06-Giugno-2025

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
PAPA
LEONE
siamo
con te
GIUGNO
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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
IL COCCHIERE
bestemmiatore
C osì don Bosco raccontò
questo episodio: «Venivo da
Ivrea a Torino in omnibus,
non essendo allora ancora stata
costrutta la ferrovia, e sentii che il
cocchiere ogniqualvolta sferzava i
cavalli, pronunciava una o due
bestemmie. Io allora lo pregai di
lasciarmi salire con lui in cassetta.
Egli di buon grado accondiscese, e
mi sedei al suo fianco.
Quindi gli dissi: “Vorrei da voi un
piacere”.
Egli m’interruppe dicendo: “Vuole
arrivar presto a Torino? Bene!”
E qui si mise a sferzare con tutta
lena i cavalli ed alle sferzate frammi-
schiava bestemmie.
“Non è questo che voglio, io ripresi;
poco m’importa d’arrivare a Torino
un quarto d’ora prima o un quarto
d’ora dopo. Quello che io voglio, è
questo: che non bestemmiate più.
Me lo promettete?”
“Oh, se è solamente questo, stia pur
sicuro che non bestemmierò più: e
sono uomo di parola io!”
“Ebbene, se ciò farete, che cosa vole-
te per premio?”
“Niente, rispondeva colui; sono ob-
bligato a non bestemmiare”.
Io insisteva, ed egli domandò la
mancia di quattro soldi: io gliene
promisi venti. E qui una sferzata ai
cavalli ed una bestemmia. Io lo av-
visai: “Guardate vi darò egualmente
venti soldi: ma ogni volta che direte
ancora una bestemmia, i venti soldi
diminuiranno di quattro”.
“Va bene, rispose egli; stia certo che
li guadagnerò tutti”.
Dopo un bel tratto di via i cavalli
rallentavano già il passo, ed il coc-
chiere sferza e giù una bestemmia.
“Sedici soldi, amico mio” gli dissi.
Ed il povero uomo si vergognava e
diceva: “Davvero che le abitudini
cattive non possono più togliersi”.
E così continuava a rammaricarsi
borbottando. Dopo un altro pezzo
di strada, una sferzata e due be-
stemmie.
“Otto, amico mio; siamo ad otto
soldi”.
“Possibile, gridava stizzito colui; pos-
sibile che siano così tenaci e dannose
le male abitudini: io sono avvilito.
Possibile che io non sia più padrone
di me stesso? E poi questo maledetto
vizio mi ha fatto già perdere dodici
soldi”.
“Ma, amico, non dovete rattristarvi
per così poco, ma piuttosto pel male
che vi fate all’anima”.
“Oh! sì, rispose egli; è vero, gran
male faccio io; ma, sabato voglio an-
darmi a confessare. È qui di Torino
Lei?”
“Sì, sono dell’Oratorio di San Fran-
cesco di Sales”.
“Bene; voglio venirmi a confessare
da Lei. Di grazia, il suo nome?”
“Don Bosco”.
“Va bene: ci rivedremo dunque
ancora”. E viaggiando fino a Torino
pronunciò ancora una bestemmia.
Perciò io gli doveva soli quattro
soldi, ma gliene feci accettare venti,
spiegando che lo sforzo di non be-
stemmiare l’aveva fatto.
Tornai a casa. Dopo qualche setti-
mana, lo vidi mescolarsi con i fedeli,
ma subito non lo riconobbi. Quando
venne il suo turno mi disse: “Mi ri-
conosce? Sono il cocchiere di Ivrea e
sappia che io, nei giorni scorsi, in un
istante di inavvertenza, pronunciai
il santo nome di Dio, ma poi non ho
più bestemmiato. Mi son prefisso
di stare a pane e acqua ogni volta
che avessi detto una bestemmia; e
ci sono stato una volta sola e non ci
voglio più stare”».
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GIUGNO 2025

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
PAPA
LEONE
siamo
con te
GIUGNO
2025
GIUGNO 2025
ANNO CXLIX
NUMERO 6
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: I Salesiani di tutto il mondo si
stringono festanti intorno a papa Leone XIV,
riaffermandogli la loro ferma e risoluta
promessa di fedeltà.
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 LA NOSTRA FAMIGLIA
L’altra ala di don Bosco
10 LE CASE DI DON BOSCO
Varazze
14 TEMPO DELLO SPIRITO
Il respiro di Dio
16 LA NOSTRA BASILICA
La sacrestia
18 SALESIANI
“Slava Ukraïni!”
22 IL POSTER
24 I CONSIGLIERI GENERALI
Le nostre guide
26 FMA
Cammini di speranza
30 MISSIONARI
Don Francesco Convertini
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
Sull’orlo del burnout
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
6
24
30
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile: Bruno Ferrero
Condirettore: Andrei Munteanu
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
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Cuccioli, Roberto Desiderati, Antonio
Labanca, Carmen Laval, Cesare Lo Monaco,
Stefano Martoglio, Alessandra Mastrodo-
nato, Andrei Munteanu, Francesco Motto,
Pino Pellegrino, Angelo Santorsola, Fabrizio
Zubani.
IL POSTER: Il nuovo Consiglio Superiore
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Alberto Rodriguez M.
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DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Fabio Attard
EDUCARE oltre
le debolezze
L’incontro di Gesù con Pietro illumina e raffigura con una luce
particolare la nostra missione di evangelizzatori e educatori.
Nell’ultimo capitolo del Vangelo di Gio-
vanni, capitolo 21, troviamo l’incon-
tro di Gesù con Pietro. Leggiamo un
dialogo che si costruisce attorno a tre
domande per poi finire con un mandato (Gv 21, 15-
23). Vorrei commentare questo incontro che getta
tutta una luce particolare sulla stessa nostra missione
di evangelizzatori e educatori. È un brano che pre-
senta un momento fondamentale nella vita di Pietro
e anche nella missione della Chiesa nascente. Per noi
che siamo impegnati nella missione salesiana risulta
anche ricco di significati educativi e pastorali.
Dopo la resurrezione, Gesù si manifesta ai disce-
poli sul lago di Tiberiade e, dopo aver condiviso
un pasto con loro, si rivolge a Simon Pietro con
tre domande successive che toccano il rapporto di-
retto tra lui e Pietro: «Simone, figlio di Giovanni,
mi ami tu?» Nelle prime due domande quello che
Gesù chiede è un amore esigente che non conta i
costi. Questa domanda fatta due volte a Pietro ri-
sulta impegnativa e sfidante. Lui è cosciente della
sua debolezza causata dal suo tradimento. Per que-
sto, per ben due volte la risposta sua è quella che
testimonia sì l’amore, ma quello più umano, quello
che è fragile. Gesù davanti a queste due risposte gli
affida lo stesso la cura del suo gregge.
È la terza domanda che mette in crisi Pietro perché
Gesù alla terza domanda chiede a Pietro precisa-
mente l’impegno in quell’amore di cui lui è capace:
l’amore umano con le sue debolezze, fragilità e li-
miti. Possiamo dire che Gesù richiama Pietro ad
un amore “alto”, ma non vuole metterlo in situazio-
ne di impossibilità, di scoraggiarsi.
Pietro, da parte sua, si rende conto sia del fatto che
il suo amore è debole, sia del fatto che Gesù fa tut-
to il possibile per aiutarlo a non cedere. Desidera
essere sincero e rimanere vicino a Gesù. E la sua
risposta alla terza domanda è una testimonianza di
come il suo cuore, anche se ferito, vuole essere mes-
so tutto nelle mani di Gesù: «Signore, tu conosci
tutto; tu sai che ti voglio bene» (v. 17)
Intravediamo come questo dialogo tra Gesù e Pie-
tro è un modello di educazione spirituale e umana.
Ecco alcune osservazioni che servono a noi che ac-
compagniamo i ragazzi e i giovani nella crescita e
maturazione della loro vita.
Il vero amore si fonda sulla fiducia
Dopo il tradimento, Gesù non solo perdona Pietro,
ma va più in là: gli affida una responsabilità ancora
maggiore. Questo per noi rappresenta una straordi-
naria lezione educativa: la fiducia data è una rinno-
vata conferma del rispetto che si ha della persona. Un
amore che conferisce dignità e responsabilizza. Gesù
non si limita a perdonare, ma restituisce a Pietro la
sua missione, arricchita da una nuova consapevolezza.
Il rispetto dei tempi e dei percorsi
individuali
Al tradimento di Pietro preannunciato da Gesù,
non segue la solita reazione “te l’avevo detto!” Gesù
“vede” il tradimento, ma “vede” anche oltre. Quello
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di Gesù è un amore che conosce l’umana debolezza
ma ha la forza di suscitare dal di dentro del cuore
ferito il seme di bontà. E questo seme non spari-
sce mai. Quello che don Bosco chiamò il punto di
bontà nel cuore di ogni ragazzo qui vediamo come
Gesù lo trova e fa tutto il possibile perché emer-
ga. Il male commesso non deve mai avere l’ultima
parola. L’ultima parola deve averla solo l’amore, la
carità del buon pastore.
Ciò significa avere la giusta pazienza e il rispetto
dei tempi. L’esperienza ci insegna che più volte il
male commesso ha solo bisogno di essere incontrato
con affetto, pazienza e compassione. Specialmen-
te i ragazzi e i giovani, e don Bosco lo commenta
molto bene quando parla del Sistema preventivo. Il
momento che i ragazzi e i giovani si sentono cir-
condati da un amore maturo e adulto, che facilita
e non condanna, che ascolta e non ordina, scatta
quella bontà nascosta ma presente verso il bene. È
una molla che fa scattare sorprese di bontà che più
volte o è dimenticata o è sopraffatta da esperienze
negative vissute e/o subite.
Quanto è urgente oggi che i nostri ragazzi e giovani
trovino adulti, genitori, educatori e educatrici sani
e maturi, pazienti e lungimiranti! Autentici sono
quei percorsi che rispettano l’unicità della persona,
con le sue debolezze ma anche con le sue potenzia-
lità. Siamo dei veri benefattori quando riusciamo a
veder il tempo come spazio di crescita graduale e
consistente. È un atteggiamento che evita di pro-
porre, o peggio ancora di imporre, modelli standar-
dizzati che mettono le persone nelle scatole.
a concentrarsi sulla propria crescita senza fare do-
mande curiose e inutili sugli altri. E tale risposta
“secca” ci sta! Essere responsabili e aiutare verso
la responsabilità di se stessi implica anche chiarire
i parametri affinché il processo di crescita non si
smarrisca. Perché il rischio del confronto e della
comparazione con gli altri è deleterio. Il vero cam-
mino educativo è personale, non competitivo. Svia-
re la propria attenzione da se stessi verso gli altri
distoglie dall’attenzione al proprio cammino.
Conclusione: l’educazione come
relazione di amore che genera futuro
Il brano culmina nell’invito “Tu seguimi”. In que-
ste due parole è racchiusa l’essenza del processo
educativo cristiano: la sequela personale, la relazio-
ne diretta con il Maestro. L’educazione autentica
non è trasmissione di nozioni, ma introduzione a
una relazione viva.
Il triplice “mi ami tu?” rivela che l’amore è il fon-
damento di ogni autentico rapporto educativo. Solo
quando l’educatore ama veramente l’educando, e
l’educando risponde con amore, si crea quello spa-
zio di libertà e fiducia in cui la persona può crescere
pienamente. L’educazione cristiana, l’esperienza sa-
lesiana trovano in questo brano un modello sublime:
un processo di trasformazione basato sull’amore, sul
perdono, sulla fiducia e sul rispetto della libertà.
Il paragone e la tentazione
del confronto
Verso la fine dell’incontro tra Gesù e Pietro c’è un
dettaglio che vorrei commentare. Pietro chiede a
Gesù di Giovanni: “E lui?” E Gesù taglia corto,
come diciamo oggi: «Se voglio che egli rimanga
finché io venga, a te che importa?»
Una risposta molto secca, ed è anche una bella le-
zione a Pietro. In poche parole, Gesù invita Pietro
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LA NOSTRA FAMIGLIA
Antonio Labanca di Missioni Don Bosco
L’ALTRA ALA
di don Bosco
«La Società salesiana è composta di chierici e di laici che
vivono la medesima vocazione in fraterna complementarietà»
(Costituzioni, 4). Un’idea geniale nata dal cuore di don Bosco.
Nella congregazione voluta da don Bo-
sco, a fianco dei chierici sono stati pre-
visti i laici consacrati, che fanno parte
delle comunità salesiane fin dai primi
passi a Valdocco e a pari titolo dei fratelli ordinati.
La prima riunione ufficiale si tenne nelle camere
di don Bosco il 18 dicembre 1859 ed era composta
da sacerdoti e chierici. Tra i laici che si recarono in
Argentina con Giovanni Cagliero, nel 1875, c’era-
no Vincenzo Gioia, Bartolomeo Scavini (maestro
falegname), Stefano Belmonte (musicista e addet-
to all’economia domestica) e Bartolomeo Molinari
(maestro di musica), considerati “veri operai evan-
gelici”.
Per questo, abbiamo incontrato dei confratelli sa-
lesiani approfittando della loro partecipazione al
Capitolo Generale 29 che si è svolto a Valdocco fra
febbraio e aprile di quest’anno.
I coadiutori
presenti al
Capitolo
Generale,
con il Rettor
Maggiore
e il Vicario.
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SALESIANI D’AMERICA
Il primo salesiano laico che incontriamo è  John
Thomas Mass , attuale economo dell’ispettoria di
San Francisco.
Come ha incontrato il mondo salesiano?
«Tanti anni fa ho conosciuto il cattolicesimo ma
non i salesiani. Ho frequentato le iniziative della
diocesi, ma in queste non ho mai incontrato la fi-
gura di don Bosco. Un giorno ho pensato di diven-
tare prete, quindi ho iniziato a partecipare più da
vicino alla vita dei chierici. Ma ho constatato che
questa vocazione non era per me. Ne parlai con il
mio direttore spirituale e gli dissi: “Questa vita mi
sembra molto rigida ed estraniante, distinta e lon-
tana dalle persone”. Lui mi consigliò di guardare
nella vita religiosa, ma non sapevo che cosa signifi-
casse. Quindi mi spiegò quali erano le differenze, e
mi parlò delle caratteristiche dei salesiani che fan-
no formazione scolastica.
Al tempo lavoravo in un’azienda aerospaziale e
pensai: “Se potrò insegnare ai ragazzi ciò che co-
nosco sarà fantastico, e sarò un prete”. Iniziai ad
insegnare in una scuola tecnica, e mi piacque subito
perché mettevo a disposizione quello che stavo fa-
cendo nel mio lavoro. Così ho iniziato a conoscere
da vicino i salesiani, osservando le interazioni fra
loro. Li conobbi nei momenti informali, quando
mangiavano insieme e la sera si intrattenevano
amabilmente anche con gli insegnanti, magari be-
vendo un bicchiere di vino o una lattina di birra o
una Pepsi. Vivendo con loro, ho capito subito che la
chiamata dei fratelli era per me.»
Com’è nata la sua vocazione?
«I preti salesiani erano molto vincolati dagli im-
pegni pastorali: “Oh, devo andare a dire la mes-
sa… devo, devo, devo…” sentivo ripetere, un onere
troppo impegnativo per me. Quando ho incontra-
to i fratelli, vedevo invece che erano più rilassati,
sempre felici: ugualmente lavoravano duro, dava-
no il loro aiuto per qualsiasi necessità. Vedevo che
donavano la loro vita in tutta serenità, pronti ad
affrontare qualsiasi cosa accadesse. E così ho im-
parato qual è la vocazione dei coadiutori. Ho pen-
sato: “Ok, questo potrebbe essere me, posso farlo
anch’io”.
Avevo 27 anni quando conobbi i salesiani, l’anno
seguente iniziai a vivere con loro.»
Facciamo un salto a sud e andiamo in Colombia, a
Medellin.  José Luis Jiménez Martínez  è un sale-
siano coadiutore da 30 anni, appartiene all’Ispetto-
ria San Luis Beltrán.
Come vive un coadiutore
il carisma salesiano?
«Nella nostra comunità lo viviamo tutti come
fratelli, non c’è differenza nel modo in cui lo
si vive. Il carisma è uno solo e lo viviamo alla
pari nei momenti comunitari di preghiera, nei
momenti di condivisione dei pasti, nelle riunioni
di pianificazione comunitaria. Poi ognuno di noi,
secondo la propria scelta carismatica vocazionale, lo
vive anche nei propri spazi personali di preghiera e
nel modo in cui porta avanti l’apostolato.
I confratelli sacerdoti lo vivono in modo particolare
nel ministero sacramentale e in tutto ciò che com-
Il signor John
Thomas Mass,
economo
dell’Ispettoria
di San
Francisco.
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LA NOSTRA FAMIGLIA
servizio dei giovani con lo stile di don Bosco. Rie­
sco a farlo integralmente lavorando nella scuola e
seguendo la formazione più complessiva dei giova-
ni. Recentemente sono stato in un gruppo dell’In-
diana ed è stato interessante essere tra loro perché
esprimono un bisogno di spiritualità. Vogliono sa-
pere di più su Domenico Savio, e ora che sono qui
a Valdocco sto cercando io per primo di cogliere la
sua testimonianza.»
Il signor José
Luis Jiménez
Martínez.
porta la loro ordinazione; noi coadiutori lo viviamo
portando in tutti gli ambienti dove siamo presenti
il valore della laicità consacrata come salesiani. Lo
viviamo uniti nella stessa professione salesiana che
condividiamo.»
La vostra condizione aiuta i rapporti
con la gente, con i giovani?
«Credo che la facilità del contatto risieda nel fatto
che condividiamo l’elemento della laicità e che da lì
offriamo un contributo importante: la nostra espe-
rienza spirituale, la nostra consacrazione, che in un
modo o nell’altro diventa un segno per gli altri.»
Rimbalziamo a nord, sul versante orientale.  Gun-
ther Travis  è formatore dei pre-novizi della provin-
cia di San Filippo apostolo che ha sede a New York
e comprende l’est degli Stati Uniti e il Canada.
Che cosa caratterizza l’essere
un “fratello laico”?
«Sono costantemente impegnato a riscoprire le
fondamenta del mio essere un coadiutore. Sempli-
cemente, sto seguendo Cristo, nella comunità, nel
Quanto è attrattiva la vita
da salesiano laico?
«Registriamo una riduzione delle vocazioni ma non
vedo una crisi: Dio ancora chiede ai giovani di es-
sere fratelli salesiani. C’è un modo perfetto e bello
di vivere fra i giovani e nella comunità. Viviamo la
nostra vocazione con il supporto dei nostri fratelli
giorno dopo giorno, fratelli e preti. La domanda è
come viviamo passionalmente per Cristo dedicato
ai giovani. La vocazione a essere laici consacrati ne-
gli Stati Uniti è una possibilità per i giovani.»
Il CG29 ha vissuto un momento di confronto
sull’identità dei coadiutori. Il segnale è che non vi
sia una chiusura ma anzi un cammino da compie-
re.  Lucas Mario Mautino , coadiutore dell’Argen-
tina (facciamo così un altro lungo balzo fra nord
e sud del continente americano), ha commentato:
«Don Bosco ci ha pensati come un’unica vocazione,
vivendo in una complementarità fraterna, valoriz-
zandoci l’un l’altro. Per comprendere il salesiano
sacerdote e il salesiano coadiutore dobbiamo con-
siderarli insieme: è questa la direzione da seguire.
Penso che sia un bel segno dei tempi che i non or-
dinati, in alcune occasioni, possano essere chiamati
al servizio dell’autorità nello stile di Gesù. Vedo
con molta speranza questa nuova opzione quando
si traduce in un servizio ai giovani.»
In Argentina, ma non solo, questa riflessione può
essere segnata dalla vicenda di Artemide Zatti,
coa­diutore recentemente canonizzato nel 2023. Il
suo è stato un servizio umile a beneficio dei malati,
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LA SENTINELLA DELL’ORATORIO
Marcello Rossi dovette attendere la maggior età per poter disporre liberamente di sé, ma nel 1869 si presentò
a don Bosco per restare sempre con lui. Di costituzione piuttosto fragile, nel ’75 si ammalò di petto e sembrava
avesse i giorni contati. Don Bosco gli impartì una benedizione e lo rassicurò che avrebbe invece continuato a lavo-
rare a lungo con lui. Di fatto si riprese, e don Bosco avendo bisogno di un uomo accorto e coscienzioso da mettere
in portineria, gli affidò provvisoriamente quel compito. Lo svolse provvisoriamente per 48 anni.
Ogni mattino alle 4,30 era puntuale all’apertura della chiesa, poi metteva ordine in ogni angolo della portineria,
poi prendeva posto al suo sportello. Da quel punto di osservazione aveva modo di rendersi utile a tutti, infor-
mando e avvertendo, evitando disguidi e inconvenienti. Si assentava solo una settimana all’anno per gli esercizi
spirituali, e qualche ora alla domenica per il catechismo ai ragazzi dell’oratorio. Altrimenti era sempre lì. Lo chia-
mavano «la sentinella dell’oratorio», oppure – con riferimento al famoso e misterioso cane che in anni precedenti
aveva difeso don Bosco – «il grigio».
Ma era tutt’altro che un cerbero: sempre pacato e sereno, padrone delle situazioni, sapeva accontentare tutti e
rendersi utile in mille occasioni. La sua portineria divenne un ufficio di collocamento: vi incontrava allievi in cerca
di lavoro, e vi incontrava anche le persone agiate disposte ad assumerli. O disposte a pagare la retta a qualche
ragazzo povero...
Nel 1911 sulla piazza di Maria Ausiliatrice venne
eretto il monumento a don Bosco; qualche tempo
dopo il cardinal Cagliero rientrò in Torino dai suoi
soliti lunghi viaggi, ed era curioso di vedere il tan-
to declamato monumento. Come si affacciò alla
piazza, guardando da lontano, vide anche Marcello
Rossi sull’uscio della sua portineria, e additandolo
ai suoi accompagnatori disse: «Eccolo là, il vero mo-
numento di don Bosco».
Il primitivo ingresso
dell’Oratorio di Valdocco
soprattutto dei meno abbienti; il tratto fondamen-
tale della sua spiritualità è stata la Carità.
«Abbiamo Artemide Zatti come modello, ed è bel-
lo guardare anche a lui in questo momento. Per noi
è una figura molto importante che ci insegna ad
evangelizzare e ad educare attraverso la testimo-
nianza e il modo di vivere.» Dunque, non è un pro-
blema di “cariche” all’interno della casa salesiana,
ma di percorsi verso la santità che si modulano sulla
singola persona.
«Penso che sia un bel segno dei tempi quello di
continuare ad essere aperti a queste nuove realtà,
ed essere in sintonia con ciò che papa Francesco
ci suggeriva. In qualunque caso chi è chiamato al
servizio dell’autorità deve farlo nello stile di Gesù.
Un servizio che è sempre al fianco degli altri, che
vuole aiutare tutta la comunità. Vedo questi segni
con molta speranza.»
Il tema si intreccia con un altro affrontato dal Ca-
pitolo Generale: quello del coinvolgimento dei lai-
ci non consacrati negli incarichi di responsabilità
a nome della congregazione. Proprio l’Argentina
è stata pioniera da questo punto di vista: la dire-
zione di scuole e di oratori è stata affidata a laici
che condividono non solo teoricamente il metodo
formativo salesiano ma che hanno anche mostrato
una reale passione educativa in linea con il carisma
di don Bosco. Ma questa è proprio un’altra dimen-
sione, che magari affronteremo prossimamente da
queste colonne.
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LE CASE DI DON BOSCO
Emanuele Soffiotto
VARAZZE
Progetto pilota
«Siamo un oratorio salesiano, fondato da don Bosco a fine
Ottocento, proprio qui dove egli sognò le missioni che
avrebbero portato i salesiani in tutto il mondo. Oggi la comunità
salesiana non è più presente, ma noi laici proseguiamo con
passione il suo sogno, animando questa struttura».
La nostra storia comincia nell’anno 1869.
Dall’Oratorio torinese di don Bosco in-
cominciano a sciamare piccoli gruppi di
giovani salesiani. Il terzo drappello capi-
tanato da don Giovanni Battista Francesia, dottore
in belle lettere, allora in giovanissima età e già poe-
ta colto e geniale, buon latinista ed oratore facile ed
eloquente, parte per la città di Cherasco, ove quel
municipio aveva, con insistenti preghiere, offerto
a don Bosco un Collegio Convitto. Ma, dopo due
anni, don Bosco li traferisce nella più importante
città di Varazze dove gli hanno offerto la direzione
del Collegio Convitto municipale.
Varazze è la perla nascosta della riviera ligure, una
gentile e prospera città della bella ed incantevole Ri-
viera di Ponente. Ma perché al benessere materiale
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ed alla floridezza della città procedesse di pari pas-
so il progresso intellettuale e morale dei cittadini, il
Comune pensò alla fondazione di un Collegio che in
poco tempo sorse, bello, ardito, dominante dall’alto.
Grazie all’appoggio ed alla benevolenza delle auto-
rità locali, il nuovo Collegio di Varazze raggiunse
ben presto il successo. Benedetto dal Signore e da
don Bosco, che non mancava di visitarlo di quando
in quando con paterna tenerezza, divenne il cuore
pulsante della comunità varazzina.
Attesta la cronaca del 7 febbraio 1897: «Un’insoli-
ta festa raccolse gli alunni dei primi cinque lustri:
sacerdoti, parroci, canonici, avvocati, professori,
dottori, cavalieri, molli industriali e felici padri di
famiglia. Insieme con don Francesia vi accorse an-
che il Prof. don Giuseppe Monateri, che ben per
dieci anni tenne, dopo di lui, con amore e saggezza,
la direzione di quel collegio convitto. Ebbene se ne
ricordarono i principii, le nobili gare nello studio,
le belle passeggiate, le visite di don Bosco, la prima
spedizione dei Missionarii Salesiani ivi combinata
tra don Bosco e il Comm. Giovanni Battista Gaz-
zolo, console dell’Argentina a Savona, la parte che
vi prese il Collegio donando alla stessa spedizione
tre dei suoi professori; i saluti scambiati dall’alto del
cortile al piroscafo, che salpato da Genova coi mis-
sionari apparve nella distesa del mare e scomparen-
do lasciò tutti nella mestizia e nel pianto; e mille
altre cose soavi. Ma ciò che rallegrò più di tutto i
superiori fu il vedere così fermi e abbondanti i frutti
dell’educazione impartita».
Come ricorda ancora la cronaca: «L’oratorio è con
gli anni diventato un punto di riferimento per la
comunità, soprattutto per i ragazzi, dove potersi di-
vertire e trascorrere insieme il tempo occupandosi
anche di numerose attività.
Una missione che è stata tracciata da san Giovanni
Bosco, come spiega Claudio Caiano, uno dei vo-
lontari della fondazione. “In vita don Bosco visitò
in altre occasioni la nostra città, dove sostò anche
malato oltre 40 giorni, in grave pericolo di vita. In
quella occasione sognò le missioni che, negli anni
a venire, avrebbero portato la fede cristiana nelle
americhe. In tarda età, considerato ormai santo da
molti, proprio a Varazze don Bosco ottenne grandi
miracoli di guarigione per alcuni nostri concittadi-
ni del tempo – racconta Caiano –. Da allora il cari-
sma salesiano ha continuato a prosperare a Varazze,
ospitando nel tempo, la formazione dei nuovi sale-
siani, l’oratorio festivo, le scuole dove studiò anche
l’amatissimo presidente Sandro Pertini”.
L'oratorio è
animato dallo
stesso sogno
e dallo stesso
spirito di don
Bosco.
Il mezzo più potente
Ma don Bosco aveva il suo progetto geniale. Diceva:
«Chi voglia rigenerare una città o un paese non ha
altro mezzo più potente: bisogna che cominci coll’a-
prire un Oratorio festivo». Così nel 1871 nacque
l’oratorio di Varazze. L’Oratorio, battezzato con il
nome del grande varazzese il Beato Giacomo, fu re-
golarmente aperto l’8 dicembre, festa dell’Immaco-
lata; e più di centinaia di ragazzi vi accorsero e con-
tinuano ad accorrervi, con un crescendo consolante.
La gravissima malattia di Varazze
Varazze è legata ad un momento difficile della vita
di don Bosco. Il 6 dicembre 1871, mentre si tro-
va alla stazione di Varazze, don Bosco cade a terra
svenuto. I presenti lo portano alla casa salesiana
diretta da don Francesia. La malattia si rivela gra-
vissima. Don Rua invia da Valdocco ad assisterlo
Pietro Enria. Questa la sua testimonianza giurata
riguardante questo avvenimento.
«Io partii subito, pronto a dare la mia vita purché
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LE CASE DI DON BOSCO
Don Bosco
aveva il suo
progetto
geniale.
Diceva:
«Chi voglia
rigenerare
una città o un
paese non ha
altro mezzo
più potente:
bisogna
che cominci
coll’aprire
un Oratorio
festivo».
Così nel
1871 nacque
l’oratorio di
Varazze.
don Bosco riavesse la salute. Don Bosco era rico-
noscente al più piccolo servizio che gli facevo, e mi
ringraziava con gran cuore. Alcune volte, doven-
dogli fare dei servizi un poco ributtanti, mi diceva:
“Vedi, Enria, a che stato sono ridotto. Fa’ questo
per amor di Dio!”
E io gli rispondevo: “Ma che cosa dice, signor don
Bosco? È nulla quello che io faccio per contraccam-
biarlo di quello che egli ha fatto per me e per i miei
compagni. Eh! lei ha fatto per noi dei servizi ben
più bassi. Ci ha lavato, pettinato, ha cucito i nostri
abiti, ha fatto per noi quello che potevano fare solo
le nostre mamme, e ancor più di esse. E non vuole
che le faccia questi servizi? Quanti dei miei compa-
gni si chiamerebbero fortunati se potessero essere
al mio posto!”.
Intanto il male peggiorava e la febbre aumentava
sempre.
Da Torino volevano notizie, e io non potevo darle
buone perché il male era sempre grave. Molti gio-
vani dell’Oratorio, come seppi poi, erano andati
in chiesa all’altare di Maria Ausiliatrice e avevano
offerto a Dio la vita per la conservazione di don
Bosco. Sentendo leggere queste e altre lettere, don
Bosco pianse di consolazione e disse: “Poveri gio-
vani, quanto amano questo povero don Bosco!” e
m’incaricò di ringraziarli.
Un ragazzo che piangeva
La malattia fece il suo corso. Don Bosco dovette
stare a letto più di due mesi senza muoversi. Aveva
la pelle della schiena rotta in più luoghi e cambiò
tutta la pelle. Eppure non mosse un lamento e di-
ceva sempre d’essere nelle mani di Dio, pronto a
fare la sua volontà.
Mentre era gravemente ammalato, sentì un ragazzo
piangere. Non poté resistere e mi disse subito: “Fa’
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2.3 Page 13

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il piacere, Enria, va’ a vedere che cos’ha quel ragaz-
zo”. Corsi, e seppi che era un giovinetto che pian-
geva perché era partita sua madre che era venuta a
trovarlo. Il cuore di don Bosco non poteva resistere
che i suoi giovani soffrissero.
Godeva quando qualcuno gli parlava dei primi anni
dell’Oratorio. Io sovente, mentre era ammalato,
gliene parlavo: “Si ricorda, don Bosco, quando sua
madre lo sgridava perché accettava sempre nuovi
ragazzi? Essa gli diceva: ‘Tu ne accetti sempre, ma
come si fa a mantenerli, a vestirli? In casa non vi è
nulla, e comincia a far freddo!’. Capitò a me di do-
ver dormire parecchie notti sopra poche foglie con
addosso non altro che una piccola coperta. E alla
sera, quando noi eravamo a letto, lei, don Bosco,
e sua madre ci aggiustavate i pantaloni e la giacca
logora, perché ne avevamo una sola”. Don Bosco
sorrideva al sentir questo, e diceva: “Quanto ha fa-
ticato la mia buona mamma!… santa donna!… Ma
la Provvidenza non ci è mai mancata!”.
Il giorno in cui don Bosco scese di letto, io telegra-
fai a Torino all’amico Buzzetti, e si fece gran festa
all’Oratorio, e si suonò la banda musicale».
Oggi
L’Oratorio salesiano di Varazze si occupa da sem-
pre dell’educazione dei giovani della nostra città.
È stato voluto e aperto da don Bosco nel 1871 e da
allora è stato portato avanti con dedizione carisma-
tica dalle diverse comunità di Salesiani Don Bosco,
che si sono susseguite fino al 2016, anno in cui è
iniziato ufficialmente un nuovo progetto: l’Ispet-
toria salesiana dell’Italia Centrale (che coordina
tutte le case salesiani di Liguria, Toscana, Umbria,
Lazio, Sardegna, Abruzzo, Molise e Marche) ha
ideato un progetto di affidamento di una casa sale-
siana a dei laici.
Già don Bosco aveva avuto l’intuizione della neces-
sità di una corresponsabilità educativa tra consacrati
e laici, volendo fin da subito tra i suoi collaboratori
persone che non avevano la vocazione sacerdotale,
inserendo un’apposita figura all’interno della fami-
glia della sua congregazione: i salesiani cooperatori.
Proprio da quest’idea, è partito il progetto pilota a
Varazze.
L’oratorio è ricco di spazi esterni: i ragazzi hanno a
completa disposizione il campo da calcio, il campo
multisport, il cinema e la spiaggia.
Ecco come lo presenta il direttore: «Nel pomerig-
gio, il cortile si riempie di giochi, risate e nuove
amicizie, con il nostro “cortilaio” che vi guiderà
nell’incontro con gli altri ragazzi. Un’occasione per
condividere esperienze e sentirsi parte di qualcosa
di speciale. Dalle 20:00 in poi, lo spazio diventa
tutto per voi. Le luci si accendono, l’atmosfera si
scalda e la serata prende vita tra divertimento e mo-
menti da ricordare».
Sono funzionali e ben allestiti anche gli spazi in-
terni: camere da quattro o sei posti letto, ideali per
piccoli gruppi e scuole, oppure camerate che pos-
sono accogliere fino a sedici ospiti, perfette per i
gruppi più numerosi. E naturalmente un refettorio
accogliente per pranzi e cene.
Tutto per offrire ai ragazzi un’esperienza davvero
diversa, fatta di creatività, originalità, educazione
salesiana in una location in riva al mare con un ma-
gnifico gruppo di animatori motivati.
«L’oratorio è
con gli anni
diventato
un punto di
riferimento
per la
comunità,
soprattutto
per i ragazzi,
dove potersi
divertire e
trascorrere
insieme
il tempo
occupandosi
anche di
numerose
attività».
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2.4 Page 14

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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Il filo dall’ALTO
Come si può avere una
“vita spirituale” oggi?
Una bella mattina di settembre, i «fili
della Vergine», lucidi come fili di seta,
ondulavano nell’aria. Venivano da lon-
tano e andavano lontano.
Uno di quei fili approdò in cima ad un albero e
l’aeronauta, un ragnetto giallo e nero, lasciò la sua
leggera navicella e si attaccò alle foglie. Ma quel
luogo non era adatto e discese su una grande siepe
spinosa. Qui c’erano rami e germogli in abbondan-
za per tesservi una tela. E il ragno si mise subito
al lavoro, lasciando che il filo, lungo il quale era
disceso, reggesse la punta superiore della ragnatela.
Filo dopo filo, nodo dopo nodo, la tela del ragnetto
si fece bellissima. Mosche e moscerini incappavano
numerosi. II mattino, dopo la rugiada, i fili sem-
bravano collane di brillanti e il ragno era orgoglio-
so del suo capolavoro. Lavorava alla sua tela tutti
i giorni ed era diventato un ragno commendatore,
grande e grosso. Aveva la più bella e redditizia tela
di tutto il bosco.
Un mattino, però, si svegliò di cattivo umore o forse
scese dal letto con le quattro zampe sbagliate. Fece
un giro della tela per far colazione con qualche mo-
scerino, ma non ne trovò. Nella notte aveva gelato
e questo aumentò il suo umor nero. Nell’aria non
volava neanche una mosca. Ispezionò la tela per
passare il tempo, tirò qualche filo che si era allen-
tato e, gira e rigira, finì con il notare un filo strano.
Apparentemente non si attaccava da nessuna parte.
Sembrava finisse nelle nuvole. Più lo guardava, più
si arrabbiava.
«Sta a vedere», pensò, «che da quel filo vengono
giù dei concorrenti a mangiarsi le mie prede. È uno
stupido filo buono a nulla», ruminava tra sé.
E con un colpo secco delle robuste mandibole lo ta-
gliò. Tutta la tela cedette e si trasformò in un umi-
do cencio che avviluppava il ragno. Troppo tardi
il poverino si ricordò che, in un sereno giorno di
settembre, era sceso giù da quel filo e quanto gli era
stato utile, proprio quel filo, per tessere e allargare
la sua tela.
Occupati e preoccupati
Ogni giorno tessiamo la nostra tela ed è un compito
che ci assorbe. Troppo spesso i fili si aggrovigliano
e si formano nodi e strappi. Più che occupati siamo
preoccupati. Essere preoccupato significa riempire
il nostro tempo e spazio prima ancora di esserci. È
avere la mente piena di “se”. Diciamo a noi stessi:
«Che succederebbe se mi ammalassi? E se perdessi
il lavoro? E se mio figlio non rientrasse a casa per
l’ora prevista? E se domani non ci fosse cibo a suffi-
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2.5 Page 15

▲torna in alto
cienza? E se venissi aggredito? E se scoppiasse una
guerra? E se venisse la fine del mondo? E se...?».
Le parole di Gesù, sembrano un po’ enigmatiche:
«Non affannatevi dunque dicendo: “Che cosa man-
geremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”
Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre
vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate
prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte que-
ste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi
dunque per il domani, perché il domani avrà già le
sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena».
In una congiuntura socio-economica in cui il lavoro
diviene precario o in cui è perfino difficile per i no-
stri figli trovare un lavoro, in cui siamo sollecitati a
destra e a manca ad assicurarci su tutto, a vivere di
polizze e di garanzie, questo discorso sembra una
richiesta “fuori dal mondo”: «Non affannatevi!»
Padre Nouwen diceva: «La nostra società incorag-
gia molto non soltanto l’essere occupato, ma anche
l’essere preoccupato. Il modo in cui i giornali, le ra-
dio e le TV ci comunicano le notizie crea sempre
un’atmosfera di emergenza. Le voci eccitate dei gior-
nalisti, la preferenza data agli incidenti spaventosi,
ai crimini più crudeli ed
ai comportamenti per-
versi, l’inondarci ora per
ora di miserie umane che
avvengono sia nel nostro
paese sia all’estero ci fan-
no sentire gradualmente
inghiottiti da un’atmosfe-
ra onnipervasiva di disa-
stro imminente. A tutte
queste cattive notizie c’è
da aggiungere la valan-
ga di annunci pubblici-
tari. La loro implacabile
insistenza nel dirci che
perderemmo qualcosa di
molto importante se non
leggessimo quel determi-
nato libro o non vedessi-
mo quel film o non ascoltassimo quell’oratore o non
acquistassimo quel nuovo prodotto acuisce il nostro
nervosismo e aggiunge molte preoccupazioni fasulle
a quelle già esistenti».
È sempre più difficile sfuggire agli schizzi di ve-
leno e “fake news” che ci piovono addosso. Come
facciamo a cercare prima il Regno di Dio come
vuole Gesù? Come possiamo avere una vita auten-
ticamente spirituale? Come possiamo ritrovare quel
filo che ci unisce all’alto? Il filo esile da cui dipende
la nostra vita e che ci tiene connessi con Colui che
ci ha voluti. E che ci vuole con sé per sempre.
Il soffio
Gesù ci dice «Cercate prima il Regno di Dio». Il
primo elemento essenziale è trovare un attimo di
vera quiete. Uscire dal frastuono interiore ed este-
riore. Ritrovare il filo che ci collega con l’alto, come
faceva Gesù: «Gesù se ne andò sul monte a prega-
re e passò tutta la notte pregando Dio» ripetono i
Vangeli. La connessione con Dio funziona solo se
ci mettiamo a tu per tu con Lui. Gesù dice: «Entra
nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre
tuo nel segreto». Forse anche solo cinque o dieci
minuti, ma poter dire: «Ecco, qui ci siamo solo io
e te». Fate attenzione al vostro respiro. La Bibbia
afferma: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con pol-
vere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di
vita e l’uomo divenne un essere vivente». Questo
nostro respiro non è un atto meccanico, ma con-
dividere l’essenza della vita con il nostro Creatore.
Gesù ripete il gesto di Dio: soffiò sui suoi discepo-
li e disse: «Come il Padre ha mandato me, anch’io
mando voi».
Quello che chiamiamo vita ha due facce. La faccia
spirituale della vita è continuare la missione di Gesù.
Ritrovata l’intimità con Dio, possiamo riscoprire
un’altra realtà appassionante: la comunione. Ogni
persona che incontriamo “respira Dio” come noi:
quindi ogni persona è sacra.
Il filo dall’alto ci collega alla fonte della bontà e
dell’amore senza confini.
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2.6 Page 16

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LA NOSTRA BASILICA
Natale Maffioli
La SACRESTIA
Un magnifico e ampio salone
arricchisce la funzionalità della
Basilica di Maria Ausiliatrice e
permette la tranquilla eleganza
delle funzioni liturgiche. Alle pareti
spiccano cinque quadri memorabili.
La chiesa dell’Ausiliatrice con il passare
dei decenni andava acquistando sempre
maggior importanza e fama mondia-
le, cosicché nel luglio 1911 san Pio X le
conferì il titolo di Basilica Minore.
La chiesa, che era anche stata eretta a parrocchia,
soprattutto nelle feste risultava inadatta ad acco-
gliere i settecento giovani artigiani e studenti, la
popolazione del borgo e i continui pellegrinaggi.
Don Filippo Rinaldi decise allora
di aumentare lo spazio senza
deturpare possibilmente l’o-
pera di don Bosco e ne af-
fidò lo studio all’architetto
Mario Ceradini, presiden-
te dell’Accademia di Belle
Arti di Torino. Questi
progettò un ampliamen-
to ottenuto trasformando
la croce latina in croce greca e costruendo quattro
grandi cappelle negli angoli rientrati che le navate
formavano incontrandosi. La morte di don Rinaldi
(5 dicembre 1931) sospese il progetto, che venne
ripreso dal successore don Pietro Ricaldone.
Il disegno dell’architetto Mario Ceradini richiede-
va l’abbattimento degli edifici adiacenti alla Basili-
ca, e avrebbe comportato spese colossali. Si decise
allora di affidare un nuovo studio all’economo ge-
nerale don Fedele Giraudi e all’architetto salesiano
Giulio Valotti.
Il progetto approvato nel 1934, anno della canoniz-
zazione di don Bosco, ed attuato tra il 1935-1938,
comportò i seguenti lavori:
allungamento del presbiterio, sul quale venne
costruita una seconda cupola, e conseguente
spostamento dell’altar maggiore e del quadro
dell’Ausiliatrice;
costruzione di due ampie cappelle ai lati del pre-
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2.7 Page 17

▲torna in alto
sbiterio, con tribune so-
prastanti;
lunga galleria con sei
altari dietro l’altar mag-
giore, che collega le due
grandi cappelle laterali;
costruzione di una spa-
ziosa sacrestia sul retro
verso l’ex casa Pinardi;
ambulacro di cintura con
due nuove porte sui corpi
arretrati della facciata.
I grandi quadri
In seguito all’ampliamento della basilica si creò uno
spazio sul retro della galleria che affianca la cap-
pella degli artigiani, che risultò idonea per collo-
care la grande sacrestia della basilica, una sacrestia
adeguata innanzitutto ai celebranti, e per ospitare
gli oggetti di uso necessari alle funzioni liturgiche.
L’ambiente è coperto con un plafond in cemento
armato interamente decorato con semplici lacunari
fatti da un intreccio di sottili strisce di gesso bianco;
dal centro pende un lampadario con bracci ricurvi
in bronzo dorato. Un lato della sacrestia è occupato
da armadi, sul versante opposto ci sono le scansie
dei calici, pissidi e i cassetti per la biancheria di uso
liturgico. Tutti questi mobili sono stati realizzati in
case salesiane, a Valdocco, al Rebaudengo e a San
Benigno Canavese.
Sopra i sedili-confessionali sono appese delle tele
che ricordassero don Bosco. Per questo si incaricò
il pittore più accreditato presso i salesiani, Paolo
Giovanni Crida, che dipinse, tra il 1938 e il 1953,
cinque tele: tre di queste sono di dimensioni più
importanti e due lunette, di dimensioni più con-
tenute sopra l’accesso alla sacrestia dalla basilica e
al lavabo. I dipinti narrano gli episodi più salienti
della vita del santo, in una lunetta è narrato l’e-
pisodio in cui il piccolo Giovannino, raccolti gli
amici dei Becchi, spiega episodi del catechismo,
nell’altra (che riprende una foto storica) don Bosco
sta confessando un ragaz-
zo che nella realtà è Paolo
Albera che sarà il secondo
successore dello stesso don
Bosco. L’episodio più de-
terminante narra l’incontro
di don Bosco con il giovane
Bartolomeo Garelli nella
sacrestia della chiesa di San
Francesco d’Assisi a To-
rino. Sono episodi narrati
con l’intento che va dal do-
cumentaristico all’agiogra-
fico. Le scene più celebri
sono quelle dove don Bosco è ritratto nel cortile
dell’oratorio affiancato da un gruppo di ragazzi e
quella che lo raffigura accompagnato dalla mam-
ma quando ritorna a Valdocco dopo la sua conva-
lescenza ai Becchi. Sono scene molto toccanti che
presentano un don Bosco molto umano con i suoi
giovani e con la mamma Margherita Occhiena.
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2.8 Page 18

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TESTIMONIANZE
Andrii Platosh
“Slava Ukraïni!”
I salesiani che operano in Ucraina
continuano con fede, generosità
ed eroismo a condividere la loro
vita con un popolo straziato da
sofferenze indicibili.
La Visitatoria Maria Ausiliatrice di rito
bizantino è un esempio di fede, di fer-
mezza e di capacità di inculturazione
del carisma salesiano. I salesiani di rito
bizantino attraverso il loro lavoro educativo-pa-
storale e di assistenza umanitaria in questo dif-
ficile tempo di guerra, insieme ai loro confratelli
salesiani di rito latino che sono presenti in Ucrai-
na (appartenenti all’Ispettoria salesiana polacca
di Cracovia) testimoniano la vitalità del carisma
di don Bosco che sa rispondere alle nuove sfide
odierne; e confermano quell’unità inscindibile del
Carisma Salesiano che si manifesta nella diversi-
tà di espressioni nelle situazioni concrete, anche
quando le condizioni di vita sono particolarmente
difficili. La missione salesiana è unica: essere segni
e portatori dell’amore di Dio ai giovani di oggi.
Durante la guerra
La nostra pastorale ha dovuto modificarsi quando
è iniziata la guerra. Le nostre attività educativo-
pastorali hanno dovuto adattarsi a una realtà com-
pletamente diversa, segnata spesso da un suono in-
cessante delle sirene che annunciano il pericolo di
attacchi missilistici e bombardamenti. Ogni volta
che scatta l’allarme, siamo costretti a interrompere
le attività e a scendere con i ragazzi nei rifugi sot-
terranei o nei bunker. In alcune scuole, le lezioni si
svolgono direttamente nei sotterranei, per garanti-
re maggiore sicurezza agli allievi.
Sin dall’inizio ci siamo messi senza indugio ad aiu-
tare e soccorrere la popolazione sofferente.
Abbiamo aperto le nostre case per accogliere gli
sfollati, abbiamo organizzato la raccolta e la distri-
buzione degli aiuti umanitari: prepariamo con i no-
stri ragazzi e i giovani migliaia di pacchi con viveri
e vestiario e con tutto l’occorrente da mandare alla
gente bisognosa nei territori vicini ai combattimenti
o nelle zone dei combattimenti. Inoltre, alcuni no-
stri confratelli salesiani operano come cappellani
nelle zone dei combattimenti, dove danno un soste-
gno spirituale ai giovani militari, ma anche portan-
do aiuto umanitario alle persone che sono rimaste
nei paesi sotto continui bombardamenti, aiutando
alcuni di loro a trasferirsi in un luogo più sicuro. Un
confratello diacono che è stato nelle trincee si è lo-
gorato la salute e ha perso la caviglia. Quando alcu-
ni anni fa leggevo nel Bollettino salesiano in lingua
italiana un articolo dove si parlava dei salesiani in
trincea, nella prima o seconda guerra mondiale, non
pensavo che questo si sarebbe avverato in quest’epo-
ca moderna nel mio paese. Mi hanno colpito, una
volta, le parole di un giovanissimo soldato ucraino,
che citando uno storico ed eminente ufficiale difen-
sore e combattente per l’indipendenza del nostro
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2.9 Page 19

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popolo diceva: “Noi lottiamo difendendo la nostra in-
dipendenza non perché odiamo chi ci sta davanti, ma
perché amiamo chi sta dietro di noi.”
In questo periodo abbiamo trasformato anche una
nostra Casa Salesiana in un centro di accoglienza
per gli sfollati.
Per sostenere la riabilitazione fisica, mentale, psico-
logica e sociale dei giovani che hanno perso gli arti in
guerra, abbiamo creato una squadra di Calcio Am-
putati, la prima squadra di questo tipo in Ucraina.
Sin dall’inizio dell’invasione nel 2022, abbiamo
messo a disposizione del municipio di Leopoli un
nostro terreno, destinato alla costruzione di una
scuola salesiana, per realizzare un campus modu-
lare per sfollati interni: “Mariapolis” dove noi sa-
lesiani operiamo in collaborazione con il Centro
del Dipartimento Sociale del Municipio. Diamo
un sostegno assistenziale e un accompagnamen-
to spirituale rendendo l’ambiente più accogliente.
Sostenuti dall’aiuto della nostra Congregazione,
delle varie organizzazioni tra cui vis e Missioni
Don Bosco, le varie procure e altre fondazioni di
beneficienza, agenzie anche statali di altri paesi,
abbiamo potuto organizzare la cucina del campus
con il rispettivo personale che ci permette di offrire
il pranzo ogni giorno a circa 1000 persone. Inoltre,
grazie al loro aiuto possiamo organizzare varie at-
tività nello stile salesiano per 240 ragazzi e giovani
che sono presenti nel campus.
Mariapolis
Vorrei condividere qui la mia piccola esperienza e
testimonianza… Io davvero ringrazio il Signore
che, tramite il mio Ispettore, mi ha chiamato a
questo servizio particolare. Da tre anni lavoro nel
campus che ospita circa 1000 sfollati interni. Fin
dall’inizio, sono stato accanto a persone che hanno
perso in un momento tutto, tranne la dignità. Le
loro case sono distrutte e saccheggiate, i risparmi
e i beni accumulati con fatica lungo gli anni della
vita sono svaniti. Molti hanno perso molto di più
e di più prezioso: i loro cari, uccisi davanti ai loro
occhi da missili o mine. Alcune delle persone che
sono nel campus hanno dovuto vivere per mesi nei
sotterranei di palazzi crollati, nutrendosi di quel
poco che trovavano, anche se scaduto. Bevevano
l’acqua dei termosifoni e bollivano le bucce di pa-
tate per sfamarsi. Poi, alla prima possibilità sono
«Come dice
un soldato:
Noi lottiamo
difendendo
la nostra
indipendenza
non perché
odiamo chi ci
sta davanti,
ma perché
amiamo chi
sta dietro di
noi”. In questo
periodo
abbiamo
trasformato
anche una
nostra Casa
Salesiana in
un centro di
accoglienza
per gli
sfollati».
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2.10 Page 20

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TESTIMONIANZE
scappati o evacuati senza sapere dove andare, sen-
za certezze su che cosa li aspettava. Inoltre, alcuni
hanno visto i loro paesi, come Mariupol, rasi al
suolo. Infatti, in onore di questa bellissima città di
Maria noi salesiani abbiamo chiamato il campus
per gli sfollati con il nome “Mariapolis” affidando
questo luogo e gli abitanti del campus alla Ver-
gine Maria. E Lei come la mamma sta accanto
ad ognuno in questi momenti di prova. Nel cam-
pus, ho allestito una cappella dedicata a Lei, dove
c’è un’icona disegnata da una signora del campus
proveniente dalla martoria-
ta città di Kharkiv. La cap-
pella è diventata per tutti i
residenti indipendentemen-
te a che confessione di fede
cristiana loro appartengono,
luogo di incontro con Dio e
con se stessi.
Stare con loro, voler loro
bene, accoglierli, ascoltar-
li, consolarli, incoraggiarli,
pregare per loro e con loro
e sostenerli in quello che
posso, sono i momenti che
fanno parte del mio servizio
che ormai è diventata la mia
vita in questo periodo. È una vera scuola di vita, di
spiritualità, dove imparo moltissimo stando accan-
to alla loro sofferenza. Quasi tutti loro sperano che
la guerra finisca presto e arrivi la pace, per poter
tornare a casa. Ma per molti, quel sogno è ormai
irrealizzabile: le loro case non esistono più. Così
come posso, cerco di offrire loro qualche appiglio
di speranza, aiutandoli a incontrare Colui che non
abbandona nessuno, che è vicino nelle sofferenze e
nelle difficoltà della vita.
A volte mi chiedono di prepararli alla Riconcilia-
zione: con Dio, con se stessi, con la dura realtà che
sono costretti a vivere. Altre volte, li aiuto nei biso-
gni più concreti: medicine, vestiti, pannoloni, visite
in ospedale. Faccio anche il lavoro di amministra-
tore insieme ai miei tre colleghi laici. Ogni gior-
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3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

▲torna in alto
no, alle 17:00, preghiamo per la pace, e un piccolo
gruppo ha imparato a recitare il Rosario, pregando-
lo quotidianamente.
Il piccolo Maksym si sveglia
nel cuore della notte
Come salesiano cerco di essere attento ai bisogni
dei ragazzi: sin dall’inizio con l’aiuto degli anima-
tori abbiamo creato un oratorio all’interno del cam-
pus. Inoltre organizziamo attività, gite, campeggi
in montagna durante l’estate; uno degli impegni
che porto avanti è seguire la mensa, per assicurare
che nessuna delle persone residenti al campus ri-
manga senza un pasto caldo.
Tra gli abitanti del campus c’è il piccolo Maksym,
che si sveglia nel cuore della notte, terrorizzato da
ogni rumore forte. Maria, una madre che ha perso
tutto anche il marito e ogni giorno sorride ai figli
per non far pesare loro il dolore. Poi c’è Petro, 25
anni, che con la sua ragazza era in casa quando un
drone russo ha lanciato una bomba. L’esplosione gli
ha amputato le due gambe, mentre la sua ragazza
è morta poco dopo. Petro è rimasto tutta la notte
in fin di vita, finché i soldati lo hanno trovato al
mattino e lo hanno portato in salvo. L’ambulanza
non poteva avvicinarsi a causa dei combattimenti.
In mezzo a tanta sofferenza, continuo il mio apo-
stolato con l’aiuto del Signore e il sostegno dei miei
confratelli.
Noi salesiani di rito bizantino, insieme ai nostri
13 confratelli di rito latino presenti in Ucraina
– in gran parte di origine polacca e appartenenti
all’Ispettoria salesiana di Cracovia (pls) – con-
dividiamo profondamente il dolore e le sofferen-
ze del popolo ucraino. Come figli di don Bosco,
continuia­mo con fede e speranza la nostra missione
educativo-pastorale, adattandoci ogni giorno alle
difficili condizioni imposte dalla guerra.
Siamo accanto ai giovani, alle famiglie, e a tutti co-
loro che soffrono e hanno bisogno di aiuto.
Desideriamo essere segni visibili dell’amore di Dio,
affinché la vita, la speranza e la gioia dei giovani
non siano mai soffocate dalla violenza e dal dolore.
In questa testimonianza comune, riaffermiamo la
vitalità del nostro carisma salesiano, che sa rispon-
dere anche alle sfide più drammatiche della storia.
Le nostre due peculiarità, quella di rito bizantino
e quella di rito latino, rendono visibile quell’unità
inscindibile del carisma salesiano come affermano
le Costituzioni Salesiane all’art. 100: “Il carisma del
Fondatore è principio di unità della Congregazione e,
per la sua fecondità, è all’origine dei modi diversi di
vivere l’unica vocazione salesiana.”
Crediamo che il dolore e la sofferenza non abbiano
l’ultima parola: e che nella fede, ogni Croce con-
tiene già il seme della Risurrezione. Dopo questa
lunga Settimana Santa, giungerà inevitabilmente la
Risurrezione per l’Ucraina: verrà la vera e giusta
pace.
«Desideriamo
essere segni
visibili
dell’amore di
Dio, affinché
la vita, la
speranza e
la gioia dei
giovani non
siano mai
soffocate
dalla violenza
e dal dolore.
In questa
testimonianza
comune,
riaffermiamo
la vitalità del
nostro carisma
salesiano, che
sa rispondere
anche alle
sfide più
drammatiche
della storia».
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I CONSIGLIERI GENERALI
ANS
Le nostre GUIDE
Una breve presentazione
dei Consiglieri generali.
DON STEFANO
MARTOGLIO
Vicario del Rettor
Maggiore, è il primo
collaboratore del Rettor
Maggiore nel governo
della Società e ha
potestà ordinaria vicaria.
Fa le veci del Rettor
Maggiore assente o
impedito. A lui è affidata
particolarmente la cura della vita e della disciplina religiosa.
Don Stefano Martoglio è nato il 30 novembre 1965 a Torino.
DON JORGE MARIO
CRISAFULLI
Consigliere Generale per le Missioni,
è nato il 19 marzo 1961 a Bahía Blanca,
in Argentina.
DON FIDEL MARIA
ORENDAIN
Consigliere Generale per la
Comunicazione Sociale,
è nato il 24 aprile 1965 a Manila.
DON SILVIO ROGGIA
Consigliere Generale per la Formazione
originario del Piemonte, come don
Bosco, nato il 4 luglio 1963 a Novello,
in Provincia di Cuneo.
DON GABRIEL
STAWOWY
Economo Generale
della Congregazione Salesiana
è nato il giorno di Natale del 1966
a Miedźna, diocesi
di Katowice, in Polonia.
DON RAFAEL BEJARANO
Consigliere Generale
per la Pastorale Giovanile,
è nato il 1° dicembre 1977
a Buga, Colombia.
DON ROMAN
JACHIMOWICZ
Consigliere Regionale
per l’Europa Centro
e Nord, nato il 13 novembre 1967
a Gorzów Wlkp, Polonia.
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Il Consiglio Generale coopera con il Rettor Maggiore
nell’animazione e nel governo della Congregazione.
DON JUAN CARLOS
PÉREZ GODOY
Consigliere Regionale per
la Regione Mediterranea,
nato il 5 novembre 1959
a Burguillos, Spagna.
DON ALPHONSE
OWOUDOU
Consigliere Regionale per
la Regione dell’Africa Centrale
e Ovest, nato a Ebolowa,
in Camerun, il 30 aprile 1969.
DON MICHAEL BIJU
Consigliere Regionale
per l’Asia Sud,
nato il 19 marzo 1970
a Idukki, India.
DON HÉCTOR GABRIEL
ROMERO
Consigliere Regionale
per l’America Cono Sud,
nato il 10 settembre 1971
a San Miguel de Tucumán,
in Argentina.
DON HUGO OROZCO
SÁNCHEZ
Consigliere Regionale per
la Regione Interamerica,
nato il 30 luglio 1968
a San Luis de Potosí, Messico.
DON INNOCENT
BIZIMANA
Consigliere Regionale
della Regione Africa Est e Sud,
nato a Musha-Rwamagana,
in Ruanda,
il 25 marzo 1969.
DON WILLIAM
MATTHEWS
Consigliere Regionale
per l’Asia Est-Oceania,
nato il 3 giugno 1971
a Mandalay, in Myanmar.
DON GUIDO GARINO
Segretario del Consiglio Generale,
nato a Torino
il 26 ottobre 1969.
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3.6 Page 26

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FMA
Monica Sana
Cammini di SPERANZA
Sulle orme di Maria Domenica Mazzarello
A rrivare per la prima volta oppure ritornare a Mornese è, per ogni fma
e per ogni membro della Famiglia Salesiana ritornare alle proprie ori-
gini carismatiche.
Mornese fu il luogo testimone dello svolgersi della vita di Maria Domenica
Mazzarello per 42 anni. Per Main, Mornese fu una porta aperta, che allargò
il cuore agli orizzonti del mondo.
A Mornese è nato un progetto di Dio che raggiunge oggi i 5 continenti: l’I-
stituto delle fma. A questo riguardo è molto significativa la lettera scritta da
don Costamagna in viaggio verso l’America: «È così piccolo codesto paese,
è un nonnulla codesta casa, eppure per noi è un gran che, per noi è ancora
il centro attorno a cui si raggiran le ruote della nostra vita raminga» (don
Giacomo Costamagna).
2. MAZZARELLI
I Mazzarelli (una zona di Mornese) sono tre piccoli
insediamenti che prendono nome dai loro abitanti,
e si chiamano: “Mazzarelli di qua”, “Mazzarelli di
mezzo” e “Mazzarelli di là”.
Casa Natia
1. MORNESE: un piccolo paese
dagli orizzonti ampi
Mornese è un piccolo comune delle colline dell’alto
Monferrato, in provincia di Alessandria, al confine
tra la Liguria e il Piemonte, fra due centri di mag-
giore entità: il comune di Gavi e quello di Ovada.
Attualmente è un piccolo centro agricolo, con scar-
si mezzi di comunicazione. Gli abitanti, circa 700,
vivono del lavoro dei campi e lavori nelle città di
Ovada e dintorni.
L’ambiente sociale è quello tipico delle campagne
monferrine, in cui la gente guarda con realismo la
vita, crede nel valore dell’onestà, del lavoro, del sa-
crificio imposto da una terra rude e forte.
Domenico Mazzarello, nonno di Maria Domenica,
il 1º febbraio del 1826 comprò una casa nella frazio-
ne dei “Mazzarelli di qua” per tutta la sua famiglia,
formata da sette figli. Il secondogenito Giuseppe fu
il padre di Maria.
Il 9 maggio 1837 nasce Maria Domenica; viene bat-
tezzata lo stesso giorno nella Chiesa parrocchiale San
Silvestro di Mornese. I suoi genitori sono solleciti,
attenti e piuttosto esigenti nell’educazione dei figli. Ai
Mazzarelli trascorre la sua fanciullezza, in un con-
testo familiare numeroso, di stile patriarcale, composto
dalla nonna paterna, dai genitori, dagli zii, dai fra-
telli e dai cugini. Vive relazioni serene che la aiuta-
no a crescere nella capacità di dialogo, a costruire la
sua personalità, idee e sentimenti.
Ai Mazzarelli, Maria Domenica rimane con la fami-
glia fino alla fine del 1848 o agli inizi del 1849 quando
la famiglia, poiché gli spazi in casa diventano già in-
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GIUGNO 2025

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sufficienti, si trasferisce alla Cascina della Valponasca.
Ritorna in questa stessa casa nel 1860 per curare
i parenti ammalati di tifo. In questa occasione si
contagia e si ammala gravemente rimanendo a letto
dal 15 agosto al 7 ottobre dello stesso anno.
Questa casa racchiude un messaggio significativo ed
incisivo per chi la visita: I tre “SÌ” dei Mazzarelli:
Il “sì” alla vita: qui Maria Domenica nacque ed
accolse la chiamata all’esistenza.
Il “sì” alla fede: qui Maria Domenica si aprì alla
vita cristiana e la fece gradualmente sua.
Il “sì” alla sofferenza: qui Maria Domenica ri-
tornò per assistere i parenti malati di tifo. Il suo
“sì” ad assistere i parenti malati fu una risposta
cosciente di fede e una risposta matura di amore.
Chiesetta di Maria Ausiliatrice
Il 24 gennaio 1864 il reverendo don Antonio Su-
raci invitò tutti i fedeli della frazione ‘Mazzarelli’
a collaborare per la ricostruzione della Chiesetta.
Nel 1964, l’anno centenario del primo incontro di
don Bosco e Maria Domenica Mazzarello, le fma
con l’aiuto della gente della borgata, restaurano la
Chiesetta, riportandola alle proporzioni e alle linee
architettoniche primitive
Santuario dedicato a Santa Maria
Domenica Mazzarello
Tra la casa natia e la chie-
setta ai Mazzarelli, sorge
ora anche il Tempio de-
dicato a Maria Domenica
Mazzarello. Voluto dalle
fma in occasione del cen-
tenario della fondazione
dell’Istituto e costruito
grazie alla collaborazio-
ne delle exallieve presenti
in 57 nazioni, fu consacrato il 4 agosto 1972. Per
l’occasione, la popolazione vide tornare a Mornese
proprio lei, Maria Mazzarello nell’urna che conser-
va il suo corpo.
Non molto distante dalla casa natia di Main, per
compiere un voto fatto durante l’epidemia del cole-
ra scoppiata tra il 1835 e il 1836, gli abitanti della
frazione dei Mazzarelli iniziarono a costruire una
chiesetta nel 1837. Il 24 maggio 1843 venne bene-
detta dedicandola ai santi martiri Lorenzo e Stefa-
no e a Maria Aiuto dei Cristiani. Maria Domenica
aveva sei anni e senza dubbio, con la sua famiglia
partecipa alle funzioni religiose, soprattutto ai ro-
sari nei mesi di maggio. La sua vita si apriva all’om-
bra della chiesetta dedicata a Maria Ausiliatrice.
La chiesetta, costruita con poveri mezzi, dopo al-
cuni decenni crollò e rimase in piedi soltanto l’ab-
side con la sua volta ad arco. In seguito venne rico-
struita la cappella.
3. VALPONASCA
Quando la famiglia si trasferisce alla Valponasca,
Maria Domenica ha 11 anni e lì trascorre il periodo
della sua adolescenza e gioventù. Vi rimane con la
famiglia fino al 1858.
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3.8 Page 28

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FMA
La Valponasca era una costruzione rurale di
vecchia data. Sorgeva solitaria nella campa-
gna a nord di Mornese e distava un’ora circa
di cammino a piedi dall’abitato, attraverso
monticelli e alture dai fianchi irregolari,
cosparsi di vigneti. Non era grande, ma suf-
ficiente ai bisogni familiari. In alto, sotto il
tetto spiovente, vi erano la soffitta e il sola-
io, con una finestrella che guardava in dire-
zione del paese e che avrebbe avuto un ruolo
singolare nella storia di Maria Domenica.
Tutte le mattine prima dell’alba, dopo esser
andata al pozzo a prendere l’acqua per i bi-
sogni della famiglia, percorre il sentiero che dalla
casa scende la collina ed attraversa i vigneti e con-
duce alla Parrocchia per partecipare dell’eucaristia.
In questo tempo inizia un apostolato parrocchiale
molto concreto tra le giovani e le madri del paese,
una forte esperienza all’interno del gruppo della
Pia Unione delle Figlie di Maria Immacolata.
Il periodo della Valponasca è il tempo in cui Maria
Domenica elabora e rafforza il suo carattere, si apre
a Dio con consapevolezza, decide di consegnarsi
nella libertà e nell’amore mediante il voto di ver-
ginità e consacrazione per sempre al Signore. La
presenza eucaristica di Gesù è la sua forza e la sua
gioia. Come Gesù cercava il tempo per stare solo
con il Padre, così anche Maria Domenica cerca con-
tinuamente uno spazio d’incontro con il suo Dio.
Alla sera, dopo il duro lavoro dei campi, si accosta
alla finestrella da cui può vedere la chiesa parroc-
chiale di Mornese. Era il suo luogo del tu per tu
con Gesù. Quando la mamma si accorse delle “fu-
ghe serali”, tutta la famiglia si radunava lì per la
preghiera della sera.
questo colle a partire
dal ’400.
In questa Chiesa Ma-
ria Domenica fu bat-
tezzata, fece la prima
Confessione e Comu-
nione e frequentò quo-
tidianamente la Messa.
Del tempo di Maria
Domenica troviamo la
Vergine del Suffragio,
la statua della Madon-
na del Rosario (ella
fece parte della Compagnia del Rosario a partire
dal 1848) e il Crocifisso dell’Altare.
La parrocchia è anche testimone dell’azione apo-
stolica di don Domenico Pestarino, direttore spi-
rituale di Maria Domenica per 27 anni. Egli col-
laborò attivamente, con il parroco di Mornese, al
rinnovamento della vita cristiana promuovendo
una intensa vita sacramentale. Si preoccupò dell’i-
struzione religiosa soprattutto dei fanciulli e dell’e-
ducazione della gioventù. Suscitò e incoraggiò varie
forme di associazionismo.
5. CASE E LUOGHI SIGNIFICATIVI
nella vita di Maria Domenica
Mazzarello
La casa di Via Valgelata, oggi via Ferrettino
Nel 1858, dopo aver subìto un grave furto alla Val-
ponasca, la famiglia decise di trasferirsi a Mornese,
senza lasciare il lavoro dei campi e prese casa in Via
4. LA PARROCCHIA DI MORNESE
Il primo insediamento e centro religioso fu la chie-
sa campestre di Collina San Silvestro (oggi non
esiste più).
L’attuale Chiesa parrocchiale, dedicata a san Silve-
stro, è un complesso architettonico sviluppatosi su
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3.9 Page 29

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Valgelata, non lontano dalla parrocchia. Quando il
padre di Maria Domenica acquistò questa casa lei
aveva 21 anni. Nel 1860, contrasse il tifo durante
l’assistenza ai parenti gravemente colpiti dall’epi-
demia del tifo ai Mazzarelli, e per quasi due mesi
lottò tra la vita e la morte.
La prima volta in cui si recò in parrocchia durante
la convalescenza disse al Signore: “Oh, Signore! Se
mi date ancora un po’ di vita, fate che io sia dimenticata
affatto da tutti. Io sono contenta di essere ricordata solo
da voi” (Cron I, 93).
Questa casa fu per Maria Domenica, l’ultima
casa con la famiglia prima di stabilirsi nella Casa
dell’Immacolata nel 1867.
Il Sentiero degli orti
Si trova tra la Casa dell’Imma-
colata e la Chiesa parrocchiale e
porta direttamente agli orti e ai
vigneti.
Durante la convalescenza della
malattia, Maria sente con mag-
gior insistenza e chiarezza la
chiamata alla missione educati-
va. Un mattino, uscendo dalla
Chiesa, condivide con l’amica il
suo progetto: “Senti, Petronilla, mi
pare proprio che il Signore voglia che noi due ci occupia-
mo delle ragazze di Mornese…” (Cron I, 97).
Continua nel prossimo numero
I NOSTRI LIBRI
Il bambino che rientra dalle vacanze
di Raffaele Mantegazza
I bambini sono felici? Spesso associamo automaticamente all’infanzia l’idea di felicità,
dimenticando le atroci sofferenze di tanti bambini per le guerre, le carestie, gli abusi, la
trascuratezza. E anche i bambini del ricco Occidente difficilmente possono dirsi felici se
constatiamo l’aumento delle tragiche situazioni di disagio fisico e psichico dopo il Covid.
Ma è anche vero che la felicità di una passeggiata con gli amici sulla riva di un fiume, di
una merenda insieme, di una marachella tenuta nascosta ai genitori, non sono solamente
miti pubblicitari ma costituiscono una esperienza possibile dell’infanzia. Quali sono i tratti, i
colori e i sapori della felicità dei bambini? E come è possibile aiutarli a crescere senza tradire
questa felicità ma anzi trasformandola nella possibile gioia di una vita adulta serena? Pos-
siamo pensare a una vita caratterizzata dalla quieta felicità provata dal bambino che rientra
dalle vacanze?
L’autore
Raffaele Mantegazza è un educatore. Divide il suo tempo tra l’Università di Milano-Bicocca
e l’Università IUSTO di Torino, dove insegna pedagogia, e le scuole (dalla primaria alla secon-
daria di II grado) nelle quali realizza interventi nelle classi a diretto contatto con bambini e
ragazzi. È autore di numerosi libri.
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3.10 Page 30

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MISSIONARI
T.B.
Don Francesco
CONVERTINI
Diecimila gesti di bontà
Le ultime
parole che
riuscì a dire
furono:
«Madre mia,
non ti ho mai
dispiaciuto
in vita... ora,
aiutami!». La
cattedrale che
accolse i suoi
resti mortali
si riempì
di cristiani,
musulmani,
indù.
Piangevano la
perdita di un
amico, di un
fratello.
Nella contrada di Papariello, nella Mur-
gia dei trulli e delle querce, Francesco
perse suo papà Sante quando aveva
solo tre mesi di vita, e vide morire sua
mamma Caterina quando aveva undici anni. Era il
1909. Francesco era nato in uno dei bianchi trul-
li di pietra dalla cupola grigia, che popolavano la
campagna attorno alla sua parrocchia di Locoro-
tondo (Bari). Sua madre, in quella campagna riarsa
dalla siccità e spopolata dalla miseria, lo copriva col
suo delicato amore e lo chiamava Cicilluzzo. Fece
in tempo a insegnargli i misteri del rosario (che ri-
marranno per sempre il suo catechismo) e a dirgli
tante volte (mentre gli dava da compiere i primi la-
voretti): «Metti amore! Metti amore!».
Cicilluzzo e suo fratello Samuele (13 anni) furono
portati alla fiera dove si affittavano i ragazzi-pa-
store. Ebbero la fortuna di essere presi da Vito e
Anna Petruzzi di Fasano (Brindisi), il paese del-
la loro mamma. Furono tenuti come figli, ed essi
li chiamarono «papà» e «mamma» e tutte le sere
recitavano il rosario con loro. Ma in quella terra
di povera gente, Francesco vide che per sfruttare
i più poveri veniva usato anche il rosario. Quando
quindicenne cominciò a fare il mietitore pagato a
giornata, sapeva che il tramonto del sole segnava
la fine del lavoro. Ma il padrone proprio in quel
momento faceva cominciare il rosario, e lo tiravano
a lungo fino al buio, quando i mietitori dovevano
reagire con rabbia: «Basta falce, basta rosario!».
Aveva un grande desiderio: imparare. Nelle serate
invernali andava da nonno Erasmo, muratore, che
per mezza lira la settimana insegnava a leggere, a
scrivere e a far di conto tracciando le cifre sui muri,
perché la lavagna non c’era.
Prigioniero ai laghi Masuri
Nel maggio del 1915 l’Italia entrò nella prima
guerra mondiale. Francesco fu chiamato alla visita
di leva nel gennaio 1917, e nel maggio entrò in li-
nea sul fronte del Trentino, con il 124° reggimento
«Chieti». Aveva 18 anni e mezzo, ed era alto 1,56,
due centimetri in più del minimo richiesto. Sem-
bravano bambini mandati al macello, con quelle
mantelline più lunghe di loro. Le mitragliatrici au-
striache, quando i fantaccini italiani uscivano dalle
trincee per l’attacco, facevano stragi enormi. I vuoti
venivano cinicamente colmati gettando al fuoco al-
tri giovanottini che mai avevano saputo cosa fosse
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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l’Austria, e per cui nessuna scuola
si era aperta per insegnare cos’era
la patria. Il 24 ottobre 1917 gli au-
striaci sferrarono una violenta of-
fensiva. Sfondate le linee italiane a
Caporetto, avanzarono in quindici
giorni fino al Piave, catturando 300
mila prigionieri. Accanto alla ma-
rea dei soldati in rotta, camminava
la folla dei profughi: vecchi, donne,
bambini. Trascinavano la loro po-
vera roba su carrette o in spalla. Il
fante Francesco Convertini parteci-
pò alla battaglia del Piave che in novembre arre-
stò l’avanzata austriaca. Il 23 dicembre era in linea
con il suo reggimento. In un inferno di fuoco e di
gas fu preso prigioniero con il suo reparto. Dopo
un interminabile e disastroso viaggio a piedi, fu
internato in un campo di concentramento presso
i laghi Masuri, in Polonia. Vi rimase undici mesi,
e là patì la fame vera, quella che uccide. Ne vide
morire tanti, dei suoi compagni. La guerra finì il 4
novembre 1918. Francesco, letteralmente scheletri-
to, fu restituito all’Italia il 15 novembre, e subito fu
aggredito dalla meningite, la malattia (a quei tempi)
dei bambini e dei soldati. Fu mandato in isolamento
all’ospedale di Cuneo e fu a un passo dalla morte.
Ma se la cavò. Appena tornato alla sua terra, andò a
piedi al santuario di Alberobello. In quel 1918 aveva
vent’anni, e ormai sapeva che il mondo non finiva
con i trulli. Che fare della vita? Il fratello Samuele,
che aveva fatto la guerra pure lui, decise di emigrare
in America. Francesco, dopo essersi inginocchia-
to alla tomba di suo padre e di sua madre, mise la
firma nella Guardia di Finanza per tre anni. Fu a
Trieste, a Fola, poi a Torino come «attendente» di
un capitano. E a Torino lo aspettava don Bosco.
La spedizione dei missionari
Devotissimo della Madonna, appena giunto a To-
rino si recò al Santuario di Maria Ausiliatrice, e si
accostò al primo confessore per chiedere il perdono
di Dio. Chi lo con-
fessò era don Angelo
Amadei, uno dei grandi biografi di don Bosco. Fu
impressionato dall’onestà e dalla fede di quel gio-
vanottone in divisa militare. E Francesco tornò a
confessarsi da lui, a parlargli, a sentire da lui, nel
cortile dell’Oratorio, la storia di don Bosco e del-
le sue opere che ormai coprivano il mondo. Il 23
ottobre 1923, nel Santuario di Maria Ausiliatrice
gremito di gente, Francesco vide il commoven-
te addio a undici missionari salesiani partenti per
l’India. Don Angelo Amadei, vedendolo molto
colpito, buttò là: «Perché non diventi missionario
anche tu?».
Francesco ci pensò. Sarebbe stata una maniera
bellissima di spendere la vita. C’era un istituto sa-
lesiano che preparava alle missioni giovanottoni
come lui, poveri di studio e ricchi di buona volon-
tà: il «Cardinal Cagliero» di Ivrea. Francesco vi
entrò il 6 dicembre 1923. Affrontò lo studio con
la stessa volontà feroce con cui aveva zappato, fal-
ciato, era andato all’assalto con la baionetta. E ci
riuscì. A stento, ma ci riuscì. La pagella impietosa
dell’ultimo anno scolastico (1926-27), nella casella
«matematica» registra uno zero in febbraio, un sei
all’esame finale. L’anno terminò con la «festa delle
destinazioni». Nell’ampia sala di studio affollata dai
compagni, presente don Filippo Rinaldi, successo-
re di don Bosco (e oggi «beato»), «ci distribuirono
Krishnagar
era una
diocesi molto
povera, con
sei milioni di
abitanti, metà
musulmani
e metà indù,
sparsi in
12 500 villaggi.
I cattolici
erano l‘uno
per mille: una
microscopica
zolla
nell‘immensa
pianura.
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MISSIONARI
Andava per
i villaggi
numerosissimi
attorno a
Bhoborpara.
Camminava
a piedi
nudi, così
risparmiava
le scarpe
e con quei
soldi poteva
comprare
qualcosa da
mangiare per
la gente.
quei foglietti con cui ci dividevamo il mondo – ri-
cordava Cesare del Grosso suo compagno –: tu in
India, tu in Venezuela, tu in Patagonia, tu in Cina.
Eravamo quaranta giovanotti appena rivestiti della
tonaca nera e pronti ad andare in capo al mondo».
Francesco Convertini sentì la parola «India».
La lezione di «Fadar Bendra»
Francesco ebbe appena il tempo di andare a salu-
tare amici e parenti di Papariello e Locorotondo.
Il 7 dicembre 1927 s’imbarcò con i compagni di
missione sulla motonave Genova. Il 26 approdarono
a Bombay. Proseguirono in treno per Calcutta.
Venne a raggiungerli monsignor Mathias, vescovo
della missione salesiana. In treno costeggiarono la
vastissima pianura formata dai delta congiunti del
Gange e del Brahmaputra, fertilis-
sima ma devastata dagli uragani,
oppressa da un clima umido insop-
portabile per gli europei. Al confi-
ne della pianura, una corriera dalle
panche di legno li portò ai 1640
metri di Shillong, la capitale dello
stato indiano dell’Assam, centro di
quella missione salesiana.
Durante il noviziato (1928) e gli
studi di filosofia (1929-30) Fran-
cesco imparò a fare il missionario guardando e
accompagnando don Costantino Vendrame, «Fa-
dar Bendra», come lo chiamava la gente. Era un
grande camminatore. Al mattino, caffè e fetta di
pane, zaino in spalla e avanti con passo sostenuto di
villaggio in villaggio. Entrava nelle capanne, sede-
va al fumoso focolare, giocherellava con i bambini,
viveva la vita della gente. Don Vendrame fu il libro
migliore che Francesco Convertini studiò, imparò
e imitò in tutta la sua vita di missionario.
1935. Francesco viene ordinato sacerdote il 29
giugno, all’età di 37 anni. L’obbedienza gli chiede
subito di abbandonare l’Assam e di raggiungere la
missione salesiana di Krishnagar.
Monsignor Ferrando, vescovo di quella missione,
lo affidò al parroco di Bhoborpara, uno dei villaggi
ora nel Bangladesh. E lì cominciò la sua missione.
Krishnagar era una diocesi molto povera, con sei
milioni di abitanti, metà musulmani e metà indù,
sparsi in 12 500 villaggi. I cattolici erano l’uno per
mille: una microscopica zolla nell’immensa pianu-
ra. Fin dai primi giorni fu circondato da uno stuolo
di ragazzi, che divennero i suoi maestri, ben felici
di insegnargli la lingua bengalese. Nelle prediche,
don Francesco diceva poche parole, ripeteva le
grandi verità del Vangelo che non hanno bisogno
di tante parole. Andava per i villaggi numerosissi-
mi attorno a Bhoborpara. Camminava a piedi nudi,
così risparmiava le scarpe e con quei soldi poteva
comprare qualcosa da mangiare per la gente.
Incredibilmente buono con tutti
Don Francesco è buono, per questo tutti lo vogliono
per amico. Le case degli indù sono severamente
chiuse agli estranei. Ma i bambini lo afferrano per
la veste e lo tirano dentro le loro case. E lui parla
a tutti, indù e musulmani, di Gesù, del suo amore
per tutti. È venerato da tutti come un grande
sadhu, monaco che porta la pace di Dio. Digiu-
na giorni e giorni mentre cammina, perché quella
gente ha tanto poco da sfamarsi. Da quando sanno
che ha «l’acqua di Gesù che salva», molti vecchietti
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GIUGNO 2025

4.3 Page 33

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che aspettano la morte in silenzio, gliela chiedono
con mille sotterfugi, per non offendere la religione
ufficiale della loro famiglia. E don Francesco fini-
sce per battezzare migliaia di persone, dopo aver
loro parlato di Gesù. La vita di tutti
questi suoi anni di missione non ha
nulla di clamoroso. È fatta di diecimi-
la gesti di bontà che non offrirebbero a
un giornalista in cerca di sensazionale
nemmeno il necessario per un artico-
lino di cronaca. Famiglie cattoliche
hanno accettato il protestantesimo per
avere degli aiuti materiali. Don Fran-
cesco non sgrida nessuno, le invita a
continuare a pregare, a rimanere ami-
ci. Dorme in qualunque capanna, tra
topi, serpi e scorpioni. E anche quelli lo rispetta-
no. Raccontano che nelle paludi, mentre portava
il viatico a un moribondo, ha incontrato la tigre.
E ha pregato anche lei di lasciarlo passare, perché
quell’uomo stava morendo. E la belva l’ha lasciato
passare. Quando il monsone cattivo ha distrutto
ponti e allagato capanne e strade, è andato a racco-
gliere la gente con la zattera, e l’ha portata sul tetto
della chiesa, che è come un’isola su un lago grande.
Quando la stagione è bella e la campagna fioren-
te, don Francesco fa la processione della Madonna
tra i villaggi: una processione di dieci chilometri,
con un fiume di gente, cristiani, musulmani, indù.
Gridano e cantano alla Signora bella, mamma di
Gesù.
Poiché il cuore cominciava a zoppicare per il
grande caldo e il grande camminare, i superiori lo
mandarono in Italia due volte, nel 1952 e nel 1974.
Poté riabbracciare suo fratello Samuele, rientrato
dall’America, e dare la prima Comunione alla ni-
potina Cristangela. Ma rimase spaventato al vede-
re che il rosario non si diceva più nelle famiglie, e
che si gettava via tanto pane, mentre i suoi bam-
bini bengalesi morivano di fame. Ritornò alla sua
Krishnagar con il cuore sempre più stanco. Una
specialista in cardiologia, visitandolo in Puglia, gli
aveva detto crudamente la verità: con un cuore in
quelle condizioni ogni giorno di vita era un mira-
colo. Rinnovò il miracolo fino all’11 febbraio 1976.
Le ultime parole che riuscì a dire furono: «Madre
mia, non ti ho mai dispiaciuto in
vita... ora, aiutami!».
La cattedrale che accolse i suoi
resti mortali si riem­pì di cristiani,
musulmani, indù. Piangevano
la perdita di un amico, di un
fratello.
Raccontano
che nelle
paludi,
mentre
portava il
viatico a un
moribondo,
ha incontrato
la tigre. E
ha pregato
anche lei
di lasciarlo
passare,
perché
quell‘uomo
stava
morendo.
E la belva
l‘ha lasciato
passare.
GIUGNO 2025
33

4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 17
DESATELLIZZARE
Anche se l’infanzia e l’adolescenza
sono trascorse serenamente
in famiglia, arriva sempre un
“bombardamento” di segni che
spingono prepotentemente “fuori”.
Ifigli sono come le navi: le navi non son fatte
per restare in porto, ma per prendere il largo.
Almeno una volta era così. Oggi non lo è più:
oggi i figli preferiscono stare nel porto.
“Viva la mamma”, cantava Edoardo Bennato: quasi un
inno per i sette milioni di giovani italiani tra i venti-
cinque-quarant’anni che non abbandonano la casa.
D’altronde, perché andarsene? È troppo comodo
vivere sulle spalle dei genitori, lavati, stirati, rifo-
cillati, coccolati!
E così i “figli prolungati”, cioè i figli di mamma a
vita, aumentano sempre più.
Il fenomeno è tipicamente italiano. In Inghilterra,
come negli Stati Uniti, i figli salutano e se ne vanno
ben prima di sposarsi, spesso quando iniziano a
frequentare l’università, già tra i sedici e i diciotto
anni. In Francia l’82% dei ragazzi tra i venti e i
trent’anni vive per conto proprio; in Germania la
percentuale scende di poco, attestandosi al 74%. In
Svezia a sedici anni i figli vengono mandati fuori
casa, forse anche troppo violentemente. In Italia no.
Le conseguenze?
Gravissime! Standosene tranquilli in casa, i ragazzi
rimandano sempre più il momento di crescere.
34
GIUGNO 2025

4.5 Page 35

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OTTO RICETTE PER DESATELLIZZARE UN FIGLIO
1. Mettiamoci bene in mente, fin da quando il figlio è piccolo, che un giorno o l’altro dovremo perderlo.
2. Convinciamoci che i genitori sono come le impalcature di un palazzo: ad un certo momento le impalcature si devono
togliere, e così appare il palazzo.
3. Smettiamo, al più presto, di insaponarlo.
4. Non facciamolo crescere col sedere nel burro.
5. Diciamogli che la casa non è un albergo ove si mangia, si beve e si esce senza pagare il conto.
6. Tutte le volte che può, lasciamo che se la sbrighi da solo, già nella prima infanzia.
7. Diamogli delle responsabilità e facciamogli credere che contiamo su di lui. Aveva ragione il filosofo inglese John
Locke a dire che “quanto più presto tratterete il fanciullo da uomo, tanto più presto comincerà a diventarlo”.
8. Teniamo presente che la vera cartina di tornasole della nostra riuscita in quanto genitori-educatori è questa: abbia-
mo fatto bene il nostro lavoro, dal momento in cui il figlio non ha più bisogno di noi.
L’esorcismo
Con piglio deciso, lo psichiatra Paolo Crepet scri-
ve: «Un tempo le madri tuonavano: “Questa casa
non è un albergo!” quando i figli la identificavano
con la comodità, scorciatoia per una indipendenza
apparente.
Se i ragazzi pretendevano questo, la porta di casa
era aperta: dovevano accomodarsi altrove nel
mondo. Oggi quella battuta ha virato, ha perduto
quel “non” essenziale: “Questa casa è un albergo,
spero di tuo gradimento. Restaci pure finché ti
pare, se vuoi cambiamo il computer di dotazio-
ne... Purché tu rimanga qui” è l’esorcismo al ti-
more che la costruzione di un’autentica autonomia
faccia sprofondare chi resta nel vuoto, davanti a
uno specchio.
E perché ciò non avvenga, molti genitori sono di-
sposti a sacrificarsi: dall’investire nell’arredamen-
to delle camere dei figli – che diventano suite di
alberghi extralusso con servizi telematici d’avan-
guardia, box doccia connesso all’Mp3 per godere
della musica preferita anche sotto l’acqua calda –
al rinunciare a qualsiasi controllo sull’uso di quei
luoghi.
Già dall’adolescenza non esistono divieti all’ingres-
so di partner amorosi (molti genitori approvano che
dormano insieme a casa, si sentono più tranquilli),
uscite e rientri notturni senza commenti sono la
norma. Grand hotel domestico».
Fuori dal nascondiglio
Un’inchiesta condotta alcuni anni fa ha scoperto
che il 46% dei ragazzi italiani non ha voglia di di-
ventare adulto!
Sono ragazzi culturalmente più preparati di quelli
di qualche generazione fa, ma con un forte ritardo
per quanto riguarda la maturazione umana. Ragaz-
zi col complesso del “paguro eremita”: il mollusco
che si infila in una conchiglia vuota e se ne vive
pacifico in essa.
Ragazzi incapaci di farsi carico di sé. Ragazzi in-
sicuri; ragazzi bonsai: il troppo benessere casalingo
impedisce loro di “essere”.
Il poco detto è sufficiente per arrivare alla conclu-
sione: genitori, per favore, tagliate il cordone om-
belicale! I ragazzi non sarebbero “mammoni”, se i
genitori non fossero “figlioni”. Non è forse vero che
talora siamo proprio noi a non volere che il figlio se
ne vada di casa? D’ora in poi quando alla sera torna
a casa il cucciolone di trenta-trentacinque anni, non
forniamogli più i sofficini; lasciamo che, come più
volte abbiamo detto, impari a camminare sulle sue
gambe, a volare con le sue ali.
Educare è rinunciare al possesso. Educare è desa-
tellizzare.
Ha detto bene lo scrittore inglese Gilbert Chester-
ton: «La persona più indimenticabile è quella che sa
condurre lo spirito degli altri fuori dal suo nascon-
diglio».
GIUGNO 2025
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Sull’orlo del
BURNOUT
Come formiche diligenti che vanno
avanti e indietro / seguendo la scia
del proprio filare, / ci affanniamo
a correre su e giù ingaggiando la
nostra lotta quotidiana / contro un
tempo che non basta mai.
Sull’orlo del burnout. È così che le ultime
ricerche del Censis e dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità descrivono i giovani
adulti del terzo millennio, fotografando in
maniera impietosa uno scenario che appare ormai
preoccupante. Una situazione cronica e sempre più
diffusa che – tra stress, esaurimento e attacchi di
Sempre il solito dannato lunedì,
la città si sveglia e va al lavoro;
sembra di essere formiche che sprecano le vite,
fingendosi farfalle in volo.
C’è chi dice: “C’est la vie”,
qualcuno: “Let it be”;
io preferisco: “Che te devo dì”.
È che siamo diventati troppo cinici,
abbiamo il cuore in PVC.
Ho puntato su un cavallo, è sempre l’ultimo,
si chiamava Bojack.
Ho parlato con il diavolo nel traffico,
aveva la mia voce.
Ho un cappellino adatto ad ogni situazione,
sono tattico e oggi ho quello giusto
per un altro attacco di panico…
panico – interessa mediamente un giovane su due,
con punte particolarmente allarmanti nelle grandi
città e, in genere, nei contesti a più intensa urba-
nizzazione.
Di fronte a ritmi di vita spesso troppo frenetici e
convulsi, a una cultura del lavoro sempre più esi-
gente e incentrata sulla performance, a una modalità
di vivere le relazioni in cui le aspettative prevalgono
sulla reciprocità, siamo come risucchiati in un vor-
tice di impegni, ansia da prestazione e responsabi-
lità e, quando non riusciamo ad assolvere adegua-
tamente a tutte le incombenze che si affastellano
nelle nostre giornate, siamo assaliti da un senso di
frustrazione e scoraggiamento che incide pericolo-
samente sul nostro benessere fisico e mentale.
Come formiche diligenti che vanno avanti e indie-
tro seguendo la scia del proprio filare, ci affannia-
mo a correre su e giù ingaggiando la nostra lotta
quotidiana contro un tempo che non basta mai,
destreggiandoci a fatica tra standard di rendimento
sempre più ambiziosi, facendo i conti con la latente,
ma insistente sensazione di non fare abbastanza…
E, mentre siamo impegnati in questa quotidiana
corsa a ostacoli, non ci rendiamo conto che lascia-
mo sempre meno spazio a ciò che conta davvero,
alla ricerca di una felicità che, più incrementiamo
la nostra andatura, più ci sfugge di mano.
Nessuno stupore, dunque, che soprattutto tra le
generazioni più giovani – maggiormente incalzate
dalla necessità di farsi strada nel mondo del lavo-
ro e spesso più esposte alle richieste pressanti di
una società che non ammette deroghe o segni di
cedimento – siano sempre più numerosi i casi di
burnout, di esaurimento fisico, mentale ed emoti-
vo, che spesso non dipendono unicamente da un
carico eccessivo di impegni e aspettative, ma anche
dalla difficoltà di salvaguardare degli spazi e dei
momenti preziosi da dedicare alla cura di sé e della
propria dimensione interiore, in cui poter scaricare
lo stress accumulato. Non a caso i sociologi par-
lano di una “sindrome da corridoio”, alludendo con
ciò all’incapacità di mantenere distinta la vita la-
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GIUGNO 2025

4.7 Page 37

▲torna in alto
vorativa da quella privata, a quell’osmosi di ansie
e nervosismo che, non riconoscendo alcun confine
efficace tra i vari contesti in cui si snoda il nostro
vissuto quotidiano, si trasferiscono senza soluzione
di continuità da un ambito all’altro, precludendoci
la possibilità di ritrovare delle occasioni di riposo e
di autentico benessere perfino nello spazio “sacro”
della casa e della famiglia. Così come può verifi-
carsi, in senso inverso, che le preoccupazioni e le
battaglie affrontate nel privato travalichino i limiti
dell’ambiente domestico e vadano a condizionare
negativamente anche la vita professionale.
Come fare, allora, per prevenire il rischio del bur-
nout? La soluzione, certo, non può essere la fuga dal-
le proprie responsabilità, il disimpegno nei confronti
di tutto ciò che ci procura ansia o fatica, la ricerca di
forme di evasione fini a se stesse, che non ci aiutano
a risolvere il problema alla radice. Forse il segreto
sta nella capacità di darsi delle priorità, imparando
a gestire in modo equilibrato il proprio tempo e i
propri spazi, ma anche nel non lasciarsi sopraffare
dalle aspettative altrui, rimettendo al centro la pro-
pria salute mentale e la propria qualità di vita.
Io volevo solo fare l’artista, non avere mille burnout;
e chi pensava che ci vuole un terapista
pure per curare i sold out!
Si aspettano di più, di più, di più, ma non mi va
di raggiungere i miei KPI, ignorando la felicità…
Vorrei la targa e non la fine di Tenco,
ormai sto diventando vecchio
e infatti mangio presto, ascolto il vento,
e a volte dò perfino ragione a Parenzo.
I numeri non voglio farli, io li dò,
sono un re Mida, solo all’incontrario:
quello che tocco tendo a rovinarlo, però...
Una canzone mi fa stare sveglio,
dice che i buoni non vincono mai;
sembra impossibile, però è successo,
come le coppe vinte dall’Uruguay.
Ed ogni lunedì mi tira un destro
ed è l’ennesimo ultimo round,
ma la tua stella mi fa stare meglio
dentro questo blackout.
Io volevo solo fare l’artista, non avere mille burnout;
e chi pensava che ci vuole un terapista
pure per curare i sold out!
Si aspettano di più, di più, di più, ma non mi va
di raggiungere i miei KPI, ignorando la felicità…
(Pinguini Tattici Nucleari, Burnout, 2024)
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
L’entrata dei MISSIONARI
in PATAGONIA Un caso di coscienza
L a Patagonia, “la più grande impresa della
nostra congregazione” al dire di don Bo-
sco, tardava a diventare la terra dei suoi
sogni missionari. Nonostante le insisten-
ze da Torino, il responsabile don Cagliero nei suoi
due anni di presenza a Buenos Aires (1876-1877)
l’aveva esclusa per l’impreparazione dei salesiani.
Ad assumersi la responsabilità toccò al successo-
re, a don Francesco Bodratto (1823-1880) che nel
1879 autorizzò una particolare ricognizione che ne
pose le premesse. Precise informazioni su di essa ci
sono date dallo stesso ispettore don Bodratto nella
lettera a don Bosco del 19 aprile 1879.
Prima tappa: il paese di Patagones
sul Rio Negro
Scriveva: “Ieri l’altro sono partiti due dei nostri missio-
nari con monsig. Espinoza per la missione del Carhué.
Questa volta [dopo il fallimento del primo tentativo
via mare nel 1878: cf BS aprile] sono andati per ter-
ra, dopo due giorni di Ferrovia monteranno in sella e
viaggeranno ancora 15 giorni prima di arrivare a Pa-
tagones. Nelle tappe che faranno si fermeranno qualche
giorno per battezzare i ragazzi e offrire il mezzo di
fare la Pasqua ai cristiani sparsi in quei deserti dell’A-
zul di Chacharis e altri di cui non ricordo il nome. A
Patagones si fermeranno una quindicina di giorni per
vedere se possiamo piantare la nostra sede in quel ulti-
mo confine immediato alla Patagonia, scopo principa-
le della nostra missione. Di lì andranno lungo il Rio
Negro sempre esplorando i punti principali che possono
agevolare la entrata nell’interno della Patagonia. Fat-
to questo giro che richiede almeno quattro mesi di tem-
po ritorneranno fra noi, ed allora sarà forse il tempo di
prendere una determinazione definitiva. Tanto più che
so da fonte quasi sicura che i Lazzaristi lasceranno que-
sta Missione per mancanza di mezzi e di personale.
Don Bodratto comunicava così a don Bosco l’at-
tesissima notizia di tale tentativo di entrare in Pa-
tagonia, ma, forse per evitargli un dispiacere, non
La Patagonia
è la terra dei
primi sogni
missionari di
don Bosco.
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GIUGNO 2025

4.9 Page 39

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accennava al dramma interiore che essa gli com-
portava: missionari cappellani di un esercito inviato
per sottomettere con la forza gli indigeni in un’area
da loro sempre occupata.
Proseguiva l’ispettore Bodratto: “Secondo gli studi fat-
ti da persone autorevoli pare che il punto più importante
per facilitare il mezzo d’entrare fra gli Indi della Pata-
gonia sia appunto il villaggio denominato Patagones”.
Per i missionari l’importante era entrare in contat-
to con gli indigeni e la pur problematica “spedi-
zione del deserto” sembrava consentirlo, sia pure a
carissimo prezzo, tanto più che ne condivideva la
responsabilità la stessa arcidiocesi di Buenos Aires.
Inutile missione nella Pampa
Anche la Pampa, così come la Patagonia più a sud,
ritornava sovente nella corrispondenza salesiana che
viaggiava fra le due sponde dell’Atlantico: ne parla-
vano i missionari, ne scrivevano i loro corrispondenti
a Valdocco, don Bosco per primo. Ma ormai – scri-
veva con un velo di tristezza don Bodratto – “Bisogna
deporre il pensiero della Pampa, perché ormai è conqui-
stata. Una parte li hanno presi prigionieri; i ragazzi e le
donne sono sparsi per la Provincia di Buenos Aires; i loro
terreni sono in vendita a conto del governo, e gli uomini
coi giovani più forti si sono riconcentrati nella Patago-
nia irritatissimi contro i cristiani. Cosicché fra qualche
anno vedremo la Pampa popolata dalle colonie Italiane,
Spagnole, Tedesche e Russe giacché le commissioni per la
immigrazione, fornite di nuovi mezzi, si sono mosse con
nuova attività in cerca di Europei per popolare appunto
le terre della Pampa”.
Ed effettivamente i salesiani vi penetrarono prove-
nienti dalla Patagonia nel 1881, anche se solo nel
1896 presero formale impegno di fondarvi la Chiesa.
Il progetto iniziale
Al ritorno dei due missionari itineranti, don Bodrat-
to pensò che ormai si fossero messe le premesse per
procedere ad una classica fondazione salesiana sul
Rio Negro, con tanto di chiesa, collegio maschile e
femminile, case per i salesiani e le Figlie di Maria
Ausiliatrice, tutto in funzione dell’av-
vicinamento agli indigeni. Ecco come
si esprimeva al riguardo don Bodratto
con don Bosco: “Adesso secondo le rela-
zioni che mi vennero fatte, sarebbe il tem-
po più che mai opportuno per istabilire
la nostra missione in Patagones. Quivi i
Missionari lazzaristi hanno due case co-
struite ad uso collegio, una per le Suore ed
una per i Padri le quali ritirandosi le cederebbero alla cu-
ria di questa città. La Società di S. Giuseppe possiede pure
in Patagones una casa ed un terreno assai grande attiguo
alla casa Parrocchiale, che cederebbe senza ostacolo ai P P.
Salesiani se prendono questa missione. L’Arcivescovo poi
dal canto suo ci darebbe la Parrocchia, che va a prendere
molta importanza… Sicché aprendo un collegio di ragazzi
ed uno di figlie in Patagones presto si potrebbero avere Indi
da instruire e così metterci in relazione colla tribù mansa
per quindi penetrare a poco a poco nel centro”.
Sul piano operativo, avuta la relazione della possi-
bilità di subentrare ai Lazzaristi e alla Dame di S.
Giuseppe, si trattava di accordarsi con loro, una volta
che l’arcivescovo avesse offerta la parrocchia ai sale-
siani; cosa che avvenne senza problemi. Più difficile
era invece individuare almeno due pionieri. I salesia-
ni a disposizione in Argentina erano indispensabili
per le opere già in corso, per cui don Bodratto non
poteva che fare affidamento su don Bosco: “Vostra
Paternità pensi alla spedizione della Patagonia cioè a so-
stituire quelli che dovessimo spedire colà.
Don Bosco “pensò” a don Fagnano che nel gennaio
1880 partì per Patagones con un drappello di sa-
lesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice. Iniziava così
quella che sarebbe stata definita l’epopea missiona-
ria salesiana “alla fine del mondo”.
Don Bodratto poteva ritenersi soddisfatto, poteva
cantare il nunc dimittis. Il Signore lo ascoltò pochi
mesi dopo. Moriva infatti il 4 agosto 1880. In cin-
que anni (1875-1880) due salesiani erano così volati
al cielo, ma ormai la Congregazione si era insediata
oltreoceano e avrebbe continuato ad estendersi in
tutta l’America.
GIUGNO 2025
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4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
Nel mese di giugno 2025 preghiamo per la beatificazione
e la canonizzazione del Servo di Dio Ignacy Dobiasz,
salesiano sacerdote.
Ignacy Dobiasz nacque a Cie-
chowice (in Alta Slesia) il 14 gen-
naio 1880. Completata la scuola
elementare, nel maggio 1894 si
recò in Italia, a Torino Valsalice,
per svolgervi gli studi ginnasiali. Il
16 agosto 1898 entrò nel novizia-
to salesiano di Ivrea. Emise i voti
perpetui a San Benigno Canavese il
21 settembre 1903. Compì gli studi
filosofici e teologici a San Benigno
Canavese e a Foglizzo fra il 1904
e il 1908. Il 28 giugno 1908 venne
ordinato sacerdote a Foglizzo. Tor-
nò poi in Polonia: svolse la propria
attività pedagogica e pastorale a
Oświęcim (nel 1908, nel 1910, nel
1921 e nel 1923), a Daszawa (nel
1909), a Przemyśl (1912-1914) e
a Cracovia (tra il 1916 e il 1920 e
nel 1922). Nel 1931 fu a Varsavia
come vicario. Nel novembre 1934 si
recò invece a Cracovia dove rimase
come confessore e collaboratore
parrocchiale. Qui venne arrestato
insieme ad altri confratelli salesiani
il 23 maggio 1941. Dopo una breve
detenzione nella prigione di Mon-
telupich, fu deportato nel campo di
concentramento di Auschwitz. Il 27
giugno 1941 morì a causa dei mal-
trattamenti e del lavoro disumano.
Aveva 61 anni d’età, 40 di profes-
sione e 32 di sacerdozio. È in corso
la causa di martirio.
Preghiera
Signore Gesù Cristo,
vincitore della morte, dell’inferno e di satana,
ti rendiamo grazie per il dono dell’amore e della fortezza
che rifulse nel tuo servo Ignacy Dobiasz,
fedele alla sua vocazione nella persecuzione e nel martirio.
Umilmente ti supplichiamo
di glorificare questo tuo testimone;
concedici la grazia che per sua intercessione
fiduciosi ti chiediamo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ringraziano
Alla festa di Tutti i Santi dello
scorso anno sono stata ricovera-
ta d’urgenza per una importante
infiammazione dell’ovaio sinistro,
in estensione all’intestino e or-
gani circostanti. I primi esami a
cui sono stata sottoposta hanno
rilevato una situazione molto cri-
tica ma di non chiara lettura per i
medici. Nei primi giorni di ricove-
ro ospedaliero, pareva che doves-
si essere sottoposta ad intervento
chirurgico per la rimozione non
solo dell’ovaio tumefatto ma for-
se anche di altre parti interessate
dall’infiammazione.
Sono subito stata affidata all’in-
tercessione di Maria Ausiliatrice
e della Serva di Dio Vera Grita,
dai tanti amici dell’Opera dei Ta-
bernacoli Viventi, che mi hanno
sostenuta e accompagnata con la
loro costante preghiera. La prima
grazia che ho potuto sperimen-
tare, oltre alla serenità d’animo
con cui ho vissuto quei giorni
in ospedale anche di fronte alla
possibilità di subire un intervento
chirurgico importante, è stata la
presenza viva di Gesù Eucarestia:
ho potuto infatti ricevere ogni
giorno la Comunione, cosa non
possibile in tutti i reparti dell’o-
spedale in cui ero ricoverata.
La seconda grazia, che imputo
all’intercessione di Vera Grita, è
stata la luce che è stata inviata
ai medici, che dopo alcuni giorni
sono riusciti a valutare con mag-
giore chiarezza la mia situazione
e, modificando la diagnosi ini-
ziale, hanno iniziato a prestarmi
terapie più adeguate. Dopo la di-
missione dall’ospedale, agli esami
e visite successive la situazione è
risultata in rapido miglioramento
e all’ultima visita di controllo – a
circa 5 mesi dal ricovero – mi è
stato confermato che al momento
non è necessario alcun intervento
chirurgico.
Ringrazio di cuore il Signore che
mi ha assistito nel momento della
sofferenza, facendomi sentire la
tenerezza e la premura di tante
persone vicine con la loro pre-
ghiera, la nostra Mamma celeste
e la serva di Dio Vera Grita, per la
sua intercessione.
Lucilla – Bereguardo
Da parecchi anni mio figlio An-
drea inseguiva i suoi sogni su
strade che non si rivelavano mai
quelle giuste. Delusioni ed infe-
licità erano all’ordine del giorno
nella nostra famiglia. Ho prega-
to tanto con una Figlia di Maria
Ausiliatrice la nostra protettrice
la Serva di Dio Madre Rosetta
Marchese affinché lo potesse
aiutare a fare le scelte giuste. Ho
messo l’immagine di Madre Ro-
setta sotto il materasso e ho pre-
gato con fiducia. Andrea adesso
vive a Padova dove ha ripreso a
studiare con serietà all’università
e ha anche un lavoro stagionale
abbastanza soddisfacente. Sono
davvero grata a Madre Rosetta
che è diventata per me la mia
confidente e alla quale affido le
mie preoccupazioni e con la quale
condivido le mie gioie.
Monica Mazzei
Vorrei ringraziare il Servo di Dio
Carlo Golda per l’aiuto che pron-
tamente ho avuto grazie alla sua
intercessione. Mi trovavo in un
momento di grande fragilità a do-
ver risolvere un problema troppo
grande per me e in quel momento
non vedevo vie di uscita. Appena
mi sono affidata a Lui le cose han-
no cominciato a sistemarsi grazie
anche alle persone giuste e io ho
cominciato a essere più serena e
tutto si è risolto nel migliore dei
modi. Se ne avrò bisogno conti-
nuerò ad affidarmi alla sua inter-
cessione.
Daria Rita Gaggioli – Bologna
40
GIUGNO 2025

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
ANS
PAPA FRANCESCO
Indimenticabile in tutto
il mondo salesiano
“Amate, riverite, rispettate il
Sommo Pontefice, Vicario di Gesù
Cristo in terra. Chi sta col Papa è
dalla parte di Dio” insegnava don
Bosco ai suoi ragazzi. La devo-
zione verso il Santo Padre è uno
dei tre “bianchi amori” che egli
sempre trasmise come parte del-
la sua spiritualità e oggi traspare
in maniera evidente nelle parole
commosse e colme di gratitudine
che da tutto il mondo salesiano
continuano ad arrivare per la
morte di papa Francesco.
Da tutte le zone del mondo in cui
è diffuso il carisma salesiano con-
tinuano a rinnovarsi i messaggi
di cordoglio per la scomparsa del
Santo Padre, colmi di riconoscen-
za per la sua eredità come ponte-
fice.
“Abbiamo sempre avuto una spe-
ciale sintonia con Francesco, e in
molti casi questa si è tramutata
in una reale cooperazione a so-
stegno di progetti a favore degli
ultimi della terra”, afferma don
Daniel Antúnez, presidente di
“Missioni Don Bosco”, la Procura
Missionaria salesiana di Torino.
Don Antúnez aveva conosciuto
il Santo Padre già quando questi
era Arcivescovo di Buenos Aires
e si sono reincontrati più volte a
Roma in occasione di due impor-
tanti appuntamenti annuali in
Vaticano: la Corsa dei Santi e il
Concerto di Natale.
“Il pensiero di Francesco è molto
vicino a quello che anima Mis-
sioni Don Bosco: l’attenzione ai
più bisognosi, la presenza nelle
periferie del mondo – prosegue
don Antúnez –. Quello che è il
carisma originario di Don Bosco
è stato confermato a noi e po-
tenziato dal magistero costante
del Papa: l’attenzione ai giovani
diseredati, a coloro che vivono
senza alcuna speranza di futuro,
ai soggetti resi deboli da un con-
testo di violenza e di miseria. Al
punto che è stato praticamente
lui, Francesco, a dettare il nostro
programma: i missionari sale-
siani in 136 Paesi si sono sentiti
sostenuti dalle sue parole, inco-
raggiati ad andare oltre i limiti
abituali, a suscitare consapevo-
lezza della dignità di comunità e
popolazioni in Amazzonia come
in Myanmar, nell’Africa costan-
temente offesa dalle guerre, e
sotto i bombardamenti nel vici-
no Oriente e nella nostra stessa
Europa”.
Da una Procura Missionaria all’al-
tra, da quella di Torino, a quella
di New Rochelle: anche “Salesian
Missions” si unisce alla Famiglia
Salesiana e alla comunità inter-
nazionale cattolica nel piangere
la scomparsa di papa Francesco.
“Pur essendo gesuita, era un
amico di lunga data dei Salesia-
ni di don Bosco e ha mantenuto
stretti legami con missionari e
sacerdoti salesiani per tutta la
vita” affermano dalla Procura
statunitense.
Papa Francesco e i salesiani si
sono concentrati in modo parti-
colare sull’aiuto ai poveri e agli
emarginati, assicurando loro as-
sistenza e accesso alle risorse di
cui hanno bisogno. “Papa Fran-
cesco sarà ricordato soprattutto
per il suo profondo amore per i
più poveri tra i poveri e per la sua
forte difesa di coloro che sono ai
margini, in particolare i migran-
ti, e per la sua cura per la Terra e
l’ambiente”, ha detto don Micha-
el Conway, Responsabili di Sale-
sian Missions. “Il modo migliore
per onorarne la vita e l’eredità è
cercare di incarnare nella nostra
vita gli ambiti della fede e della
vita più importanti per lui: la cura
per i poveri, gli emarginati e il
Creato”.
Restando in America, ma scen-
dendo geograficamente verso
sud, il Bollettino Salesiano della
sua Argentina compiange la mor-
te del Papa connazionale raccon-
tando lo straniamento del portare
avanti la vita quotidiana salesiana
senza più la presenza dolce e ras-
sicurante del Santo Padre: “Offrire
il pensiero del ‘buongiorno sale-
siano’ a tutti i ragazzi della scuola
è stato più difficile oggi, pur arri-
vando con lo slancio della Pasqua
che abbiamo appena celebrato!”
testimoniava a caldo, lo stesso
giorno della scomparsa, lunedì 21
aprile, don Nestor Zubeldía, SDB,
da Neuquén, la città più popolosa
della Patagonia.
“Alcuni – prosegue – mi hanno
anche fatto le loro sincere con-
doglianze. Altri hanno cominciato
a chiedersi: ‘Che cosa succede-
rà adesso?’ E credo proprio che
questa sia la grande domanda:
cosa succederà ora in un mondo
i cui potenti sembrano preferire
voltarsi dall’altra parte di fronte
alla povertà, alla disuguaglian-
za, all’ingiustizia, alle migrazioni
di massa come mai nella storia?
Chi telefonerà ogni giorno alla
parrocchia di Gaza in rovina?
Chi piangerà le infinite vittime
dell’Ucraina martirizzata? Chi gri-
derà ancora e ancora per la salute
del nostro pianeta, la nostra Casa
Comune, che sembra anch’essa
ferita a morte? Chi andrà nelle
periferie delle periferie di questo
mondo travagliato e difficile, ad
alzare la voce per le minoranze
perseguitate?”.
Tornando in Europa, infine, dal
Portogallo, l’Ispettore, don Tarcízio
Morais, condivide: “Oggi l’umanità
è più povera. Papa Francesco se
n’è andato. Il Papa della sempli-
cità, della presenza, dell’ascolto,
di Cristo. Pastore, buon pastore,
della casa comune, della fraterni-
tà universale, dell’umanità dell’a-
more, del Vangelo della gioia. Una
gioia contagiosa, empatica e vera
per tutti. Una vita che abbatte le
periferie, le rende vicine, visibili.
Una voce in difesa dei più pove-
ri, degli ultimi, dei più lontani.
Un atteggiamento di ascolto, di
attenzione, di permanente anti-
conformismo. Giovane nella sua
vecchiaia, ha fatto crescere in tut-
ti noi la misericordia, la giustizia,
l’ammirazione per la bellezza del
Creato, l’amorevolezza nell’acco-
glienza dei rifugiati e dei migran-
ti, la forza della fede”.
GIUGNO 2025
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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Edi, Ior, Zot.
Parole di 4 lettere: Alec, Amen, Inca.
Parole di 5 lettere: Carpe, Etere,
Fauve, Naram, Nomen, Nuoro.
Parole di 6 lettere: Animal, Ingrid,
Leggio, Poncho, Riarmo, Taiwan.
Parole di 7 lettere: Peppone.
Parole di 8 lettere: Gioconda,
Normanne.
Parole di 10 lettere: Doppiaggio,
Elegantone, Gondoliere, Ossicodone,
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso,
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le
parole contrassegnate dalle tre X nel testo.
? Superbonus.
Parole di 13 lettere: Integralmente.
Parole di 14 lettere: Rinvigorimento.
?
La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 15 lettere: Disinfestazione.
RESTAURARE “DON BOSCO”
Nel 1935, il regista Goffredo Alessandrini, poco più che trentenne, girò un film sulla
vita di don Bosco tra Torino, Chieri, il Monferrato e gli studi della Fert-Microtecnica.
Costò 2 milioni di lire dell’epoca e vennero girati 40 mila metri di pellicola di cui
2500 montati e usati per il lungometraggio. Il film in questione, prodotto dalla na-
scente Lux Film, si chiama “Don Bosco” e racconta la vita del santo piemontese,
dall’infanzia nelle campagne del Monferrato, alla giovinezza in seminario, dall’at-
tività educativa compiuta a Torino con i ragazzi più umili, fino alla fondazione dei
Salesiani e alla canonizzazione. L’opera presenta qualità apprezzabili come i testi
scritti con un linguaggio ricercato e le riprese dalle inquadrature originali. Inoltre, le
panoramiche in esterno della campagna e del lavoro dei campi che fanno da sfondo
alle giornate del giovane Giovannino rappresentano oggi una preziosa fonte etnografica del territorio. Vi fu una prima versione del film,
presentata lo stesso anno di quella ufficiale, in cui Alessandrini aveva inserito un episodio inventato della vita del santo che causò malumori
Soluzione del numero precedente
e proteste al punto da dover rieditare l’opera in una seconda versione più realistica e coerente. Par-
lando del film, racconterà tempo dopo il regista: “Nel film c’è un solo attore professionista, gli altri
erano presi dalla strada, come si dice. Ma i preti erano Salesiani autentici, che si prestarono tutti
quanti. Mi ero interessato così tanto anche ai luoghi dove si girava. Mi ricordo certi conventi come
quello di Chieri. E ho in mente che quell’inverno Torino era una città bianca di neve, ma con il sole e
il cielo azzurro”. L’XXX di Alessandrini è stata restaurata digitalmente, ricostruita e ripulita con la
supervisione di Ilaria Magni e presentata nel 2021 nell’ambito del 39° Torino Film Festival.
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GIUGNO 2025

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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
L’EREDITÀ
I genitori vivevano vicino a noi,
e il tempo in famiglia era prezioso.
Le nostre foto erano in bianco e
nero, ma i ricordi erano pieni di
U n giovane chiese al nonno:
“Nonno, come facevi a vivere
in passato senza tecnologia...
Creavamo i nostri giocattoli e ci
giocavamo.
I nostri genitori non erano ricchi, ma
colori.
Siamo una generazione unica e
la più comprensiva, perché siamo
senza computer... senza droni... senza ci davano amore, non beni materiali. l’ultima che ha ascoltato i propri
bitcoin... senza connessione inter- Non avevamo telefoni cellulari, dvd, genitori. E siamo anche i primi
net... senza tv...
psp, console per videogiochi, pc,
che sono stati costretti ad ascoltare
senza condizionatori... senza auto... chat su internet… ma avevamo amici i propri figli.
senza telefoni cellulari?”
veri.
Siamo un’edizione limitata.
Il nonno rispose: “Proprio come
Andavamo a trovare i nostri amici Approfitta di noi. Impara da noi.
vive la tua generazione oggi... senza senza bisogno di inviti e condivide- Siamo un tesoro destinato a scompa-
preghiere, senza compassione, senza vamo con loro il cibo e il tempo.
rire presto.”
rispetto, senza buona educazione,
senza vera istruzione, con una perso-
?
nalità povera, senza gentilezza uma-
na, senza vergogna, senza modestia,
senza onestà.
Noi, le persone nate tra il 1930 e il
1980, eravamo i benedetti. Le nostre
vite ne sono una prova vivente.
Giocavamo e andavamo in bicicletta
senza mai indossare il casco.
Dopo la scuola, facevamo i compiti
da soli e giocavamo nei prati fino al
tramonto.
Avevamo amici veri, non amici
virtuali.
Quando avevamo sete, bevevamo
dalla fontana, dalle cascate o dal
rubinetto, non dall’acqua minerale.
Non ci preoccupavamo né ci amma-
lavamo, anche se condividevamo la
stessa tazza o piatto con gli amici.
Non ingrassavamo, nonostante man-
giassimo pane e pasta ogni giorno.
Camminavamo a piedi nudi e non ci
succedeva nulla.
Non prendevamo integratori alimen-
tari per rimanere in salute.
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Con il tuo 5×1000 sostieni
anche tu il CAMBIAMENTO!
Inserisci il nostro codice fiscale e la tua
firma nello spazio dedicato agli Enti del
Terzo Settore, contribuirai così al progetto
A te non costa nulla. Ma per un giovane di un’opera
salesiana, il tuo 5×1000 può valere un’educazione
che cambia la vita.
Con la tua firma, sei al nostro fianco nel sostegno
alla missione salesiana in tutto il mondo.
Quest’anno, attraverso il progetto “Plantando Espe-
rança”, la Fondazione sostiene i missionari del Minas
Gerais, stato del Brasile: i loro orti diventeranno
aule a cielo aperto dove si imparerà a rispettare
il Creato, a prendersi cura della terra, a vivere in
armonia.
Se doni il 5×1000 alla Fondazione, nel 2025
sosterrai la formazione di 1000 studenti
e creerai insieme a noi un nuovo modello di
sostenibilità per le Missioni Salesiane.
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studenti coinvolti
200
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semina il FUTURO
Taxe-Perçue
Tassa riscossa
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