, Qualcosa cambia, 2019)
Anche se spesso
non ne percepiamo
in modo evidente le ricadu-
te, ogni nostra azione, ogni scelta che
facciamo, ogni gesto che decidiamo di com-
piere rappresentano un seme piantato nel terreno
del possibile; e persino quando i nostri tentativi si
rivelano vani e non portano i frutti sperati, il nostro
impegno non è mai infecondo, nella misura in cui
– anche in assenza di riscontri positivi o ricono-
scimenti immediati – contribuisce a farci crescere,
a renderci più perseveranti e attenti alla realtà che
ci circonda, permettendoci di riconfermare la bon-
tà degli obiettivi che ci siamo posti e dei valori in
cui crediamo e rendendoci sempre più
protagonisti del «cambiamento che vogliamo
vedere nel mondo» (per parafrasare una celebre fra-
se di Gandhi).
Se vogliamo incidere sul reale, dobbiamo dunque
essere disposti a cambiare in primis noi stessi e il
nostro atteggiamento, ma soprattutto, se vogliamo
davvero che qualcosa cambi, dobbiamo unire le
forze, incoraggiando anche gli altri a fare la propria
parte per rendere il mondo un posto migliore. Solo
così, imparando a essere più fiduciosi nel domani e
a condividere con gli altri la nostra speranza, sarà
possibile “incarnare il cambiamento” e dare il no-
stro piccolo, ma decisivo contributo per correggere
la rotta intrapresa dalla società in cui viviamo, sfa-
tando nel contempo quello stereotipo ingeneroso
che spesso inchioda i giovani adulti nell’immagine
di una generazione indifferente e disimpegnata.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
I primi mesi nella
TERRA SOGNATA
Dopo anni di attesa e di solleciti da parte di don Bosco,
finalmente nel gennaio 1880 quattro Salesiani e altrettante
Figlie di Maria Ausiliatrice riuscirono a mettere piede in Patagonia.
E questa volta per restarci. Lo fecero insediandosi nel villaggio
di Carmen de Patagones, sulla riva sinistra del Rio Negro,
a fronte di Mercedes (oggi Viedma).
Il viaggio, se non fu così pericoloso come i due
precedenti già raccontati, fu comunque ricco
di sorprese e disagi, come raccontò il capo-
spedizione don Fagnano appena toccato terra
al suo superiore diretto a Buenos Aires, l’ispettore
don Francesco Bodratto a Buenos Aires.
Anzitutto gli imprevedibili ritardi: già in partenza
il venerdì 16 gennaio per uscire dal Rio de la Plata
ed entrare in Oceano la nave si dovette fermare per
la bassa marea; poi il vento contrario la notte di do-
menica “fece perdere circa venti miglia di cammi-
no”, per cui, arrivati in ritardo all’entrata pericolosa
del Rio Negro, “il capitano fece gettar l’àncora a
quattro miglia dalla spiaggia, aspettando di partire
al mattino quando la marea fosse alta; infine anco-
ra una sosta il mattino di lunedì 19 sempre per la
scarsa profondità delle acque.
In secondo luogo tutti patirono il mal di mare, com-
preso il Vicario Generale dell’arcivescovo di Buenos
Ayres, monsignor Espinoza, che li accompagnava,
anche perché “il mare era alquanto più agitato, e fa-
ceva ballare il nostro vapore come un guscio di noce”.
Sul far della sera del 19 gennaio gli otto pionieri
poterono comunque sbarcare e passare la notte sul-
la terra ferma. L’indomani mattina, come sempre,
si misero immediatamente al lavoro: radunarono
nella cappella parrocchiale i ragazzi e le ragazze
per il catechismo, nonché gli adulti per un poco di
catechismo e la preparazione alla S. Cresima, am-
ministrata da monsignor Espinoza.
Chiudeva la sua missiva don Fagnano annuncian-
do una prossima escursione alla Colonia Conesa e
Guardia Mitre e specialmente alle tribù di Choele-
Choel. Evidentemente si era informato in antece-
denza sulla situazione che avrebbe trovato una volta
giunto sulle rive di quel grande fiume, che avrebbe
successivamente visto le eroiche imprese dei vari
don Milanesio, don Beauvoir, don Stefenelli e di
tanti altri, senza dimenticare don Cagliero.
Le parole di congedo al Fagnano sgorgarono dal
cuore di apostolo: chiese preghiere “perché il Signore
voglia benedire il principio di questa nuova ed im-
portantissima Missione della Patagonia”. La storia
gli avrebbe dato ragione e papa Francesco dal soglio
di Pietro ne avrebbe dato testimonianza personale.
Pochi mesi dopo…
I missionari si diedero da fare e nel volgere di pochi
mesi non solo si assestarono sul territorio in modo
sicuro, ma progettarono immediati sviluppi. Infatti
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il 5 settembre 1880, don Fagnano tracciava a don
Bosco un “breve ragguaglio di quel poco, che abbia-
mo fatto in questi mesi, e del molto che vi sarebbe da
fare”. Riferiva che avevano avviato due scuole: una
maschile frequentata da 48 ragazzi e una femminile
con 40 fanciulle iscritte. Si stavano altresì occupando
della popolazione “civile” ed erano impegnati pure
nell’istruzione dei figli e figlie degli Indigeni, che
frequentavano la zona per motivi di commercio o di
lavoro. Se nel gennaio monsignor Espinoza aveva
conferito il battesimo ad alcune centinaia di persone,
successivamente se ne erano aggiunte altrettante.
Ma occorreva allargare gli orizzonti. In primo luo-
go – scriveva – “sarebbe da stabilirsi qui un Ospizio
pei poveri figli degli Indiani, i quali li mandereb-
bero volentieri per impararvi un’arte o mestiere, e
a leggere e scrivere”. Altrettanto era da farsi per le
ragazze. Così “colla istruzione continuata noi po-
tremmo facilmente renderli cristiani, ed anche ca-
paci ad aiutarci nella conversione dei loro parenti”.
Era la nota strategia appresa dal grande missionario
dell’Africa, monsignor Comboni.
Una seconda iniziativa pastorale da intraprender-
si era “l’evangelizzazione dei selvaggi, che abitano
lungo le rive del gran fiume Negro”. Occorrevano
missionari itineranti, in grado di avvicinare perio-
dicamente gruppi di indigeni e pure di coloni per
sostenerli nella vita cristiana dopo una primissima
catechesi.
In terzo luogo suggeriva di prendere in considera-
zione la colonia sul Rio Chubut, 200 km a sud del
Rio Negro, composta quasi esclusivamente da gal-
lesi anglicani. Anche colà si sarebbe potuto avvici-
nare gli indigeni, visto che vi venivano di frequente
e numerosi per scambio di merci. Stavano già “stu-
diando d’accordo col Governo Argentino un pro-
getto di colonizzare gli Indiani”, onde civilizzarli
e cristianizzarli.
Infine a suo giudizio andavano programmate mis-
sioni fra i “selvaggi della Terra del Fuoco”. (Del
“sacro esperimento” sì è parlato nel mese scorso).
Il momento era propizio, vista l’imminente possi-
bilità di viaggiare periodicamente da Buenos Aires
allo stretto di Magellano, passando per Patagones,
il Chubut e Santa Cruz. Ovviamente tutto era con-
dizionato dal numero dei missionari presenti.
Alla ricerca delle risorse
economiche
Venne però meno per motivi politici l’accordato
sussidio economico annuo, per cui occorreva cercar
altrove di che vivere e con chi svolgere il proprio
ruolo apostolico. Scriveva don Fagnano: i missiona-
ri erano “pronti a digiunare, a restringere il nostro
scarso vitto, a fare risparmi di ogni genere”, ma don
Bosco doveva fare appello alla carità dei Cattoli-
ci di Europa, perché aiutassero almeno a pagare il
viaggio ai nuovi Missionari. “Dovremo noi vedere
da una parte i Protestanti ad elargire ingenti som-
me per inviare missionari… e dall’altro lato mirare
i Cattolici a conservare negli scrigni il loro danaro,
e rifiutarsi dal consacrarne una parte per diffondere
la verità?”
Commovente poi la chiusa della lettera di questo ex
Garibaldino. La pubblichiamo nel riquadro:
“Mi usi poi la carità, caro D. Bosco, di scrivermi due righe… Lontani circa
8 mila miglia dalla patria, ella può ben immaginare la dolce consolazione,
che ci arreca una letterina di chi tanto ci ama, ed al quale portiamo sì gran-
de amore. Addio, caro D. Bosco. Chi sa se potrò ancora baciarle una volta la
mano? Tanto lontano, e in procinto di allontanarmene ancora di più per la
mia Missione, temo di non rivederla mai più. Questo riflesso talora mi afflig-
ge; ma tosto mi conforto pensando che giorno verrà, in cui mi sarà dato di
rivederla in Cielo e per sempre. Accolga i rispetti miei e quelli de’ suoi figli e
figlie, qui residenti, che godono tutti buona salute. Le Suore le scriveranno
anche esse. Di loro debbo dire che lavorano con un coraggio virile, e sono
amatissime dal popolo”.
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4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di ottobre preghiamo per la Causa
del Servo di Dio Elia Comini, salesiano sacerdote.
Una delle stragi più efferate com-
piute dalle SS naziste in Europa, nel
corso della Seconda Guerra Mon-
diale, è stata quella consumata
attorno a Monte Sole, nei territori
di Marzabotto, Grizzana Morandi
e Monzuno, comunemente nota
come la “strage di Marzabotto”
(Bologna). Tra le vittime ci furono
alcuni sacerdoti e religiosi, tra cui il
Salesiano don Elia Comini.
Il Servo di Dio don Elia Comini nasce
in località “Madonna del Bosco” di
Calvenzano di Vergato (Bologna) il
7 maggio 1910. Monsignor Fiden-
zio Mellini, già alunno di don Bosco
a Torino, lo orienta ai Salesiani di
Finale Emilia. Novizio il 1° ottobre
1925, emette la prima Professio-
ne il 3 ottobre 1926 ed è professo
perpetuo l’8 maggio 1931. Ordina-
to sacerdote a Brescia il 16 marzo
1935, il Servo di Dio vive nelle case
salesiane a Chiari (in provincia di
Brescia, fino al 1941) e a Treviglio
(in provincia di Bergamo, dal 1941
al 1944), e si distingue come bravo
docente di materie umanistiche e
sicuro riferimento per tanti giovani.
D’estate don Elia rientra sull’Appen-
nino bolognese – a Salvaro – per
aiutare la mamma, ormai anziana
e sola. Qui aiuta nella pastorale lo
stesso monsignor Fi-
denzio Mellini.
Tale è il viaggio che
impegna don Elia Comini
anche nella difficilissima estate
del 1944. Egli arriva a Salvaro il 24
giugno. Vi resterà per poco più di
tre mesi, sino alla morte. Soccorre
la popolazione nella concretezza
delle sue molteplici esigenze det-
tate dal tempo di guerra, anima
la liturgia e promuove la frequen-
za dei sacramenti; affianca le
consacrate e vive un intensissimo
apostolato nell’esercizio di tutte
le opere di misericordia corpora-
le e spirituale. Media, inoltre, tra
gli opposti fronti: i partigiani e i
tedeschi della Wehrmacht. Il Ser-
vo di Dio istituisce con il giovane
Dehoniano padre Martino Capelli
una fraternità sacerdotale che li
associa nel ministero.
Il 29 settembre 1944 mattina, don
Elia e padre Martino Capelli accor-
rono verso la “Creda”, un abitato
dove le SS della Sedicesima Divisio-
ne Corazzata avevano appena per-
petrato un eccidio: stola, oli santi
e teca con alcune particole eucari-
stiche li identificano chiaramente
come sacerdoti, nell’esercizio del
loro ministero di conforto degli
agonizzanti. Catturati,
spogliati delle insegne
sacerdotali, usati come
«bestia» da soma nel
trasporto delle muni-
zioni, don Elia e padre
Martino iniziano il loro
triduo di passione.
Alla sera del 1° ottobre 1944, viene
ucciso insieme con padre Martino e
con il gruppo degli “inabili” – no-
nostante egli fosse giovane e abile
al lavoro – presso la “Botte” della
canapiera di Pioppe di Salvaro, al
termine di una surreale liturgia
in cui le SS avevano fatto sfilare i
prigionieri su una passerella prima
di falciarli con le mitragliatrici: egli,
intonando le Litanie e gridando
infine “Pietà!”, l’aveva trasformata
in un avanzare orante verso il Cielo.
Poco prima della morte, un tedesco
ne colpisce violentemente le mani
e il suo breviario cade tra i corpi.
Nell’impossibilità di recuperare le
salme, verranno successivamente
aperte le griglie e l’impetuosa cor-
rente del fiume Reno trasporterà
via per sempre quei poveri resti,
già consumati e divenuti “terra”.
Negli istanti dell’esecuzione, il
corpo di don Elia Comini aveva
protetto uno dei soli tre scampati
all’eccidio della “Botte”.
A don Elia Comini è associata da
subito una fama di martirio, gra-
zie alla quale anche la sua vita
santa precedente viene riletta in
una luce di consapevolezza nuo-
va. Egli è testimone della carità
del Buon Pastore che veglia sul
gregge, pronto a dare la vita per
esso, in difesa dei deboli e degli
innocenti. Il 18 dicembre 2024, il
Santo Padre Francesco ha auto-
rizzato il Dicastero delle Cause dei
santi a promulgare il Decreto ri-
guardante il martirio del Servo di
Dio Elia Comini, di cui attendiamo
l’imminente beatificazione.
Preghiera
O Dio Padre,
ti ringraziamo perché hai concesso al sacerdote don Elia Comini
di amarti e di servirti nell’educazione dei giovani, secondo il cuore
di don Bosco,
e nella carità pastorale verso le vittime dell’odio.
Donaci la gioia di vederlo glorificato
come tuo eroico sacerdote e educatore esemplare.
Per sua intercessione concedi a noi la grazia che ti chiediamo...
con cuore fiducioso.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ringraziano
Desidero ringraziare pubblicamente
san Giovanni Bosco e Maria Ausi-
liatrice per la grande grazia ricevu-
ta. Un nostro caro amico di famiglia
è stato ricoverato improvvisamente
in ospedale, per gravissimi proble-
mi di salute. Era in pericolo di vita.
Ricordandomi delle parole di don
Bosco: “… pregate Maria Ausilia-
trice e vedrete cosa sono i miracoli”,
ho pregato intensamente per rice-
vere la grazia della sua guarigione.
Ora, dopo mesi e mesi di ricovero
in ospedale e riabilitazione in cen-
tri specializzati, è tornato a casa in
buone condizioni. Lo ritengo un
grande miracolo e voglio ringraziare
san Giovanni Bosco e Maria Ausilia-
trice per la continua protezione su di
me e su tutta la mia famiglia.
(Michelone Maria - Vercelli)
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
15-18 luglio 2025: a Macas-Sucúa (Ecuador) ricognizione canoni-
ca e trattamento conservativo delle reliquie della Beata Maria
Troncatti (1883-1969), Suora Professa dell’Istituto delle Figlie di
Maria Ausiliatrice, che sarà canonizzata il 19 ottobre 2025.
8-23 luglio 2025: a Cuenca (Ecuador), ricognizione canonica e
trattamento conservativo dei resti mortali del Venerabile Car-
lo Crespi (1891-1982) Sacerdote Professo della Società Salesiana di
San Giovanni Bosco, missionario.
40
OTTOBRE 2025

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
La comunità
DON GIORGIO GRAMAGLIA
Morto il 15 luglio 2025 a Busca (Cn), a 78 anni
Quando il sorriso accompagna una
vocazione lunga una vita, si parla di
don Giorgio Gramaglia, salesiano
cuneese che ha lasciato un segno
profondo fino agli ultimi giorni.
Nato e cresciuto vicino all’oratorio
di San Giovanni Bosco a Cuneo, ha
maturato in quegli ambienti perso-
nalità e spiritualità. Laureato in fi-
sica all’università di Torino, dedicò
anni all’insegnamento nelle case
salesiane piemontesi. Nel 1980
partì per la Bolivia, operando a La
Paz con iniziative culturali e pasto-
rali tra scuole, oratori e media sale-
siani. Così come in Perù. Rientrato
in Italia nel 2000, ricoprì incarichi
in Casa Madre a Torino Valdocco,
tra cui la segreteria Ispettoriale per
oltre 15 anni e la cura dell’archivio
Salesiano. Dal 2021, fino alla mor-
te Busca, operò per la comunità
cuneese in oratorio, mantenendo
leggerezza e bontà.
Don Giorgio è nato il 26 agosto
1946 a Cuneo, da papà Mario e
mamma Giuseppina. Fin da bam-
bino varca la porta del nostro
oratorio, accolto con paterna sim-
patia dai salesiani di allora. È così
piccolo di statura che nessuna ve-
stina da chierichetto, nemmeno
la più corta, la 1, gli andrà bene.
Bisognerà confezionarne una ad
hoc che il confratello responsabile
appenderà prima di tutte le altre:
sarà la taglia zero! “Era quanto
valevo” scherzava Giorgio, che da
quel momento è parte della fami-
glia dei “sale” e non la lascerà mai
più: vive in pratica qui in oratorio,
si intrufola con gli amici anche
quando i sacerdoti riposano, can-
ta, suona, gioca, sale a san Giaco-
mo, ascolta storie affascinanti e
tra queste quella di don Bosco. In
un clima così bello alla proposta
di consacrarsi anche lui non può
che dire di sì e parte come aspi-
rante a Chieri, all’età di 11 anni.
Nell’estate del 1962 fa il suo in-
gresso in noviziato a Pinerolo e
professa per la prima volta i voti
di obbedienza, castità e povertà
il 16 agosto 1963, compleanno di
don Bosco. Giorgio ha poco più di
16 anni ed è diventato Salesiano.
Negli ultimi anni, testimoniando
ai giovani il suo discernimento vo-
cazionale, non trovava altre spie-
gazioni più convincenti di questa:
Sono andato sempre avanti perché
si stava proprio bene in congrega-
zione! C’era un clima così bello che
non potevamo mica andarcene!”.
La sua formazione prosegue poi a
Foglizzo per gli studi filosofici e a
San Benigno Canavese e a Valdoc-
co per il tirocinio. Nel 1970 comin-
cia gli studi teologici a Torino Cro-
cetta. Il 25 aprile 1974 è ordinato
presbitero presso la nostra casa di
Peveragno. Sacerdote novello ap-
proda a Valsalice come insegnan-
te di matematica, catechista e poi
consigliere mentre intraprende
gli studi civili presso l’università
di Torino conseguendo nel 1976 la
laurea in Fisica.
Nel 1979 parte missionario in Bo-
livia e qui rimarrà in tutto circa 20
anni. Prima a Kami, poi a Sucre,
successivamente a Santa Cruz e
per un anno in Perù, a Lima, per
poi giungere a La Paz. Le sue
mansioni: Preside, Insegnante,
Direttore, Economo Ispettoriale,
gerente dell’Editrice, della Libre-
ria e del Cinema, Responsabile del
Centro di Produzione Video. Nel
2001 rientra definitivamente in
Piemonte tra Torino e Rivoli.
Dal 2005 è trasferito nuovamente
a Valdocco e qui per 12 anni svolge
con fedeltà, precisione e creatività
l’incarico di Segretario Ispettoriale
e dal 2015 quello di Direttore del
Centro Ispettoriale. Per gravi ra-
gioni di salute nel 2017 lascia la Se-
greteria e viene incaricato dell’Ar-
chivio, servizio che compie con
passione e professionalità. Infine
nel 2021 l’Obbedienza lo chiama
nella nostra casa di Cuneo come
aiuto pastorale in parrocchia. Intel-
ligente, arguto, preciso, osservato-
re attento, capace di incoraggiare,
di far notare il positivo e il bello, si
dedica in questi ultimi anni al ser-
vizio delle anime in confessionale,
nella direzione spirituale, nella vi-
sita ai malati e agli anziani.
A tutti coloro che incontra con-
segna un sorriso profondo e
contagioso, una parola gentile
e simpatica. Tanti hanno potuto
goderne la paternità affettuosa e
la profondità spirituale. Negli ulti-
mi mesi mi chiedeva scusa se non
riusciva più a pregare concentrato
come prima, se perdeva il conto
dei suoi numerosi rosari. Ormai la
preghiera era diventata il respiro
stesso della sua vita. Godeva in
questo suo ritorno a Cuneo di aver
più tempo per la meditazione, la
lettura spirituale, l’adorazione.
Nei giorni scorsi raggiungendolo
con i confratelli presso l’hospi-
ce di Busca per amministrargli
i sacramenti dell’unzione e del
viatico, di fronte all’annuncio “Ti
abbiamo portato Gesù!” con un
grande sorriso da quel letto di
malattia, non ha fatto altro che
dirci: “Bellissimo!“. La meraviglia
di un bambino che incontra il suo
Signore con una fede limpida e
cristallina. Questo ci ha testimo-
niato fino all’ultimo momento,
circondato dalla cura affettuosa
dei suoi famigliari e amici.
Tra poco devi portare anche me
confidava a Costantino prima
delle esequie di don Flaviano, il
mese scorso. Lo sapeva e ha voluto
prepararsi cristianamente e sere-
namente alla morte. Mentre conti­
nuia­mo a pregare in suffragio per
la sua anima, egli ci sussurra anco-
ra, con quel filo di voce, le parole
del nostro amato fondatore don
Bosco, contenute nel testamento
spirituale: “Addio, o cari figliuoli. Io
vi attendo al cielo. Vi raccomando di
non piangere la mia morte. Questo
è un debito che tutti dobbiamo pa-
gare, ma dopo ci sarà largamente
ricompensata ogni fatica sostenuta
per amor del nostro buon Gesù“.
OTTOBRE 2025
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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Bua, Chi, Gae,
Gio, Ras, RSU.
Parole di 4 lettere: Erba, Essi, Gaga,
Rush, Tiki.
Parole di 5 lettere: Dubat, Erosi,
Gabon, Nicot, Renga.
Parole di 6 lettere: Geisha, Sister,
Travet, Vespri.
Parole di 7 lettere: Bacetti, Daccapo,
Notorio.
Parole di 8 lettere: Babbucce,
Smielato, Vogatore.
Parole di 9 lettere: Ostinarsi.
? Parole di 10 lettere: Ascendente,
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso, Epidittico, Insaporire.
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le Parole di 12 lettere: Ambasciatori,
?
parole contrassegnate dalle tre X nel testo.
Emblematiche.
La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 13 lettere: Elisabettiana.
L’IMPOSSIBILE DIVENTERÀ POSSIBILE
Tra i nove e i dieci anni, don Bosco, autore de Le Memorie dell’Oratorio, fece un sogno
che si sarebbe inciso profondamente nella sua memoria e nel suo destino. Il sogno fu
descritto come segue. Si trovava vicino casa, in un cortile vasto e soleggiato, dove una
folla di ragazzi correva, rideva, giocava e, purtroppo, bestemmiava con voce sguaiata.
Indignato, si lanciò in mezzo a loro per farli smettere, servendosi di pugni, strattoni e
parole dure. All’improvviso, tra il vociare, apparve un uomo maestoso, vestito nobil-
mente e avvolto in un manto bianco, il cui volto, luminosissimo, non si poteva fissare.
Questi lo chiamò per nome e gli ordinò di guidare quei ragazzi con bontà e carità,
insegnando che il peccato è male e l’amicizia con Dio è un bene prezioso. Confuso, il giovane obiettò di essere povero e ignorante. L’uomo
replicò che ciò che sembra impossibile sarebbe diventato possibile con obbedienza e studio, promettendo di affidargli una “maestra” che
insegna la vera sapienza. Alla domanda su chi fosse, disse: «Sono il figlio di colei che tua madre ti ha insegnato a salutare tre volte al giorno».
In quel momento comparve una donna maestosa, circondata da luce come da mille stelle. Lo prese per mano e gli mostrò come degli animali
Soluzione del numero precedente
feroci e selvaggi potessero essere trasformati in mansueti agnelli: quello sarebbe stato il suo campo
di lavoro. Vedendolo confuso gli posò la mano sul capo e gli disse: «A suo tempo comprenderai».
Al risveglio, sentiva ancora dolori alle mani e al volto, come se avesse davvero lottato. Raccontò il
sogno: Giuseppe, il fratello maggiore, lo prese in giro dicendo che sarebbe diventato pecoraio, la
madre pensò a un prete e Antonio, il fratellastro, insinuò “XXX”, la nonna inoltre lo invitò a non
credere ai sogni. Anni dopo, nel 1858, a Roma, lo confidò al Papa, che gli raccomandò di scriverlo per
incoraggiare i Salesiani.
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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
Le MONTAGNE
C’ era una pacifica tribù che
viveva in pianura ai piedi
delle Ande. Un giorno,
una feroce banda di predoni che
aveva il covo nascosto tra le vertigi-
nose vette delle montagne attaccò
il villaggio.
In mezzo al bottino che portarono
via c’era anche un bambino, figlio
di una famiglia della tribù di pianu-
ra, e lo portarono con loro
in montagna.
?
La gente di pianura non sapeva
come fare a scalare la montagna.
Non conoscevano nessuno dei sen-
tieri usati dalla gente di montagna,
non sapevano come trovare quella
gente o come trovare le loro tracce
su quel terreno scosceso.
Ciò nonostante mandarono un
gruppo di uomini, i loro migliori
guerrieri, a scalare la montagna per
riportare a casa il bambino.
Gli uomini cominciarono la scalata
prima in un modo, poi in un altro.
Provarono un sentiero, poi un altro.
Dopo diversi giorni di duri sforzi,
erano riusciti ad andare solo
un centinaio di metri su per la
che stava scendendo dalla montagna siamo gli uomini più forti del villag-
montagna.
che loro non erano riusciti a scalare. gio, non ce l’abbiamo fatta?».
Sentendosi completamente impoten- E poi videro che portava il bambino La donna scrollò le spalle e disse:
ti, gli uomini di pianura si diedero in una sacca dietro le spalle. Come «Non era il vostro bambino».
per vinti e si prepararono a tornare aveva fatto?
al villaggio giù in basso.
Mentre stavano per fare marcia in-
dietro videro la madre del bambino
che veniva verso di loro. Si accorsero
Uno degli uomini del gruppo la
salutò e disse: «Non siamo riusciti a
scalare questa montagna. Come hai
fatto tu a riuscirci quando noi, che
Dio ha detto a ciascuno di noi: «Tu sei il
figlio che amo. Tu sei il mio bambino».
E niente e nessuno lo ha fermato per
riportarci a casa.
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Torna Sognati
da Grande, il
contest dedicato
agli studenti degli
Istituti scolastici
e dei Centri
di Formazione
Professionale
salesiani in Italia.
Che cos’è, per te, la Pace?
È un diritto? È un’idea?
Oppure è qualcosa di molto concreto,
come un modo di stare con gli altri?
La Fondazione DON BOSCO
NEL MONDO invita gli studenti
a immaginare, creare e raccontare
la propria idea di Pace attraverso
video, disegni, testi o videogiochi.
Dal 16 al 22 febbraio 2026 le opere saranno votate online:
un solo voto per categoria, ma ogni voto conta!
Taxe-Perçue
Tassa riscossa
PADOVA cmp
Quest’anno il contest è gemellato con l’Opera salesiana
di Niamey (Niger), che accoglie centinaia di bambini e ragazzi
in fuga dalla violenza. In occasione di “Sognati da Grande”,
la Fondazione DON BOSCO NEL MONDO sosterrà
anche questa missione, amplificando il valore e l’impatto
del messaggio di Pace lanciato dagli studenti.
Scopri di più
sul nostro sito!
Via Marsala, 40 - 00185 Roma - tel. +39 06 65612663 - C.F. 97210180580
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