02-Febbraio-2024

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▲torna in alto
don bosco nel mondo
Vietnam
le case di don bosco
Bova Marina
ALLEGRIA,
STUDIO, PIETÀ:
questo è il grande
PROGRAMMA
Don Bosco
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
salesiani
Monsignor
Galbusera
nuovi salesiani
Don
Romeo
Salami
come don bosco
Parlare
FEBBRAIO
2024

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Il CANE GRIGIO
delle suore
I l 2 novembre 1893, due
Figlie di Maria Ausiliatrice,
tornando a piedi da Assisi al
loro collegio di Cannara, sono
sorprese per via dalla nebbia e dalla
notte fuori dell’abitato e lontano da
casa. La paura le assale. Suor Amalia
Calaon dice alla compagna: «Oh se
don Bosco ci mandasse il suo
Grigio!» «Davvero!» esclama suor
Annetta Dallara con voce tremante.
Non passano due minuti, che dalla
siepe vicina sbuca un grosso cane, il
quale salta un fossatello e ansimando
forte si mette a camminare in mezzo
a loro. È alto, ha pelame grigiastro,
porta orecchie lunghe e abbassate e
i suoi occhi scintillano nel buio.
Quasi a incoraggiarle, il buon
bestione alza il muso, guarda or
l’una or l’altra come antiche
conoscenze e lambe loro la
mano. Giunte al collegio,
mentre si parla di dargli da mangia-
re, l’animale si volge rapido e
infila il portone.
Nel 1930 a Baraquilla in Colom-
bia le Figlie di Maria Ausilia-
trice fabbricavano e avevano
all’aperto mucchi di materiali
da costruzione e per ben quattro
volte avevano avuto la visita dei
ladri. Le suore pregarono don
Bosco di mandare il suo Grigio a
custodirle. Una notte entrarono non
si sa come sei grossi cani. Si appo-
starono nei cortili e negli angoli più
riposti come tanti soldatini. Passata
la paura, le suore li avvicinarono e li
trovarono miti e affettuosi. Il giorno
dopo, alle sei, uscirono uno dietro
l’altro com’erano entrati, e così fecero
per un mese di seguito.
Un terzo caso capitò in Francia alla
Navarre tra il 1898 e il 1900; suor
Giuseppina Crétaz e suor Verina
Valenzano uscirono per andare alla
“questua delle castagne” nei paesi
vicini. A un certo punto in mezzo
alla solitudine e al silenzio la paura
le vinse. «Qui ci possono saltare ad-
dosso, dicevano, senza che nessuno
ci difenda o se n’accorga!» Improv-
visamente un cagnone si avvicinò
scodinzolando. Le accarezzò affet-
tuosamente per rincuorarle. «Che sia
il Grigio di don Bosco?» si dissero
a vicenda le due suore. Speravano
di condurlo a casa nel ritorno ma il
cane sparì e non lo videro mai più.
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FEBBRAIO 2024

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don bosco nel mondo
Vietnam
le case di don bosco
Bova Marina
ALLEGRIA,
STUDIO, PIETÀ:
questo è il grande
PROGRAMMA
Don Bosco
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
salesiani
Monsignor
Galbusera
nuovi salesiani
Don
Romeo
Salami
come don bosco
Parlare
FEBBRAIO
2024
FEBBRAIO 2024
ANNO CXLVIII
NUMERO 2
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Allegria, studio, pietà:
questo è il grande programma. Don Bosco
(Foto di Sviatlana Yankouskaya/ Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Vietnam
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 L’INVITATO
Don Francesco Marcoccio
16 SALESIANI
Monsignor Galbusera
20 LE CASE DI DON BOSCO
Bova Marina
24 NUOVI SALESIANI
Don Romeo Salami
28 RITRATTO DI UNA SALESIANA
L’angelo dei lebbrosi
32 FMA
Mi chiamo Vincenzo
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Che fatica diventare prete!
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
12
24
28
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via Marsala, 42 - 00185 Roma
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Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Mariapia Bonanate,
Salvatore Borrello, Pierluigi Cameroni,
Gianni Caputa, Roberto Desiderati, Emilia
Di Massimo, Ángel Fernández Artime,
Giulia Guddemi, Antonio Labanca,
Sarah Laporta, Carmen Laval, Cesare Lo
Monaco, Francesco Marcoccio, Alessandra
Mastrodonato, Francesco Motto, Pino
Pellegrino, O. Pori Mecoi, Kirsten Preston,
Fabrizio Zubani.
Diffusione e Amministrazione:
Alberto Rodriguez M.
Fondazione
DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
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internazionale che tutelano le foreste, l’ambiente e
i lavoratori.

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
E la stella si fermò
su una SEDIA A ROTELLE
Incontri nel giorno dell’Epifania
con persone stupende dal cuore
buono e una fede luminosa.
Carissimi amici del Bollettino Salesiano,
insieme al mio affettuoso saluto vi porgo
i migliori auguri per il nuovo Anno 2024
che abbiamo da poco inaugurato. Spero
sinceramente che sia un anno pieno di presenza di
Dio nella nostra vita e ricco di benedizioni.
Ho l’abitudine, quando mi è possibile, di scrivere
questo saluto condividendo qualcosa che ho vissu-
to e che mi ha colpito per un motivo o per l’altro.
Ebbene, il giorno dell’Epifania del Signore, mi
trovavo nella mia città natale, Luanco-Asturias. In
quel magnifico angolo di terra, respiravo piace-
volmente in contatto con le mie radici e con il
mare e la natura che mi hanno visto nascere
e crescere, oltre che con i miei compaesani.
Quel giorno sono andato a celebrare l’Eucari-
stia. Il parroco del paese mi aveva gentilmente
concesso questo privilegio, mentre lui si recava
in un’altra delle parrocchie a
lui affidate. Così abbiamo
potuto celebrare questa
solennità in più co-
munità cristiane.
Ebbene, quello che
voglio dirvi è che è
stata una mattinata
in cui il Signore ha
preparato per me degli
incontri inaspettati in
cui, venendo a conoscenza
della situazione di alcune persone, il mio cuore si è
riempito della certezza di come il Signore consola
e conforta anche quando il dolore, la malattia o la
limitazione si sono insediati in alcune vite.
Ho iniziato la mia giornata, prima di celebrare
l’Eucaristia, facendo visita a una persona anziana
che per molti anni è stata medico del mio paese.
Era un grande medico di famiglia e un credente.
Tra l’altro, era stato studente salesiano a Salaman-
ca. Per anni e anni è stato uno dei personaggi di cui
mi parlavano i miei genitori quando andavano dal
medico.
Ebbene, in questa visita familiare che gli feci, ri-
spondendo all’invito di sua figlia, incontrai un
uomo di fede che mi disse che come medico poteva
dare solo una parte del molto che aveva ricevuto da
Dio e che ora, con una pesante malattia, chiede-
va solo al buon Dio di prepararlo all’Incontro con
Lui. Tali erano la sua convinzione e la sua pace che
andai a celebrare l’Eucaristia avendo già ricevuto la
mia dose di “parola buona nell’orecchio”.
Nelle mani di Dio
E all’Eucaristia ho incontrato, come in altre occa-
sioni, un giovane di una trentina di anni che, a cau-
sa di un incidente, è da anni su una sedia a rotelle.
Anche in sedia a rotelle è andato con sua madre in
India per entrare in contatto con i più poveri tra i
poveri. E il mio giovane amico mi colpisce per la
serenità, il sorriso e la gioia con cui vive nel suo
cuore; la stessa gioia con cui partecipa all’Eucaristia
quotidiana e con cui riceve il Signore. E questo gio-
vane amico avrebbe sicuramente tutto per lamen-
tarsi della “sua sfortuna”, o peggio ancora: potrebbe
dare la colpa a Dio, come tendiamo a fare quando
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qualcosa ha la meglio su di noi. Invece no, lui vive
semplicemente senza piangersi addosso ed è grato
per il dono della vita anche su una sedia a rotelle.
Alla fine delle celebrazioni, quando lo vedo, ci sa-
lutiamo sempre e le sue parole sono sempre parole
di ringraziamento, ma sono piuttosto io che dovrei
ringraziarlo per la grande testimonianza di vita e di
fede nel Signore della vita che dà a tutti noi.
Ecco quanto è stato bello e suggestivo il mio gior-
no dell’Epifania quando, uscendo dalla chiesa, una
coppia di mezza età mi ha salutato e mi ha fatto gli
auguri per il nuovo anno. Anche loro con volti gio-
iosi; ho visto più gioia e serenità nel marito (malato
di cancro) che nella sua amata moglie (che soffriva
per lui). Ma entrambi mi hanno parlato della loro
certezza di dover vivere questo momento e la ma-
lattia fidandosi e abbandonandosi a Dio.
E non potevo non promettere le mie preghiere a
ciascuno, e l’ho fatto, e allo stesso tempo mi sono
reso conto, ancora una volta e in modo più forte,
di come il Signore continui a fare grandi cose ne-
gli umili, nelle persone più colpite dalle situazioni
della vita, in coloro che sentono che solo Lui è ve-
ramente consolazione e aiuto.
E tutto questo mi sembra così importante che non
posso tenerlo per me. Sembrerebbe addirittura che
non sia qualcosa di cui scrivere, forse perché non
è di moda, forse perché oggi si parla di altre cose,
ma io mi ribello a tutto ciò che mi impedisce di
condividere e testimoniare ciò che è importante,
profondo e di speranza nella nostra vita.
E non so perché, ma ho l’intuizione che molti letto-
ri si sentiranno in sintonia con quello che racconto
e con quello che io stesso ho vissuto, perché quello
che vi racconto, avvenuto in una mattina dell’Epi-
fania in un piccolo paese vicino al mare, non accade
solo lì. In altre parole, fa parte della nostra condi-
zione umana e in essa il Signore è sempre al nostro
fianco, se glielo permettiamo.
Vi auguro ogni bene, cari amici. E continuiamo a
credere che in ogni momento, anche in quelli più
difficili, abbiamo motivo di sperare.
Luanco
(Asturie -
Spagna).
Fede di madre
Infine, tra tutti i saluti me ne è sfuggito un ulti-
mo. Una mamma anziana che, presentandosi, mi
ha ricordato che qualche anno fa aveva perso uno
dei suoi figli, morto di malattia, e che attualmen-
te era malata di cancro. Mi ha chiesto di tenerla
presente davanti al Signore. Le ho chiesto come
si sentiva e mi ha detto che soffriva, ma era mol-
to confortata dalla fede. Vi assicuro che non avevo
parole da dire, perché l’emozione che ho provato
durante la mattinata e le testimonianze di vita che
mi sono arrivate e che mi hanno travolto sono state
così intense.
Shutterstock.com
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DON BOSCO NEL MONDO
Kirsten Preston Foto: Quinn Ryan Mattingly/ichtv
Vietnam
dal Don Bosco Magazin
Come una scuola di gastronomia
aiuta i giovani a uscire dalla povertà
C La Scuola di Gastronomia
Don Bosco Mai Sen di Ho Chi Minh
City è unica in Vietnam.
oncentrata, Vu Thi Anh serve la zuppa
di spaghetti di riso vietnamita da destra,
come l’ha imparata lei. La zuppa l’ha pre-
parata lei stessa in cucina. L’aspirante chef
Offre ai giovani provenienti
da famiglie povere l’opportunità
e specialista della ristorazione è al secondo anno di
formazione presso la Mai Sen Hotel Management
School di Ho Chi Minh City, ex Saigon. La scuola
di ricevere una formazione
qualificata. I professionisti
è gestita dai Salesiani di Don Bosco e offre ai gio-
vani provenienti da famiglie povere la possibilità di
un futuro migliore.
del settore alberghiero sono
molto richiesti in tutto il Paese.
Dopo essersi diplomata al liceo, una suora ha rac-
contato a Vu Thi Anh della scuola di gestione al-
berghiera di Ho Chi Minh City. La città più gran-
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de del Vietnam è a poche ore di macchina da casa
sua. La sua famiglia vive in campagna. I bambini e
i giovani provenienti da famiglie povere non devo-
no pagare le tasse scolastiche e possono alloggiare
in un dormitorio. “All’inizio mio padre non voleva
che andassi a Ho Chi Minh City da sola. Ma alla
fine l’ho convinto. Mia madre mi ha sostenuta fin
dall’inizio”, dice Vu Thi Anh. Tutta la famiglia ora
è felice che lei studi alla scuola Mai Sen e abbia
buone prospettive per il futuro.
“So essere molto testarda”
“La cosa più difficile per me è stata imparare l’in-
glese. All’inizio non riuscivo a capire quasi nulla.
Ma ci ho provato davvero tanto. Ho dovuto parlare
molto inglese nel dormitorio, il che mi ha aiutato
molto. Con il tempo ho acquisito sempre più fidu-
cia”, dice felice la ventenne. Vu Thi Anh è una gran
lavoratrice perché vuole ottenere una buona laurea.
“Quando mi metto in testa qualcosa, posso esse-
re molto testarda. Lavoro molto per raggiungere il
mio obiettivo.” Dopo il diploma di specialista della
ristorazione vorrebbe fare esperienza professiona-
le, anche all’estero. “Voglio conoscere nuovi posti e
paesi e viaggiare molto.”
Il turismo è in forte espansione in Vietnam da mol-
ti anni. Gli specialisti formati scarseggiano perché
nel paese asiatico ci sono solo poche scuole di ga-
stronomia. Ciò ha dato un’idea al tedesco-vietna-
mita Francis van Hoi, che ha lavorato a lungo come
chef e ristoratore a Monaco: perché non dovrebbe
importare il know-how dalla Germania nel suo
paese d’origine? È nata così l’idea della Scuola di
Gastronomia Don Bosco di Ho Chi Minh City.
Allenarsi nel proprio bistrot
Attualmente ci sono 22 ragazze e 26 ragazzi che
frequentano la scuola. La domanda supera di gran
lunga l’offerta. Durante la loro formazione i giova-
ni possono alloggiare in un dormitorio Don Bosco.
La formazione e l’alloggio sono gratuiti. Tutte le
vendite del ristorante vanno a sostenere gli appren-
Trattatevi
con rispetto
reciproco:
oltre alle
competenze
professionali,
ai ragazzi e
alle ragazze
vengono
insegnati
anche valori
come la
cortesia e la
puntualità.
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DON BOSCO NEL MONDO
La famiglia
di Vu Thi
Anh vive in
campagna.
I genitori
sono grati
che la loro
figlia possa
studiare alla
Scuola Don
Bosco.
disti. I giovani usano le mance per pagare i libri
scolastici. Durante la formazione triennale, adole-
scenti e giovani provenienti da famiglie povere im-
parano molto più che limitarsi a cucinare e servire.
Vengono inoltre promosse le loro abilità sociali
come responsabilità, affidabilità e capacità di lavo-
rare in gruppo. L’orario comprende anche igiene,
alimentazione e inglese. Ai ragazzi e alle ragazze
vengono insegnati anche valori come la cortesia e
la puntualità. Anche il rispetto reciproco e la riso-
luzione non violenta dei problemi sono competenze
apprezzate.
La scuola di gastronomia dispone anche di un pro-
prio bistrot. Il ristorante di formazione offre cucina
vietnamita ed europea. Nel bistrot i giovani impa-
rano a cucinare e a lavorare nel servizio. Dal 2019
possono anche completare un corso di formazione
di 18 mesi per diventare panettieri nel panificio in-
terno della scuola di gastronomia.
La formazione professionale per diventare speciali-
sta della ristorazione consiste in una parte teorica e
una pratica. Il tirocinio pratico in un albergo – an-
che a cinque stelle – dura dodici mesi. La scuola di
gastronomia lavora a stretto contatto con gli hotel
stellati. Negli ultimi anni il turismo in Vietnam è
diventato un importante fattore economico. Anche
dopo il Covid, molti turisti tornano nel Paese. Nel-
la sola città di Ho Chi Minh ci sono dozzine di ho-
tel a quattro o cinque stelle, oltre a diverse migliaia
di ristoranti e snack bar.
Molte aziende vorrebbero assumere tirocinanti. È
unico in Vietnam che giovani uomini e donne ri-
cevano una doppia formazione basata sul modello
tedesco: lezioni teoriche e pratica sono strettamente
collegate durante la formazione. Sostengono l’esa-
me finale davanti alla Camera tedesca del commer-
cio estero.
Inizio di un futuro migliore
Gli insegnanti di Mai Sen provengono da tutto
il mondo, ad esempio da Germania, Irlanda, Au-
stralia e California. Molti imprenditori locali in-
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segnano anche su base volontaria. Come Chu Huu
Thang, che era uno studente di Mai Sen. Il 25enne
proviene dalla provincia di Dak Nong, negli alto-
piani centrali del Vietnam. Nel 2019 ha completato
con successo la sua formazione triennale presso la
scuola di gastronomia. Ora insegna ai giovani ti-
rocinanti. È supervisore e mentore per gli studenti
più giovani. “Per me non è solo una questione di
soldi, ma anche di gratitudine. Ho ricevuto tanto
aiuto da Mai Sen, ora vorrei restituirlo ai giovani
stagisti e a don Bosco”.
Una zia che ha studiato a Mai Sen ha portato Chu
Huu Thang a Ho Chi Minh City nel 2016. Lì lo
portò nella sua ex scuola. Una svolta nella sua vita.
DON BOSCO NEL VIETNAM
I Salesiani di Don Bosco sono in Vietnam dal 1972. Ci sono un totale
di 17 strutture in tre luoghi diversi. L’offerta comprende centri giova-
nili, centri pastorali e sociali, scuole se-
condarie e centri di formazione
professionale. La scuola di
gastronomia è stata fon-
data nel 2014. Da allo-
ra, centinaia di gio-
vani si sono formati
lì per diventare im-
piegati d’albergo,
panettieri, cuochi
e collaboratori do-
mestici.
“L’ho capito subito: questo
era il posto giusto per me!” La
scuola gli ha insegnato tutto quello
che doveva sapere per lavorare nel settore del-
la ristorazione. “Sono stato felice di poter lavorare,
imparare e vivere alla Scuola Don Bosco. Molti dei
miei coetanei non hanno avuto questa possibilità!”,
ha detto Chu Huu Thang. Ha obiettivi chiari per
il suo futuro. “Voglio sviluppare le mie abilità culi-
narie. Dopodiché andrò all’estero o lavorerò come
chef in un ristorante internazionale in Vietnam.”
Resterà fedele a Mai Sen. Perché è qui che inizia il
suo futuro.
Impara nel
tuo bistrot:
teoria e
pratica vanno
di pari passo
durante la
formazione
presso la
Scuola di
Gastronomia
Mai Sen.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
ESSERE AMABILI
come don Bosco
Il semplice e singolare consiglio della Madonna
nel sogno dei nove anni «Renditi umile, forte e
robusto» divenne la struttura di una personali-
tà unica e affascinante.
Tutti amavano don Bosco. Perché? Era attraente, lea­
der nato, una vera calamita umana. Per tutta la vita
sarà sempre un “conquistatore” di amici affezionati.
Giovanni Giacomelli che gli rimase amico per la vita
ricorda: «Entrato in seminario un mese dopo gli altri,
non conoscevo quasi nessuno, e nei primi giorni ero
come sperso in mezzo ad una solitudine. Fu il chie-
rico Bosco, che si avanzò a me la prima volta che mi
vide solo, dopo il pranzo, e mi tenne compagnia tutto
il tempo di ricreazione, raccontandomi varie cose gra-
ziose, per divagarmi dai pensieri che potessi avere di
casa o dei parenti lasciati. Discorrendo con lui, venni
a sapere che durante le vacanze era stato alquanto am-
malato. Egli poi mi usò molte gentilezze. Tra le altre
mi ricordo che, avendo io una berretta sproporziona-
tamente alta per cui vari compagni mi prendevano in
giro, e ciò rincrescendo a me e a Bosco che veniva
sovente con me, me la aggiustò egli stesso, avendo
seco l’occorrente ed essendo molto abile nel cucire.
D’allora in poi incominciai ad ammirare la bontà del
suo cuore. La sua compagnia era edificante».
Possiamo rubare qualcuna delle sue qualità per di-
ventare anche noi “amabili”.
1. Essere una forza positiva
Qualcuno che mantiene costantemente un atteg-
giamento positivo ci aiuta a vedere il lato positivo e
ci spinge ad andare avanti. «Quando don Bosco vi-
sitò per la prima volta la misera tettoia, che doveva
servire pel suo oratorio, dovette far attenzione per
non rompersi la testa, perché da un lato non aveva
che più di un metro di altezza; per pavimento aveva
il nudo terreno, e quando pioveva l’acqua penetra-
va da tutte le parti. Don Bosco sentì correre tra i
piedi grossi topi, e sul capo svolazzare pipistrelli».
Ma per don Bosco era il più bel posto del mondo.
E partì di corsa: «Corsi tosto da’ miei giovani; li
raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a grida-
re: “Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più
stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere
per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, do-
menica, andremo nel novello Oratorio che è colà in
casa Pinardi. E loro additava il luogo”».
2. Preoccuparsi sinceramente degli altri
Una delle caratteristiche delle persone “attiranti” è
l’attenzione e la preoccupazione genuina e sincera
per gli altri. Non si tratta solo di chiedere a qualcuno
come è andata la giornata e di ascoltare la sua rispo-
sta. Si tratta di ascoltare davvero, entrare in empatia
e mostrare un interesse genuino per la vita degli altri.
Don Bosco piangerà con il cuore in pezzi alla morte
di don Calosso, di Luigi Comollo, alla vista dei pri-
mi ragazzi dietro le sbarre di una prigione.
3. Essere un buon ascoltatore
In un mondo in cui tutti sembrano parlare in con-
tinuazione, un buon ascoltatore si distingue. Una
cosa è ascoltare ciò che qualcuno dice, ma ascoltare
davvero – assorbire e capire – è un’altra cosa. Essere
un buon ascoltatore non significa solo rimanere in
silenzio mentre l’altra persona parla. Si tratta di par-
tecipare alla conversazione, di fare domande di ap-
profondimento e di mostrare un interesse genui­no.
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4. Essere avvicinabili
Sapete di essere una buona persona quando le per-
sone vengono sempre a chiedervi consigli e inco-
raggiamenti. La porta di don Bosco era sempre
aperta per grandi e piccoli. La bellezza dell’uomo
buono è una qualità difficile da definire, ma quan-
do c’è, te ne accorgi: come un profumo. Tutti sap-
piamo che cos’è il profumo delle rose, ma nessuno
si può alzare in piedi e spiegarlo.
“Talora accadeva questo fenomeno, che un giova-
ne udita la parola di don Bosco, non gli si staccava
più dal fianco, assorto quasi in un’idea luminosa...
Altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando
leggermente ogni tanto, finché non venisse loro
aperto, perché non volevano andare a dormire col
peccato nell’anima”.
5. Essere autentici
Nell’era digitale, le persone autentiche sono molto
importanti. Non si mettono in mostra, non cercano di
adattarsi a uno stampo, si sentono a proprio agio con
chi sono e non hanno paura di mostrarlo. Esprimono
i loro pensieri e sentimenti con totale onestà, senza
preoccuparsi di ciò che gli altri potrebbero pensare,
creando un ambiente di onestà e accettazione.
6. Essere resistenti
La vita è piena di sorprese. Le cose non vanno sem-
pre lisce e a volte affrontiamo sfide che mettono alla
prova la nostra forza e la nostra determinazione. In
questi momenti, la resilienza è una qualità poten-
te. Si tratta di avere la forza mentale ed emotiva di
riprendersi di fronte alle avversità, di andare avanti
anche quando le cose si fanno difficili. Ed è qualcosa
che le persone ammirano. Avere accanto qualcuno
che incarna il coraggio può essere un’incredibile fon-
te di ispirazione. Il miglior titolo per una vita di don
Bosco credo sia Giovannino Semprinpiedi.
Monsignor Cagliero ricorda: «Non ricordo di averlo
visto un solo momento, nei 35 anni in cui stetti al
suo fianco, scoraggiato, infastidito o inquieto per
i debiti dei quali era sovente carico. Sovente dice-
va: “La Provvidenza è grande, e come pensa agli
uccelli dell’aria, così penserà ai miei giovanetti”.
7. Essere umili
Le persone umili non hanno bisogno di continui
elogi o riconoscimenti per sentirsi bene con se stes-
se e non sentono il bisogno di dimostrare il proprio
valore agli altri. Inoltre, hanno una mente aperta
e sono sempre disposte a imparare dagli altri, in-
dipendentemente dal loro status o dalla loro posi-
zione. Don Bosco non si vergognò mai di chiedere
l’elemosina. Umile e forte, come gli aveva chiesto la
Maestra. A testa alta con tutti.
8. Diffondere la gentilezza
In fin dei conti, la gentilezza è ciò che conta di più.
È il modo in cui trattate gli altri, la compassione
che mostrate e l’amore che diffondete che definisce
davvero chi siete come persona. La gentilezza può
essere semplice come un sorriso, una parola di in-
coraggiamento o una mano tesa. L’idea è quella di
far sentire gli altri apprezzati e amati. I ragazzi di
don Bosco testimonieranno con un’insistenza quasi
monotona: «Mi voleva bene». Uno di loro, Luigi
Orione, scriverà: «Camminerei sui carboni ardenti
per vederlo ancora una volta, e dirgli grazie».
Così don Bosco predicava Dio. Sempre pre-
sente e vivo. Dio come compagnia, aria che si respira.
Dio come l’acqua per i pesci. Dio come il nido caldo
di un cuore che ama. Dio come il profumo della vita.
Dio è ciò che sanno i bambini, non gli adulti.
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2.2 Page 12

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L’INVITATO
Francesco Marcoccio
La mia STORIA
Vita e vocazione di don Francesco Marcoccio,
direttore della Sede Centrale dei Salesiani.
«Non ho mai pensato di meritare di diventare
salesiano, ma non mi è mai venuto in mente di
essere qualcos’altro. Gesù, incontrato da don Bosco,
e sua madre Maria mi hanno sempre accompagnato,
custodito, amato».
Sono nato a Civitavecchia
(RM) il 13 dicembre del
1969, il giorno di Santa Lu-
cia, lo stesso giorno e lo stes-
so anno nel quale papa Francesco
veniva ordinato sacerdote. Durante
la sua visita alla parrocchia del Sa-
cro Cuore nel 2014 gli ho detto: “Santità, io sono
frutto del suo sacerdozio!”, lui mi ha risposto: “In
che senso?”. Gli ho spiegato che ero nato nel giorno
della sua ordinazione presbiterale. Il Papa ha sorri-
so. A motivo del giorno di nascita, il mio secondo
nome è Lucio. Mi piacciono questi due nomi che
mi hanno donato i miei genitori. Francesco signi-
fica franco, libero e la vera libertà è stato sempre il
mio desiderio più profondo. Allo stesso modo, Lu-
cio viene da luce e mi ricorda che nel nome, come
dicevano i latini (nomen/omen), c’è la vocazione ad
essere luce. Mio padre, venuto a mancare nel 2014,
si chiamava Gaetano ed era nato ad Arce (FR) vi-
cino al luogo di nascita di san Tommaso d’Aquino,
mia mamma Maria Antonietta è di Roma. Dopo
circa due anni di matrimonio e la nascita di mia so-
rella Tiziana, i miei genitori si sono trasferiti a Civi-
tavecchia a causa del lavoro in dogana di mio papà.
Da piccolo ero un bambino molto vivace, le maestre
(suore) spesso mi mettevano in castigo a causa della
mia irrequietezza. Ricordo che la fondatrice del-
le suore operaie, morta in concetto di santità, che
viveva nella casa dove ho frequentato la scuola ma-
terna ed elementare, alcune volte mi portava fuori
della classe in chiesa o in giro per la casa per poter
permettere alla maestra di fare lezione.
Lei diceva a mia mamma: “Francesco non è cattivo,
è solo molto vivace; finisce prima degli altri i compiti
e non riesce a stare fermo!”. Mi piaceva molto gio-
care a calcio e per questo motivo mio padre, quando
avevo 9 anni, mi ha condotto all’oratorio salesiano
per poter giocare nella pgs Fulgor, società sporti-
va dell’oratorio. È stato un inserimento graduale e
sempre più coinvolgente nell’ambiente oratoriano.
Prima il calcio, insieme a tanto tempo trascorso in
cortile, poi la catechesi d’iniziazione cristiana con
la prima comunione e la cresima, successivamente il
teatro con altri giovani ed exallievi adulti. La mia
vita di preadolescente e adolescente è trascorsa tra le
relazioni familiari, l’ambiente scolastico, la squadra
di calcio e le amicizie dell’oratorio. Ho frequentato il
liceo classico nella mia città e mi sono appassionato
allo studio dei classici e della filosofia.
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FEBBRAIO 2024

2.3 Page 13

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Preghiere e “pulcini”
L’ambiente salesiano è stato per me una casa, ne ho
avute due: la mia famiglia e la famiglia dell’oratorio.
Ricordo che, quando mia mamma è stata operata a
Pisa (frequentavo il secondo superiore), i salesiani mi
hanno ospitato per 10 giorni nella loro casa. Mi col-
piva il loro vivere insieme tra generazioni differenti,
la loro capacità di accoglienza e la fraternità.
Ah, dimenticavo una cosa importante: fin da pic-
colo ho sentito sempre molto vicino il Signore,
come un amico, uno al quale ci si rivolge con fi-
ducia, una persona con la quale parlare. Quando
avevo 15 anni ho detto ad un salesiano, animatore
vocazionale, che non mi sarebbe dispiaciuto diven-
tare “salesiano”.
L’anno successivo, a 16 anni, questo salesiano mi ha
invitato ad un campo vocazionale a Subiaco dalle
Figlie di Maria Ausiliatrice. Per la prima volta ho
vissuto l’esperienza della Lectio Divina e ho ascol-
tato una Parola che non ho più dimenticato. Quan-
do Gesù disse a Natanaele, che lo aveva visto sotto
il fico: “Vedrai cose più grandi di queste. Vedrai gli
angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”.
Quella Parola mi ha conquistato, mi sono sentito in-
terpellato. Ho iniziato a pregare, senza che nessuno
me lo avesse detto o chiesto, ad un ritmo quotidiano
sostenuto (lodi, ora media, vespri, rosario, compie-
ta, Santa Messa). Più pregavo, più trovavo gioia nel
farlo. Mi ero innamorato o per dirla meglio: il Si-
gnore mi attraeva a Lui e io non potevo non rispon-
dere. Dopo questa esperienza che, durante l’anno
scolastico, è continuata in modo regolare anche se
non così intensamente come durante l’estate, l’inca-
ricato d’oratorio mi propose di diventare allenatore
di una squadra di calcio della categoria “pulcini”.
Oltre al giocare a calcio in una squadra della città,
allenavo anche i più piccoli. Tale esperienza è stata
fondamentale, insieme a quella della preghiera, per
comprendere che il Signore mi chiamava a diven-
tare salesiano. Durante la visita militare mi sono
accorto di quanto mi mancassero i ragazzi che alle-
navo, la relazione educativa che si era instaurata mi
ha fatto percepire per loro un affetto paterno oltre
che fraterno. Questi motivi mi hanno spinto a fare
la domanda, al termine della maturità, di entrare
in noviziato. Avevo 18 anni e da casa sono andato
direttamente al noviziato di Lanuvio.
Non è stato facile per i miei genitori accettare la mia
scelta. Il legame con loro era molto intenso e hanno
fatto molta fatica a comprendere una scelta così re-
pentina e radicale. La vocazione che io avevo avuto
il tempo di maturare interiormente, anche grazie
all’accompagnamento spirituale di un salesiano, ri-
chiedeva anche per loro un tempo di maturazione e
di “digestione” maggiore. Il primo anno è stato dav-
vero difficile, soprattutto per mia mamma.
Un vestito su misura
L’8 settembre 1989 ho fatto la mia prima professio-
ne come salesiano. È stato come indos­sare un vesti-
to che era fatto su misura per me. Mi sono sempre
sentito felice di esserlo. Non ho mai pensato di me-
ritare di diventare salesiano, ma non mi è mai venu-
to in mente di essere qualcos’altro. Gesù, incontrato
da don Bosco, e sua madre Maria mi hanno sempre
accompagnato, custodito, amato. I ragazzi, gli ado-
Don Francesco
e il suo
Ispettore.
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13

2.4 Page 14

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L’INVITATO
polmonare. Il suo esempio è stato luminoso, la sua
amicizia indelebile, il suo esempio trascinante, il
suo ricordo mi interpella ancora oggi e mi ricorda
di dare fin l’ultimo respiro (come ha fatto lui) per
i giovani.
lescenti e i giovani sono sem-
pre stati l’orizzonte, il campo,
la passione educativa dei primi
anni di vita salesiana ma anche
di quelli successivi. C’è un a-
priori di simpatia e di volon-
tà di avvicinarsi a ciascuno di
loro che caratterizza noi figli
di don Bosco, una passione per
le anime – come la chiamava
lui – che, se alimentata dalla preghiera e dall’unione
con Dio, diventa per ogni salesiano il motore pro-
pulsivo della sua vita, capace di fargli superare ogni
difficoltà. I giovani hanno bisogno di Gesù, nel loro
desiderio più profondo, anche se sommerso e spesso
soffocato dalla secolarizzazione, c’è Lui, la sua pro-
posta di gioia piena e abbondante. Se noi salesiani lo
“portiamo con noi”, i giovani saranno risvegliati dal
sonno contemporaneo e sussulteranno di gioia come
Giovanni Battista nel grembo di Elisabetta. Ho vis-
suto i primi dieci anni di formazione con un mio
amico salesiano, don Ugo Troccoli, condividendo
con lui ogni tappa formativa, le diverse professioni
e ordinazioni, lo stesso desiderio di donazione pro-
fonda per il Signore e per i giovani. Siamo diventati
sacerdoti insieme e dopo quattro anni, Ugo è andato
in Paradiso. È morto a causa di una grave malattia
Nella città del Papa
Gli anni di vita salesiana, dopo l’ordinazione sa-
cerdotale, sono stati una benedizione: animatore e
docente di religione, storia e filosofia nella scuola
di Villa Sora a Frascati per otto anni, delegato di
pastorale giovanile dell’Ispettoria Romana prima
e poi dell’Ispettoria dell’Italia Centrale per nove
anni, direttore e preside a Villa Sora per quattro
anni, vicario dell’Ispettore per cinque anni e da
settembre il Rettor
Maggiore mi ha
chiesto di diventare
direttore della Sede
Centrale al Sacro
Cuore. In realtà i
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2.5 Page 15

▲torna in alto
miei sogni erano diversi: ho sempre avuto nel cuore
il desiderio di essere missionario ad gentes prima in
Cina, poi in Patagonia.
Avevo anche ricevuto l’obbedienza di andare a
Chos Malal nella Patagonia Argentina. Ma i pen-
sieri dell’uomo non corrispondono ai piani di Dio.
Lo stesso Rettor Maggiore che mi aveva indirizza-
to inizialmente in Argentina mi ha chiesto di svol-
gere il servizio missionario nella città del Papa al
servizio dei salesiani che lavorano per tutte le case
del mondo e per i giovani di Roma. Mi sono ricor-
dato allora di una profezia di don Bosco del 5 aprile
1880 sull’opera del Sacro Cuore: “L’abbiamo accet-
tata perché quando il Papa sarà in una situazione
normale, metteremo nella nostra casa la stazione
centrale per evangelizzare l’agro romano. Sarà ope-
ra non meno importante che quella di evangeliz-
zare la Patagonia. Allora i Salesiani saranno cono-
sciuti e risplenderà la loro gloria” (MB XIV, 592).
È questo il desiderio che porto nel cuore, non al-
tri: evangelizzare i giovani della città di Roma, far
conoscere i salesiani e far risplendere, attraverso di
loro, la gloria del Signore. Detto in questo modo
sembra una pretesa eccessiva! Ma questa opera non
la realizzeremo noi, la farà il Sacro Cuore – diceva
don Bosco quando i salesiani che facevano parte del
suo Consiglio Generale, la prima volta, gli votaro-
no tutti contro alla proposta di costruzione della
Chiesa del Sacro Cuore al Castro Pretorio a causa
degli ingenti debiti che aveva la Società Salesiana
in quel tempo.
Nel servizio di direttore della sede centrale la sfida
è quella di “respirare a due polmoni”: il polmone
mondiale che coinvolge tutti i salesiani a servizio
del Rettor Maggiore per l’animazione e il governo
della Congregazione e il polmone territoriale che
raggiunge i giovani immigrati, i giovani italiani, i
poveri e le numerose persone che ogni giorno pas-
sano per la stazione Termini. Il respiro è un’opera
sinfonica che mette insieme i polmoni e il cuore
attraverso il processo di ossigenazione, allo stesso
modo la duplice missione della sede centrale è chia-
mata a ossigenarsi al Cuore di Gesù che vede la sua
presenza reale nell’Eucaristia.
Don Bosco che tanto ha desiderato aprire una casa
a Roma, ora che vede nel Sacro Cuore la casa del
suo successore, il Rettor Maggiore, benedica e renda
feconda questa Opera che il Papa gli ha affidato.
«Nel servizio di
direttore della
sede centrale la
sfida è quella
di “respirare a
due polmoni”:
il polmone
mondiale che
coinvolge tutti
i salesiani
a servizio
del Rettor
Maggiore per
l’animazione e
il governo della
Congregazione
e il polmone
territoriale
che raggiunge
i giovani
immigrati, i
giovani italiani,
i poveri e le
numerose
persone che
ogni giorno
passano per
la stazione
Termini».
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SALESIANI
Giulia Guddemi (da Casateonline)
Don Bosco nella
TERRA COLORATA
Dalla piccola Valaperta a vescovo...
del Perù. Monsignor Galbusera
racconta gli anni trascorsi al servizio
della Chiesa‚ nel mondo.
Èrecentemente giunta al termine l’esperien-
za in Perù di monsignor Gaetano Galbu-
sera. Il religioso, infatti, al termine di que-
sti anni della sua vita in cui è stato Vescovo
del vicariato apostolico della città di Pucallpa, è
tornato a vivere in Italia, e risiede ora a Milano.
L’esperienza del Perù rimane comunque una delle
più interessanti e significative del suo percorso, che
sicuramente ricorderà per sempre.
Una storia come la sua è qualcosa di veramente
particolare; lui, originario di un piccolo paese come
quello di Casatenovo, seguendo il suo cammino di
fede è riuscito ad arrivare persino in America del
Al centro
monsignor
Gaetano
Galbusera.
Sud. “Sono nato nel 1940 a Rimoldo, una piccola
frazione di Casatenovo, in una famiglia contadina
patriarcale” racconta, “tra il 1948 e il 1950, dopo
la guerra, si sono costituite le singole famiglie e,
grazie alla laboriosità dei brianzoli, è cominciato lo
sviluppo economico e sociale. Guardando indietro,
dopo una lunga esperienza per il mondo, devo rico-
noscere nella famiglia la presenza di tanti valori che
sono la forza della mia gente: la laboriosità, l’one-
stà, la famiglia con la sua solidità e preoccupazione
per l’educazione dei figli, la solidarietà e soprattut-
to la fede cristiana”.
Per una scelta di vita come la sua infatti, diventa
fondamentale il supporto familiare, il quale, spie-
ga, è stato presente e incisivo sin da subito. Da non
sottovalutare, tuttavia, sono anche altri ambien-
ti frequentati durante l’infanzia e i primi anni di
vita, in quanto hanno contribuito senza dubbio a
insegnare quei valori che l’hanno poi spinto a in-
traprendere un cammino di vita come il suo: “Sono
grato per quello che ho ricevuto dalla mia famiglia,
dalla scuola elementare e dall’oratorio, cioè i valori
che mi hanno permesso di crescere, di affrontare le
prove della vita e di intraprendere il cammino verso
una scelta di servizio e verso la vocazione. Sono sta-
ti loro a spingermi a pensare in grande e a coltivare
ideali. Al primo posto ci sono i valori cristiani, che
erano il tessuto della nostra cultura intesa come va-
lori condivisi dalla comunità”.
E questi valori sono davvero il fondamento di inte-
re comunità, anche di frazioni piccole come quelle
di Rimoldo e Valaperta. Come spiega anche mon-
signor Gaetano, infatti, spesso sono stati proprio
questi paesini a fare da culla per molti altri religiosi
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FEBBRAIO 2024

2.7 Page 17

▲torna in alto
che hanno intrapreso il suo stesso percorso: “la mia
scelta di vita non ha niente di originale o straordi-
nario” afferma, “chi conosce bene la nostra storia
e non dimentica, sa che sono partiti per il Brasile,
Argentina e Africa altri missionari e missionarie.
Davvero il Vangelo di Gesù è penetrato profonda-
mente nelle nostre case ed è capace di provocare
scelte forti e sostenute dalle famiglie e dalla comu-
nità. Dalla fede nel Vangelo è nato il coraggio di
uscire dal nostro “piccolo” per affrontare il mondo.
Se non sbaglio il primo missionario è partito per
il Brasile nel 1910, padre Samuele Galbusera, sa-
lesiano”.
La scelta di andare in Perù, in ogni caso, non era il
primo obiettivo per il casatese, anzi. L’idea è nata
dopo, grazie a una richiesta da parte di esterni.
Prima dell’America del Sud infatti, il religioso ha
vissuto diverse esperienze qui in Italia e ha segui-
to un lungo percorso di formazione, entrambi ele-
menti che hanno influito sul suo futuro. “Io sono
diventato salesiano, figlio di don Bosco, seguendo
una strada già aperta. La vocazione chiede una di-
sponibilità totale: andare dove ti inviano, dove c’è
bisogno. All’inizio non sai che cosa ti riserva la tua
chiamata, ti trovi di fronte una sorpresa dopo l’al-
tra, di certo non ti aspetti di arrivare fino in Perù.
Per quanto riguarda il mio percorso, da giovane
prete ho lavorato in un riformatorio di Arese, con i
‘barabitt’, come li chiamavano. Poi sono stato anche
con gli studenti delle superiori a Brescia, e dopo
ancora mi hanno chiesto di fare il parroco, prima
ad Arese, e poi a Sesto San Giovanni. Sono stato
anche Superiore (Ispettore) della zona Adriatica. E
poi è arrivata la proposta per il Perù” racconta il
vescovo.
“Nel 1997 i Superiori mi chiamarono a Roma e mi
proposero di andare in America Latina a dirigere
un nuovo Seminario che si era aperto sulle Ande
a 3000 metri di altezza. Il Seminario era appena
stato fondato dal presbitero Ugo De Censi, cofon-
I missionari si
impegnano
a portare i
fedeli a una
fede convinta
e solida.
Ma l‘azione
pastorale della
Chiesa deve
preoccuparsi dei
problemi sociali,
dell‘ambiente,
dell‘educazione,
della salute e
della sicurezza.
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SALESIANI
In 12 anni di
attività, il suo
lavoro pastorale
è stato molto
prolifico:
«Abbiamo
organizzato
visite pastorali
alle comunità
della “selva” e
l‘animazione
delle attività
che si sono
aperte al
servizio della
popolazione:
una scuola,
un piccolo
ospedale, varie
parrocchie, asili
per bambini e
formazione per
i seminaristi».
datore dell’Operazione Mato Grosso, movimento
che a Casatenovo ha i suoi gruppi e suoi volontari
in missione. Ho accettato e ho fatto il Rettore di
Seminario per 10 anni. Il progetto era formare sa-
cerdoti con l’esperienza di lavoro e condivisione con
la gente povera, aperti alla vita pastorale – che si
vive a contatto diretto con gente – lontani dallo spi-
rito clericale, con carità generosa. E poi la sorpresa
assolutamente inaspettata: andare a fare in Vescovo
nella zona amazzonica”.
Una proposta particolarmente coraggiosa, ma al-
trettanto coraggiosa è stata la scelta di accettare:
è risaputo infatti che l’Amazzonia sia un territo-
rio attraversato da numerose problematiche, con le
quali spesso risulta difficile confrontarsi. Tuttavia,
lo spirito religioso è stato di gran lunga più forte, e
insieme all’azione della Chiesa ha contribuito – e
deve tutt’ora contribuire – anche ad affrontare que-
sto genere di eventi.
“Il mio vicariato (= diocesi) è una chiesa di prima
evangelizzazione, i missionari si sono stabiliti e
operano da cinquant’anni. La popolazione che vive
sulle sponde del fiume Ucayali (quando il fiume che
attraversa il Perù dal Sud al Nord entra in Brasile
prende il nome di Rio delle Amazzoni) è formata
in minoranza da popolazioni indigene e in maggio-
ranza da popolazioni meticce. Ci sono povertà, dif-
ficoltà enormi per l’educazione e la salute, problemi
dovuti alla deforestazione, all’estrazione mineraria
illegale, agli inquinamenti. La maggior parte della
popolazione vive nella città di Pucallpa, una città in
continua crescita, ma con gravi problemi economici
e sociali. Religiosamente è diffusa quella che chia-
mano la “pietà popolare”, che dà spazio alle mani-
festazioni esterne come le processioni, le feste dei
santi e le veglie. I missionari si impegnano a porta-
re i fedeli a una fede convinta e solida. Ma l’azione
pastorale della Chiesa deve preoccuparsi dei pro-
blemi sociali, dell’ambiente, dell’educazione, della
salute e della sicurezza. In merito alla complessità
delle problematiche dell’Amazzonia, papa France-
sco ha scritto il documento ‘Cara Amazzonia’, che
invito a leggere”.
L’obiettivo principale dell’esperienza in Perù è sta-
to certamente quello di ogni missione religiosa,
ovvero mettersi al servizio degli altri per aiutarli
nel bisogno, diffondendo la Parola del Vangelo. In
questo, monsignor Gaetano è sicuramente un mo-
dello esemplare, in quanto in questi 12 anni di at-
tività, il suo lavoro pastorale è stato molto prolifico:
“abbiamo organizzato visite pastorali alle comunità
della “selva” e l’animazione delle attività che si sono
aperte al servizio della popolazione: una scuola, un
piccolo ospedale, varie parrocchie, asili per bambi-
ni e formazione per i seminaristi” racconta, e, de-
scrivendo un po’ le persone con cui è venuto a con-
tatto: “la gente dell’Amazzonia ha la sua cultura, è
legata alla sua terra e alla natura, ha le sue credenze
ed è dedita alla pesca... per i tanti problemi però
tende – e questo soprattutto i giovani – ad andare
verso la città, abbandonando le proprie tradizioni.
Mi ha colpito molto anche il loro carattere: i peru-
viani sono molto aperti e accoglienti”.
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2.9 Page 19

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PUCALLPA OGGI
Scuola di ebanisteria “Taller Don Bosco” - Neshuya
I ragazzi che frequentano la scuola “Taller Don Bosco” di
Neshuya (km 64 CFB), proventienti da vari villaggi della re-
gione Ucayali e spesso con situazioni familiari difficili alle
spalle, ricevono gratuitamente un’educazione e imparano
una professione, coltivando i valori fondamentali e l’atten-
zione per i più poveri. Dopo
aver terminato la scuola, ai
ragazzi che lo desidera-
no è data la possibilità di
entrare a far parte della
cooperativa Artesanos Don
Bosco Pucallpa.
Parrocchia San Juan Bosco - Pucallpa
La parrocchia San Juan Bosco, che ospita anche il laborato-
rio di falegnameria di Artesanos Don Bosco Pucallpa, è stata
aperta nel 2008 nel quartiere Siempre Unidos di Pucallpa,
una delle periferie più povere della città. Grazie al sostegno
di tanti benefattori e amici in Italia e dell’OMG è possibile
“tenere sempre aperta la porta della carità”, distribuendo
viveri alle famiglie più povere, sistemando le abitazioni, aiu-
tando per quanto riguarda la salute e i documenti di base,
accogliendo temporaneamente alcuni bambini che non
possono vivere con la famiglia, dando una formazione sana
attraverso l’oratorio.
CAR - Casa Hogar Barcoiris - Pucallpa
La Casa Barcoiris, in funzione da gennaio 2017, è una struttu-
ra (CAR - Centro de Atención Residencial) che accoglie minori
in stato di abbandono morale e materiale o separati tempo-
raneamente dalla famiglia per motivo di tutela, provveden-
do ai loro bisogni materiali, affettivi, educativi e formativi.
car.barcoiris@gmail.com
Parrocchia Santo Domingo
Savio - Pucallpa
La parrocchia Santo Domingo
Savio si trova nel quartiere La
Perla di Yarinacocha (Pucallpa), una zona della città fino a po-
chi anni fa disabitata e ora invasa da migliaia di persone. La
parrocchia è nata da poco e, oltre al servizio pastorale, è stato
aperto un oratorio per creare un luogo “pulito” dove bambini e
ragazzi possano incontrarsi e crescere in modo sano.
Collegio “Don Bosco” - Pucallpa
Il collegio salesiano “Don Bosco” di Pucallpa, aperto dal
vescovo salesiano monsignor Gaetano Galbusera, è ricono-
sciuto per la formazione di alto livello e per lo stile educativo
improntato al metodo di don Bosco.
Casa “El Buen Samaritano” - Pucallpa
Attraverso la casa di salute “El Buen Samaritano”
(“Buon Samaritano”) il Vicariato Apostolico di Pucall-
pa, con il sostegno di varie entità locali ed estere e
grazie alla collaborazione volontaria di persone, medici
e infermieri locali, assiste gratuitamente i più poveri,
anziani, persone abbandonate della città.
Artesanos Don Bosco
Artesanos Don Bosco, cui si ispira Artesanos Don Bosco Pucall-
pa pur rimanendo un progetto indipendente, è un’organizza-
zione cooperativa non-profit che sostiene numerosi artigiani
in Perù che hanno frequentato le scuole professionali dell’O-
perazione Mato Grosso. Attualmente ne fanno parte decine di
scultori, pittori, falegnami, artisti del vetro e della pietra, il cui
lavoro è molto apprezzato in Perù, Italia e Stati Uniti.
A Pucallpa Artesanos Don Bosco ha realizzato tutte le opere
in legno e le vetrate della Cattedrale, e le vetrate della chiesa
Nostra Signora di Lourdes di Yarinacocha.
Quest’esperienza del Perù purtroppo è recentemente
giunta al termine e, a posteriori, viene naturale fare
dei confronti fra la civiltà italiana e quella peruviana.
E così, don Gaetano spiega: “la globalizzazione por-
ta anche nei paesi poveri, soprattutto fra i giovani,
gli atteggiamenti e le tendenze delle nostre società
evolute: parlo di moda, musica, cultura virtuale, con-
sumismo... Solo che là è sempre evidente il contrasto
tra quelli che possono (pochi) e tanta popolazione
che vive di stenti. Chi non conosce il terzo mon-
do non può rendersi conto del nostro consumismo
e della nostra indifferenza. Ritorno a parlare della
Esortazione Apostolica di papa Francesco, tanto at-
tuale non solo perché recente, ma perché necessaria.
Siamo chiamati a una vita più austera, a preoccuparci
seriamente del tema ambientale e alla riscoperta dei
valori della nostra tradizione, famiglia, solidarietà,
Vangelo... e, per i giovani, dei forti ideali”.
Si conclude così l’esperienza di monsignor Gaetano
Galbusera, che porterà sempre con sé il ricordo di
una vita spesa all’insegna dei valori cristiani, al ser-
vizio dei più bisognosi.
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2.10 Page 20

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LE CASE DI DON BOSCO
Salvatore Borrello
125 anni di presenza salesiana a
BOVA MARINA
Una casa fondata dai santi.
12 dicembre
1937. Foto
ricordo con
monsignor
Cognata
dopo il
tesseramento
dei ragazzi
dell’azione
cattolica.
La fondazione delle prime opere Salesiane
in Calabria è dovuta al cuore e alla volontà
di don Michele Rua che oggi la Chiesa ve-
nera come Beato.
In Calabria don Rua fondò le case di Catanzaro
(1894); Bova Marina (1898); Monteleone Calabro
oggi Vibo Valentia (1904); Borgia (1905) e Sove-
rato (1908).
Mentre le opere di Catanzaro e Borgia ebbero vita
breve, le altre tre svolgono ancora le loro attività e
tutte hanno già festeggiato i cento anni di presenza
sul territorio.
Don Rua visitò la Calabria due volte: nel 1900 e nel
1906 ed in questo viaggio disse all’Ispettore Sale-
siano don Francesco Piccolo che lo accompagnava:
“Don Francesco apri più che puoi case in Calabria:
ce n’è gran bisogno”.
A don Rua bastò poco per capire che la Calabria era
una terra di missione sia per la posizione geografi-
ca, in quanto collocata all’estremo sud dell’Italia e
quindi lontana dai grandi centri, e sia per le condi-
zioni socio-economiche.
L’occasione di aprire una casa a Bova Marina si
concretizza quando monsignor Raffaele Rossi, ve-
scovo della diocesi di Bova, dal 1895 al 1899 chiese
ai Salesiani di occuparsi del Seminario che sorgeva
nella Marina di Bova. Il vescovo, ottenuto il con-
senso del capitolo il 24 luglio del 1987, stipulò una
convenzione: firmatari il vescovo monsignor Rossi
per la diocesi di Bova e don Michele Rua per la
Congregazione Salesiana.
Bova Marina è un comune relativamente giovane e
la sua fondazione è avvenuta per iniziativa del ve-
scovo monsignor Dalmazio D’Andrea, considerato
il vero padre fondatore. La storia civile si intreccia
con quella religiosa e si registrano avvenimenti che
vedono contrapposti i Vescovi e molti amministra-
tori comunali e cittadini di Bova di orientamento
liberale.
Inviare i Salesiani in Calabria significava per don
Rua compiere un gesto profetico per l’elevazione
religiosa e culturale di un popolo povero ma ge-
neroso.
Così il 20 ottobre del 1898 partirono da Catania
alla volta di Bova Marina don Giovanni Motta,
(don Motta ricevette la veste talare proprio da don
Bosco il 4 novembre del 1886) che sarà il direttore,
e tre chierici: Pappalardo Giuseppe, Mauro Placido
e Morello Corrado. A Messina incontrano mon-
signor Cagliero ed insieme attraversano lo stretto.
Questo incontro ha sapore profetico perché Caglie-
ro era un Salesiano della prima ora e don Bosco lo
incaricò di guidare la prima spedizione missionaria
in America Latina e i nostri quattro salesiani erano
anche loro destinati ad una terra di missione.
Da questo momento in poi il cuore e la mente di
Bova Marina saranno salesiani.
20
FEBBRAIO 2024

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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Una diocesi piccola e povera
Il Seminario che venne intitolato a Maria Imma-
colata, si trovava nella diocesi di Bova, una Diocesi
piccola e povera, composta da sole quindici parroc-
chie di cui solo quattro ubicate sulla costa e le altre
nell’entroterra. Il retaggio greco-bizantino di questa
zona ne fa un territorio fortemente legato alle tradi-
zioni della Chiesa Greca Ortodossa. In questa par-
te della Calabria meridionale hanno avuto un ruolo
determinante dal punto di vista religioso, culturale,
socio-economico i monaci Basiliani. Il protettore
della diocesi di Bova è san Leo, monaco Basiliano.
Inoltre bisogna aggiungere che la Diocesi risentiva
del clima risorgimentale ed erano presenti tensioni
tra le fazioni liberali e i Vescovi con il loro clero,
con episodi di intolleranza molto gravi tanto che il
vescovo monsignor Rossi, solo un anno dopo l’arri-
vo dei Salesiani, chiese al papa Leone XIII di esse-
re trasferito nella Diocesi di Matera (il 14 dicembre
del 1899).
I Salesiani rimasero con coraggio, determinazione
e forti dell’esempio di don Bosco che, di fronte alle
minacce del padre di Cavour che gli chiedeva quale
fosse la sua politica, rispose: “La mia politica è quella
del Padre Nostro”.
Con l’insediamento dei Salesiani al Semi-
nario tutti si adoperarono con pazienza e
diplomazia a creare un clima di serenità,
ma con scarsi risultati.
Però la situazione migliorò quando nel
1933 fu nominato vescovo di Bova mon-
signor Giuseppe Cognata, direttore del
Collegio del Sacro Cuore di Roma. Nel
suo ingresso in Diocesi dice: “Vengo in
una terra dove da 35 anni operarono i miei
confratelli salesiani”. Crea subito un clima
di distensione e inizia la sua visita pastorale
durante la quale può constatare le infelici
condizioni socio-economiche della Dioce-
si. Per avere un valido aiuto pastorale, fon-
da la Congregazione delle Salesiane Obla-
te del Sacro Cuore che proprio nel 2023
hanno festeggiato i 90 anni della loro fondazione.
Purtroppo false accuse sul suo operato portarono
alla sua destituzione nel 1940, proprio quando la
sua opera stava dando profittevoli risultati. Venne
però riabilitato da papa Giovanni XXIII e, durante
il pontificato di papa Paolo VI, partecipa al Con-
cilio Vaticano II. Nel 2020 papa Francesco ha dato
il suo consenso per l’apertura della causa di Beati-
ficazione.
Oggi monsignor Cognata, vescovo Salesiano e fon-
datore delle Salesiane Oblate, è servo di Dio.
I Salesiani, dopo pochi anni dal loro arrivo a Bova
Marina, fedeli allo spirito di don Bosco, fondatore
degli oratori, avevano preso contatti con gli abitan-
ti del paese della Marina di Bova ed eressero una
cappella in legno, spianarono un terreno per creare
L’istituto
Salesiano
agli inizi,
anno 1950.
FEBBRAIO 2024
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3.2 Page 22

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
un campo da gioco, aggiunsero due sale in muratu-
ra e il 29 gennaio 1911 inaugurarono l’Oratorio di
Bova Marina dedicato a sant’Emilio. Quest’opera
fu importante per la formazione di intere genera-
zioni e rimase in attività per 36 anni fino alla gran-
de guerra.
Nel 1947, anche l’oratorio di Sant’Emilio cessò di
esistere e don Alessi vendette i locali, utilizzando il
ricavato per la costruzione del nuovo Istituto Sale-
siano e del nuovo oratorio.
Prima con il terremoto del 1908 e poi con la se-
conda guerra mondiale, il seminario subì ingenti
danni; allora don Luigi Alessi, che nel 1946 era
stato trasferito a Bova Marina, prese la decisione
di chiudere il seminario (con il consenso dei Su-
periori) e di costruire un nuovo istituto nel cen-
tro del paese di Bova Marina. Il terreno fu donato
dal dottor Francesco Pugliatti mentre un Comi-
tato Femminile raccolse la somma di lire 400. Il
12 aprile del 1949 si avviarono i lavori con la posa
della prima pietra fatta da monsignor Antonio
Lanza e già nell’autunno del 1950 la prima parte
dei lavori venne completata, cosicché il 3 novembre
dello stesso anno si poté inaugurare il nuovo anno
scolastico nell’istituto che funzionava come scuola
media parificata. La scuola media fu provviden-
ziale per tanti ragazzi di Bova Marina e dei paesi
vicini dal momento che la scuola pubblica aveva
solo le scuole elementari. I Salesiani si impegnaro-
no a formare tanti giovani, molti dei quali diven-
nero professionisti affermati.
L’Ispettore don Antonio Toigo in occasione dell’a-
pertura dell’anno scolastico disse: “Lo sviluppo
dell’opera è tutto merito della cittadinanza, la quale si
è stretta intorno ai Salesiani i quali, con l’aiuto di Dio,
hanno potuto realizzare quello che sembrava impossi-
bile”.
L’8 dicembre del 1953, monsignor Ferro, arcivesco-
vo di Reggio Calabria, inaugurava i locali del nuo-
vo oratorio, sorto a fianco dell’istituto dei Salesiani
che prendeva il nome “San Domenico Savio”.
Il 13 maggio 1954 don Renato Ziggiotti, quinto
successore di don Bosco, visitò Bova Marina per
complimentarsi per il lavoro svolto.
Inoltre tanti giovani hanno avuto la possibilità di
formarsi, oltre che spiritualmente e culturalmen-
te, anche artisticamente grazie alle tante iniziative
avviate dai Salesiani (quali ad esempio la Musica e
Oratorio di
Bova Marina
intitolato
a sant’Emilio.
22
FEBBRAIO 2024

3.3 Page 23

▲torna in alto
il Teatro). Oltre a quelle di don Rua, che visitò il
Seminario per l’ultima volta nel 1906, ci furono le
visite di: monsignor Giovanni Cagliero, che fu il
primo cardinale salesiano (4 novembre 1904); don
Paolo Albera, secondo successore di don Bosco (dal
24 al 27 marzo 1914); monsignor Angelo Roncal-
li, futuro papa Giovanni XXIII, nella sua qualità
di presidente dell’opera Propaganda Fide (9 e 10
novembre 1922); il beato Ildelfonso Schuster, abate
benedettino e, successivamente, vescovo di Milano
(9 e 10 aprile 1924).
Grazie alla Madonna del Mare
Don Ruggero Coin è il fondatore dei Giovani Coo­
peratori Salesiani della Calabria con i quali avviò
l’iniziativa, nel 1978, di una radio libera chiamata
“Radio Antenna Don Bosco” e di un giornalino
stampato con il ciclostile dal titolo “Noi e Voi”.
Il 24 e 25 ottobre del 1998, Bova Marina ha ricor-
dato i cento anni della presenza salesiana, con mol-
te manifestazioni, con il ritorno di molti sacerdoti
che avevano operato in questa parrocchia-oratorio e
con la presenza dell’ottavo successore di don Bosco,
don Juan Vecchi. Per l’occasione è stata scoperta
una lapide marmorea sulla facciata della chiesa di
don Bosco.
Come dicevo, la storia sia sociale e soprattutto
quella religiosa e liturgica di Bova Marina è scan-
dita dalle ricorrenze salesiane: Laura Vicun˜a; san
Francesco di Sales; san Giovanni Bosco; san Do-
menico Savio; santa Maria Domenica Mazzarel-
lo, co-fondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice
(fma), il beato Michele Rua e Maria Ausiliatrice.
La ricorrenza che vede la maggior partecipazione
di fedeli è la prima domenica di Agosto quando ri-
corrono i festeggiamenti, sia civili sia religiosi, per
la Madonna del Mare, protettrice di Bova Marina.
In questi 125 anni di presenza salesiana a Bova
Marina molti sono stati i sacerdoti che hanno pro-
fuso il loro impegno, facendo conoscere il carisma
di don Bosco e impegnandosi per formare “buoni
cristiani e onesti cittadini” con l’attività soprattutto
IL TRENO PER CROTONE
Monsignor Bregantini racconta spesso il suo primo incontro con una
famiglia del Sud: «Dal Trentino scesi in treno a Sapri, viaggiando con
una famigliola che tornava in Calabria. Eravamo due seminaristi,
come al solito abbastanza sprovveduti: il viaggio era lungo, ma non
avevamo portato praticamente nulla con noi; a un certo punto ci ven-
ne una gran fame. La famiglia che viaggiava con noi, più saggiamen-
te, aveva portato pane casereccio, salamino e olivette.
La mamma si accorse che eravamo affamati e ci preparò un panino.
Quando ce l’offrì, prima a noi che ai suoi figli, ulteriore delicatezza, ci
invitò con la parola più bella che ho mai sentito dire al Sud: «Favori-
te», cioè «Prendete».
Io non avevo mai sentito quell‘espressione, e la trovai bellissima. Anni
dopo, quando ero vescovo a Locri, ci occupammo della ristruttura-
zione di una chiesa di campagna. Gli architetti con molto gusto ave-
vano realizzato un tabernacolo simile a un forno per il pane: bianco,
tondo, con una porta piccolissima. In effetti, entrando, dava proprio
l‘impressione di un forno per il pane. Mi chiesero che cosa dovevano
scriverci sopra.
«Pane di vita» dissi io. «Non va bene» mi risposero. «Queste sono
espressioni da cattedrale».
Allora ho chiesto a loro cosa avrebbero voluto scrivere.
«Favorite» mi suggerirono.
Mi spiegarono che se Gesù, nell’ultima Cena, si fosse rivolto a dei Ca-
labresi, invece che «prendete e mangiate», avrebbe detto «favorite»,
e così scrivemmo sul tabernacolo.
Quel «favorite» è per me l’essenza dell’accoglienza e dell’affetto del
Sud. La gentilezza di quella signora e il clima familiare che si era im-
mediatamente creato, avevano dato un sapore nuovo anche al pane».
dell’oratorio con i suoi eventi tradizionali e non, a
cui vanno aggiunti il lavoro intenso della pgs “Don
Bosco” che educa attraverso lo sport sano e vivace e
le attività culturali promosse dal cgs Sales insieme
a “Bibliopedia” e “Nati per leggere”.
Di grande rilievo è l’operato del Cine-teatro “Don
Bosco”, l’unico della fascia Jonica (i più vicini sono
a Reggio Calabria e Locri).
La comunità bovese è molto riconoscente all’opera
dei Salesiani, consapevole del suo ruolo determi-
nante in un’area dove è stata e continua ad essere
un vero punto di riferimento per le giovani gene-
razioni, e spera, con l’aiuto di don Bosco e Maria
Ausiliatrice, che questa presenza possa protrarsi a
lungo nel tempo.
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3.4 Page 24

▲torna in alto
NUOVI SALESIANI
Sarah Laporta
DON ROMEO SALAMI
Nel cuore dell’Africa
salesiana
«Ero affascinato dal lavoro pastorale
dei Salesiani di Don Bosco con
i bambini vulnerabili (a volte
chiamati bambini di strada)
nella mia città natale, Porto-Novo
(Benin). Mi sono detto che la loro
missione corrispondeva alla mia
aspirazione più profonda».
Può presentarsi?
Sono Romeo Salami, religioso e sacerdote salesiano.
Sono nato in Benin il 25 aprile 1991. Dopo un bacca-
laureato in scienze e tecniche amministrative e di ge-
stione (comunemente noto come BAC G2 in Benin),
ho iniziato la mia formazione religiosa e sacerdotale
da settembre 2007 ad agosto 2019. Durante la mia
formazione ho conseguito un Master in Filosofia.
Attualmente sono in missione a Bamako, in Mali.
L’opera di Bamako appartiene all’Ispettoria salesiana
dell’Africa nord-occidentale “Nostra Signora della
Pace”, che comprende Benin, Burkina Faso, Gam-
bia, Guinea-Conakry, Mali e Senegal. Mi piacciono
la musica, lo sport e la scrittura. La mia passione per
la scrittura mi ha portato a pubblicare due romanzi:
L’aventure d’Iwé sur les chemins du savoir, Vigile, un
opuscolo religioso Veillez et priez e la biografia del
nostro confratello Antonio César Fernández.
Perché è diventato religioso e salesiano?
La verità è che è davvero difficile spiegare tutte le
ragioni di una vocazione. Spesso c’è un elemento
di grazia che sfugge a una spiegazione esaustiva.
Tuttavia, ci sono alcune motivazioni di cui sono
consapevole. In questo senso, posso dire che è stato
il desiderio di fare della mia vita un dono per i più
bisognosi ad attirarmi per primo verso il carisma
salesiano.
Ero affascinato dal lavoro pastorale dei Salesiani di
Don Bosco con i bambini vulnerabili (a volte chia-
mati bambini di strada) nella mia città natale, Por-
to-Novo (Benin). Mi sono detto che la loro missio-
ne corrispondeva alla mia aspirazione più profonda.
Volevo dare la mia vita per rendere migliore la vita
dei bambini disagiati, proprio come facevano i sale-
siani. In seguito, la scoperta della storia e della mis-
sione di don Bosco ha rafforzato la mia intuizione
di essere nel posto giusto per ciò che sentivo. Con il
tempo, ho capito che questo stile era radicato nella
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3.5 Page 25

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figura di Cristo Buon Pastore, che ho imparato a
conoscere meglio e che ho cercato di imitare impe-
gnandomi nella vita religiosa salesiana.
Come ha reagito la sua famiglia?
A parte mio padre, che all’inizio ha rifiutato ca-
tegoricamente, gli altri membri della mia famiglia
pensavano che dovessi maturare il mio desiderio.
Mio padre rifiutò categoricamente perché la mia
scelta andava contro le sue aspirazioni per me.
Sono stati alcuni anni di incomprensioni e a vol-
te di tensioni. Tuttavia, dopo l’intervento di varie
persone, accettò di lasciarmi iniziare la formazio-
ne iniziale, a condizione che dopo una breve espe-
rienza tornassi alle aspirazioni che aveva per me.
Ma il Signore decise diversamente e io passai alla
professione perpetua e all’ordinazione sacerdotale.
A partire dalla fase pratica, mio padre e io comin-
ciammo a capirci. Vedendo che mostravo una vera
gioia in questo cammino, gradualmente accettò la
mia scelta. Alla fine ha espresso la sua gioia nel
vedermi felice della mia scelta di vita. Ha assisti-
to alla mia professione perpetua nel 2017 e alla
mia ordinazione nel 2019, prima di lasciare questo
mondo il 12 gennaio 2020, giorno liturgico del
battesimo del Signore.
Come si svolge il suo lavoro?
Nel cuore della missione salesiana di Bamako, il
servizio di amministrazione dei beni in cui sono
attualmente coinvolto sta andando bene, soprattut-
to perché ci permette di contribuire al benessere dei
giovani, in particolare dei più svantaggiati.
In effetti, il lavoro a Bamako è grande e ha una note-
vole economia. Dobbiamo pianificare con la comu-
nità i budget per i diversi settori e monitorarne quo-
tidianamente l’applicazione attraverso la presenza e
l’utilizzo di diversi strumenti di gestione. In questa
missione è fondamentale la collaborazione con il
personale attraverso una buona gestione, aiutandolo
ad appropriarsi delle sfide del progetto e motivando-
lo. Pianificare, raccogliere fondi, sostenere la realiz-
zazione delle attività, tenere aggiornati gli strumenti
contabili, controllare i conti, valutare e proiettarsi
nel futuro affinché i giovani e le varie persone che
lavorano con voi e si rivolgono a noi possano avere
un’associazione che risponda alle loro esigenze sono
tutte sfide per questo dipartimento.
Come sono i vostri giovani?
I nostri giovani sono pieni di energia e di sogni. Si
aspettano molto dalla famiglia, dalla società e dalla
Chiesa. Amano la vita comunitaria e sono talvolta
«Ero affascinato
dal lavoro
pastorale dei
Salesiani di
Don Bosco
con i bambini
vulnerabili (a
volte chiamati
bambini di
strada) nella
mia città natale,
Porto-Novo
(Benin). Mi sono
detto che la
loro missione
corrispondeva
alla mia
aspirazione
più profonda.
Volevo dare
la mia vita
per rendere
migliore la vita
dei bambini
disagiati,
proprio come
facevano i
salesiani».
Qual è il suo lavoro attuale?
Attualmente sono economo dell’opera salesiana
a Bamako, in Mali. Quest’opera comprende una
scuola professionale, una parrocchia, un oratorio-
centro giovanile, un ostello per studenti e una
grande fattoria.
Il Provinciale mi ha anche affidato la responsabilità
di Direttore dell’Ufficio Pianificazione e Sviluppo
dal luglio 2022. Questa struttura ha quattro équi-
pe, rispettivamente in Benin, Burkina-Faso, Mali e
Senegal, e con uno staff di circa venti persone sup-
porta le diciotto (18) opere della nostra provincia
nella pianificazione strategica, nell’identificazione,
nella formulazione, nel monitoraggio e nella valu-
tazione di progetti e programmi.
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3.6 Page 26

▲torna in alto
NUOVI SALESIANI
estroversi, anche se con il tempo e spesso sotto la
guida di varie personalità e figure, diventano sem-
pre più consapevoli del potenziale culturale, eco-
nomico, intellettuale e artistico del loro ambiente e
della loro generazione.
A volte si scoraggiano quando l’ambiente non of-
fre loro motivi per credere in un domani migliore.
Anche se in alcuni momenti e luoghi fanno fatica
a resistere, spesso sono determinati quando sono
convinti di avere una causa giusta e nobile per cui
lottare. Vedrete che nella maggior parte dei movi-
menti sociali in questa regione dell’Africa, i giovani
si mobilitano in gran numero per difendere questa
o quella causa. Questo è un segno che sono pronti
per il cambiamento.
I nostri giovani amano incontrarsi con altri giovani
della loro comunità o di altri paesi. Sono appassio-
nati di sport, musica e danza; in breve, sono pieni
di vita e non desiderano altro che essere guidati
verso un domani migliore.
Va detto che attualmente abbiamo una generazio-
ne di giovani molto spontanei nell’esprimersi, nel
parlare dei loro bisogni e dei loro sogni, soprattutto
quando vengono dati loro l’opportunità, lo spazio e
il tempo per farlo.
Come viene percepita la Chiesa
nella Provincia AON?
Se guardiamo alla storia dei diversi Paesi di questa
regione dell’Africa, possiamo vedere che la Chiesa
ha dato un contributo importante all’educazione. La
vivacità delle celebrazioni religiose e delle espressio-
ni di fede caratterizza questa Chiesa, la cui carità
verso tutti si concretizza anche in servizi e strutture
molto concrete: ospedali, case per orfani ecc.
«I nostri
giovani
amano
incontrarsi
con altri
giovani della
loro comunità
o di altri
paesi. Sono
appassionati
di sport,
musica e
danza; in
breve, sono
pieni di
vita e non
desiderano
altro che
essere guidati
verso un
domani
migliore».
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FEBBRAIO 2024

3.7 Page 27

▲torna in alto
È vero che si ripongono grandi speranze nella
Chiesa in ambito socio-politico. Anche in questo
senso c’è ammirazione per i suoi interventi, ma
anche osservazioni critiche sul suo riserbo e sulla
sua prudenza nel farsi coinvolgere in certe questioni,
anche se altri riconoscono un approccio saggio.
Ciò che è chiaro è che la Chiesa sta compiendo sforzi
crescenti per essere vicina alle persone e per cammi-
nare con loro secondo le linee significative delineate
dalla Gaudium et Spes al numero 1: “Le gioie e le spe-
ranze, le tristezze e le angosce degli uomini di questo
tempo, specialmente dei poveri e di tutti coloro che
soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce dei discepoli di Cristo, e non c’è nulla di
veramente umano che non trovi eco nel loro cuore”.
E i Salesiani?
In generale, i Salesiani sono visti come “specialisti
in questioni giovanili” in molte chiese locali dell’I-
spettoria. I Salesiani sono molto apprezzati per il
loro approccio ai giovani, per il loro lavoro e per il
carattere innovativo che apportano ad alcuni setto-
ri dell’educazione, in particolare attraverso i Centri
Professionali.
I giovani vedono il lavoro pastorale dei Salesiani di
Don Bosco come una grazia nella loro vita. Que-
sto significa che i percorsi individuali e collettivi
in diversi ambienti sono ancora segnati dai buoni
ricordi dell’opera pastorale dei Salesiani. Guardan-
do al passato e confidando nel presente, i giovani
nutrono una grande speranza per ciò che i Salesiani
possono portare loro in futuro.
Gli ambienti educativi sono affascinati dall’approc-
cio del sistema preventivo, di assistenza educativa,
che trovano innovativo ed esigente per il contesto
culturale prevalente. Si aspettano che i Salesiani
sappiano non solo utilizzarlo, ma anche trasmettere
e propagare questo patrimonio carismatico.
Quali sono le realtà più belle?
Oltre a quanto già detto, possiamo citare l’ottimi-
smo presente nei vari ambienti nonostante le sfide
da affrontare. C’è una “gioia di vivere” che nulla
sembra togliere alle persone.
Ci sono stati anche dei veri e propri cambiamenti
socio-economici, con opportunità di lavoro, soprat-
tutto per i giovani laureati. Alcune città si stanno
trasformando, con bei viali e abitazioni, e stanno
sorgendo moderne strutture ospedaliere...
Un elemento evidente è il patrimonio culturale, che
viene sempre più valorizzato e che trasmette non
solo le conquiste del passato, ma anche il poten-
ziale culturale e di sviluppo dei popoli delle nostre
regioni.
Qual è il suo sogno?
Il mio più grande desiderio è quello di rendere que-
sta parte dell’Africa “un mondo migliore per i no-
stri giovani”. Sono pieni di speranza, pieni di vita,
a volte pieni di paura, e tutto ciò che vogliono è
essere accompagnati.
Il mio sogno, senza idealizzare troppo il futuro, è
quello di offrire loro percorsi e itinerari concreti e
realistici nelle nostre famiglie, nelle nostre scuole,
nei nostri collegi, nei nostri quartieri, nei nostri co-
muni, nelle nostre città o nei nostri Paesi, affinché
possano crescere come persone, acquisire compe-
tenze che possano permettere loro di guadagnarsi
da vivere e contribuire al benessere del loro am-
biente.
Il mio più
grande
desiderio
è quello
di rendere
questa parte
dell‘Africa
“un mondo
migliore per i
nostri giovani”,
affinché
possano
crescere come
persone,
acquisire
competenze
che possano
permettere
loro di
guadagnarsi
da vivere e
contribuire al
benessere del
loro ambiente.
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3.8 Page 28

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RITRATTO DI UNA SALESIANA
Mariapia Bonanate
L’angelo dei
LEBBROSI
Storia della salesiana, andata
in missione «per dare un senso
alla sua vita» di giovane ragazza
alla ricerca «di un progetto
molto valido» al quale dedicarsi.
«Dopo averla
incontrata, la
mia vita non
è stata più la
stessa. Vedere
suor Silvia
all‘opera è
percepire
fisicamente
la mano del
Padre che
disegna la
storia delle
persone e
del mondo.
Vedere come
accetta
con forza e
coraggio,
in ogni
momento,
di essere un
semplice
strumento,
provoca una
violenta
emozione
che ti offre
un mondo
capovolto».
Suor Silvia Vecellio non vuole che si parli di
lei. Quando l’ho incontrata a Torino, dove
aveva ricevuto la cittadinanza onoraria per le
sue opere di missionaria in Brasile, giornali e
televisioni si sono molto occupati del suo personag-
gio e lei soffriva. Era visibilmente a disagio nel dover
parlare in pubblico di se stessa e del «miracolo» che
ha compiuto nel sud del Mato Grosso. Non avevo
avuto il coraggio d’insistere per un’intervista che
si aggiungeva alle tante altre, in giornate faticose
e affollate d’impegni. C’eravamo semplicemente
salutate e abbracciate. Ma la sua figura asciutta,
come scolpita nell’essenzialità e nella semplicità
difficile della vita che da quarant’anni conduce, il
suo sguardo severo e pensoso dietro alle lenti, che
si addolciva quando parlava dei suoi ammalati di
lebbra, come se li avesse tutti lì, accanto, mi erano
rimasti nel cuore.
In questi anni non ho smesso di pensare a lei in
quel Brasile dove ho conosciuto altre donne, re-
ligiose e laiche, che con il loro coraggio e il loro
sorriso hanno fatto «miracoli», salvando migliaia di
persone, accogliendo bambini e ragazzi di strada,
cambiando la vita delle comunità alle quali si dedi-
cano senza risparmi. In totale gratuità.
Per coincidenze provvidenziali ho continuato ad
incontrare persone che mi parlavano di lei con
entusiasmo, come il chirurgo torinese, esperto in
ferite difficili, che spesso va ad operare nell’ospe-
dale di Sào Juliào, da lei fondato a Campo Grande,
capitale dello Stato del Mato Grosso del Sud, e che
confessa con voce che tradisce commozione:
«Dopo averla incontrata, la mia vita non è stata più la
stessa. Vedere Silvia all’opera è percepire fisicamente
la mano del Padre che disegna la storia delle persone e
del mondo. Vedere come accetta con forza e coraggio,
in ogni momento, di essere un semplice strumento,
provoca una violenta emozione che ti offre un
mondo capovolto. Con lei accade sempre qualcosa
d’importante e singolare. Non dimenticherò mai una
delle prime volte, a Sào Juliào, quando mi disse: «Sei
un asino!». Io mi fermavo sulle ferite, lei conosceva la
storia, i sogni e l’anima dell’ammalato, come di tutti
quelli con i quali condivideva la vita. Credo di non
essermi mai sentito in vita mia così piccolo ed inutile
come quella volta. Una lezione che mi è servita per
sempre. Parlare con lei è sempre un’esperienza che ti
segna profondamente, ti fa sentire come un bimbo
che riceve un regalo. L’ultima volta che sono stato a
Campo Grande, ci si domandava chi fosse in grado,
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3.9 Page 29

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in futuro, anche se il più lontano possibile, di pren-
dere il suo posto. Una preoccupazione legittima, lei
si sta avviando agli ottant’anni e continua a dormire
quattro ore per notte. La sua risposta è stata semplice
e serena: “Se il Padre ritiene che ciò che ho fatto me-
riti di sopravvivere, provvederà Lui”. Questa è Silvia,
una che si fida totalmente di Dio e si abbandona fra
le sue braccia, sempre pronta ad accettare qualsiasi
cosa accada».
Mi ha raccontato di lei con sconfinata ammira-
zione e affetto anche don Aldo Rabino, salesiano,
cappellano del Torino Calcio, che l’ha scoperta
nel 1970, durante un viaggio in Brasile, perché gli
aveva chiesto di celebrare la Messa nel lebbrosario.
«Spezzare il pane con quegli ammalati, darlo ai loro
corpi spezzati dalla lebbra, sentire l’amore che tra-
sformava il dolore in timida gioia e tanta speranza, i
lebbrosi e le suore uniti in un abbraccio che vinceva
la malattia, mi fece prendere una decisione: sarei
diventato anch’io parte di quella famiglia, uscita
da una pagina del Vangelo. Avrei camminato con
loro». Da quell’incontro, pilotato dal cielo, nacque
l’idea di sostenere suor Silvia e le sue opere. Per
realizzarla don Aldo, con don Franco Del Piano,
splendida figura di salesiano architetto, scomparso
prematuramente, creò l’Operazione Mato Grosso.
Sono alcune delle testimonianze che mi hanno
permesso di ricostruire la storia della salesiana, an-
data in missione «per dare un senso alla sua vita» di
giovane ragazza alla ricerca «di un progetto molto
valido» al quale dedicarsi.
Come Santa Madre Teresa
Per seguire quest’impulso lasciò, a ventitré anni,
l’amato Cadore, dove era nata nel 1931 e dove
viveva bene, «sciando e scalando le montagne che
fanno da cornice alle Tre Cime di Lavaredo». Era
venuta a Torino per entrare nella Congregazione
delle Figlie di Maria Ausiliatrice, le Salesiane di
don Bosco, come lei stessa racconta: «I primi tempi
furono molto duri. Era difficile rinunciare a tanti
sogni, al paese, alle montagne, ma scoprivo sempre
di più in me che Dio aveva disegni diversi da quelli
sui quali fantasticavo, mi faceva capire che era cosa
dura ribellarsi alla volontà del suo cuore. Sebbene
cercassi più volte di resistergli, fu tutto inutile, lui si
dimostrò sempre il più forte».
Nel 1959 fu mandata a Campo Grande, in un col-
legio salesiano per ragazze ricche, un po’ come ac-
cadde a Madre Teresa di Calcutta. Ma la scuola le
stava stretta. Ricorda con la semplicità di un parlare
essenziale nella sua concretezza, senza nessuna
polemica, una saggezza tutta femminile, con i piedi
per terra: «Mi pareva un controsenso essere andata
in missione per insegnare a studentesse benestan-
ti, io che volevo andare ad abitare fra gli indios ed
ero una donna d’azione. Non volevo fare niente di
speciale, soltanto stare in mezzo alla povera gente e
condividerne i problemi e l’esistenza».
Insegnò per undici anni. Un giorno d’estate, nel
1966, mentre camminava nelle periferie polverose
della città, sbagliò strada e si trovò per caso di fronte
ad un recinto di filo spinato, attraversato dalla cor-
rente elettrica. Su un cartellone c’era scritto «Leb-
brosario». Sorpresa e incuriosita, s’informò. Era
Con l‘aiuto
dell‘associazione
di don Rabino
e di tanti
benefattori,
conquistati dalla
sua dedizione
agli ultimi fra gli
ultimi, trasformò
il «deposito
di ammalati»,
dimenticati e
negati, in un
modernissimo
ospedale, che
divenne l‘unico
presidio sanitario
gratuito in
un territorio
più grande
dell‘Italia.
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3.10 Page 30

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RITRATTO DI UNA SALESIANA
stato costruito durante la dittatura di
Getulio Vargas, nella seconda metà
degli anni Trenta, e poi, come tanti
altri, abbandonato ad un totale de-
grado. Un lager di condannati alla
morte civile e sociale, prima ancora
che a quella fisica, considerati rifiuti
umani da nascondere e da dimentica-
re. Ne fu sconvolta. I lebbrosi vivevano
in condizioni spaventose, in casette mal-
sane, prive di tutto, assediate da topi e scarafaggi.
Le latrine erano intasate, le fognature non funzio-
navano, gli ammalati, confinati in giacigli senza
lenzuola e federe, si bendavano le gambe con garze
luride e, in mancanza di queste ultime, si fasciava-
no i piedi con giornali per raccogliere il sangue e il
pus. Come poveri animali in fetide cucce.
Nella sala operatoria c’erano solo una sedia e una sca-
letta bianca, usata per l’amputazione delle dita delle
mani. L’infermeria era priva di ogni attrezzatura,
qualche paio di forbici e tanta sporcizia. I lebbrosi
meno gravi si erano trasformati
in infermieri per aiutare gli al-
tri, spesso con molta difficoltà
per le proprie menomazioni. Il
medico governativo li visitava
da lontano e coloro che erano
disponibili a curarli, perdeva-
no tutti i clienti che avevano in
città. Un girone infernale, in un
paesaggio arido di terra rossa,
senza un filo d’erba. Suor Silvia
sentì con chiarezza di essere ar-
rivata alla terra promessa, attesa
da tanto tempo.
Ogni settimana, nei giorni li-
beri dall’insegnamento, iniziò
ad andare a visitare gli amma-
lati, anche se le famiglie delle
allieve, informate delle sue
visite, le creavano molti pro-
blemi. Temevano potesse por-
tare il morbo nell’istituto. Ma lei era
decisa a non tornare più indietro, si
sentiva arrivata a casa. Ottenne dai
superiori di andare a vivere nel leb-
brosario. Anche le autorità gover-
native – erano gli anni della feroce
dittatura dei «gorilla brasiliani» – le
erano contro. Quella giovane suora,
venuta da lontano, aveva messo allo sco-
perto una piaga che nascondevano, aveva
fatto scoppiare un bubbone tenuto sotto sequestro.
Come se avessero ricevuto uno schiaffo in faccia.
Fu allora che avvenne l’incontro con don Aldo Ra-
bino e i volontari, tra cui moltissimi giovani, dell’o-
perazione Mato Grosso che venivano, ogni anno
sempre più numerosi, dall’Italia e in particolare da
Torino per lavorare al progetto di ristrutturazione
dell’ospedale.
Intanto l’ex insegnante, consapevole di aver trova-
to la strada giusta e di corrispondere alla chiamata
che l’aveva portata via dalla sua terra, preceduta
dalla stima e dalla riconoscenza acquisite durante
gli anni d’insegnamento, andò a far visita a cento
fra le famiglie più ricche di Campo Grande: «Non
chiedevo loro soldi, ma di essere aiutata, con il loro
prestigio e le loro conoscenze, a portare avanti la
ristrutturazione del lebbrosario».
In molti risposero al suo appello. L’albero della spe-
ranza, che suor Silvia aveva idealmente piantato nel
cuore del fatiscente lebbrosario, cominciò a dare i
suoi frutti miracolosi. Con l’aiuto dell’associazione
di don Rabino e di tanti benefattori, conquistati
dalla sua dedizione agli ultimi fra gli ultimi,
trasformò il «deposito di ammalati», dimenticati e
negati, in un modernissimo ospedale, che divenne
l’unico presidio sanitario gratuito in un territorio
più grande dell’Italia. Lei sempre in prima linea,
giorno e notte, pochissime le ore di sonno, molte
quelle di preghiera, sempre presente ovunque, in
cucina come nelle lavanderie, accanto al letto di un
ammalato e nell’ambulatorio, attenta ad ogni più
piccola necessità.
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FEBBRAIO 2024

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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Un grande e moderno ospedale
Anno dopo anno, si formò un complesso con nuove
costruzioni, una clinica con quaranta posti letto, un
centro chirurgico all’avanguardia, attrezzato con
moderne tecnologie e quattro sale operatorie, un
laboratorio dentistico e ambulatori, un centro per la
riabilitazione, un’officina ortopedica e un moderno
centro congressi dove si dibattono, a livello interna-
zionale, i problemi legati alla cura dell’hanseniasi.
Oggi il Sào Juliào non ospita soltanto i lebbrosi, ma
ogni genere di ammalati.
Una cittadella dell’amore, ma anche un nucleo pro-
pulsore di altre realtà che sono nate dal grande cuore
di una donna che un giorno ha detto un «sì» senza
riserve e lo ripete ogni mattina. Accanto all’ospedale
sono sorte la chiesa, una scuola materna, elementare
e media, intitolata a don Franco Del Piano, con
trecento alunni. Per permettere ai ricoverati meno
gravi di lavorare e rendersi utili, è stato realizzato
un allevamento di mucche da latte, maiali e galline
che procurano prodotti per la comunità, e vengono
organizzati lavori agricoli.
I lebbrosi, oltre ad essere riabilitati nel corpo, de-
vono poter ricuperare la propria identità e dignità
di persone. Il lavoro è un mezzo fondamentale per
questa rinascita.
Ma a Campo Grande, crocevia di tante strade e
sofferenze, sono state create anche strutture di ac-
coglienza per bambini abbandonati in tenera età,
in attesa di adozione, Vovo Tulia, e il cedami, il
Centro d’appoggio per l’emigrante.
La città brasiliana è un affollatissimo corridoio
per immigrati. Suor Silvia evoca un drammatico
fenomeno storico di cui non si parla mai: «Negli
anni Sessanta, molti tedeschi e italiani, che avevano
fatto fortuna in Brasile, hanno acquistato latifondi
nel cuore del Mato Grosso. Sessanta milioni di
persone sono state cacciate dalla loro terra e pri-
vate del lavoro, sono diventate una comunità di
nomadi. Una migrazione biblica di gente disperata,
che arriva dal Paraguay, Uruguay e Bolivia, diretta
a San Paolo o verso l’interno dell’Amazzonia, in
cerca di sistemazione. Il cammino che devono
percorrere è lungo e insidioso, sono esposti ad ogni
genere di pericoli e violenze. La vista di questi uo-
mini e donne che sostano con i loro figli, anche per
giorni, sui marciapiedi delle città, senza un posto
dove riposare, senza cibo e assistenza medica, ha
richiamato alla mia mente il ricordo di tanti nostri
emigranti veneti, bellunesi, cadorini.
«Abbiamo iniziato con la distribuzione di un piatto
di minestra calda, poi abbiamo costruito il cedami,
un grande edificio su due piani: nella parte bassa il
refettorio, dove è servita, ogni sera, la cena a più di
duecento persone, nella parte alta i dormitori. Cer-
chiamo di offrire il calore di un’accoglienza umana
e solidale che si traduce in gesti concreti: cibo, ospi-
talità, assistenza medica, sociale e legislativa. È un
piccolo gesto per riparare, almeno in parte, il male
che è stato loro fatto, le ingiustizie subite».
Silvia non è soltanto «una donna di Dio». Le sue
battaglie coraggiose, in difesa dei diritti dei poveri,
degli sfruttati, degli oppressi dai potenti di turno,
le hanno consegnato un ruolo sociale e politico, ne
hanno fatto un personaggio pubblico, scomodo per
le autorità, amatissimo dal popolo delle Beatitudini
fra cui vive. Persone che si sono rialzate in piedi, sono
uscite dal buio e dalla disperazione, per riprendere in
mano il proprio destino e costruirsi un futuro.
(Dal libro Suore, Paoline)
Uno dei tanti
riconoscimenti
ricevuti da
suor Silvia.
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FMA
Emilia Di Massimo
Mi chiamo VINCENZO
E subito dopo la laurea ho deciso
di vivere l’esperienza del Servizio
Civile Universale in Madagascar.
«Quando
iniziano a
chiamarmi
o ad
abbracciarmi
non resisto e
nonostante la
stanchezza mi
fermo sempre
a giocare con
loro».
Una grande isola al largo della costa me-
ridionale dell’Africa. Migliaia di specie
animali, come i lemuri, introvabili in
altre parti del mondo. Foreste pluviali,
spiagge, barriere coralline. Nei pressi di Antana-
narivo, la capitale, si trova il sito archeologico di
Ambohimanga. I movimenti migratori provenien-
ti dai vari angoli dell’Oceano Indiano hanno dato
origine a un melting pot culturale ricco di sugge-
stioni. È così che suor Alejandra Strada, respon-
sabile del Servizio Civile Universale ci presenta il
Madagascar, la sua terra che affascina tanti giovani
provenienti da vari posti del mondo, come testimo-
nia uno di loro.
Non basterebbero libri o immagini: è necessario vi-
verla! Mi chiamo Vincenzo, ho 24 anni, vengo da
Siracusa; subito dopo la laurea ho deciso di vivere
l’esperienza del Servizio Civile Universale in Ma-
dagascar con la fvgs Onlus (Fondazione Volonta-
riato Giovani e Solidarietà).
Ogni mattina la sveglia è impostata alle 6.50 ma in
realtà a svegliarmi sono le urla delle bimbe, in pie-
di ancor prima dell’alba. Mi alzo, apro la finestra
guardo il cielo nuvoloso, tipico della stagione delle
piogge; poi in cucina a preparare il caffè anche per
Tommaso, volontario come me e mio compagno di
viaggio. Ci scambiamo il saluto mattutino con un
cenno della testa ed in silenzio facciamo colazio-
ne, al termine a scuola per insegnare inglese. Dopo
l’alzabandiera e l’inno nazionale malgascio, la cam-
panella suona e la prima lezione inizia alle 7.40 cir-
ca. Circa, perché qui in Madagascar gli orari sono
molto approssimativi, la puntualità viene sostituita
dalla sottile arte dell’aspettare, aspettare e aspettare
ancora. Il concetto di tempo al quale ero abituato
sta pian piano prendendo una forma diversa, non
è più fatta di orologi e scadenze ma si dilata e si
restringe seguendo il levare o il calare del sole. Tut-
Un diverso concetto di tempo
“Quella che segue è una breve testimonianza della
mia vita in Madagascar ma raccontare in breve ciò
che un’esperienza del genere regala è impossibile.
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FEBBRAIO 2024

4.3 Page 33

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to scorre piano e la gente non ha fretta. Mi guardo
intorno e vedo le persone muoversi lentamente, vie-
ne da pensare che c’è tutto il giorno a disposizio-
ne, quindi perché correre? Mi è capitato spesso di
guardare l’orologio e restare stupito nello scoprire
che fosse ancora presto, di avere ulteriore tempo per
fare qualcosa sebbene si sia già fatto tanto.
A scuola, con gli studenti, cerco ogni giorno di in-
staurare un rapporto basato principalmente sul ri-
spetto reciproco. La maggior parte delle classi sono
molto numerose e gestirle non è sempre facile ma
ciò mi fa impegnare ancora di più per cercare di
offrire lezioni interattive e stimolanti. È una sfida
contro i propri limiti e le proprie insicurezze: riu-
scirci è una grande ricompensa.
Serenità di storie difficili
Mediante il dialogo con gli studenti imparo moltis-
simo riguardo agli usi e ai costumi di questa terra.
Comprendere ciò che noi occidentali consideriamo
normale qui è un tabù, mi fa aprire gli occhi e mi
permette non solo di evitare indiscrezioni e disa-
gi ma soprattutto di capire che a volte è necessario
guardare le cose da un’altra prospettiva, abbando-
nare le proprie convinzioni e certezze. Dopo le le-
zioni torno a casa, o almeno ci provo, infatti nel
cortile sotto casa giocano le bimbe del foyer, una
struttura all’interno della comunità che accoglie
bambine abbandonate o provenienti da contesti fa-
miliari disagiati. Quando iniziano a chiamarmi o
ad abbracciarmi non resisto e nonostante la stan-
chezza mi fermo sempre a giocare con loro. Loro
non sono soltanto un uragano di energia e vivacità,
sono soprattutto storie di vite difficili. Ti scontri
con le loro realtà quando i sorrisi cadono come
maschere, sfociando in attacchi di rabbia, pianti e
manifestazioni di disagio. La maggior parte di loro
non ha una famiglia, nessuno da chiamare mam-
ma o papà, soltanto qualche parente lontano, spesso
interessato più alla loro potenziale forza lavoro che
alla loro felicità. Te ne accorgi quando, pur non co-
noscendoti, ti abbracciano cercando il contatto fi-
sico, ti tengono per mano e litigano tra di loro per
aggiudicarsi un posto in braccio. Vederle vivere in
comunità mi fa ben sperare per il loro presente e
soprattutto per il loro futuro.
Il Madagascar è un Paese tanto affascinante quanto
contraddittorio. La natura è un susseguirsi di terra
rossa e mare azzurro, di prati verdissimi e di una
fauna endemica ricchissima. Purtroppo si respirano
ancora i lasciti del dominio francese e così la fame,
la povertà e la diseguaglianza sociale si alternano
al lusso e allo sfarzo. Ciononostante il popolo mal-
gascio è tra i più solari che abbia mai conosciuto:
sorrisi e cordialità sono all’ordine del giorno.
Nel lento scorrere del tempo malgascio, i mesi tra-
scorrono velocemente. Credo che dipenda dallo star
bene, dalla vita di comunità che mi piace perché è
semplice. Ed è proprio la semplicità di alcune cose
e l’inspiegabile complessità di altre che ogni giorno
continua a stupirmi.
Mi chiamo Vincenzo e questo è il mio Madaga-
scar!
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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 3
PARLARE Non parlare ai figli
è trattarli da animali
domestici.
La parola è fondamentale nell’educazione.
È fondamentale almeno per tre motivi.
Intanto perché è la parola a costruire la
prima immagine inferiore che il bambino
ha di sé. Quando il piccolo nasce, non sa, ad
esempio, se è bello o brutto, se è buono o cattivo,
se è intelligente o non intelligente. Il bambino
pensa di essere quello che gli altri dicono che sia.
Continuate a dire ad un bambino: “Sei antipatico,
sei brutto!”: il bambino si convincerà di essere
antipatico e brutto. Al contrario, ditegli: “Sei uno
splendido bambino, farai qualcosa di meraviglio-
so...”: il piccolo si convincerà di avere molte possi-
bilità e partirà con il piede giusto. Insomma, sulle
parole degli altri il bambino modella l’immagine
del proprio io: immagine che por-
terà con sé per tutta la vita. Vi
sono cicatrici psicologiche contratte nell’infanzia
che non si rimarginano più!
Il secondo motivo per cui parlare è fondamentale è
perché le parole trasmettono pensieri, sentimenti,
valori.
La parola è il più ricco allattamento psicologico.
C’è una differenza enorme tra un ragazzo che
sente solo parole come ‘mangiare’, ‘bere’, ‘vestire’
e quello che sente anche ‘pace’, ‘amore’, ‘silenzio’,
‘giustizia’, ‘Dio’ ... Il primo penserà che nella vita
basta diventare ‘grosso’, il secondo sarà invitato a
diventare ‘grande’. Potenza delle parole!
Il terzo motivo dell’importanza fondamentale della
parola sta nel fatto che la parola convince. Le armi
possono vincere, la parola può convincere! Ebbe-
ne, qui arriviamo al cuore stesso dell’educazione.
Educare, infatti, non è comandare, non è castigare
(anche se il comando e il castigo ci vogliono): edu-
care è far succedere fatti interiori, è persuadere,
è convincere.
Datemi un ragazzo che abbia buone e profon-
de convinzioni, e mi date un ragazzo educato:
un ragazzo che saprà tenere il suo giusto posto
anche in una discoteca, anche in un pub.
Davvero: a conti fatti, l’educazione non è
che parola condivisa!
Il periodo d’oro
Parliamo al bambino soprattutto tra i due
ed i sei anni. Questi, infatti, sono gli anni
d’oro per insegnargli a parlare. In essi
il bambino si costruisce il vocabolario
base che conserverà per sempre. Il
piccolo che non impara a parlare da
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bambino avrà, in seguito, difficoltà mentali e di-
sturbi relazionali. Ma, attenzione! Il bambino im-
para a parlare se ci sente parlare e non, ad esempio,
se vede la televisione. La dottoressa Sally Ward, che
è considerata la massima autorità inglese in materia,
non ha dubbi: “Un bambino troppo teledipendente
parla a tre anni come uno di due. Qualcuno forse
dirà che un anno di ritardo è poco, no! È tanto,
perché chi è in ritardo con la lingua materna a tre
anni, lo potrà essere per tutta la vita”.
Dunque, parliamo al bambino. È ovvio: senza
soffocarlo, senza annoiarlo; ma parliamo! Parlare al
bambino non vuol dire limitarci a dirgli una o due
parole, ma vuol dire formare una frase completa,
grammaticalmente corretta. Andate dal panettiere?
Raccontategli del pane, di quanti tipi di pagnotte si
possono trovare... Passate davanti ad una vetrina?
Domandate alla bambina quale abito vi potrebbe
andar meglio, quale colore vi sarebbe più adatto...
Insomma, dobbiamo superare il modo di parlare
che si riduce ai comandi secchi, rapidi, tassativi.
Certo, anche queste sono parole, ma sono parole
che non insegnano a parlare. Per favore, trattiamo
meglio la mente del nostro bambino. Il cervello del
bambino vuole il mare, non cucchiaini d’acqua;
vuole frasi complete, non mozziconi di parole.
L’enorme potere della chiacchierata
Siamo in piazza. Due famiglie si incontrano e, ov-
viamente, si mettono a chiacchierare del più e del
meno. Ad un certo punto il discorso dei papà cade
sulla politica, mentre quello delle mamme sulla
scuola. I figli (hanno 8, 10, 13 anni), dopo aver
giocato un po’, smettono e si avvicinano ai genitori
che ancora parlano e danno giudizi sui rispettivi
argomenti. Non è il caso di dire ai ragazzi: “Aprite
le orecchie!”: i figli sono tutt’occhi e tutto orecchi,
Non solo sentono, ma, una volta tanto, ascoltano
davvero papà e mamma che, senza saperlo, senza
pensarci, sono saliti in cattedra e danno lezione!
Non sanno di insegnare, eppure, mai come in que-
sto momento, sono maestri.
POLLICINO
Perché passavano i mesi e il bellissimo Fabio rimaneva un piccolo
adorabile bambino. Mamma e papà dovettero arrendersi all’eviden-
za: il loro piccolo non si decideva a crescere. Intrapresero subito il
pellegrinaggio negli studi dei più importanti professoroni in materia
di crescita. Tutti misuravano, pesavano, auscultavano, si facevano pa-
gare un bel po’ e poi dicevano con aria solenne: «Bah!».
La sera del primo compleanno di Fabio, però, il papà prese una deci-
sione: «Piccolo o no, andiamo tutti a mangiare all’Oca Ciuca!»
L’Oca Ciuca è una pizzeria che ha dei bellissimi seggioloni per bambini
piccoli agganciati al tavolo dei grandi. In uno di questi fu sistemato
Fabio. Mamma e papà ordinarono la pizza con le acciughe che era la
loro preferita e mentre aspettavano guardarono il loro bambino che
pareva ancora più piccolo nel seggiolone. Il papà si intenerì e disse:
«Fabiuccio mio, in ogni caso sei la cosa più bella che ho!» «Sono pro-
prio felice di averti» aggiunse la mamma.
POF! Lì per lì nessuno se ne accorse, ma qualcosa di strano successe.
Nel frattempo erano arrivate le pizze e mamma ne aveva preso un
pezzetto minuscolo per metterlo in bocca a Fabio, ma non la centrò.
La bocca era più in alto di dove se l’aspettava. «Ahi!» fece la mamma.
Fabio aveva due denti! E poco prima non c’erano. Il bambino gorgo-
gliò felice.
«Ma com’è bravo il mio campione!» disse papà.
POF! Successe di nuovo. Le gambe paffute di Fabio uscirono dal seg-
giolone. «Miracolo!» gridarono insieme mamma e papà, richiamando
l’attenzione di tutti.
«È ora che gli compriate un vestito un po’ più grande» bofonchiò la
cameriera che era accorsa preoccupata. Fabio infatti aveva letteral-
mente squarciato la sua tutina da poppante.
La mamma lo prese in braccio e lo strinse forte. «Bambino mio,
grazie, grazie, grazie…» piangeva e rideva di gioia. POF! Fabio
crebbe di altre due dita. Il papà, che guardava a bocca aperta,
sentenziò: «Ho capito! Sono le nostre parole che lo fanno crescere!
Eravamo così preoccupati di tutto il resto e ci eravamo dimenticati
di parlare con lui!»
«Caro, caro Fabiuccio mio!» fece la mamma, coprendolo di baci.
«Calma, cara» intervenne il papà. «Altrimenti arriverà a due metri!»
Tutti gli esperti dicono che tante volte si edu-
ca quando meno si pensa di educare! È questo il
caso delle chiacchierate informali. Le parole dette
spontaneamente, liberamente, rivelano, più di quel-
le dette dalla ‘cattedra’, quali sono i nostri pensie-
ri, le nostre opinioni, i valori in cui crediamo: ecco
perché hanno un fortissimo impatto sulla mente
dei figli.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Persi nell’Infosfera
Dove si va? Ci siamo persi, / sembra
di stare nella casa degli specchi.
La duplicazione del reale
in cui siamo immersi nell’altrove
spaziale e temporale
del metaverso contribuisce
a modificare in profondità
la nostra percezione del mondo,
delle relazioni con gli altri,
delle esperienze che facciamo
e persino di noi stessi.
Ogni giorno resto a galla in mezzo a un mare mosso,
vado piano quando è verde e accelero col rosso,
seicento battiti al minuto come un pettirosso,
ma, se chiamano i parenti, dico: “È tutto a posto!”.
Posso imparare a vivere e scordarlo subito,
se vivere significa comportarsi da suddito,
archiviare su pennetta ogni pensiero stupido:
tu dimmi come fai...
Su mille strade da percorrere
ti mostrano soltanto forse le prime due o tre,
me ne sto andando più lontano solo per vederci chiaro,
se vuoi, puoi venir con me!
Dove si va? Ci siamo persi,
sembra di stare nella casa degli specchi.
Come si fa? Com’è che scegli
le circostanze e il senso vero degli eventi?
Dove si va? Ci siamo persi,
sembra di stare nella casa degli specchi.
Come si fa a restare attenti,
se questa noia corrode poi i nostri denti?
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L e nuove tecnologie della comunicazione e
dell’informazione, l’Intelligenza artificia-
le e le sue molteplici applicazioni in campi
sempre più ampi e diversificati della no-
stra vita quotidiana, la duplicazione del reale in cui
siamo immersi nell’altrove spaziale e temporale del
metaverso contribuiscono a modificare in profondi-
tà la nostra percezione del mondo, delle relazioni
con gli altri, delle esperienze che facciamo e per-
sino di noi stessi. Se, da un lato, tutti questi stru-
menti moltiplicano le possibilità materiali ed esi-
stenziali che ci vengono offerte, permettendoci di
oltrepassare i limiti di una realtà necessariamente
vissuta nel qui ed ora del presente e dischiudendoci

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opportunità fino a qualche decennio fa del tutto
impensabili, dall’altro lato sembrano acuire in noi il
senso di incertezza e di smarrimento nei confronti
del futuro e, non di rado, ci lasciano addosso la sen-
sazione per molti aspetti paradossale di aver fatto
un passo indietro sul piano della libertà e di un’au-
tentica capacità di scelta. Anziché allargare i no-
stri orizzonti e arricchire la nostra quotidianità di
prospettive inedite e feconde, essi finiscono spesso
con il sommergerci di stimoli, proposte, esperienze
e sollecitazioni che, “consumati” in maniera super-
ficiale e frettolosa, non fanno altro che accelerare
il nostro ritmo interiore, rendendoci schegge im-
pazzite che attraversano la vita a velocità superso-
nica, senza più riuscire a distinguere l’essenziale dal
superfluo e a rintracciare un senso nel repentino
scorrere degli eventi. Piuttosto che regalarci mag-
giori opportunità tra cui scegliere e grazie alle quali
accorciare le distanze con gli altri, sono forieri di
un’esistenza ancora più vuota e monotona e ci con-
segnano a nuove solitudini.
Di fronte ai tanti cambiamenti, in gran parte an-
cora di difficile interpretazione, indotti da questa
ennesima rivoluzione tecnologica e all’affermarsi di
quella che è stata ribattezzata l’“età dell’Infosfera”,
i meno attrezzati sembrano essere proprio i gio-
vani adulti, desiderosi, al pari dei loro fratelli mi-
nori, di confrontarsi con questa nuova dimensione
virtuale e di sfruttarne appieno le potenzialità, ma
decisamente meno a loro agio nel rapportarsi alle
profonde trasformazioni in atto rispetto ai cosid-
detti “nativi digitali”. Ai loro occhi, la nuova realtà
immateriale e illusoria modellata sul paradigma di
una fittizia omologazione appare ancora più incerta
e sfuggente, popolata dai fantasmi dell’inautentici-
tà e dell’individualismo che, come mostri crudeli e
insensibili, confondono ogni traccia o segnale che
possa rivelarsi utile ai fini di un’efficace ricerca di
senso e, in tal modo, rendono sempre più arduo
individuare stabili riferimenti sulla base dei quali
orientarsi. Finché non subentra una sorta di as-
suefazione che impedisce persino di accorgersi del
Dimmi cosa faccio di male, dico quello che mi pare,
è paradossale: serve una vita per farsi accettare
e un minuto per farsi ignorare.
È da pazzi! Solo autoritratti,
siamo tutti distratti,
finché l’ultimo social ci rende assuefatti.
Volevo cambiare universo,
ma adesso c’è già il metaverso;
qualcuno mi bussa da dentro,
non voglio più perdere tempo,
ho un timer cucito nel petto,
mi sento una bomba ad innesco,
se esplodo rimane il deserto,
ma intorno è già tutto un deserto.
Su mille strade da percorrere
ti mostrano soltanto forse le prime due o tre,
me ne sto andando più lontano solo per vederci chiaro,
se vuoi, puoi venir con me...
Dove si va nei brutti tempi?
Quando le incertezze sono teste d’Idra che ricrescono,
si intrecciano, ti mordono coi denti
e tu le tagli, ma non basta mai...
Dove si va? Ci siamo persi,
noi che non facciamo parte né di squali e serpi:
è meglio perdersi che immergersi con gli altri
pensando di non ritrovarsi mai...
Make the world change,
make the world change!
(Gabriele Mvsa feat. DJ Fastcut, La casa degli specchi, 2022)
carattere corrosivo e straniante di una simile con-
dizione.
Per poter ricominciare a discernere il vero dal fal-
so, le esperienze e le relazioni autentiche da quelle
“virtuali” costruite sui social, abbiamo, allora, biso-
gno di tirarci fuori da questa “casa degli specchi”
di cui spesso siamo letteralmente prigionieri e di
allontanarci per qualche momento da questo altro-
ve fantasmagorico in cui ci sentiamo persi, per tor-
nare a calarci, anima e corpo, nel tessuto connettivo
della nostra concreta quotidianità. In questo modo,
potremo forse ritrovare la nostra bussola interiore e
restituire senso al nostro essere nel mondo: un mon-
do reale, fatto «di carne e di sangue» – come avreb-
be detto Feuerbach – e non costruito sulla base di
qualche freddo algoritmo.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Che fatica diventare
PRETE!
Recuperate alcune
richieste del chierico
Bosco al re Carlo Alberto.
Il ventenne Giovanni Bosco, una volta abban-
donata l’idea di farsi francescano, decise di
entrare in seminario a Chieri. Nella cittadina
aveva già trascorso quattro anni di studio con-
tribuendo alle spese di famiglia con varie prestazio-
ni a quanti lo ospitavano o con lezioni a compagni
di scuola. Ma ora, entrando in seminario, venivano
meno queste possibilità. Dovette perciò trovare al-
tre fonti di sostentamento.
Lo fece anzitutto con un serio impegno di studio
e con inappuntabile disciplina, che ogni anno gli
meritarono un contributo alle spese di 60 lire. Nel
secondo anno raddoppiò la cifra come sacrestano
della cappella del seminario; successivamente fu
anche prefetto dei chierici. Ma con tutto ciò – lo
scrive lui stesso nelle Memorie dell’Oratorio – non
raggiungeva che la metà del necessario, per cui do-
veva intervenire l’amico e conterraneo don Giusep-
pe Cafasso.
Ma a metà degli studi seminaristici pensò di tro-
vare un altro benefattore. Si rivolse direttamente al
religiosissimo re di Sardegna Carlo Alberto.
Le prime due richieste
Sono due letterine di poche righe – abbiamo re-
cuperato solo le minute – quelle che don Bosco
scrive al re, ma rivestono un’indiscussa importanza
in quanto indicatrici di un duplice interesse: per il
destinatario e per lo stesso contenuto.
Il destinatario è anzitutto un personaggio di altis-
simo livello sociale: nientemeno che il re. Il “sup-
plicante” chierico Bosco non è certo stato il solo
chierico a scrivergli, lo si sa, ma resta il fatto che il
ventitreenne Giovanni non ha timore alcuno a farlo.
E lo farà tante altre volte in seguito, quando al nome
di “re di Savoia” sostituirà quello di “re di Italia”, o
di imperatore d’Austria e del Brasile, di principessa
di Madagascar, di duchi e duchesse, per non dire di
ministri, senatori e deputati. Un umile figlio della
terra, contadino di nascita, che intrattiene simili
corrispondenze dimostra il coraggio (la temerità?)
del personaggio di presentarsi alle più alte cariche di
uno Stato come una persona degna di essere ascolta-
ta, accolta e possibilmente esaudita nelle sue attese.
Quando il chierico Bosco scrive tali lettere? Sem-
pre quando ha bisogno di aiuto economico; solo che
questo bisogno è durato per tutta la vita.
La minuta della prima lettera al re Carlo Alberto
risale al gennaio 1838 ed in essa il chierico Bosco
chiede al re un sussidio per pagare la pensione del
seminario e procurarsi effetti personali.
“Sacra Real Maestà / Il chierico Bosco Gioanni al-
lievo del Seminario di Chieri essendo privo di padre
e quasi affatto di beni di fortuna, stretto dal bisogno
tanto per pagare la pensione, e per provvedersi abi-
ti quali sono mantello, veste etc., ricorre umilmente
alla Maestà Vostra supplicandola d’un sussidio onde
provvedersi nelle sue strettezze, e seguire la carriera
in cui le sembra essere da Dio chiamato”.
La minuta della seconda lettera è del febbraio 1839
– pochi mesi dopo, il 2 aprile, sarebbe morto l’ami-
co Luigi Comollo – è identica alla prima, con l’ag-
giunta di alcuni particolari: il nome del padre, l’an-
no di seminario che frequenta e soprattutto l’umile
condizione economica dei parenti (madre e fratelli):
“essi devono procacciarsi il vitto a servizio altrui”.
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FEBBRAIO 2024

4.9 Page 39

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La terza supplica
La terza minuta di lettera, databile nel marzo 1841,
è ancora più importante in quanto il chierico Bo-
sco amplia le suddette sue esigenze economiche con
le spese notarili per la costituzione del patrimonio
ecclesiastico richiesto per essere ammessi al suddia-
conato.
Secondo la legislazione in vigore infatti era indi-
spensabile possedere un patrimonio, solitamente co-
stituito da beni stabili, che producesse una rendita
annuale non inferiore a 230 lire, né superiore a 384
lire. Il figlio di Margherita non disponeva di una si-
mile rendita. Avrebbe potuto richiederla a qualche
sacerdote benestante, come ad esempio al rettore del
Convitto, il teologo Guala, ma ciò avrebbe costituito
un precedente per altri, o anche una sorta di futura
dipendenza morale del neosacerdote dal benefattore;
cosa che sarebbe accaduta anche con un intervento
finanziario di un laico, di un nobile.
Don Bosco pensò di fare da sé. Il fratello Giusep-
pe gli mise disinteressatamente a sua disposizione
i propri beni, che uniti a quelli di Giovanni, arri-
vavano allora al valore di lire 2510, con la rendita
annuale di 125 lire, poco più della metà del neces-
sario. Ma con la generosa disponibilità di terreni e
vigne del conterraneo Giovanni Febbraro il totale
dei beni arrivò al valore di 6026 lire, con reddi-
to annuo di lire 292,25 un valore medio fra quelli
possibili. Così il 23 marzo 1840 poté essere costi-
tuito “il patrimonio ecclesiastico delli Signori Gio-
vanni e Giuseppe fratelli Bosco e da Febbraro Gio-
vanni”. Ma subito si pose però il pagamento delle
spese notarili. Don Bosco, ancora una volta, chie-
se l’aiuto del re. “Sacra Real Maestà / Il chierico
Bosco Gioanni… avendo trovato persona benefica
che gli costituisce il patrimonio ecclesiastico, per
essere sprovvisto di che concorrere alle spese che
vi si ricercano: supplica umilmente V. S. R. M. a
volersi degnare di concedergli un caritatevole sussi-
dio, onde corrispondere alle spese di detta costitu-
zione patrimoniale, come pure per pagarsi l’annua
pensione, e procurarsi altre cose che ad un chierico
sono indispensabili; e ciò tutto a fine di poter per-
severare nello intrapreso stato eccl.co a cui giudica
essere unicamente da Dio chiamato”.
Non sappiamo se la richiesta sia stata accolta dal
sovrano, probabilmente sì; ma di certo re Carlo
Alberto ne venne a conoscenza, dal momento che
la Gran Cancelleria del Regno coinvolse l’Economo
Generale del Regno per un parere che presumiamo
appunto essere stato positivo.
Del resto, forse anche a seguito di tali benevolen-
ze “regali”, pochi anni dopo (1851) don Bosco non
ebbe avuto remora alcuna a fare un analogo appello
alla generosità al nuovo re Vittorio Emanuele II.
Gli chiese infatti “un caritatevole sussidio” in fa-
vore di quattro suoi chierici “privi affatto di beni
di fortuna [che] incontrano gravi difficoltà a conti-
nuare ne’ loro studi trovando[si] nelle strettezze per
provvedersi alloggio, vitto e vestito”.
Da sacerdote
Diventare prete non è stato facile per don Bosco né
durante gli studi elementari e umanistici e neppure
negli anni del seminario; ha costantemente dovuto
lavorare, soffrire e anche umiliarsi per raggiunge-
re il suo sogno. E queste sconosciute letterine, ora
recuperate alla storia, ne sono un’ennesima ed illu-
minate dimostrazione.
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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di febbraio preghiamo per la canonizzazione
del Beato Pio IX, papa, primo salesiano cooperatore.
Giovanni Maria Mastai Ferretti
(Senigallia, 13 maggio 1792 –
Roma, 7 febbraio 1878), ordinato
sacerdote nel 1819, dal 1823 fu
per due anni missionario in Cile.
A 35 anni fu nominato arcivesco-
vo di Spoleto, e nel 1832 di Imola.
Nel 1840 fu creato cardinale e il 16
giugno 1846 venne eletto sommo
pontefice. Pio IX appoggiò e indi-
rizzò don Bosco nella fondazione
della Congregazione salesiana. Lo
convinse a scrivere le sue memo-
rie da lasciare in eredità spirituale
ai Salesiani. Durante il suo pontifi-
cato approvò le Costituzioni della
Società di San Francesco di Sales,
l’Istituto delle Figlie di Maria Au-
siliatrice e la Società o Unione
dei Cooperatori salesiani, di cui
fu il primo iscritto. Don Bosco di-
mostrò in ogni circostanza la sua
fedeltà a Pio IX, il quale lo ricam-
biò con stima e fiducia. L’8 dicem-
bre 1854 Pio IX definì il dogma
dell’Immacolata Concezione. Nel
1869 indisse il Concilio Vaticano I.
San Giovanni Paolo II lo proclamò
beato il 3 settembre 2000.
Preghiera
O Dio, che in tempi di grandi trasformazioni culturali e sociali,
guidasti il cammino della tua Chiesa,
affidandola al sicuro magistero del beato Pio IX, papa,
per sua intercessione, custodisci sempre il gregge che tu ami,
perché con fede integra e carità perfetta
cammini verso la patria celeste.
Per il nostro Signore Gesù Cristo,
tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Ringraziano
Oggi sabato 23 dicembre 2023
è venuto a casa dall’ospedale di
Siena mio fratello Franco che ha
subito il trapianto di rene il giorno
14 dicembre 2023. La prospetti-
va, oltre le incognite, era di stare
almeno venti giorni in ospedale e
poi vedere se era il caso di inter-
venire sulla gamba che aveva una
vena ostruita e che quindi portava
con difficoltà il sangue al rene. Il
14 è iniziata la Novena alla Serva
di Dio Vera Grita terminata con il
22 dicembre, giorno, che ha visto
presente la Famiglia Eucaristica dei
Tabernacoli Viventi presso l’Ospe-
dale Santa Corona di Pietra Ligure
dove Vera è morta dopo sei mesi di
degenza il 22.12.1969 a conclusio-
ne dell’anno di grazia per il cente-
nario della nascita di Vera Grita. Ho
iniziato la Novena per mio fratello
Franco insieme al mio gruppo e
unita con la nostra Coordinatrice
perché tutto andasse bene. Il ri-
covero era iniziato con certe incer-
tezze in quanto il rene era in una
sua parte sclerotizzato e quindi
c’era la possibilità che mio fratello
ritornasse a casa con nulla di fatto.
Tutto è andato per il meglio; in soli
dieci giorni è tornato a casa. Ora
abbiamo davanti due mesi delicati
ma intanto voglio ringraziare pub-
blicamente per la grazia ricevuta
ad oggi. Tutti sono rimasti sorpresi
di questo recupero senza ostacoli.
È in dialisi dal febbraio 2021.
Maria Gloria Polacci (Versilia)
I NOSTRI LIBRI
L’educazione cattolica
nel Magistero della Chiesa Universale
Una sintesi
L’educazione dei giovani è al centro del carisma salesiano e della missione della nostra Università. Pertanto
un’opera del genere, che espone in chiara sintesi le linee portanti del Magistero ecclesiale su un tema che
ci sta profondamente a cuore, è quanto mai utile e opportuna. Su questo argomento, infatti, come su tanti
altri, la produzione magisteriale della Chiesa è distribuita in un gran numero di testi e documenti che pos-
sono disorientare il lettore comune o lo studioso alle prime armi. In queste pagine si trova invece una sintesi
che accompagna con guida sicura nella conoscenza dei principali aspetti della materia. L’auspicio è – come
scrivono gli autori nell’Introduzione – che ognuno possa iniziare da qui un percorso di approfondimento
personale sulla base dei precisi riferimenti offerti.
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5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Gianni Caputa
Don Mario
Rosin
Morto martire
il 23 giugno 1937
a Betgemal (Israele)
Mario Rosin era nato l’8 novem-
bre 1875 a Tomazic, vicino Trieste
e da ragazzo entrò nell’oratorio
di don Bosco a Valdocco. Emise la
professione perpetua a Torino nel
dicembre 1891, e quello stesso
mese giungeva per il tirocinio a
Cremisan, il 4 giugno 1898 rice-
vette l’ordinazione sacerdotale a
Gerusalemme. Avendo appreso
molto bene la lingua araba, gli
furono assegnati compiti di re-
sponsabilità nelle case di Betlem-
me (prefetto nel 1904), maestro
degli ascritti (Cremisan 1905), e
di nuovo prefetto a Betlemme
(1906-1907); ben presto fu anche
nominato consigliere ispettoriale.
Nel 1907 è direttore a Nazaret e
anche in quel particolare ambien-
te francofono fa molto bene. Tor-
nò come direttore a Betlemme.
Durante la prima guerra mondia-
le la casa di Betlemme fu colpita
da drammatici avvenimenti: 700
soldati Turchi e Austriaci la occu-
parono e partendo, portarono via
tutto dai laboratori, dormitori,
aule... (1916). In quegli anni terri-
bili, si attivò per non far mancare
il necessario a confratelli e orfani;
e un giorno, proprio mentre con
il coadiutore Zanchetta si recava
a Betgemal per fare rifornimento
di farina, fu arrestato dai soldati
turchi (perché “persona ostile,
sconfinata in zona nemica”) e il
5 dicembre 1917 condannato e
tradotto in esilio a Keskin in Ana-
tolia. Al suo rientro, il visitatore
canonico don Ricaldone lo rista-
bilì nella sua carica di direttore a
Betlemme.
Sempre e dappertutto la sua
condotta come religioso fu esem-
plare: di grande spirito di fede
e pietà; povero e mortificato al
massimo (veglie, digiuni, non
dormì mai su un letto, portava
il cilicio). Per questo, quando nel
1929 i superiori decisero di aprire
lo studentato teologico a Bet-
lemme, conoscendo le sue virtù,
gli chiesero di fare da direttore
anche dei chierici e dei professori,
oltre che dei confratelli addetti
all’orfanotrofio. Accettò questo
supplementare carico di respon-
sabilità mosso dal senso del do-
vere e lo svolse con grande sacri-
ficio; ma al termine del secondo
anno, resosi conto di non potersi
dedicare alla formazione dei chie-
rici come avrebbe voluto, chiese
di essere esonerato, pur rimanen-
do direttore dell’orfanotrofio fino
al 1935. All’inizio del nuovo anno
comunitario 1935-36 fu nomina-
to prefetto di Betgemal e l’anno
seguente direttore, proprio nel
periodo più turbolento.
La sera del 17 giugno una
banda armata, dopo aver
tagliato i fili del telefo-
no, irruppe in casa e
pretese dal diret-
tore don Mario
Rosin l’esorbi-
tante somma
di 100 lire palestinesi. Non rice-
vendole perché in cassa vi erano
solo poche piastre, lo bastonarono
violentemente. Anche i confratelli
e i laici accorsi a difenderlo presero
una dose abbondante di percosse.
Eccetto il Venerabile santo Srugi
che “fu tra i primi a portare il suo
vestito nuovo e il piccolo gruzzolo
raccolto nella giornata al mulino
e all’ambulatorio. Al suo passag-
gio, il gruppo dei ribelli si irrigidì
sull’attenti al comando del capo:
Giovanotti, questo è mu’allem
Srugi, fategli il saluto militare per
rispetto”. Dopo aver preso viveri,
vestiti e calzature, i rivoluzionari se
ne andarono, ma ripetendo chiare
minacce di morte nei confronti di
don Rosin, che accusavano d’aver
fatto installare il collegamento te-
lefonico tra la casa e la stazione di
polizia di Artuf per trasmettere in-
formazioni circa i loro spostamen-
ti. Venne consigliato a don Rosin di
ritirarsi temporaneamente a Bet-
lemme, ma egli declinò, dicendo
che il suo dovere di padre non gli
permetteva di abbandonare i figli
in quei frangenti.
II pomeriggio del 23 giugno,
vigilia della solennità del Sacro
Cuore, volle recarsi nel vicino Deir
Rafat per l’abituale ministero del-
le confessioni alle suore. Sulla via
del ritorno sconosciuti armati gli
tesero un agguato, lo disarciona-
rono dalla cavallina, e dopo averlo
accusato di aver fatto arrestare il
loro capobanda, lo assassinarono.
Il corpo di don Rosin venne ri-
trovato il giorno dopo sotto un
cumulo di pietre con le braccia al-
largate in forma di croce: il cranio
era fracassato da una pallottola,
la mano stringeva brandelli della
corona del rosario.
Per chi lo conosceva bene non vi
erano dubbi: don Rosin aveva pa-
gato con il martirio il suo amore
per la giustizia e il dovere; anzi
qualcuno ritenne che fosse stato
ucciso in odium fidei”.
Qualche tempo dopo il delitto, uno
dei presunti responsabili, ferito in
uno scontro a fuoco e braccato,
cercò rifugio nottetempo proprio
nell’ambulatorio di Betgemal. Si-
mone lo fece entrare, lo curò e lo
lasciò andare, mentre suor Tersilla
protestava: “Consegniamolo ai
soldati Inglesi. Ha ucciso il nostro
direttore!”. Dello stesso parere
erano i confratelli che nei giorni
seguenti fecero pesantemente
sentire a Simone il loro disappun-
to. Egli rispose all’una e agli altri
con queste frasi, riportate da vari
testimoni con leggere varianti:
“Se ha commesso del male, se la
vedrà lui con Dio. D’altra parte i
soldati sono sulle sue tracce e non
tarderanno a prenderlo. Ma noi
dobbiamo sempre fare del bene a
tutti. Preghiamo per lui e per i suoi
compagni. Gesù non ci ha forse
insegnato a perdonare i nemici?
E don Rosin non ha sempre per-
donato? Può darsi che questi tali,
vedendo che noi li perdoniamo,
si sentano toccati a cambia-
re vita”.
A Betgemal, i salesiani
conservano amore-
volmente la tomba
di Santo Stefano,
primo martire di
Cristo che morì
perdonando i suoi
uccisori.
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5.2 Page 42

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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Vai.
Parole di 4 lettere: Clip, Eros, Kili,
Thor, Veto.
Parole di 5 lettere: Addio, Annam,
Elmas, Gambe, Kamut, Maori, Putin.
Parole di 6 lettere: Abacuc,
Canova, Evelyn, Gandhi, Liscia, Oziosi,
Proton, Smalti, Trench.
Parole di 7 lettere: Arenghi,
Erogare.
Parole di 9 lettere: Overdrive.
Parole di 10 lettere: Avellinesi,
Farmacopea, Lacedemone.
? Parole di 11 lettere:
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso, Riarmamento.
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le Parole di 13 lettere: Scandalistici.
?
parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 14 lettere:
La soluzione nel prossimo numero.
Festeggiamenti.
DUE SIMBOLI CHE UNISCONO
La congregazione salesiana fu fondata ufficialmente nel 1859 e parecchi anni dopo, l’8 dicembre
del 1885, don Bosco inserì per la prima volta nella circolare di quel giorno quello che diventò il
simbolo grafico dei Salesiani. Sull’idea di racchiudere insieme valori, fondatore e altri concetti
attraverso delle metafore disegnate ci lavorò il professor Boidi. Nel suo elaborato inserì una stella
radiosa (o raggiante), una grande ancora e un cuore infiammato a simboleggiare le virtù teologali
(fede, speranza e carità); poi, la figura di san Francesco di Sales, Santo Patrono della Società; un
bosco, nella parte inferiore, con l’ovvio riferimento al cognome del fondatore; delle montagne
sullo sfondo a indicare le cime della perfezione a cui bisogna tendere; la palma e l’alloro i cui rami si intrecciano nello stelo e avvol-
gono lo stemma fino alla metà rappresentano il premio riservato a una vita virtuosa. Infine il cartiglio alla base dell’intero disegno
contentente il motto salesiano “Da mihi animas caetera tolle”. Più recentemente la congregazione si è dotata di un moderno logo
stilizzato che graficamente si compone di due pittogrammi: uno sfondo con due colline (o dune) attraversato da un sentiero a forma
di “S” (i Salesiani) e in primo piano una simbolica freccia con la punta rivolta verso l’alto che
Soluzione del numero precedente va vista come il tetto a falde spioventi di una casa e tre cerchi che evidenziano l’immagine
stilizzata di tre persone, la più alta delle quali è la figura di don Bosco nell’atto dell’abbraccio
dei fanciulli. I principi che hanno ispirato XXX sono: don Bosco nostro modello, la presenza
con i giovani marcata dalla Ragione, Religione e Amorevolezza, il Cammino dinamico che pro-
muove il protagonismo dei giovani, la Casa per l’incontro, l’educazione e l’evangelizzazione, il
Dinamismo del carisma salesiano nel mondo e nella storia.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
Le MELE
U n gruppo di giovani manager Toccava il pavimento, cercando,
che avevano terminato una invano, di raccogliere le mele,
settimana di aggiornamento mentre moltitudini di persone
correvano nei corridoi dell’aeroporto. passavano senza fermarsi; senza
Era venerdì sera e tutti volevano
che a nessuno importasse nulla
rientrare a casa per il week-end.
dell’accaduto.
Avevano fatto tardi ed erano in ritar- L’uomo inginocchiatosi con lei,
do. Il loro volo era già stato chiamato mise le mele nella cesta e l’aiutò a
da un po’.
montare di nuovo il banco.
Stringevano valigette, biglietti e
Mentre lo faceva, si rese conto che
passaporto, correndo tra i corridoi molte cadendo si erano rovinate.
dell’aeroporto.
Le prese e le mise nella cesta.
?
All’improvviso, e senza volerlo, due di Quando terminò, tirò fuori il
essi inciamparono in una bancarella di portafoglio e disse alla bambina:
frutta e urtarono un cesto di mele. «Tu stai bene?»
Le mele caddero e si sparsero per
Lei, sorridendo, annuì con la testa.
terra.
L’uomo le mise in mano una ban-
Senza trattenersi, né guardando
conota da cento euro. Poi conti-
indietro, i giovani continuarono a
nuò: «Prendili, per favore. Sono
correre, e riuscirono a salire sull’aereo. per il danno che abbiamo fatto.
Tutti meno uno.
Spero di non aver rovinato la tua
Quest’ultimo si fermò provando un giornata».
sentimento di compassione per la
Il giovane cominciò ad allontanar-
padrona del banco di mele.
si e la bambina gridò: «Signore...»
Urlò ai suoi amici di continuare
Lui si fermò e si girò a guardare i
senza di lui e avvertì la moglie che suoi occhi ciechi.
sarebbe arrivato con il volo succes- Lei proseguì: «Sei tu Gesù...?»
sivo.
Lui si fermò immobile, girandosi
Dopo tornò al Terminal e vide che un po’ di volte, prima di dirigersi
tutte le mele erano ancora sparse a per andare a prendere il volo,
terra.
con questa domanda che gli bru-
La sorpresa fu enorme, quando si ciava e vibrava nell’anima:
rese conto che la padrona delle mele «Sei tu Gesù?».
era una bambina cieca.
La trovò piangendo, con grandi
Talvolta la gente
lacrime che scorrevano sulle sue
guance.
ti confonde con Gesù?
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5.4 Page 44

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L’incontro che trasforma la tua vita
e quella di tante ragazze e ragazzi che,
tutti i giorni, in 136 paesi del mondo
vengono accolti nelle missioni salesiane.
La Fondazione DON BOSCO NEL MONDO
è l’Organismo della Congregazione Salesiana
che si occupa di sostenere progetti educativi,
sociali, di accoglienza e formazione dei giovani
e delle persone vulnerabili.
Seguici su e sul nostro sito web www.donbosconelmondo.org