04-Aprile-2024

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▲torna in alto
le case di don bosco
Borgo
Ragazzi
don bosco nel mondo
Accompagnare
alla vita
SANTITÀ È
ALLEGRIA
don Bosco
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
nuovi salesiani
Josef
Prevor
APRILE
2024

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
La RICETTA
di Mamma Margherita
N el Seminario di Chieri,
Giovanni Bosco compie
prima due anni di studi
filosofici, chiamati rispettivamente
«logica» e «fisica» (1835-37). Nel
1837 inizia i cinque anni di studi
teologici. Per concessione dell’Arcive-
scovo, Giovanni li riduce a quattro,
dando però tutti gli esami regolari.
Nella primavera del 1839, dopo un
inverno di studi intensissimi e dopo
le violente emozioni causate in lui
dalla morte dell’amico Luigi Comol-
lo, viene colpito da una forma seria
di esaurimento. I sintomi sono clas-
sici: perdita del sonno e dell’appetito,
dimagrimento accentuato, tristezza e
tendenza a isolarsi.
Il medico fa ciò che sanno fare i
medici in quel tempo: invece di
rimandarlo nell’ambiente sereno del-
la famiglia a fare per qualche mese il
contadino, gli ordina un mese intero
di letto.
La cura è così sbagliata che Giovan-
ni peggiora sempre più.
Non sapendo che altro fare, il
medico lo dichiara «grave», che nel
linguaggio del tempo significa «in
pericolo di vita».
Non esistevano i telefoni in quel
tempo, ma Mamma Margherita in
qualche modo (forse un angelo) lo
venne a sapere e accorse da lui.
Mise nella cesta quello che il suo
cuore le suggerì: un grosso pane di
miglio cotto nel forno di famiglia e
una bottiglia di buon vino vecchio
della collina dei Becchi. È il gesto
commovente di una contadina: lei
sa che la malattia della primavera
è la denutrizione, arriva quando
le provviste dell’inverno sono
quasi finite e fino al prossimo
raccolto non si riesce a man-
giare abbastanza. Anche la
medicina è una sola: nutrirsi
bene, masticare buon pane
e bere buon vino. Sulle
colline si sa poco delle altre
malattie dai nomi difficili.
Nell’infermeria, si vergognò
un po’ e voleva riportarsi tutto
a casa, ma Giovanni la pregò
tanto di lasciarglielo, che essa
dopo qualche difficoltà lo accontentò.
Rimasto solo, fu preso da smania di
mangiare quel pane e bere quel vino.
Incominciò dallo staccare un piccolo
boccone e masticarlo bene; gli parve
gustosissimo. Poi ne tagliò una fetta,
quindi una seconda, e senza bada-
re ad altro, finì con il trangugiarlo
tutto ed accompagnarlo con quel ge-
neroso vino. Ciò fatto si addormentò
in un sonno così profondo, che durò
una notte e due giorni consecutivi.
I superiori del seminario pensarono
che Giovanni fosse vicino alla morte
e già pensavano al funerale.
Ma quando si svegliò (e Mamma
Margherita era già ripartita) si sentì
guarito di colpo. (MB I, 482)
La storia ha un curioso seguito.
Molti anni più tardi, uno dei più cari
figli di don Bosco, don Giuseppe
Vespignani, missionario in Patago-
nia, cadde gravemente infermo. E
tutti lo piangevano già, come morto,
ma in sogno gli apparve don Bosco,
morto cinque anni prima, che gli
consigliò il rimedio: la medicina di
Mamma Margherita, cioè una grossa
porzione di carne ai ferri alla manie-
ra argentina (il famoso Asado).
Don Vespignani si alzò, mangiò di
fronte alla meraviglia di tutti e si
recò alla stazione per accogliere il
sacerdote che veniva a celebrare i
suoi funerali.
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le case di don bosco
Borgo
Ragazzi
don bosco nel mondo
Accompagnare
alla vita
SANTITÀ È
ALLEGRIA
don Bosco
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
nuovi salesiani
Josef
Prevor
APRILE 2024
ANNO CXLVIII
NUMERO 4
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Segno particolare: la gioia
APRILE
2024
(Foto di Davide Angelini / Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Accompagnare alla vita
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 SALESIANI
Padre Lingoane Tlaile
16 LE CASE DI DON BOSCO
Borgo Ragazzi
20 NUOVI SALESIANI
Josef Prevor
23 INVITO A VALDOCCO
24 LA STORIA CONTINUA
Le viti di don Bosco
28 GLI AMICI DI DON BOSCO
Don Pietro Merla
32 FMA
«Voglio essere come loro»
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
La noia
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
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12
16
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
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Bruno Ferrero
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internazionale che tutelano le foreste, l’ambiente e
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Sono un SALESIANO
e sono un BORORO
Diario di una giornata missionaria felice e benedetta.
Con il giovane
salesiano
Bororo.
Cari amici del Bollettino Salesiano, vi scri-
vo da Meruri, nello stato del Mato Grosso
do Sul. Scrivo questo saluto quasi come
se fosse una cronaca giornalistica, perché
sono passate 24 ore da quando sono arrivato in
mezzo a questa città.
Ma i miei confratelli salesiani sono arrivati 122
anni fa e da allora siamo sempre stati in questa mis-
sione in mezzo alle foreste e
ai campi, accompagnando
la vita di questo popolo in-
digeno.
Nel 1976 un salesiano e un
indio sono stati derubati
della loro vita con due colpi
di pistola (da parte di “fa-
cendeiros” o grandi proprie-
tari terrieri), perché ritene-
vano che i salesiani della
missione fossero un proble-
ma per potersi appropriare
di altre proprietà in queste
terre che appartengono al
popolo Boi-Bororo. Si trat-
ta del Servo di Dio Rodolfo
Lunkenbein, salesiano, e
dell’indio Simao Bororo.
E qui abbiamo potuto vi-
vere ieri molti momenti
semplici: siamo stati accolti
dalla comunità indigena al
nostro arrivo, li abbiamo
salutati – senza fretta – perché qui tutto è tranquil-
lo. Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale, ab-
biamo condiviso riso e feijoada (stufato di fagioli),
e abbiamo goduto di una conversazione amabile e
calorosa.
Nel pomeriggio mi avevano preparato una riunio-
ne con i capi delle varie comunità; erano presenti
alcune donne capo (in diversi villaggi è la donna
ad avere l’autorità ultima). Abbiamo dialogato in
modo sincero e profondo. Mi hanno esposto le loro
riflessioni e mi hanno presentato alcune delle loro
esigenze.
In uno di questi momenti, un giovane salesiano
Boi-Bororo ha preso la parola. È il primo Bororo a
diventare salesiano dopo 122 anni di presenza sa-
lesiana. Questo ci invita a riflettere sulla necessità
di dare tempo a tutto; le cose non sono come pen-
siamo e vogliamo che siano nel modo efficiente e
impaziente di oggi.
E questo giovane salesiano ha parlato così davanti
alla sua gente e ai suoi capi o autorità: «Sono sale-
siano ma sono anche Bororo; sono Bororo ma sono
anche salesiano, e la cosa più importante per me è
che sono nato proprio in questo luogo, che ho in-
contrato i missionari, che ho sentito parlare dei due
martiri, padre Rodolfo e Simao, e ho visto la mia
gente e il mio popolo crescere, grazie al fatto che
la mia gente ha camminato insieme alla missione
salesiana e la missione ha camminato insieme alla
mia gente. È ancora la cosa più importante per noi,
camminare insieme».
Ho pensato per un attimo a quanto sarebbe stato
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orgoglioso e felice don Bosco di sentire uno dei suoi
figli salesiani appartenere a questo popolo (come
altri salesiani che provengono dal popolo Xavante
o dagli Yanomani).
Allo stesso tempo, nel mio discorso ho assicurato
loro che vogliamo continuare a camminare al loro
fianco, che vogliamo che facciano tutto il possibile
per continuare a curare e salvare la loro cultura – e
la loro lingua – con tutto il nostro aiuto. Ho det-
to loro che sono convinto che la nostra presenza li
abbia aiutati, ma sono anche convinto di quanto ci
faccia bene stare con loro.
«Avanti!» disse la Pastorella
Ho pensato all’ultimo sogno missionario di don
Bosco: e quella Pastorella, che si fermò accanto a
don Bosco e gli disse: «Ti ricordi del sogno che hai
fatto a 9 anni?... Guarda ora, che cosa vedi?» «Vedo
montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo
montagne e mari». «Bene – disse la Pastorella –
Ora tira una sola linea da una estremità all’altra,
da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo
dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbo-
no fare i Salesiani». «Ma come fare tutto questo? –
esclamò don Bosco – Le distanze sono immense, i
luoghi difficili e i Salesiani pochi». «Non ti turbare.
Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei
loro figli». Lo stanno facendo.
Fin dall’inizio del nostro cam-
mino come congregazione,
guidato (e amabilmente “spin-
to”) da Maria Ausiliatrice, don
Bosco ha inviato i primi mis-
sionari in Argentina. Siamo
una congregazione riconosciu-
ta con il carisma dell’educazio-
ne e dell’evangelizzazione dei
giovani, ma siamo anche una
congregazione e una famiglia
molto missionaria. Dall’inizio
a oggi, ci sono stati più di un-
dicimila missionari salesiani
sdb e diverse migliaia di Figlie
di Maria Ausiliatrice. E oggi,
la nostra presenza tra questo
popolo indigeno, che conta 1940 membri e che con-
tinua a crescere poco a poco, ha perfettamente senso
dopo 122 anni, perché sono alla periferia del mon-
do, ma un mondo che a volte non capisce che deve
rispettare ciò che sono.
Ho parlato anche con la matriarca, la più anziana
di tutte, che è venuta a salutarmi e a raccontarmi
del suo popolo. E dopo un bel temporale di piog-
gia torrenziale, nel luogo del martirio, con grande
serenità, ci siamo seduti a recitare il rosario in una
bella domenica sera (era già buio). Eravamo in tanti
a rappresentare la realtà di questa missione: nonne,
nonni, adulti, giovani madri, neonati, bambini pic-
coli, religiosi consacrati, laici... Una ricchezza nel-
la semplicità di questa piccola parte di mondo che
non ha potere ma che è anche scelta e prediletta dal
Signore, come ci dice nel Vangelo.
E so che così continueremo, a Dio piacendo, per
molti anni a venire, perché si può essere un Bororo
e un figlio di don Bosco, ed essere un figlio di don
Bosco e un Bororo che ama e si prende cura del suo
popolo e della sua gente.
Nella semplicità di questo incontro, oggi è stato un
grande giorno di vita condivisa con i popoli indige-
ni. Una grande giornata missionaria.
Con la
matriarca
più anziana
e (sotto) con
il più piccolo.
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DON BOSCO NEL MONDO
Marcella Orsini
ACCOMPAGNARE
alla VITA
La formazione tecnico-professionale in agricoltura
dei salesiani di Calulo in Angola come modello
di crescita e autonomia.
L’Angola
nel cuore
dell’Africa.
La missione salesiana nel mondo, nel 2025,
compirà 150 anni dalla prima Spedizione
Missionaria Salesiana (Torino, 11 No-
vembre del 1875). La Congregazione si
prepara a festeggiare la presenza dei Figli di Don
Bosco tra i giovani e le loro comunità più svan-
taggiate attraverso iniziative ed eventi e anche at-
traverso il ripensamento dei suoi interventi che le
numerose realtà della famiglia salesiana realizzano
in maniera sempre più pertinente e corrispondente
alle esigenze dello scenario internazionale attuale.
La Fondazione don bosco nel mondo, come
nel 2023, anche nel 2024 risponde a questa chia-
mata, contribuendo allo sviluppo di interventi
“pilota”, a lungo termine, attraverso l’impie-
go delle risorse del 5×1000 dell’imposta sui
redditi e concentrando l’attenzione sull’im-
patto di questi interventi sulla qualità stes-
sa della vita dei giovani più in difficoltà e a
rischio di esclusione sociale.
In particolare, in Angola, pres-
so la Scuola Agraria Salesiana
della Missão Santo António di
Calulo, insieme alla Visitatoria
Salesiana dell’Angola Mamã
Muxima, al Planning and De-
velopment Office (pdo) e alla
comunità locale dei Salesiani di
Don Bosco e con la consulenza
tecnica della Scuola Agraria Salesiana di Lombria-
sco, Torino, la Fondazione don bosco nel mondo
con i fondi provenienti dal 5×1000, anche nel 2024
sta dando supporto al progetto Agricoltura per la vita
per l’inclusione lavorativa e sociale delle giovani e dei
giovani più a rischio di marginalizzazione, attraver-
so la formazione tecnico-professionale in agricoltura
di base e per la tutela dell’ambiente, attraverso l’uti-
lizzo efficiente delle risorse naturali.
Del progetto sono beneficiari diretti i giovani e
gli adolescenti della città di Calulo, molti di loro
migranti dai villaggi del municipio di Libolo, privi
di qualsiasi opportunità di accesso allo studio e a
una formazione tecnico-professionale di qualità che
miri a ridurre il rischio di inoccupazione. Prendono
parte alla formazione tecnico-professionale in agri-
coltura di base 20 ragazze e ragazzi di età compresa
tra i 16 e i 18 anni per i quali la Scuola Agraria di
Calulo è l’unica opportunità, educativa e formativa,
per un progetto di vita sicuro e a lungo termine.
Il progetto va anche a vantaggio delle loro fami-
glie, circa 240 persone, provenienti dalle fasce della
popolazione con scarse possibilità di accedere a un
reddito sicuro, dei salesiani della comunità, degli
studenti della scuola primaria, della scuola secon-
daria di primo grado e di quelli a cui i salesiani
impartiscono corsi di alfabetizzazione per un totale
di 2140 persone. Infine, sono beneficiari indiretti
anche i 25 studenti del noviziato.
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Un ricco Paese povero
Il contesto nel quale il progetto si sviluppa è quello
di un Paese, l’Angola, che conta una popolazione di
21 471 000 abitanti, su una superficie che è quattro
volte quella dell’Italia. È un Paese ricco di risorse e
potenzialità, ma è caratterizzato da una forte strati-
ficazione sociale e dalla mancanza di accesso ai beni
essenziali e ai servizi di base per la maggior parte
della popolazione, in particolare nelle aree rurali.
Nonostante le ricchezze derivanti da petrolio, gas
e diamanti, l’Angola è uno dei paesi più poveri del
mondo, collocandosi al 149º posto su 187 Paesi per
Indice di Sviluppo Umano (undp, Human Deve-
lopment Report 2014).
La città di Calulo, estesa per 46 000 km2 e con una
popolazione di 84 000 abitanti, vive di agricoltura.
La maggiore causa di povertà è la chiusura di centri
di produzione agricola, particolarmente di produ-
zione di caffè. Molto diffuso è il fenomeno dell’im-
migrazione dei giovani dai villaggi alla città di Ca-
lulo e da Calulo alle grandi città. Spesso i ragazzi
migrano verso paesi fuori dal continente africano
per mancanza di formazione e di lavoro, lasciando
alle spalle un Paese che si impoverisce sempre più.
La missione di Santo António presente da quasi qua-
rant’anni a Calulo, nella Regione di Kwanza Sul è
l’unica istituzione in grado di fornire un percorso
formativo significativo in termini di impatto e di
miglioramento delle condizioni di vita dei giovani
in difficoltà, partendo dai loro bisogni, dalle loro
aspirazioni e ambizioni.
I Salesiani di Don Bosco di Calulo hanno indi-
viduato come necessità primarie per il loro centro
missionario quelle di costruire una scuola di for-
mazione tecnico-professionale agraria di qualità
per le ragazze e i ragazzi di Calulo e delle zone ru-
rali limitrofe alla città a rischio di inoccupazione ed
esclusione sociale e di favorire il ripristino del suolo
e un sistema agricolo che miri principalmente a col-
tivare la terra in modo tale da mantenere vivo e in
buona salute il suolo per una maggiore produzione
sostenibile, in un ambiente privo di inquinamen-
to ecologico, pienamente adeguato alle necessità
dell’intera comunità locale.
Acquisire competenze
La formazione impartita presso la scuola agraria di
base, ma sempre più specializzata ed estesa, per-
mette alle giovani e ai giovani di Calulo di acqui-
sire competenze spendibili nel mondo del lavoro,
riducendo la mancanza di accesso alle opportunità
per un progetto di vita completo e il rischio di es-
sere richiamati da una spinta migratoria irregolare,
insicura e violenta, che contrasta e restringe il di-
ritto umano alla libertà di movimento nel rispetto
delle leggi internazionali.
La Scuola Agraria Salesiana di Calulo viene ri-
conosciuta dalle ragazze e dai ragazzi stessi che
la frequentano come un vero e proprio nucleo di
educazione, formazione e lavoro per lo sviluppo
economico sostenibile e di promozione e diffusio-
ne della consapevolezza ambientale tra i giovani e
della parità di genere nell’accesso alla formazione
tecnico-professionale “verde”.
Obiettivo del progetto Agricoltura per la Vita è ren-
dere il suolo produttivo per la distribuzione dei pro-
dotti sia per il sostentamento della missione salesia-
na stessa sia per la generazione di reddito attraverso
I Salesiani
di Don Bosco
di Calulo
hanno
individuato
come
necessità
primarie per
il loro centro
missionario
quelle di
costruire
una scuola
di formazione
tecnico-
professionale
agraria di
qualità per
le ragazze
e i ragazzi.
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DON BOSCO NEL MONDO
canali locali come il mercato e le catene di piccoli
e grandi negozi, da reinvestire nel mantenimento
della scuola agraria, rendendola autosufficiente.
Inoltre, contribuisce a ridurre l’inoccupazione e la
migrazione delle e dei giovani di Calulo attraver-
so l’accesso a un percorso innovativo di Technical
and Vocational Education and Training (tvet) in
campo agricolo, di qualità, inclusivo ed equo e attra-
verso l’accesso a opportunità di apprendimento per-
manente, volte a rafforzare l’autonomia e la crescita
economica e personale in una prospettiva integrale.
Agricoltura per la Vita promuove e favorisce, infi-
ne, non soltanto azioni e programmi per la tutela
ambientale, ma risponde alla vocazione all’ecologia
integrale della Chiesa universale e della Congrega-
zione salesiana in particolare, impegnata a rendere
le proprie opere sostenibili entro il 2032 e orientate
all’inclusione nel mondo del lavoro per tutte e tutti
i giovani a rischio di marginalizzazione, come in-
dicato dalle Linee strategiche del sessennio 2020 –
2026, individuate all’indomani del Capitolo Gene-
rale 28 e dall’Articolo 23 della stessa Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani secondo cui “Ogni
individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta
dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di
lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”.
LE STORIE
ANTÓNIO AVELINO PEDRO, 16 anni
«La mia vita cambierà, ne sono certo»
A ntónio Avelino Pedro ha 16
anni e frequenta la Scuola
Agraria del Centro Don Bosco
di Calulo. È venuto a cono-
scenza del progetto Agricoltura per la vita
a inizio dei corsi di formazione in Agricol-
tura di base.
“Ero in ritardo” – ci ha detto, quando
gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua
storia – “i corsi erano già cominciati… non volevo
perdere questa opportunità, così ho parlato con un
giovane del centro, Bernado e lui, a sua volta, ha
parlato di me con suo fratello, un formatore presso
la scuola e presso il centro salesiano stesso. Grazie
a Dio sono riuscito a entrare nel progetto in modo
che possa costruirmi una formazione orientata alla
realizzazione dei miei sogni!”
Gli abbiamo chiesto che cosa significhi per lui
prendere parte a questo progetto, sentirsi coinvolto
e ci ha risposto: “Per me significa darsi, dare un
contributo, ma in modo positivo, educato, soprat-
tutto responsabile”.
António ci racconta qual è il suo progetto di vita e
come si vede tra qualche anno, quando avrà termi-
nato gli studi e appreso un mestiere. La sua priorità
è acquisire uno spazio per la produzione, immettere
i suoi prodotti sul mercato formale, ma ciò che più
colpisce è il pensiero che rivolge agli altri ragazzi che,
come lui, si ritroveranno nelle sue stesse difficoltà e
dice: “Voglio aiutare i più bisognosi come il Centro
salesiano ha fatto con me e con i miei compagni”.
È certo che i salesiani di Calulo e questo progetto
possano aiutarlo a realizzarlo, ma sottolinea quanto
importante sia la fiducia in se stessi: “Basta ave-
re fiducia in noi e continuare a sostenerci perché
grazie a Dio abbiamo formatori molto competenti
e responsabili; quindi, con i loro insegnamenti riu-
sciamo a non deludere chi ci sostiene”.
Ritorna la consapevolezza di essere corresponsabili
e non soltanto fruitori di iniziative individuate fuori
dal contesto locale, tanto da scoprire risorse inaspet-
tate come la passione per l’agronomia e per la propria
terra, da valorizzare e da proteggere, grazie alle nuo-
ve competenze e conoscenze date da un corso forma-
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AGRICOLTURA PER LA VITA E SDGS (Sustainable Development GoalS)
Con il progetto Agricoltura per la vita di Calulo, in Angola, la Fondazione DON BOSCO NEL MONDO aderisce all’Agenda 2030 introdotta dagli
Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per la protezione della salute, del clima e dell’ambiente e per la riduzione delle disuguaglianze.
Obiettivo 3 • Salute e benessere • Garantire una vita sana e pro-
muovere il benessere di tutti a tutte le età.
Obiettivo 4 • Istruzione di qualità • Garantire un’istruzione di
qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendi-
mento continuo per tutti.
Obiettivo 5 • Equità di genere • Raggiungere l’uguaglianza di ge-
nere ed emancipare tutte le donne e le ragazze.
Obiettivo 6 • Acqua pulita e servizi igienco-sanitari • Garan-
tire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle
strutture igienico-sanitarie.
Obiettivo 7 • Energia pulita e accessibile • Assicurare a tutti l’ac-
cesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni.
Obiettivo 10 • Ridurre le disuguaglianze • Ridurre l’inegua-
glianza all’interno di e fra le Nazioni.
Obiettivo 11 • Città e comunità sostenibili • Rendere le città e
gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili.
Obiettivo 13 • Lotta contro il cambiamento climatico • Promuo-
vere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico.
Obiettivo 15 • La vita sulla terra • Proteggere, ripristinare e favo-
rire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre.
tivo aperto a molte speranze e che stimola la curio-
sità nei confronti dell’ecologia e del clima non solo
a Calulo, in Angola, ma in altri pae­si e continenti.
Alla domanda: “Come credi che cambierà la tua
vita, prendendo parte al progetto Agricoltura per
la vita?” António risponde: “La mia vita cambierà,
ne sono certo, miglioreranno le mie condizioni di
vita, come le mie competenze e potrò inserirmi nel
mercato del lavoro con i miei prodotti. Non c’è ab-
bastanza cibo… il mio obiettivo è anche quello di
cambiare non solo la mia vita ma anche quella degli
altri e di chi ne ha più bisogno”.
IRENE AMÉLIA ADÃO FILIPE, 18 anni
«Tanti sono i progetti che voglio realizzare nella vita»
I rene ha 18 anni ed è una delle ragazze inse-
rite nel progetto Agricoltura per la vita di cui
è venuta a conoscenza tramite il passaparola.
Essendone molto interessata, ha chiesto ai
salesiani di Calulo se quel corso in agricoltura di
base ci fosse davvero. Alla risposta affermativa si è
immediatamente iscritta, lasciando da parte alcune
resistenze.
“Per me partecipare significa fare qualcosa di buo-
no, acquisire conoscenze sull’agricoltura e svilup-
parle ulteriormente per diventare una buona agro-
noma e per imparare di più sulla vita”; con queste
parole Irene ci ha raccontato quanto importante sia
per lei avere un’opportunità formativa, un’opportu-
nità per la sua stessa vita, per raggiungere i suoi
obiettivi e andare avanti, non soltanto con il corso
in Agricoltura di base, ma anche per quelli in pro-
gramma per i livelli formativi successivi.
“Tanti sono i progetti che voglio realizzare nella vita
e non voglio fermarmi nell’acquisire conoscenze sem-
pre più importanti”, ci racconta Irene con
determinazione e consapevolezza. E ogni
giorno sperimenta quanto i salesiani siano
attenti e presenti, affinché questi progetti
si realizzino per lei e per tutte le giovani e
i giovani che intendono creare le proprie
fattorie, i propri orti in cui poter produrre
in maniera sostenibile e autonoma.
Le risorse che sta scoprendo di sé Irene grazie a
questo progetto sono la passione per l’agronomia
e il buon uso che ne sta facendo per curare la sua
terra, per creare le sue colture e per produrre i suoi
prodotti con cui rifornire il mercato locale, a volte
non arricchito da tutti quei prodotti di cui la comu-
nità di Calulo ha bisogno.
Anche la vita di Irene sarà profondamente trasfor-
mata dalla partecipazione al progetto Agricoltura
per la vita, potrà sostenersi, aiutare chi ha bisogno e
sentirsi libera di raggiungere condizioni di vita più
giuste e più gratificanti.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Ciò che ci fa umani
IL RISPETTO
Un serpente inseguiva una lucciola per divorarla. Il piccolo insetto faceva
l’impossibile per fuggire dal serpente, che la inseguì per giorni. A un certo
punto la lucciola, stanca ed esausta, si fermò e chiese al serpente: «Posso
farti una domanda, anzi tre?»
«Non sono abituato a rispondere a nessuno, ma dato che ti devo mangiare,
chiedi pure»
«Faccio parte della tua dieta?» «No».
«Ti ho fatto qualcosa di male?» «No».
«Allora perché vuoi mangiarmi?» «Perché non sopporto vederti brillare».
L a civiltà comincia con il rispetto. Solamen-
te così la dignità di un uomo, la bellezza
della natura o di un’opera d’arte possono
brillare nel loro splendore. Si tratta di un
atteggiamento conforme alla dignità dell’uomo. Ed
è incredibile: Dio, l’onnipotente creatore di tutto
ciò che esiste, rispetta la libertà dell’uomo!
Oggi consideriamo il rispetto anche come atteggia-
mento nei confronti di tutto ciò che è importante e
prezioso. C’è qualcosa che non è “disponibile” per
le creature, che non può essere “manipolato”. Tut-
to ciò che viene ed è di Dio è degno del massimo
rispetto. Per questo viene definito “sacro”. Spadro-
neggiare su tutto è proprio il contrario del rispetto.
1. Cominciamo da Dio
Il vero ambito del rispetto è dato dalla grandezza
e dal sublime che incontriamo in Dio e nella sua
creazione: il rispetto comincia infatti con la mera-
viglia di fronte alla grandezza e alla bellezza del
creato. Nell’Antico Testamento Dio è considerato
terribile (cfr. Sir 43,29) e anche il luogo in cui si fa
esperienza di Dio esige il nostro profondo rispetto.
Quando Giacobbe si sveglia dal sogno della scala
celeste, reagisce così: «Ebbe timore e disse: “Quan-
to è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa
di Dio, questa è la porta del cielo”» (Gen 28,17). In
ultima analisi, dunque, il rispetto è sempre rispetto
per il sacro. E sfocia nell’adorazione: lascio che Dio
sia Dio, non me ne servo per i miei scopi. Gesù
ci esorta a questo rispetto per il sacro con parole
provocatorie: «Non date le cose sante ai cani e non
gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non
le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per
sbranarvi» (Mt 7,6).
2. La natura e le cose
Albert Schweitzer ha fatto del «rispetto per la vita»
il cardine della sua etica: per lui il senso di ogni
etica è avere rispetto per la vita e rendere giustizia
al mistero della vita, preservandola. Il rispetto per
la vita è per lui la ragione ultima del rispetto e della
salvaguardia del creato, e questo conduce poi anche
al rispetto per l’essere umano, non soltanto per i
grandi uomini, ma anche per le persone umiliate
e ferite.
3. Ogni persona è sacra
Rispettare è saper “guardarsi intorno”, capire
che non siamo soli. Se ti rispetto vuol dire che ti
vedo, che esisti e ti accetto. Rispetto e conside-
razione sono strettamente legati. Il rispetto è un
sentimento di stima, fiducia, di riconoscimento
dei diritti, verso una persona. Si dimostra attra-
verso l’empatia, accettare l’altro nella sua unicità e
diversità, di opinioni e pensieri. A volte tutto ciò
può venir meno e vi è una mancanza di rispetto che
genera a sua volta un vissuto emotivo di rabbia.
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APRILE 2024

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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La tolleranza alla mancanza di rispetto varia da
persona a persona. Il rispetto si può mostrare an-
che nella vita di tutti i giorni attraverso le due virtù
della stima e della cortesia.
Invece ai nostri giorni c’è la smania di insinuarsi
nel mistero di ogni essere umano e di far conosce-
re al mondo intero tutto ciò che fa nella sua vita
privata. È la smania di banalizzare tutto quanto.
Vogliamo insinuarci in ogni cosa, impossessarci di
tutto. Il rispetto ha sempre a che fare con il mi-
stero. E non si tratta solo di vedere, ma anche di
ascoltare. Il rispetto non esiste se non sappiamo
porgere orecchio a ciò che gli altri dicono. Questo
è tutt’altro che facile, soprattutto al giorno d’oggi,
nella “società del rumore”.
4. Rispetto per se stessi
Il rispetto è la considerazione che nutriamo nei con-
fronti di altre persone ma non solo, prima di tutto
bisogna imparare ad avere rispetto di se stessi. Se
vuoi farti rispettare, devi partire da te e nutrire una
buona autostima. Tante madri, “votate” totalmente
alla loro famiglia, dimenticano che su chi si fa zer-
bino gli altri si puliscono i piedi. Spesso le persone
troppo disponibili, sottomesse e che dicono sempre
“sì” annullandosi, sono poco considerate.
Come pretendere rispetto? Il rispetto non va dato
per scontato ma coltivato giorno dopo giorno, con
gentilezza e reciprocità. Esigere il rispetto a tut-
ti i costi, con l’imposizione, la sopraffazione
è esso stesso mancanza di rispetto. Quindi
ricordiamoci, prima di volerlo per forza,
offriamolo agli altri, conquistando la loro
stima e la loro fiducia.
mente del male che si fa ai bambini? Quanti sono
quelli che si pongono in genere consapevolmente
il problema delle deleterie impressioni che creature
ancora moralmente indifese ricevono da riviste, dal
cinema, dalla radio e dalla televisione? Dice dunque
Gesù: State attenti, «perché i loro angeli contempla-
no sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».
Dietro il bambino inerme sta la vigilanza dell’angelo
che vede la santità di Dio. Ora, ciò che vale per il
bambino vale per tutti gli indifesi.
L’uomo bencreato ha rispetto della grande persona-
lità, dell’opera grande, ma anche dell’essere umano
indifeso, dell’inesperto, del debole, del sofferente e
dell’oppresso. Segno di montante barbarie è il fatto
che la sventura venga offerta in pasto al pubblico
e resa sensazionale attraverso la informazione vi-
siva o audiovisiva degli illustrati e del cinema. Il
sentimento dell’uomo fornito di dignità davanti al
dolore e alla miseria umana è: Via le mani!
Solo il rispetto può sanare
le ferite di questo mondo.
5. I piccoli, i deboli, le donne,
gli anziani
Ricordiamo come Gesù parla dei bambini e del
«Guai a voi» che Egli pronuncia contro quelli che
faranno del male alla loro anima (Mt 18, 6 ss.).
Oggi tale rispetto è stato in gran parte dimenticato.
Quanti sono quelli che si preoccupano ancora seria-
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2.2 Page 12

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SALESIANI
Vaclav Klement
Padre Lingoane
TLAILE Responsabile della
comunità del Lesotho.
A ttraverso l’istru-
zione, la forma-
zione professio-
nale e il sostegno
olistico, i Salesiani dell’afm
svolgono un ruolo cruciale nell’aiutare i giovani a
costruire una solida base per il loro futuro.
Com’è nata la sua vocazione?
Chi l’avrebbe mai detto che sarei stato chiamato ad
essere salesiano? Sono nato in un paese di oblati, in
un ambiente di oblati e con un parroco di oblati, è
chiaro che l’influenza della mia vocazione era orien-
tata verso gli oblati. Perché non un oblato, allora?
Maria Immacolata e Bartolomeo Garelli (io sarei
Garelli) forse sono un fattore comune ai Salesiani di
Don Bosco e agli Oblati di Maria Immacolata.
Da giovane ero molto interessato a servire la Chiesa
a livello parrocchiale e a impegnarmi attivamente
in ogni modo possibile, ma non pensavo molto alla
vocazione religiosa (in fondo pensavo che i religiosi
fossero solo suore e che se sei maschio puoi essere
solo un prete e un prete per me era solo un oblato
senza alcuna idea di carismi diversi). Nel 2000, ho
colto l’occasione per accompagnare un mio amico
in una parrocchia sconosciuta a Leribe, a San Luca.
Non era ancora chiaro che cosa avrebbe significato,
tuttavia non era un problema per noi andare nei
fine settimana come chierichetto per qualsiasi cosa
a sfondo religioso.
Era la prima volta che sentivo parlare di Salesiani,
la prima volta che vedevo un sacerdote indiano (don
Joy) e la prima volta che mi divertivo con sacerdoti
e fratelli, la prima volta che mi trovavo in un orato-
rio! Era circa marzo o aprile a St Lukes Maputsoe.
Sebbene fossimo una trentina di persone, potevo
sentire un approccio personale da parte dei sale-
siani e dei novizi di quella comunità. Tuttavia, non
ero convinto che i Salesiani fossero religiosi preti
cattolici. Il loro approccio sembrava essere così per-
sonale e amichevole e io non ero abituato a questo
tipo di approccio da parte dei sacerdoti. Dopo aver
scritto le nostre storie personali basate sul sogno di
don Bosco all’età di nove anni, ognuno di noi ha
avuto una chiacchierata personale con don Jona-
than Daniels. Non aspettandomi che ciò accadesse,
ho scritto alcune cose che non avrei scritto se aves-
si saputo che sarebbero state lette. Tuttavia, sono
andato anche perché ci andavano tutti e temevo
che avrebbero indovinato quello che avevo scritto
se non avessi voluto incontrare don Jonathan. Con
mia grande sorpresa! Mi sono sentito a casa, in
pace, amato e accettato così com’ero.
Lasciai il seminario senza sperare di tornarci, per-
ché sentivo che tra i partecipanti c’era solo il mio
amico e che ero nuovo in un ambiente del genere.
Un’esperienza entusiasmante
Tuttavia, il tocco personale salesiano continuò quan-
do, qualche mese dopo, ricevetti una lettera che mi
invitava a partecipare a un secondo workshop di po-
chi selezionati dal primo. Lo presi come un errore
e chiamai la missione per rimediare. Non era così!
Non stavano guardando a ciò che pensavo. Dopo il
secondo seminario, svoltosi in ottobre, ho iniziato a
riflettere e a considerare seriamente la vita salesia-
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2.3 Page 13

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na. A novembre don Jonathan mi disse che ero sta-
to accettato nel pre-noviziato per l’anno 2002. Egli
fece nuovamente visita alla mia famiglia spiegando il
processo di discernimento che avrei iniziato con i sa-
lesiani. Nel gennaio 2002 ho iniziato il prenoviziato
a Benoni; nel 2003 il noviziato e la prima professione
come salesiano; nel 2004 ho seguito la formazione
iniziale salesiana a Città del Capo, mi sono trasferito
in Tanzania e nel 2007-2009 ho vissuto un’entusia-
smante esperienza religiosa salesiana pratica nell’I-
spettoria italiana del Nord Est (vicino a Venezia)
dove ho fatto la mia professione finale come salesia-
no, imparando la lingua e la cultura italiana prima di
iniziare la mia teologia a Roma. Sono stato ordinato
diacono nel giugno 2013 a Roma e sacerdote salesia-
no nel luglio 2015 nella mia parrocchia di origine a
Maseru, in Lesotho. Sono tornato a Roma per com-
pletare la licenza in pastorale giovanile.
Com’è stata la sua crescita vocazionale
salesiana?
La mia crescita vocazionale in questi anni è stata se-
gnata da un rinnovato senso di empatia, da una spiri-
tualità più profonda e da un profondo apprezzamento
per la missione salesiana nella vita dei giovani. Ha
riaffermato la mia dedizione a camminare accanto ai
confratelli, ispirando e guidando i giovani con amore
e compassione, anche nelle circostanze più difficili.
Gli ultimi quattro anni non solo hanno plasmato la
mia vocazione salesiana, ma hanno anche alimen-
tato la mia passione e il mio impegno per elevare
la vita dei giovani, anche in mezzo alle incertezze
e alle difficoltà causate dalla pandemia. È stato un
periodo di immenso apprendimento, di crescita e
di rafforzamento del senso del mio cammino come
salesiano di don Bosco.
stenuti dai Salesiani di Don Bosco. Mi ha permes-
so di testimoniare in prima persona l’impatto della
nostra missione e il potere trasformativo del nostro
lavoro all’interno dell’Ispettoria. Attraverso questo
viaggio, ho scoperto l’immensa importanza dell’em-
patia, della compassione e dell’incrollabile dedizione
al servizio dei giovani e degli emarginati, riecheg-
giando i valori fondamentali di don Bosco stesso.
Il tempo trascorso nel Consiglio provinciale ha an-
che portato alla luce il significato di costruire rela-
zioni significative con i confratelli, promuovere un
senso di appartenenza e infondere speranza nelle
vite di coloro che animiamo. Ha riaffermato la mia
convinzione del profondo impatto dell’educazione,
del tutoraggio e della guida nel coltivare il poten-
ziale di ogni singolo confratello.
Queste esperienze hanno gettato nuova luce su ciò
che significa vivere e respirare lo spirito salesiano,
ispirandomi a portare avanti l’eredità di don Bosco
e sempre con rinnovata passione e comprensione.
È stato un viaggio di scoperta, di crescita e di pro-
fondo apprezzamento per la vita e la missione sa-
lesiana, e sono per sempre grato per le inestimabili
lezioni che ha portato nella mia vita.
Padre
Lingoane
con i suoi
magnifici
“clienti”.
Dopo 6 anni di permanenza nel Consiglio
ispettoriale, che cosa ha imparato sulla
missione salesiana?
Far parte del Consiglio ispettoriale mi ha permesso
di comprendere più a fondo i valori e i principi so-
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2.4 Page 14

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SALESIANI
Che cosa rimpiange del suo ministero di
delegato per la pastorale giovanile?
Riflettendo sui miei quattro anni come delegato
per la pastorale giovanile, compreso l’impatto im-
pegnativo dei due anni di Covid 19, non posso fare
a meno di riconoscere che non è stato privo di dif-
ficoltà. Ci sono momenti in cui avrei voluto fare di
più e ci sono alcuni aspetti che rimpiango.
Uno dei più grandi rimpianti che porto con me è la
sensazione di non essere stato in grado di entrare in
contatto con tutti i giovani e di sostenerli nel modo
in cui speravo. Le restrizioni imposte dalla pandemia
hanno posto ostacoli significativi alla promozione di
interazioni personali significative e al coinvolgimen-
to dei giovani nei modi che avevo previsto. È anche
scoraggiante pensare che alcuni individui non abbia-
no avuto l’opportunità di ricevere la guida, il tuto-
raggio e il sostegno che meritavano durante il mio
periodo come delegato per la pastorale giovanile.
Mi rammarico anche di non aver potuto realizzare
alcuni progetti e iniziative che io e l’équipe della
pastorale giovanile avevamo pianificato con passio-
ne per il bene dei giovani. Le incertezze e le inter-
ruzioni causate dalla pandemia hanno presentato
sfide impreviste che hanno influito sulla realizza-
zione di questi sforzi.
Tuttavia, nel mezzo di questi rimpianti, riconosco
anche la resilienza e la capacità di adattamento che
sono emerse durante questo periodo. Anche se non
si è trattato di circostanze ideali, sono orgoglioso
del modo in cui, insieme all’équipe della pastorale
giovanile, ci siamo adattati e abbiamo trovato solu-
zioni innovative per continuare a fornirci sostegno
e guida reciprocamente attraverso le visite nelle re-
gioni, anche di fronte a sfide senza precedenti.
Per il futuro, mi impegno a imparare da questi
rimpianti e a usarli come catalizzatori per cresce-
re e migliorare. Sono determinato a continuare a
difendere i bisogni dei giovani e a cercare di creare
opportunità significative per il loro sviluppo perso-
nale e spirituale, indipendentemente dagli ostacoli
che possono presentarsi.
Il suo sogno per i Salesiani
della Viceprovincia AFM?
Il mio sogno per i Salesiani dell’afm è quello di
creare comunità fiorenti in cui i giovani si sentano
responsabilizzati, sostenuti e ispirati a realizzare il
loro pieno potenziale. Immagino una rete vibrante
di comunità salesiane che servano come fari di spe-
ranza, fornendo istruzione, tutoraggio e alimen-
tando nuove vocazioni.
In questo sogno, i Salesiani dell’afm sono profon-
damente radicati nella vita dei giovani, offrendo
guida, amore e sostegno a coloro che possono tro-
varsi ad affrontare sfide o avversità. Queste comu-
nità salesiane servono come rifugi sicuri, promuo-
vendo un senso di appartenenza e dotando i giovani
delle competenze e delle conoscenze necessarie per
prosperare in un mondo in rapido cambiamento.
Sogno comunità in cui i Salesiani siano visti come
custodi della speranza, guidando i giovani verso un
percorso di scoperta di sé, resilienza e responsabiliz-
zazione. Attraverso l’istruzione, la formazione pro-
fessionale e il sostegno olistico, i Salesiani dell’afm
svolgono un ruolo cruciale nell’aiutare i giovani a
costruire una solida base per il loro futuro.
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2.5 Page 15

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In definitiva, il mio sogno è che i Salesiani di afm
siano catalizzatori di cambiamenti positivi, colti-
vando una generazione di leader compassionevoli,
responsabili e visionari, che a loro volta avranno un
impatto sulle loro comunità e oltre, come “buoni
cristiani e onesti cittadini”. Il sogno è quello di col-
tivare un’eredità di speranza, amore e opportunità
per i giovani dei regni di eSwatini, Lesotho e Re-
pubblica Sudafricana.
Quali sono le cause che le stanno a cuore?
Le cause che mi stanno a cuore sono davvero si-
gnificative per me e riflettono i miei valori e le
mie aspirazioni più profonde. Lavorare con Radio
Veritas è stata un’esperienza profondamente gra-
tificante, perché credo nel potere della comuni-
cazione di ispirare, educare e mettere in contatto
le persone su una scala più ampia. È incredibile
far parte di una piattaforma che amplifica le voci,
offre una guida e diffonde messaggi di speranza
e positività. Questa piattaforma ha effettivamente
avuto un impatto sulla promozione del volontaria-
to e dell’animazione vocazionale salesiana.
Guidare i volontari mi sta molto a cuore. Credo
fermamente nell’impatto del volontariato e nel
potere trasformativo del servizio disinteressato. È
un onore sostenere e guidare i volontari, aiutarli a
incanalare la loro passione e le loro capacità verso
iniziative significative e assistere al cambiamento
positivo che apportano alle comunità che servono.
A sua volta, guidare i volontari è diventato un pro-
gramma di animazione vocazionale.
Anche l’animazione vocazionale occupa un posto
speciale nel mio cuore. Nutrire e guidare le persone
nel loro percorso vocazionale è una responsabilità
profondamente appagante. Mi dedico a ispirare e
ad accompagnare gli altri nel discernimento delle
loro chiamate e nell’esplorazione dei loro percorsi,
credendo nell’importanza di sollevare e potenziare
coloro che stanno intraprendendo le loro vocazioni
significative.
Queste cause risuonano in me a livello personale in
quanto, dopo la Scuola di Pastorale Giovanile, si
allineano con le mie convinzioni fondamentali di
servizio, guida e potenziale di cambiamento positi-
vo. Riflettono i valori e i principi che mi sono cari
e sono incredibilmente appassionato nel contribuire
a queste cause in ogni modo possibile. “Aiutare i
giovani a scoprire la loro vera vocazione nella vita,
in cui saranno felici e porteranno felicità anche agli
altri”.
Il momento
dell’Ordinazione.
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2.6 Page 16

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LE CASE DI DON BOSCO
Sarah Laporta
Il segreto del
BORGO RAGAZZI
Don Bosco
«Chi si reca al Borgo per una
breve visita, si accorge subito di
trovarsi in un ambiente dove la
vita salesiana è vissuta da mattina
a sera, come in tante altre opere
salesiane. Però si nota qui qualcosa
di singolare che rende il Borgo
diverso da tutti gli altri istituti».
Gli inizi di
un’opera
straordinaria.
Storia
La situazione dei bambini e dei ragazzi nel dopo-
guerra era particolarmente drammatica, vista la
scarsità di beni di prima necessità e le distruzioni
causate dalla guerra.
Erano molti i bambini ed i giovani che all’epoca si
erano ritrovati soli: chi abbandonato e chi figlio di
una famiglia troppo numerosa per poter badare ai
figli ormai autonomi. Inizialmente, i primi ragazzi
di strada, gli “sciuscià”, furono accolti vicino alla
Stazione Termini, in via Marsala.
Ben presto, però, lo spazio divenne insufficiente e
si rese necessaria la ricerca di un luogo più capiente.
76 anni fa, nella primavera del 1948, i salesiani di
Roma guidavano una carovana di ragazzi che da via
Marsala si spostava lungo via Prenestina fino ad ar-
rivare a popolare quei cortili e quei capannoni che
ancora oggi accolgono, educano e danno attenzione
a centinaia di minori bisognosi e a rischio. Da quel
momento nasceva il “Borgo dei Ragazzi di Don Bo-
sco”, una piccola città in cui i ragazzi e le loro esigen-
ze di crescita erano al centro dell’attenzione e della
cura di tanti salesiani e di tante persone.
Il Borgo oggi
Sebbene il contesto sociale e culturale sia profon-
damente cambiato rispetto agli anni del dopoguer-
ra, ancora oggi, persistono situazioni di disagio e
precarietà che colpiscono soprattutto i giovani che
risiedono nel quadrante est della Capitale.
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2.7 Page 17

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È per questo che i Salesiani hanno
deciso di rilanciare la vocazione
originaria del Borgo rinnovando i
propri servizi: la Parrocchia è stata
inglobata dalla vicina Sant’Ireneo
(2006), le scuole secondarie hanno
lasciato il posto al potenziamento
del Centro di Formazione Professionale ed è stata
creata un’area ad hoc “Rimettere le Ali”, che offre
servizi ai ragazzi che si trovano in situazione di
disagio ed emarginazione sociale; l’Oratorio-
Centro Giovanile ha ampliato la sua offerta ludico-
sportiva e formativa.
Oggi, come allora, si creano relazioni significative
che promuovono la vita dei ragazzi in difficoltà e di
coloro che hanno bisogno di una cura particolare e
che non trovano, altrove, risposte adeguate.
“Il Borgo Ragazzi Don Bosco ha come suoi obiet-
tivi quelli di: (1) Accogliere, partendo dalle radici
cristiane, chiunque abbia bisogno di un supporto
educativo, al di là del proprio credo, della situa-
zione economica o della cultura di appartenenza;
(2) Progettare un percorso educativo e formativo
ad hoc per ogni ragazzo, al di fuori di ogni format
educativo massificato, creando un’armonia tra gli
strumenti educativi propri al Borgo Ragazzi don
Bosco; (3) Co-responsabilizzare, alla presa in ca-
rico dei minori in difficoltà, il contesto territoriale
in cui il Borgo opera, attraverso percorsi di sensi-
bilizzazione, formazione e sostegno di animatori,
educatori, famiglie, aziende ed istituzioni.”
TRE DOMANDE
AL DIRETTORE
Don Daniele Merlini
Che cosa le dà maggiori
soddisfazioni?
Fortunatamente le soddisfazioni sono tante e con-
tinue e i doni riconoscibili che il Signore concede
sono innumerevoli. Se ne dovessi scegliere alcuni
direi che in questi anni come Direttore del Borgo
ho davvero visto continuamente all’opera la Prov-
videnza di Dio, in molti modi: aiuti economici che
arrivano da diverse fonti pubbliche e private, anche
insperate, quando c’è la necessità perché altrimen-
ti non si sa come andare avanti nelle attività con
i ragazzi e sempre nella misura in cui è bastante
per quell’attività, né di più né di meno; aiuti e so-
stegni umani che offrono e scelgono di mettersi a
disposizione in quel momento e per quel ragazzo
che ha proprio bisogno di quella presenza e di quel
tempo. Davvero ho potuto sperimentare le parole
di Gamaliele nel Sinedrio: “… se quest’opera viene
da Dio, non riuscirete a distruggerla”.
In questi anni ho conosciuto tanti giovani con sto-
rie complicate e dolorose, con ferite e solitudini
molto grandi: una grande soddisfazione è vede-
re una intera comunità educativo-pastorale che si
mette al servizio delle vite di questi ragazzi, che
con loro prova a trovare vie d’uscita a situazioni
quasi disperate, che prova a sognare e a far sognare
a questi ragazzi un futuro bello e possibile, che si fa
compagna di viaggio e di speranza e… compie tan-
te volte miracoli, affidandosi al Signore che usa le
nostre mani e le nostre gambe! Ebbene sì, in questi
anni ho visto tanti miracoli, ragazzi arrivati stanchi
e delusi che hanno ritrovato speranza e voglia di
vita e di futuro; ragazzi che erano arrivati da noi
con un indice puntato addosso di riprovazione che
si sono riscattati e sono divenuti risorsa per sé, per
la propria famiglia e per la società civile.
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2.8 Page 18

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LE CASE DI DON BOSCO
«Ho conosciuto
tanti giovani
con storie
complicate
e dolorose,
con ferite
e solitudini
molto grandi:
una grande
soddisfazione
è vedere una
intera comunità
educativo-
pastorale che si
mette al servizio
delle vite di
questi ragazzi,
che con loro
prova a trovare
vie d’uscita».
Infine è una grande soddisfazione lavorare insieme
salesiani e laici condividendo appieno gioie e dolo-
ri, responsabilità e soddisfazioni. Non mi sono mai
sentito solo nel compito di Direzione di quest’ope-
ra, anche nelle decisioni più difficili e complesse,
perché sempre tali decisioni sono state prese dopo
adeguato tempo di discernimento comunitario e
sempre con la volontà di convergere sulla cosa più
giusta da fare. Penso che questa modalità sia la
modalità gestionale del futuro per le nostre opere:
salesiani e laici, insieme, con le proprie professio-
nalità e responsabilità, mossi da stima reciproca e
da un grande amore per i giovani che si mettono in
ascolto della voce di Dio e insieme aprono strade di
salvezza per i giovani.
Come sono i ragazzi
e i giovani che frequentano
l’opera?
Sono tanti e diversi i ragazzi e i
giovani che frequentano il Borgo
Ragazzi Don Bosco come tanti e
diversi sono gli spazi e le attività
per loro. Generalmente sono ra-
gazzi della periferia romana con i
loro sogni e le loro attese. Hanno
bisogno che qualcuno li ascolti e
che dia loro speranza perché pur-
troppo il clima sociale e cultura-
le in cui viviamo tende a livella-
re verso il basso le loro aspettative e specialmente
l’ambiente digitale fa balenare davanti ai loro occhi
una vita di facili guadagni senza impegno ma che
alla prova della realtà non regge.
Ci sono tanti ragazzi che arrivano al Borgo, in
genere dalla periferia est di Roma, per frequen-
tare i corsi di formazione professionale in mecca-
nica, elettricità e ristorazione dopo aver concluso
le medie. In tre o quattro anni vengono avviati ad
una professione che li rende capaci di inserirsi nel
mondo del lavoro. Sono italiani e stranieri, alcuni
di seconda o ormai terza generazione (quindi non
più “stranieri”) e giornalmente trovano persone che
li accompagnano ad essere uomini e donne di do-
mani con un ruolo attivo nella società.
Ci sono ragazzi che vengono inviati al Borgo dai
servizi sociali e vengono accolti nella Casa Fami-
glia o in altri servizi di prevenzione e contrasto del
disagio e della devianza minorile. La Casa Fami-
glia accoglie ad oggi dieci tra ragazzi e ragazze che
vivono al Borgo insieme ai salesiani e ad operatori
che si prendono cura di loro. Altri ragazzi inviati
dai servizi ma anche dal Tribunale dei Minori per
la loro messa alla prova sono quelli che frequen-
tano il Centro Accoglienza Minori, uno dei fiori
all’occhiello della nostra opera. Qui ragazzi che
hanno compiuto 16 anni e generalmente in disper-
sione scolastica, in ritiro sociale o in altre situazio-
ne non ben individuate nemmeno dalle istituzioni,
possono accostarsi a corsi “pensati per loro” e otte-
nere il diploma di scuola media, frequentare corsi
professionalizzanti di diversa lunghezza e di vario
tipo: parrucchieri e barbieri, giardinieri, camerie-
ri e cuochi, pizzaioli, muratori, panettieri, baristi,
ecc… e poi, accompagnati attraverso uno sportello,
prepararsi ad entrare nel mondo del lavoro stilando
un curriculum, preparandosi ad un colloquio di la-
voro, facendo tirocini e stage. E mentre si insegna
loro un lavoro, il compito più importante è educarli
ad avere speranza e a ritrovare fiducia nella vita,
quella vita che spesso li ha derubati e ha offerto
loro poco.
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2.9 Page 19

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Ci sono poi tantissimi ragazzi e giovani che fre-
quentano l’oratorio centro giovanile, per giocare,
per ritrovarsi con amici nel tempo libero, per cre-
scere con loro nei gruppi formativi e nel servizio,
per maturare una loro esperienza di fede e di impe-
gno ecclesiale, per svolgere il loro anno di servizio
civile, per svolgere il loro tirocinio formativo come
educatori o psicologi nei nostri servizi educativi.
Tutti questi ragazzi e giovani sono la vera ricchezza
del Borgo Ragazzi Don Bosco, la vera ragione della
sua esistenza e lo scopo per cui tutta una comuni-
tà educativo pastorale vive, si forma, prega e opera
instancabilmente tutti i giorni per il loro bene e la
loro salvezza, con don Bosco ogni giorno ripetia-
mo: “Basta che siate giovani perché io vi ami assai”.
Come vede il futuro dell’opera?
Prima di tutto il futuro del Borgo lo vedo in con-
tinuità con il presente e con la sua storia ossia al
servizio dei giovani più poveri: il Borgo nasce con
questa vocazione e oggi porta orgogliosamente
avanti questa missione nei mutati scenari sociali e
pastorali, sono convinto che il futuro sarà ancora
segnato da questa attenzione alle povertà giovani-
li, qualunque essere siano, perché c’è una comunità
educativo-pastorale attenta a captare e recepire le
nuove povertà e a provare a dare risposta alle ri-
chieste dei giovani. Ciò implica un continuo im-
pegno formativo professionale e spirituale ma mi
sembra che anche questa sensibilità non manchi e
dunque si può guardare avanti con fiducia.
Il Borgo sarà sempre di più un laboratorio di corre-
sponsabilità educativa e gestionale tra salesiani, lai-
ci impegnati con contratto di lavoro, laici volontari,
istituzioni e aziende che vogliono collaborare per il
bene dei giovani e della società. Già ora è in parte
così ma la “Fondazione Ragazzi di Don Bosco a
Roma”, istituita nel gennaio 2024, nasce proprio
con questa finalità specifica e guardando al futuro
con rinnovata fiducia, affinché le diverse povertà
giovanili possano essere affrontate dai diversi sog-
getti sociali riuniti dalla volontà di dare riscatto a
chi ha avuto dalla vita meno
possibilità.
Il Signore continuerà a benedi-
re quest’opera salesiana se essa
continuerà a portare avanti la
sua missione di riscatto verso i
giovani più poveri. E se lo farà
con le caratteristiche che han-
no segnato questi 76 anni di
storia salesiana qui al Borgo.
Come spesso accade, la lezio-
ne della storia ci aiuta e vorrei
concludere riportando le pa-
role di un confratello salesia-
no della prima ora, attivo qui al Borgo, don Luigi
Pace, economo dei primi anni ’50, che così scriveva:
“Chi si reca al Borgo per una breve visita, si accorge
subito di trovarsi in un ambiente dove la vita salesiana
è vissuta da mattina a sera, come in tante altre opere
salesiane. Però si nota qui qualcosa di singolare che ren-
de il Borgo diverso da tutti gli altri istituti. Qualcosa
che lo rende subito simpatico al visitatore, che se ne parte
ammirato e soddisfatto. […] Viene spontaneo doman-
darsi: qual è il segreto di questa vitalità? Quali sono gli
elementi che concorrono, oltre alla grazia del Signore e
al Sistema preventivo di don Bosco, a produrre frutti
così abbondanti di bene? Due elementi ci danno la sua
vera fisionomia: 1. Una modestia senza pretese; 2. Lo
spirito di famiglia che in esso regna”.
Dunque il futuro sarà garantito dalla grazia di Dio,
dalla pratica del Sistema Preventivo di don Bosco,
da una modestia senza pretese e dallo spirito di fa-
miglia!
Ci sono tanti
ragazzi che
arrivano al
Borgo, in genere
dalla periferia
est di Roma,
per frequentare
i corsi di
formazione
professionale
in meccanica,
elettricità e
ristorazione
dopo aver
concluso le
medie. In
tre o quattro
anni vengono
avviati ad una
professione.
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2.10 Page 20

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NUOVI SALESIANI
O. Pori Mecoi
Josef PREVOR
«Vengo dal centro geografico
della Repubblica Ceca. I miei
genitori avevano una fede
profonda e frequentavano
uno dei gruppi segreti guidati
da un salesiano».
Don Josef con
i suoi giovani.
Qual è la tua carta d’identità?
Sono salesiano. Ho 32 anni. Vengo dal centro geo­
grafico della Repubblica Ceca e ho vissuto la mia
giovinezza in campagna, si può dire quasi in mez-
zo ai boschi. Adesso studio teologia a Torino, alla
Crocetta.
Com’è la tua famiglia?
Ho una sorella più grande e tre fratelli. Io sono il
più piccolo. Mio padre lavorava come guardia fo-
restale, la mamma stava soprattutto con noi a casa.
Avevamo una piccola fattoria con tanti animali.
Chi ti ha raccontato per primo la storia
di Gesù?
I primi che mi hanno raccontato la storia di Gesù
sono stati i miei genitori. Avevano una fede profonda
e conoscevano la spiritualità di don Bosco. Mi ricor-
20
APRILE 2024

3 Pages 21-30

▲torna in alto

3.1 Page 21

▲torna in alto
do soprattutto la nostra preghiera della sera, al buio
con la candela nel centro e le storie di alcuni missio-
nari che ci leggeva mio padre prima di dormire.
Come hai conosciuto i salesiani?
Già i miei genitori si sono conosciuti dai salesiani.
Era ai tempi del comunismo, quando ai salesiani
era vietata ogni forma di attività. I miei genitori
frequentavano uno dei gruppi segreti guidati da
un salesiano. Dopo il matrimonio andarono ad
abitare in campagna in una casa nei boschi. E lì
si svolgevano i campi estivi organizzati in segreto
dai salesiani. Uno dei salesiani divenne un grande
amico della nostra famiglia. Ci visitava frequente-
mente anche se abitavamo lontano da un oratorio
salesiano. Così lui è diventato il mio confessore ed
accompagnatore spirituale. Riuscivo a partecipare
alle diverse attività organizzate dai salesiani.
Com’è nata la tua vocazione?
La vocazione cresceva in me piano piano. Divenne
più forte quando avevo 17 anni. Da quel momen-
to è iniziato il cammino del discernimento che è
durato circa 5 anni. Ho fatto anche un percorso
vocazionale dai salesiani e una esperienza missio-
naria come volontario in Bulgaria per un mese.
Nell’ultimo anno dell’università, ho sfruttato anche
la possibilità di abitare presso la comunità salesia-
na a Brno. Tutte queste occasioni mi hanno aiutato
a capire che cosa Dio vuole da me. Durante tutto
questo tempo di discernimento ho lasciato le porte
aperte per tutte le possibilità, dove Dio mi chia-
masse. Certo, mi sono anche innamorato, ma ho
scoperto dentro di me qualcosa ancora di più forte,
un desiderio, la vocazione religiosa, e sentivo che
non potevo fare altro che rispondere.
Qual è la tua situazione attuale?
Ho fatto un anno di prenoviziato in Repubblica
Ceca, noviziato e post noviziato in Slovacchia e
adesso sono già al terzo anno a Torino, dove stu-
dio teologia nel nostro istituto internazionale. È
un’occasione unica per conoscere confratelli prove-
nienti da tutte le parti del mondo. È una grande
ricchezza. In questo momento mi sto preparando
al diaconato. L’anno scorso ho fatto la professione
perpetua.
Come sono i giovani nella Repubblica
Ceca?
Come tutti gli altri giovani europei, ma se devo
dire qualche caratteristica speciale… forse direi che
da noi non c’è tanta povertà materiale, ma affettiva
sì. Tanti giovani vengono da famiglie che non
funzionano bene, spesso sono molto fragili e senza
orientamento nella vita.
Altra caratteristica del nostro paese è che è molto
secolarizzato. Tanti giovani non sanno più nean-
che cosa sia la chiesa oppure non gli interessa. La
Giovani
salesiani.
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3.2 Page 22

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NUOVI SALESIANI
«Offrire una
vera e autentica
spiritualità
senza paura
dell’evan­
geliz­zazione
anche esplicita,
ma con una
sensibilità
verso la società
contemporanea
è una vera
sfida».
povertà della fede è dal mio punto di vista la più
grande sfida per noi.
Quali sono le opere salesiane?
Le nostre opere sono molto diverse. Ogni centro
giovanile ha qualche specificità. Lavoriamo anche
con diversi gruppi di giovani: ragazzi della par-
rocchia, ragazzi dell’oratorio spesso non credenti,
ragazzi in difficoltà sociale, ragazzi zingari. So-
prattutto la sensibilità nei confronti dei giovani in
difficoltà sociale è abbastanza caratteristica nelle
nostre opere.
Quali sono i problemi che devi affrontare?
La nostra Ispettoria, secondo me, deve affrontare
alcune sfide decisive: trovare un giusto modo per
evangelizzare la nostra società e la pastorale delle
vocazioni. Sulla evangelizzazione penso che abbia-
mo bisogno di trovare il giusto equilibrio tra una
pastorale religiosa nelle parrocchie e il puro aiuto
sociale. Direi che nella nostra cultura secolarizza-
ta c’è sete per una spiritualità, ma c’è un sospetto
verso le istituzioni, compresa la Chiesa. Offrire una
vera e autentica spiritualità senza paura dell’evan-
gelizzazione anche esplicita, ma con una sensibilità
verso la società contemporanea è una vera sfida. A
questo riguardo direi che è necessario anche ripen-
sare le strutture dei nostri centri giovanili perché
corrispondano a questo scopo.
Altra sfida è la pastorale vocazionale. Come in tutta
l’Europa anche da noi c’è un calo di vocazioni. È ne-
cessario ripensare alla nostra identità. La nostra vita
attrae i giovani? Cosa possiamo offrire loro? Stiamo
utilizzando i giusti metodi per il discernimento vo-
cazionale? Sappiamo fare con efficacia la domanda
decisiva sul senso e il significato della vita?
Quali sono le tue più dolenti
preoccupazioni?
La più dolente preoccupazione è per me che tanti
giovani escono dalla chiesa. Questo succede per di-
versi motivi. A volte le famiglie non riescono a tra-
smettere la loro fede, a volte i giovani non trovano
il loro spazio dentro la Chiesa, a volte la causa è la
Chiesa stessa. Questa è la nota più dolente per me.
E i tuoi progetti e sogni per il futuro?
Non voglio costruirmi i grandi progetti. Vorrei che
i miei progetti fossero quelli di Dio. La situazione
nel nostro paese ci chiede sicuramente un attento
discernimento. Ma se devo dire il mio desiderio,
vorrei che le nostre case fossero proprio il luogo
dove i giovani possono trovare non solo un aiuto
sociale, psicologico oppure pedagogico, ma soprat-
tutto luogo dove possono incontrare Cristo.
Come vedi il futuro della Congregazione
nella tua Ispettoria e in Europa?
La situazione sarà sicuramente diversa rispetto ad
oggi. Questo porterà ad alcuni cambiamenti. Sare-
mo in meno, arriveranno i missionari dall’esterno
e certamente dovremo ripensare la nostra attività,
soprattutto il coinvolgimento dei laici nelle no-
stre opere. Dovremo abbandonare alcune opere.
Ma questo cambiamento non deve significare un
peggioramento. Conoscendo i confratelli, direi che
non siamo “in difesa”, ma ancora “all’attacco”.
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3.3 Page 23

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ENTRATE nel SOGNO
VENITE a
VALDOCCO
QUI CON VOI
MI TROVO BENE:
È PROPRIO LA MIA VITA
STARE CON VOI
DON BOSCO IV, 654
ACCOGLIENZA VALDOCCO
Via Maria Ausiliatrice 32 - 10152 TORINO
SITO WEB: basilicamariaausiliatrice.it
EMAIL: accoglienza@valdocco.it
TEL CENTRALINO: 011 52 24 1

3.4 Page 24

▲torna in alto
LA STORIA CONTINUA
Giampietro Pettenon
Un nuovo laboratorio
e le VITI DI DON BOSCO
Le viti “figlie”
delle medesime
piante di allora
ci donano la
stessa qualità
d’uva che don
Bosco con
soddisfazione
coglieva
dalle finestre
della galleria
al secondo
piano delle
Camerette.
Nel 1861 don Bosco procede all’amplia-
mento di casa Filippi e alla congiunzio-
ne di questo edificio con la nuova ala
dell’Oratorio e già l’anno successivo dà
inizio a due nuovi fabbricati ad uso degli artigiani.
Il primo edificio che costruisce nel 1862 è un sa-
lone con il soffitto voltato, di un solo piano fuori
terra, proprio in testa all’ala parallela alla chiesa
di San Francesco di Sales, per collocarvi provvi-
soriamente il laboratorio di tipografia. Poco dopo
diventerà il laboratorio della fonderia di caratteri
tipografici.
Solo nel 1876-77 verranno in-
nalzati i piani primo, destinato
ad infermeria dell’Oratorio, ed
il secondo che permetterà di
ampliare gli ambienti di vita di
don Bosco, con nuove stanze
accanto alla sua cameretta.
Questo edificio, ricco di fi-
nestre e con le caratteristiche
piante di vite rampicante, è
quello che oggi vediamo alle
spalle del monumento con la
statua di don Bosco nel cortile
di Valdocco, che ogni visitato-
re incontra quando entra nella
casa madre della Congregazio-
ne Salesiana.
A questo edificio è proprio le-
gata la tradizione delle viti e
dell’uva di don Bosco.
Il primo corpo di fabbrica del
1862 aveva il tetto a terrazza e
su questo don Bosco fece collocare dei grandi vasi
per piantarvi delle viti rampicanti. Quando circa
una quindicina d’anni dopo si decise di innalzare
i due piani superiori, sempre per espressa volontà
di don Bosco le viti vennero trapiantate a terra da-
vanti al fabbricato, dove ancora oggi esse fioriscono
e vivono.
Ad onor del vero, quelle odierne non sono le stesse
viti piantate da don Bosco. Sono però le viti figlie
delle primigenie. Le talee (tralci ripiantati) delle
medesime piante ci donano oggi la stessa qualità
d’uva che don Bosco con soddisfazione coglieva
dalle finestre della galleria al secondo piano delle
Camerette.
L’edificio in via della Giardiniera
Il secondo edificio a cui mette mano don Bosco il
19 giugno 1862 è un lungo corpo di fabbrica al con-
fine meridionale della sua proprietà, lungo tutta via
della Giardiniera, da adibire a nuovi e più spaziosi
laboratori per i suoi artigiani.
Il nuovo edificio, soppressa via della Giardiniera
soli tre anni più tardi, rappresentò un vero e pro-
prio ostacolo per molti anni a venire, nel dare ario-
sità e ampiezza al cortile principale di Valdocco.
Essendo questo in posizione diagonale rispetto a
tutti gli altri edifici che di anno in anno don Bo-
sco andava erigendo, formava due cortili di forma
irregolare, per lungo tempo destinati uno agli arti-
giani e l’altro agli studenti. Don Bosco stesso disse
ai primi salesiani che quell’edificio andava prima
o poi atterrato, ma non volle farlo lui stesso perché
disse, non tollerava di veder sprecato un dono che
la Provvidenza gli aveva fatto.
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Venne finalmente demolito negli anni 1912-14 per
volere del secondo successore di don Bosco – don
Paolo Albera – in occasione della costruzione del
nuovo edificio che accoglieva il Capitolo Superiore
della Congregazione Salesiana.
Segni del passato nelle sale
del museo
Abbiamo fin qui descritto quello che abbiamo tro-
vato durante il restauro del primo Oratorio costrui-
to in più fasi da don Bosco, nell’arco di una dozzina
d’anni.
È evidente che il piano interrato è quello che
meglio conserva la memoria del passato, grazie al
fatto che non fu continuativamente abitato e quindi
ristrutturato secondo le esigenze del momento.
Dal punto di vista architettonico, l’intervento che
più ha compromesso il recupero storico dell’edificio
è quello avvenuto negli anni ’70 del Novecento. In
quell’occasione si diede mano ad un consolidamen-
to statico dell’edificio, soprattutto al primo ospizio,
quello costruito nel 1853 che era anche crollato du-
rante la fase di costruzione.
I solai ed il tetto originali, in legno, sono stati so-
stituiti con nuovi solai parte in laterizio e parte in
lamiera grecata. Togliendo i primitivi solai, ovvia-
mente sono state demolite anche le tramezzature
interne che dividevano i diversi locali. Purtroppo
non è stato fatto un buon lavoro, dal punto di vista
tecnico.
In questa parte del fabbricato, nella fase di conso-
lidamento statico le maestranze avevano fretta…
ed hanno costruito il nuovo solaio sopra il prece-
dente. Quando abbiamo avviato i recenti lavori di
restauro, togliendo i controsoffitti ci siamo trovati
davanti a due solai. Quale dei due era portante?
Sicuramente quello più recente in laterizio. Ma
non avendo asportato il precedente in legno, forse
anche questo contribuiva a sostenere il carico? Per
non fare ulteriori errori e compromettere l’intero
edificio, i tecnici hanno deciso di operare per gradi.
Si è iniziato asportando da una sala le grosse travi
in legno di castagno, i travetti minori e il cannic-
ciato con l’intonaco di gesso. Si sono poi fatte le
prove di carico su parti con il doppio solaio e altre
dove quello ligneo era stato tolto, per capire se e
quanto questo originario solaio avesse ancora fun-
zione portante. Verificato che non aveva più alcuna
funzione, e che era stato lasciato al suo posto pro-
babilmente per risparmiare sui tempi di lavorazione
e sullo smaltimento, è stato del tutto asportato.
Una testimonianza, musealizzata a soffitto, del so-
laio ligneo si trova ora al primo piano del museo,
sulla sala a sinistra salendo dalla scala principale.
Una sorpresa nel recente lavoro di restauro è stata
di trovare anche un binario del tram di Torino con
L’evoluzione
delle camerette
di don Bosco
nel cuore di
Valdocco.
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3.6 Page 26

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LA STORIA CONTINUA
L’urna in legno
dorato che
trasportò il
corpo di don
Bosco – ormai
santo – da
Valsalice fino
alla basilica
di Maria
Ausiliatrice,
poggia su
quattro pietre
tonde (grandi
ciottoli di
fiume).
la funzione di trave portante, a testimonianza della
penuria di denaro e la fretta con cui don Bosco dava
mano alle sue opere edilizie dei primi tempi. Al
pari dei muri, che venivano eretti con ogni sorta di
materiale edile disponibile, così è stato anche per
il solaio.
Nell’ala del 1861, quella che ha collegato l’Oratorio
a casa Filippi, abbiamo trovato al primo piano il ri-
scaldamento a ipocausto con i canali che correvano
lungo il muro centrale di spina del fabbricato. La
caldaia in questo caso si trovava nel piano interrato,
sul retro della cantina.
Ne possiamo dedurre che molto probabilmente an-
che la camera di don Bosco era riscaldata con que-
sto sistema; purtroppo le tracce di questo impianto
di riscaldamento al secondo piano sono del tutto
mancanti perché qui i lavori di consolidamento
statico degli anni ’70 hanno addirittura sostituito
il solaio originale con uno in lamiera grecata. La
stessa tramezzatura che divide la camera di don
Bosco dall’attuale cappella – dentro il museo – è in
mattoni forati legati con malta cementizia, segno
evidente che non è più il muro originale del primo
fabbricato.
Lo stesso dicasi per la camera di mamma Marghe-
rita. Conosciamo la sua collocazione, ma non c’è
traccia storica di quella prima stanza al secondo
piano a cui si aveva accesso appena usciti sul balla-
toio e si svoltava a sinistra.
Un particolare da notare è che nel primo ospizio del
1853, al secondo piano quando si esce sul ballatoio,
la prima camera era quella di Mamma Margherita
e l’ultima in fondo al ballatoio quella di don Bosco.
Queste due presenze in posizione contrapposta mi
ricordano tanto le camerate dei convitti salesiani in
cui almeno due giovani salesiani erano assistenti
notturni, con un minimo di privacy garantita da
una tenda posta agli angoli contrapposti della gran-
de camerata.
In quei primi anni non c’erano ancora gli assistenti
salesiani che garantivano il presidio notturno degli
ambienti della casa. Mamma Margherita e don Bo-
sco sono stati i primi assistenti notturni!
Due ultimi segni, incisi sulla pietra, sono nell’o-
dierno museo la testimonianza del primo edificio.
Nella sala della gloria di don Bosco possiamo os-
servare che l’urna in legno dorato che trasportò il
corpo di don Bosco – ormai santo – dal suo pri-
mo riposo presso la cappella funeraria di Valsali-
ce fino alla basilica di Maria Ausiliatrice, poggia
su quattro pietre tonde (grandi ciottoli di fiume).
Sono questi massi di pietra, levigati nel tempo dal-
lo scorrere dell’acqua, quelli che abbiamo trovato
asportando una parte di muro del piano interrato.
Quei massi non erano semplici materiali di risulta
da smaltire in un cantiere in corso, ma vere e pro-
prie testimonianze del passato.
Raccolti dalla Dora e dalla Stura, portati dai ragazzi
fino a Valdocco per la costruzione della “loro” casa,
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essi rappresentano un segno ed un ricordo: dalle
umili origini fino alla gloria del Paradiso. Sono una
efficace visione plastica della definizione che si diede
di don Bosco: piedi ben saldi a terra e sguardo rivolto
al Cielo.
Sono il contributo che i ragazzi hanno dato alla
costruzione dell’opera di don Bosco, come quel
ragazzo che in riva al lago di Cafarnao ha messo
a disposizione la sua merenda: cinque pani e due
pesci. Su quei primi ciottoli di fiume è poggiata
l’enorme portata del carisma di don Bosco per la
chiesa e per il mondo.
Il secondo segno in pietra che troviamo al secondo
piano è la soglia originale, molto ben visibile nel
museo, che dal ballatoio dà accesso all’attuale an-
ticamera di don Bosco, che fu la sua prima camera
dal 1853 al 1861.
Varcare la soglia, quella soglia, non è una sempli-
ce operazione motoria di chi attraversa una porta.
Quella soglia è stata varcata per ventisette anni dal-
lo stesso don Bosco. Poi da Mamma Margherita,
da san Domenico Savio, da don Rua, dai primi sa-
lesiani, da migliaia di giovani, persone ricche e po-
vere, gente bisognosa di un consiglio ed autorità del
tempo. È varcando quella soglia che un gruppetto
dei giovani più vicini a don Bosco riceve l’invito a
farsi salesiani.
Il percorso di visita alle Camerette di don Bosco
ora, come nel 1927 quando si musealizzò questa
parte dell’Oratorio, porta il pellegrino a compiere
un percorso diverso e più funzionale alla visita, di
quello che invece compivano tutti coloro che chie-
devano udienza a don Bosco e andavano da lui per
un confronto, un consiglio, la confessione; per chie-
dere aiuto o per offrire un contributo alla sua opera
educativa.
Tutti questi, entrando all’Oratorio salivano dal-
la scala centrale i due piani di scale; uscivano sul
ballatoio antistante e voltando a sinistra, lo percor-
revano tutto fino all’ultima porta. Quella porta e
quella soglia si dovevano varcare, per incontrare
don Bosco.
Il refettorio voluto da don Rua
Entrando nel museo Casa Don Bosco, accanto alla
sala d’ingresso (che in origine – 1853 – era il primo
laboratorio dei calzolai) si apre sul retro una bella e
capiente sala destinata ad ospitare mostre tempora-
nee. Questo locale non fu costruito da don Bosco
ma dal suo primo successore, don Rua, nel 1905.
Lo volle come ulteriore refettorio per i salesiani, che
crescevano sempre più di numero. In quegli anni
sicuramente i ragazzi usavano il grande refettorio
sotto la chiesa di San Francesco di Sales, i salesiani
usavano il refettorio che don Bosco fece costruire
nel 1856 nello spazio sul quale poggiava la prima
cappella Pinardi; il refettorio venne riconvertito in
nuova Cappella Pinardi nel 1927 a ricordo della
culla dell’opera educativa di don Bosco.
La prima
sistemazione
di Casa
Pinardi e
(sotto) una
sala del
Museo Casa
Don Bosco.
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3.8 Page 28

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GLI AMICI DI DON BOSCO
Emilio Garro
L’AMICO DIMENTICATO
Don Pietro Merla
Amico fraterno di don Bosco,
aveva fondato una comunità
per salvare le donne di strada.
Una banda di sfruttatori lo uccise
a colpi di pietra. Un martire
di cui quasi nessuno si ricorda.
L e «Memorie biografiche» di don Bosco
fanno la presentazione di don Pietro Mer-
la in un momento difficile e assai critico
per don Bosco.
L’apostolo della gioventù, dopo aver condotto la
turba dei giovinetti, che la domenica, sotto la sua
direzione, ricevevano istruzione catechistica e pos-
sibilità di partecipare alle sacre funzioni e ai Sacra-
menti, si trovava, quasi abbandonato dai suoi be-
nefattori, in un prato – il prato dei fratelli Filippi,
preso da lui in affitto fino a quel giorno (5 aprile
1846), domenica delle Palme – oppresso dall’an-
goscia di non sapere dove avrebbe condotto la do-
menica seguente – Pasqua di Risurrezione – quei
400 ragazzi, e, seduto sopra una ripa, piangeva e
pregava.
Un uomo – mandato certo da Dio – gli si acco-
stò allora per invitarlo ad andare con lui a vedere
un sito non lontano (il prato e quel sito erano nella
regione detta «Valdocco»), di proprietà del Signor
Pinardi, posto in vendita e adatto a ciò che deside-
rava don Bosco.
Fu un raggio di sole per il cuore afflitto del san-
to. Ma come allontanarsi di lì, lasciando senza
assistenza quelle centinaia di fanciulli che correva-
no, saltavano, gridavano?
«In quell’istante, giungeva un fedele amico di don
Bosco, un certo don Pietro Merla... Compagno di
Seminario del nostro don Bosco e conscio del gran
bene che egli faceva in una parte del ministero non
dissimile da quello che a lui stava a cuore, quando
nel giorno festivo aveva un ritaglio di tempo, corre-
va con piacere in aiuto dell’amico, prestandosi vo-
lentieri ad assistere, a fare il catechismo, a predicare
ed in ogni altro caritatevole ufficio».
In quell’occasione don Merla assisté la folla di gio-
vani impegnati in mille giochi – cosa non certo fa-
cile – fino al ritorno dell’amico, il quale si mostrava
adesso pieno di gioia perché aveva concluso felice-
mente l’affare della compera della tettoia Pinardi ed
aveva assicurato una sede stabile al suo Oratorio per
il prossimo futuro. Tale buona notizia corse in un
attimo fra i ragazzi, e li riempì d’irrefrenabile entu-
siasmo. Chi gridava, chi saltava, chi faceva capriole
nell’erba, chi gettava il berretto in aria, chi urlava
esclamazioni di giubilo. Don Merla si unì a quella
sfrenata manifestazione di gioia giovanile, e si mise
a battere le mani, a ridere, a congratularsi con don
Bosco. Questi aveva le lacrime agli occhi, ma era-
no lacrime di consolazione. Detto il Rosario, don
Bosco licenziò i giovani, dando loro l’appuntamento
alla tettoia Pinardi per la domenica seguente, quin-
di s’intrattenne qualche momento con don Merla,
con cui rinnovò la comune fiducia negli aiuti divini.
L’amico di don Bosco, commosso, si ritirò sentendo,
egli pure, cresciuta in cuor suo la fede nel Signore
e il desiderio di compiere anch’egli qualche Opera
duratura per il bene delle anime.
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Cappellano delle carceri
Abbiamo detto che don Merla era coetaneo di don
Bosco; infatti egli era nato nel 1815 a Rivara Ca-
navese dal notaio Ignazio e dalla casalinga Paola
Seyta. Fu compagno di Seminario con don Bosco
a Chieri, e con lui visse la vita solita a condursi in
quei sacri recinti in quel tempo, in cui i princìpi
nefasti della Rivoluzione francese influenzavano gli
ambienti italiani e penetravano persino nei santuari
e nei cenacoli di studio. «Nel Seminario di Chieri,
fiorivano quindi le amicizie tra compagni. Il chie-
rico Pietro Merla s’affezionò presto al chierico Gio-
vanni Bosco di Castelnuovo, al quale, d’altra parte,
s’affezionavano tutti, per il suo carattere affabile e
generoso, e gli si mantenne fedele e affezionato an-
che dopo il seminario e finché visse.
Sei furono gli anni di Seminario, dopo i quali, usci-
to sacerdote, fu posto alla direzione spirituale delle
detenute nelle cosiddette carceri delle Torri.
Certo, doveva sentirsi impressionato alla vista e alla
conoscenza di tante miserie nel ceto femminile, e,
per quanto gli era possibile, cercava di alleviare la
loro condizione morale con i conforti della Religio-
ne, che molte delle detenute avevano dimenticata o
non praticata.
Procurava di sollevare anche il suo spirito corren-
do nei giorni di festa fuori di quel triste ambiente
carcerario e mettendosi in mezzo alla lieta e spen-
sierata gioventù che circondava l’amico Giovanni
Bosco. Era allora per lui cosa consolante prestargli
il suo aiuto nell’assistenza, nel prendere parte vigi-
lante ai trastulli giovanili, a fare le veci del Santo
nell’istruzione catechistica e nella predicazione, nel
sostituirlo in qualche breve assenza.
Al contrario di altri sacerdoti aiutanti di don Bosco,
egli non si era allontanato da lui nei momenti dif-
ficili. Qualche tempo dopo, don Bosco fu colpito
da grave malattia e dovette poi assentarsi da Torino
per tre mesi di lunga convalescenza a Castelnuo-
vo d’Asti, suo paese natio. Durante quell’assenza,
l’Oratorio non rimase senza direzione. Il Teologo
Borel, coadiuvato da don Merla e da altri sacerdoti
e benefattori, assistette amorosamente tanti giova-
ni (raggiungevano ormai quasi il migliaio), e il 15
agosto, festa dell’Assunzione, si svolse una lunga,
solenne e ordinata processione per i sentieri e le
viuzze circostanti l’Oratorio di Valdocco.
Il 3 novembre ritornava don Bosco a Torino con sua
madre, Mamma Margherita, dopo aver percorso, a
piedi, i 60 chilometri che separano i Becchi dall’O-
ratorio.
Anche negli anni seguenti non venne meno l’aiu-
to di don Merla a don Bosco. Notevole è quello
arrecatogli nel 1849 e nel 1850, che ci mostra in
don Merla l’Insegnante di materie classiche.
Don Bosco aveva scelto fra i giovani che frequen-
tavano l’Oratorio, nel 1849, quattro di essi – Buz-
zetti, Gastini, Bellia e Reviglio – nei quali gli
sembrava di vedere buone disposizioni per avviarli
alla carriera ecclesiastica, ed aveva incominciato
ad istruirli nei primi fondamenti della lingua lati-
na. Questa scuola di latino da parte di don Bosco
continuò anche nei mesi di vacanza, passati a Ca-
stelnuovo, ma, al ritorno a Valdocco pel successivo
anno scolastico, il Santo si trovò impedito, per il
molto lavoro, a proseguire nell’insegnamento. Al-
lora chiamò don Merla, e propose a lui di portare
avanti l’impresa.
Don Bosco e
don Pietro
Merla furono
compagni nel
Seminario. La
loro amicizia
si rinsaldò in
seguito nella
periferia di
Torino.
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GLI AMICI DI DON BOSCO
Le prigioni
Palatine, dove
don Merla fu
cappellano
e dove
don Bosco
cominciò
il suo
apostolato
tra i giovani
carcerati.
Don Merla fu ben lieto di potersi rendere utile al
suo amico anche in quell’incarico di fiducia e di re-
sponsabilità, e accondiscese a fare scuola privata ai
quattro alunni per circa un anno. L’anno seguente
(1850) don Merla ebbe uno scolaro di eccezione,
cioè Michele Rua, il futuro primo Successore di
san Giovanni Bosco.
Origine dell’Istituto “San Pietro”
L’esempio dell’amico don Bosco, che si era dedi-
cato ai giovani poveri e abbandonati, influì su don
Merla, che continuava ad essere il cappellano del-
le Carceri delle Torri Palatine. Qui era a contatto
quotidiano con tante donne di strada, vittime di
violenti persecutori.
E dopo che avevano scontata la loro pena, come
venivano accolte quelle sventurate giovani dalla so-
cietà? I parenti si vergognavano di esse, gli estranei
le sfuggivano, coloro ch’erano dediti ai vizi cerca-
vano di riafferrarle per farle ritornare agli antichi
deviamenti. Anche se pentite delle passate colpe,
anche se desiderose di mutare vita, si trovavano
inevitabilmente nella quasi impossibilità di attuare
i buoni propositi fatti.
Perciò andava pensando nella sua mente al modo
migliore per evitare un simile male. E gli parve
che, come don Bosco aveva trovato in quel tempo,
dopo lungo vagare, una sede stabile per raccogliere
i suoi giovani, così anche lui, forse dopo qualche
iniziale peripezia, avrebbe dovuto cercare e trovare
un luogo dove raccogliere stabilmente quella pro-
vata gioventù femminile per toglierla dal male ed
instradarla al bene.
Cominciò con un piccolo gruppo che si riuniva in
un locale delle carceri. Questa situazione però non
poteva e non poté durare molto, perché al primissi-
mo gruppo si aggiunsero altre giovani, della stessa
condizione. E allora? Necessitava trovare un’altra
sede. Quelle stesse Suore Giuseppine si dice che
proponessero un locale in via Bogino, che non era
lontano dalla sede della loro Congregazione, sita
in via Giolitti (denominazione odierna). Con molta
gioia don Pietro accettò la proposta, che gli dava
modo di riunire al sicuro quelle giovani e di comin-
ciare su di esse con speranza di buona riuscita la
sua opera di riformazione. Quel locale doveva avere
un nome che, lasciati i vincoli delle trascorse mise-
rie umane tanto spirituali quanto materiali, erano
uscite, per aiuto divino, come san Pietro per aiuto
dell’Angelo, alla vera libertà dei figli di Dio. Lo
chiamò quindi Ritiro di San Pietro in Vincoli. Pietro
era anche il suo nome, e San Pietro sarebbe stato il
Protettore di quella piccola e fervorosa Comunità.
Ma il luogo era scomodo, con lunghe scale da sa-
lire. Si confidò con don Bosco, il quale gli disse:
«Caro don Pietro, penso che non sia difficile tro-
vare il rimedio a tale stato di cose. Il lazzaretto tra
Corso Principe Oddone e via Santa Chiara, con la
cessazione del morbo contagioso, è rimasto vuoto.
Se tu lo prendi in affitto, e ti sarà facile, lo potrai
adattare a opportuno ricovero per il “Ritiro”. Non è
lontano dall’Oratorio, non è lontano dalla tua casa,
è un po’ fuori dall’abitato, ma non troppo, e sarà un
locale eccellente».
I due sacerdoti si recarono colà. L’isolato, a forma di
cuneo, comprendeva un corpo di casa, a un piano,
con terreno annesso e muro di divisione, avente
nel mezzo un cortile rustico con pozzo o vasca per
attingervi acqua. La parte principale dava in Corso
Principe Oddone, con cancellata, piccolo atrio e in-
ferriate alle finestre. Da Via Balbis s’apriva un’altra
entrata, pure con cancello e ambienti per stalla e
cucina, poi orti e prati.
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Il proprietario, che li aveva accompagnati nella vi-
sita, fu ben contento di poter affittare una parte di
quell’isolato. Allorché tutto fu pronto, la Comunità
delle ricoverate di don Merla vi si trasferì, ma alla
chetichella, senza fare chiasso o propaganda. Non
volle però mantenere l’antica intitolazione, che ri-
cordava il carcere e le catene, e preferì chiamarsi
semplicemente «Ritiro di San Pietro Apostolo».
Come santo Stefano
L’assistenza alle ricoverate venne affidata a due Vin-
cenzine del Cottolengo. L’Istituto cominciò così a
prendere lo spirito di san Giuseppe Cottolengo.
Don Merla, per quella Famiglia che tanto gli stava
a cuore, era davvero un amorosissimo Padre e non
badava a sacrifici per soccorrere in ogni maniera
quella Comunità. Le giovani erano impegnate in
lavori di maglia ed uncinetto, e guadagnavano così
anche qualche cosa per il necessario sostentamento,
ma era troppo poco per pagare puntualmente la
pigione e procurarsi di che mangiare e vestirsi. Il
loro Direttore vuotava le proprie tasche, vi metteva
di suo quanto più poteva, chiedeva elemosine, ma i
bisogni non cessavano. Egli inoltre vigilava affin-
ché si mantenesse in esse lo spirito di concordia,
di umiltà, di penitenza, di sottomissione, di modo
che le nuove ricoverate, che venivano a far parte del
«Ritiro», rimanessero fin dal principio ben impres-
sionate e dimenticassero le tristi cose e le malvagità
del mondo in cui si erano dovute trovare.
Ma non dimenticavano questo i giovinastri che ave-
vano spinto alcune di esse al mal fare, né altri dei
dintorni che su di esse avevano posato gli occhi con
peccaminose intenzioni. Irritati gli uni e gli altri
contro don Merla, che aveva tolto loro quelle giovani
prede o ne impediva lo sfruttamento, si coa­lizzarono
in una decisione di criminale rappresaglia.
Un giorno di novembre del 1855 don Merla usciva
dal «Ritiro» avviandosi verso casa sua, allorché un
gruppo di quei malviventi si mosse contro di lui
con grida ingiuriose e sconce esclamazioni. Ferma-
tosi egli alquanto, fu subito investito da una tem-
pesta di sassi d’ogni peso e d’ogni calibro, che lo
colpirono mortalmente in tutte le parti del corpo
e in modo particolare sulla testa, facendolo presto
sanguinare abbondantemente. E l’avrebbero lì reso
freddo cadavere se persone accorse non avessero
fatto fuggire i vili assalitori e prestato aiuto alla loro
vittima. Sollevato da terra, dov’era caduto, venne
accompagnato alla sua casa, e apprestategli le cure
necessarie. Ma le ferite erano troppo gravi, sicché,
dopo qualche giorno di alterne vicende tra la spe-
ranza della guarigione e il timore di perderlo, i suoi
parenti e gli amici sacerdoti venuti ad assisterlo,
munito dei santi Sacramenti lo videro tranquilla-
mente e serenamente morire. Aveva quarant’anni.
L’amico di sempre, don Bosco, scrisse nell’elogio
funebre: «Di tutto rendeva grazie a Dio, e l’oc-
chio suo, in vita sereno e tranquillo, lo era assai più
nelle ambasce della morte. Munito dei Sacramenti,
assistito dai suoi amici sacerdoti, Egli dava segno
di grande rassegnazione, che inteneriva fino alle
lacrime. Neppure un lamento uscì dalle sue labbra
moribonde, e la sua morte fu quella del giusto, che,
l’intera vita avendo consumato nel servizio di Dio e
nel bene delle anime, ha fondata speranza di otte-
nere da Dio la promessa mercede».
Don Merla
aiutò sempre
don Bosco
con i ragazzi
dell’Oratorio
e lo sostituì
durante la
malattia più
lunga.
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FMA
Emilia Di Massimo
“Voglio essere
FELICE COME LORO!
21 ragazze, 6 nazioni diverse. Tra noi c’era chi voleva fare
l’astronauta, il giocoliere, la parrucchiera, la direttrice di poste
o di un albergo a quattro stelle e persino entrare a far parte
della polizia scientifica. Oggi viviamo la fraternità e condividiamo
la missione con le suore salesiane. Come mai?
Non è l’affermazione di un gruppo di gio-
vani universitari o di lavoratori ma di
novizie, ovvero di chi chiede di entrare
a far parte di un ordine religioso. Ecco
i loro nomi e le loro nazionalità: Carmen, Desi-
ré, Marjam, Sofia, Alice, Beatrice, Chiara, Serena,
Teresa, Sabrina, Valentina, Elisabetta, sono italia-
ne; Martina, Marianna, Terézia, sono slovacche,
Clara Ines è spagnola, Katalin è ungherese, Oliwia
e Natalia sono polacche, Mariia Shatailo è russa.
Oltre la diversa provenienza, la condivisione se-
guente è corale.
Il segreto nel cuore
Abbiamo deciso liberamente di intraprendere l’iter
formativo per diventare Figlie di Maria Ausiliatri-
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ce, quindi se siamo qui un motivo ci sarà. Avete
presente quella sensazione che si prova quando in-
contri qualcuno che tira fuori il meglio di te e che
dà pienezza alla tua gioia?
Ecco, ora proviamo a spiegarvelo.
Siamo molto diverse fra noi e diverse sono le nostre
storie, il modo con cui abbiamo conosciuto la fede, il
mondo salesiano. C’è chi è cresciuto in oratorio, chi
ha conosciuto una suora quasi per caso, chi ha inizia-
to accompagnando i giovani, chi prima ha lavorato,
chi ha fatto l’università… eppure, prima o poi, tutte
abbiamo visto una o più persone e abbiamo iniziato a
pensare: “anche io voglio essere felice come loro!”. La
gioia, la profondità, la gratuità dell’amore e la pie-
nezza di una persona ci ha attirate.
In modi diversi e fantasiosi, tutte ci siamo confron-
tate con la dimensione del servizio scoprendo in
noi il desiderio di donarci, di ridonare quanto noi
avevamo ricevuto, e si sa che quando ci si dona agli
altri e si vuol bene si arriva per forza a Gesù!
I nostri cammini di fede sono differenti ma tutte ci
siamo affidate a qualcuno che vedeva oltre, ci sia-
mo lasciate accompagnare, alcune fiduciose, altre
poco convinte, un po’ controvoglia, ma ciascuna ha
riconosciuto che non poteva comprendere da sola
quanto stava accadendo nel proprio cuore.
Chiamate ma senza capire bene…
Scegliere la vita consacrata è una questione di amo-
re e di libertà: in un mondo che spesso ci fa vedere
solo il negativo c’è bisogno di qualcuno che risponda
alla sete di bellezza dei giovani, che sappia dar loro
fiducia, scommettere sui loro sogni, che si fermi ad
ascoltare, che sappia avere la pazienza di attendere
e accompagnare le loro maturazioni: qualcuno che
costruisca relazioni di amore gratuito. Non occorre
per questo essere suore ma la nostra passione per i
giovani nasce da un Amore più grande! La consa-
crazione non riguarda il nostro fare ma tocca il fondo
della nostra identità. Tutte noi ci siamo sentite chia-
mate, senza capire bene, ed oggi stiamo rileggendo
la nostra storia ritrovando le impronte di un Dio che
ha vissuto sempre con noi.
Abbiamo provato a condi-
videre le motivazioni che
ci hanno portate qui: far
conoscere ai giovani che
sono guardati dal Signo-
re, portare l’esperienza di
sentirmi amata e predi-
letta, cercare risposte alle
domande grandi, vivere
sapendo che la vita è una
cosa seria e mi interpella.
Desideriamo “essere un
cannocchiale fra i ragazzi
e Dio”, un ponte perché
altri possano provare un
po’ della nostra gioia.
Consacrarci vuol dire cu-
stodirci, essere per il Signo-
re. Il centro della nostra
vita è la relazione con Lui dalla quale scaturisce lo
spazio accogliente tutti gli altri.
La nostra vita vogliamo che sia unificata in un cen-
tro stabile perché sentiamo che oggi tutto crolla, e
nulla dà sicurezza.
A Chi ci chiama proviamo a dare ogni giorno una
risposta concreta con la nostra vita donata per essere
con i giovani, non sempre è facile, ci spaventiamo in
fretta, a volte ci stanchiamo e la nostra fede si fa in-
certa, ma sappiamo dove stiamo andando, insieme.
Con le parole di don Bosco, sentiamo di dire ai gio-
vani: “lo dico e lo ripeto, voi mi avete preso tutto,
mi avete rubato il cuore!”.
Auguriamo anche a voi di trovare quel Qualcuno a
cui rispondere per trovare la gioia piena nella vostra
vita.
Papa Francesco sottolinea l’importanza di “guarda-
re al passato con gratitudine, di vivere con passione
il presente e di abbracciare il futuro con speranza”,
ed è soprattutto di uomini e donne di speranza che
oggi c’è bisogno, proprio come le novizie desidera-
no essere.
Scegliere
la vita
consacrata è
una questione
di amore e di
libertà: in un
mondo che
spesso ci fa
vedere solo
il negativo
c’è bisogno
di qualcuno
che risponda
alla sete di
bellezza dei
giovani, che
sappia dar
loro fiducia,
scommettere
sui loro sogni.
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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 5
TIFARE
Devono essere i figli a scendere
in campo, a costruirsi la vita;
non possiamo sostituirli, non
possiamo prendere il loro posto.
Però possiamo incoraggiarli.
A vete letto benissimo: un verbo fonda-
mentale dell’arte di educare è 'tifare'.
Tifare per il figlio.
Ogni bambino nasce ricco. Arriva sulla
terra con quei preziosi trecento grammi di cervel-
lo che gli danno possibilità pressoché infinite. Se
utilizzassimo a pieno il nostro cervello, salterebbero
tutte le scale per misurare l'intelligenza tutti i test
mentali. Il cervello ha la capacità di immagazzi-
nare dieci fatti nuovi al minuto secondo, può ac-
cogliere una quantità di informazioni pari a cento-
mila miliardi! Se fosse un calcolatore elettronico,
per farlo funzionare occorrerebbe, nientemeno,
che tutta l’energia prodotta dalle cascate del Nia-
gara! Questo per il solo cervello. E che dire della
capacità dì fantasticare, di immaginare, di creare,
che risiede nella mente di un bambino? Più an-
cora, che dire della ricchezza del cuore che saprà
amare? E della bocca che arriverà a parlare, a pre-
gare? Ecco il bambino: un orizzonte di possibilità
incalcolabili!
Ho, dunque, tutte le ragioni per essere tifoso del
figlio. Chi tifa per una squadra, desidera che vin-
ca, ma non può entrare in campo: deve lasciare ai
giocatori il compito di condurre la partita. Così
nell’educazione: deve essere lui, il figlio, a costruir­
si la vita; non posso sostituirlo, non posso prender-
gli il posto. Però posso stimolarlo; però
posso incoraggiarlo. Per questo gli fac-
cio tifo!
Tifo perché il tifo passa entusiasmo.
E chi ha entusiasmo ha grinta da
vendere.
Tifo perché la correzione può fare
molto, ma l’incoraggiamento fa di più.
Tifo perché il tifo gli rivela energie
nascoste. E questo è un dono straordi-
nario. Lo sosteneva con tutte le ragio-
ni il filosofo francese Louis Lavelle: “II maggior
bene che possiamo fare agli altri non è comunica-
re loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro”.
Tifo perché se prendiamo l’uomo per quello che
è, lo lasciamo stare così com’è; se lo prendiamo
per quello che dovrebbe essere, lo facciamo di-
ventare quello che può diventare.
A proposito di ciò che stiamo dicendo, i cinesi han-
no uno stupendo proverbio: “Credendo nei fiori,
sovente si fanno sbocciare”.
Gli psicologi, invece, parlano di “effetto Pigmalio-
ne”. Secondo la leggenda, Pigmalione era un miti-
co re di Cipro che aveva il dono della scultura. Un
giorno scolpì, in bianchissimo avorio, una figura
di donna talmente bella che desiderò diventasse
sua moglie. Pregò, allora, gli dei di trasformarla in
donna. Gli dei lo esaudirono, e Pigmalione sposò la
statua trasformata in bellissima carne.
Ecco: il desiderio, l’occhio buono, l’aspettativa, rie-
scono a dar vita anche all’avorio, anche alle pietre.
È provato che gli insegnanti che credono nei loro
ragazzi, che attendono tanto da essi, hanno, come
risposta, prestazioni superiori a quelle date ad inse-
gnanti pessimisti, freddi, poco fiduciosi. È la triste
prova del fatto che chi stima corto l'ingegno di una
persona, glielo accorcia ancor più; ma è anche la
simpatica conferma del proverbio cinese: “Creden-
do nei fiori, si fanno sbocciare”.
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Le ragazzine e la matematica
A seconda del modo in cui affrontano ogni nuo-
va sfida, si possono suddividere i bambini in due
tipi: il tipo «mi riesce» e il tipo «non mi riesce». I
bambini del primo tipo hanno una forte immagine
di sé, e vedono le esperienze nuove come qualcosa
che si può realizzare con la buona volontà. Ciò non
significa che non vedano realisticamente le diffi-
coltà, ma la loro fiducia è tale che sono capaci di
esaminare freddamente e accuratamente il da farsi
prima di adottare una particolare tattica. In que-
sto modo le loro probabilità di successo aumentano
considerevolmente, e, a loro volta, i buoni risultati
accrescono ulteriormente la loro fede in loro stessi.
L’abituale reazione di un bambino con un’imma-
gine negativa di se stesso è la protesta: «Non mi
riesce...», ogni volta che si trovi di fronte a qualche
esigenza inaspettata. I bambini del tipo «non mi
riesce» iniziano di solito con il dubitare della loro
competenza e della loro capacità in un campo par-
ticolare, ma estendono rapidamente questa man-
canza di sicurezza ad ogni problema correlativo.
Un bambino «non mi riesce», può cominciare con
il dire: «Non so fare queste addizioni...» quando gli
venga sottoposto un nuovo esercizio di aritmetica.
E se non si interviene per accrescere il suo senso di
competenza, ben presto la sua reazione diventerà:
«Non so fare le addizioni...».
Il tipo «non mi riesce» vede ostacoli insormontabili
perfino nei compiti più facili, e si rende la vita molto
più complicata del necessario. Il mondo di questi
bambini è pieno di cose impossibili, mentre quello
dei bambini «mi riesce» è pieno di cose possibili.
La reazione di molti adulti al persistente «non mi
riesce» è quella di dichiarare il bambino irrimedia-
bilmente stupido. In realtà è la sua immagine di sé
a tradirlo, non la sua intelligenza.
Un interessante esperimento, che ha dimostrato
come un tipo «non mi riesce» possa venir trasfor-
mato in un efficiente tipo «mi riesce», ha messo a
fuoco le supposte differenze tra maschi e femmine
quanto a capacità matematiche. In passato, la spie-
gazione per lo scarso rendimento delle bambine
nei compiti di matematica era che le bambine non
avevano «una mente matematica». Ma una ricerca
condotta negli Stati Uniti, ha dimostrato che la col-
pa sta nel modo di imparare piuttosto che in diffe-
renze innate nel funzionamento del cervello. Come
tutti gli altri aspetti dell’intelligenza, anche questa
è una conseguenza di ciò che si è appreso nei primi
anni di vita.
Sin dalle loro prime esperienze scolastiche, la mag-
gior parte delle bambine è condizionata a credere
fermamente che la matematica sia una materia in
cui ci si aspetta che solo i maschi possano eccel-
lere, e che richieda conoscenze e capacità di cui
loro non comprenderanno mai le sottigliezze. Le
alunne della ricerca vennero allenate a risolvere i
problemi, ma anche addestrate a ridurre l’ansietà e
a dare maggior valore all’immagine di sé; non solo
dimostrarono un miglioramento nella comprensio-
ne della matematica, ma anche un interesse molto
maggiore per tutte le materie scientifiche. Anche
l’immagine di sé era mutata. I ricercatori commen-
tarono: «II rendimento in queste materie era troppo
scarso a causa di... atteggiamenti stereotipi negativi
generalizzati».
Dietro il gergo psicologico sta un semplice mes-
saggio. Cambiate l’immagine di sé e cambierete le
capacità.
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Quando
LA NOIA FA PAURA
Ma non è un sentimento di cui
avere paura. Non è una condizione
esistenziale da combattere a tutti i
costi. Al contrario, va accolta come
un’opportunità privilegiata, al riparo
dalla febbrile preoccupazione
del “fare”.
Il sentimento della noia è stato spesso associato
– nella letteratura come nel pensiero filosofico,
nella rappresentazione artistica come in psico-
logia – a una condizione di inedia e nichilismo.
Una sensazione di vuoto, che scaturisce dall’assenza
di interessi e di passioni, ma ancor più profondamen-
Quanti disegni ho fatto,
rimango qui e li guardo:
nessuno prende vita,
questa pagina è pigra.
Vado di fretta
e mi hanno detto che la vita è preziosa,
io la indosso a testa alta sul collo.
La mia collana non ha perle di saggezza,
a me hanno dato le perline colorate
per le bimbe incasinate con i traumi
da snodare piano piano con l’età.
Eppure sto una pasqua, guarda, zero drammi:
quasi quasi cambio di nuovo città,
che a stare ferma a me mi viene,
a me mi viene
la noia, la noia, la noia, la noia...
te dallo smarrimento del senso stesso della vita, che
ci fa precipitare in una situazione di angoscia esi-
stenziale da cui facciamo fatica a risalire a galla.
Di fronte alla monotonia di una quotidianità in cui,
come spettatori inerti, vediamo scorrere pigramen-
te i nostri giorni, incapaci di dare autentico valore
al tempo che ci è stato dato in dono, siamo letteral-
mente sopraffatti da un’apatia sorda e disincantata,
un «deserto emozionale» – come lo definisce Umber-
to Galimberti – che si traduce in una strutturale in-
differenza nei confronti della vita e nella difficoltà
a proiettare sul futuro aspirazioni e desideri.
Nessuno stupore, dunque, se per sfuggire al vuoto
annichilente della noia ci affanniamo a riempire le
nostre giornate di ogni sorta di impegno e occupazio-
ne. Se non riusciamo a stare fermi e sentiamo il con-
tinuo bisogno di cambiare luogo, attività, abitudini e
frequentazioni, nella spasmodica ricerca di esperien-
ze sempre nuove e differenti che spezzino la routine
dell’«eterno ritorno dell’uguale». Se persino durante
quel poco tempo “libero” che ci rimane negli inter-
mezzi di settimane sempre più frenetiche e convulse
non possiamo fare a meno di inventarci qualcosa da
“fare”. Qualsiasi passatempo, anche il più effimero e
inconsistente, si rivela utile per vincere quell’horror
vacui che tanto ci spaventa... L’importante è “usare”
appieno ogni singolo istante del tempo che abbiamo
a disposizione, non lasciare alcun “vuoto”, nell’illu-
soria convinzione che solo un’esistenza in cui non ci
sia spazio per l’attesa e per la noia possa davvero esse-
re considerata una vita “piena” e appagante.
Eppure già gli antichi, nella loro lungimirante sag-
gezza, avevano compreso che per essere davvero
felici l’otium non è meno importante del negotium,
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anzi è proprio nei momenti di pausa dalle tante oc-
cupazioni che scandiscono la nostra quotidianità
che possiamo assaporare un tempo prezioso dedi-
cato a noi stessi, alla cura della nostra interiorità,
alla riscoperta di una creatività che troppo spesso
viene soffocata dalla sovrabbondanza di stimoli che
ci giungono dall’esterno. Un tempo “sospeso” in cui
rimanere in silenzio, per riuscire di nuovo ad ascol-
tare – isolandoci per qualche istante dal clamore del
mondo e dall’onnipresente brusio degli strumenti
tecnologici che fa da sottofondo alle nostre giornate –
la voce impalpabile delle emozioni e dei desideri
più profondi che albergano dentro di noi.
La noia, dunque, non è un sentimento di cui avere
paura. Non è una condizione esistenziale da com-
battere a tutti i costi. Al contrario, va accolta come
un’opportunità privilegiata, al riparo dalla febbrile
preoccupazione del “fare”, per conoscere meglio se
stessi e riuscire a sintonizzarsi con i propri bisogni
più autentici e con il “tempo lento” del proprio vis-
suto interiore. E se ciò è vero per i bambini, che
ogni tanto hanno bisogno di sperimentare la noia
per imparare ad ascoltare le proprie risonanze emo-
tive e per allenarsi ad attivare la fantasia, non lo è di
meno per i giovani adulti, che attraverso l’esperien-
za “distesa” della noia hanno l’occasione di abitare
una dimensione diversa da quella, spesso frenetica
e irrequieta, con cui sono abituati a confrontarsi.
Quanta gente nelle cose vede il male,
viene voglia di scappare come iniziano a parlare.
E vorrei dirgli che sto bene,
ma poi mi guardano male,
allora dico che è difficile campare...
Muoio senza morire
in questi giorni usati,
vivo senza soffrire:
non c’è croce più grande!
Non ci resta che ridere
in queste notti bruciate,
una corona di spine
sarà il dress-code per la mia festa.
È la cumbia della noia,
è la cumbia della noia...
Allora scrivi canzoni?
Sì, le canzoni d’amore
e non ti voglio annoiare,
ma qualcuno le deve cantare.
Cumbia, ballo la cumbia,
se rischio di inciampare almeno fermo la noia,
quindi faccio una festa, faccio una festa,
perché è l’unico modo per fermare,
per fermare
la noia, la noia, la noia, la noia...
Muoio perché morire
rende i giorni più umani;
vivo perché soffrire
fa le gioie più grandi...
(Angelina Mango,
La noia, 2024)
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Il SOGNO dei NOVE ANNI
Una storia da interpretare (segue dal numero precedente)
T enuto presente quanto detto il mese scor-
so, si impone ora la necessità di indivi-
duare come leggere il sogno, quali siano i
criteri di lettura. Siamo fortunati, perché
ci sono offerti da alcuni fattori storico-linguistici in
esso contenuti.
Quattro criteri di lettura
1. Dalle modalità con cui don Bosco è solito utiliz-
zare le testimonianze scritte è facile pensare come
anche nella narrazione di questo sogno avuto 50
anni prima abbia proiettato esperienze successive.
In questo caso particolare poi ci soccorre anche
una certa terminologia relativa ai luoghi e tempi
in cui avvengono tali sogni. Il “cortile assai spazio-
so” del sogno del 1824, “la stupenda ed alta chiesa,
un’orchestra, una musica istrumentale e vocale” del
sogno del 1844 fanno facilmente pensare al fu-
turo spazio ricreativo di Valdocco e al grande tem-
pio dell’Ausiliatrice, inaugurato pochi anni prima
che don Bosco si mettesse a redigere le Memorie
dell ’Oratorio.
Lo stesso si dica ad esempio per il campo di azio-
ne pastorale: “Mi ordinò di mettermi a capo di quei
fanciulli”. Come non vedere che per tutta la vita
don Bosco è stato a capo di fanciulli: quando orga-
nizzava “una specie di oratorio festivo” ai Becchi e
benché piccolo di età e statura esercitava un fascino
incredibile sui coetanei; quando studente a Chieri
fondava “la società dell’allegria”; quando da semi-
narista concepiva il suo sacerdozio in funzione dei
giovani; quando avviato da don Cafasso all’aposto-
lato fra i carcerati la sua attenzione spontaneamen-
te si polarizzò sui giovani raccolti in quel luogo di
pena; quando al momento della scelta del servizio
sacerdotale alla conclusione degli studi nel 1844 al
Cafasso confessava senza esitazione “di volersi oc-
cupare della gioventù bisognosa”.
Dunque in quella “moltitudine di fanciulli, che si tra-
stullavano… ridevano… giuocavano… non pochi be-
stemmiavano” e che avrebbe dovuto guadagnare “non
con le percosse” ma “colla mansuetudine e colla carità”,
don Bosco vedeva i carcerati della Generala, la mas-
sa di ragazzi poveri, orfani ed immigrati che girova-
gavano per Torino in cerca di lavoro, i giovani che
aveva raccolto a Valdocco.
Così pure fra i “quattro quinti di quegli animali…
diventati agnelli”, che “cangiavansi in pastorelli, che
crescendo prendevano cura degli altri” e che “si divisero
e andavano altrove per raccogliere altri strani animali
e guidarli in altri ovili” (sogno del 1841) come non
vedere decisamente adombrati i suoi primi ragazzi
di Valdocco diventati vari salesiani: don Rua, don
Cagliero, don Francesia, don Bonetti, don Ruffino
ecc.?
2. Da quello che si conosce di altri “sogni” raccon-
tati e giunti fino a noi non si può dare per scontato
che don Bosco abbia fedelmente scritto quello che
poté essere il suo sogno e tanto meno che dietro
ciascun particolare del sogno ci sia stata effettiva-
mente un’esperienza onirica identica. Eventi e im-
maginazioni successive necessariamente ricopriro-
no, razionalizzarono, arricchirono le scene sognate.
Pertanto più che fedeltà all’esperienza onirica avuta
si può pensare alla fedeltà in ordine ad una narra-
zione che riteneva utile fare per i giovani salesiani
cui era destinato e riservato il sogno: vale a dire
trasmettere determinati insegnamenti spirituali e
pedagogici. Insomma un racconto funzionale ad
un preciso obiettivo: tramandare un carisma, evi-
denziare che la Congregazione salesiana era opera
di Dio. Lo aveva espresso lui stesso all’inizio del
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4.9 Page 39

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racconto: “Servirà di norma a superare le difficoltà
future, prendendo lezione dal passato; “servirà a far
conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni
cosa in ogni tempo”.
3. Dalla propensione di don Bosco a non ricorrere
ad astrazioni, ma a concretizzare concetti, a gioca-
re sul significato delle parole, a suggerire, evocare,
offrire suggestioni ai suoi ascoltatori o lettori, ciò
che in tutto il sogno ha più valore sembra essere il
messaggio che don Bosco fa intendere di aver per-
cepito nel sogno. Si dà il caso infatti che don Bosco,
ormai abituato ad assistere a spettacolini teatrali al
suo oratorio – qualcuno inventato da lui stesso – sia
riuscito a redigere il suo sogno come fosse un co-
pione di teatro, tanto risulta ricco di molti elementi
scenici richiesti da tale arte. Scambi di battute tra
i personaggi e determinate situazioni o movimenti
di scena trasmettono allo spettatore-lettore messaggi
educativi e morali più facilmente che non dimostra-
zioni e discussioni teoriche. Di conseguenza ciò che
è importante è individuare ancora il nocciolo del so-
gno; il resto, i contorni di quella esperienza, i singoli
particolari, gli arricchimenti successivi di don Bosco
possono leggersi in modo più allusivo, creativo.
4. Infine una notazione particolare. Ebbe la vita
tracciata da un sogno: è un’espressione che si legge,
tradotta in varie lingue, in libri, fascicoli, spettacoli
teatrali, fiction televisive, pagine web, video orato-
riani. L’espressione non può essere accettabile nel
senso che don Bosco ebbe per tutta la vita, spianata
davanti a sé, una strada semplicemente da percorre-
re per giungere alla meta finale. La sua fu piuttosto
una corsa ad ostacoli che superò a prezzo di sacri-
fici, lavoro, sofferenze, incertezze, notti in bianco;
ha dovuto fare delle sofferte scelte nella sua vita, dire
cioè tanti sì e altrettanti no.
Rimanere contadino o studiare? Farsi francescano o
entrare in seminario? Approfondire gli studi teologi-
ci o limitarsi a quelli del seminario? Prete in cura di
anime oppure precettore di giovani ricchi? Religioso
in una congregazione o missionario fra gli infedeli?
Cappellano stipendiato delle Opere Barolo o educa-
tore e parroco squattrinato di ragazzi della strada?
Per non dire della facile tentazione di abbandonare
l’opera avviata, visti i pericolosissimi momenti po-
litici dell’epoca (il famoso “quarantotto”), le ostilità
in ambito ecclesiale locale e pontificio, il costante
rischio di bancarotta, le immancabili delusioni edu-
cative e vocazionali, i problemi politico-istituzionali
con mons. Cagliero in Patagonia…
Dunque i sentieri della sua chiamata a fondare e
lanciare la Congregazione salesiana furono ben più
complessi e contorti di quanto potrebbe lasciare
immaginare il sogno dei nove anni.
In sintesi
La lettura della vita di don Bosco a partire dal so-
gno dei 9 anni si può fare, perché il sogno esistet-
te, ci è stato raccontato con tanti particolari anche
posteriori da lui stesso, ma in esso non c’è tutto:
mancano molte altre tessere del mosaico della sua
vita, come gli accadimenti dell’epoca, le situazio-
ni in cui si è venuto a trovare, le persone coinvolte
nella sua vita, i “successi” e le “criticità” delle sue
operazioni... Se il dato teologico e pedagogico vie-
ne trasformato in criterio carismatico totalizzante,
incombe il rischio di ridimensionare notevolmente
il dato storico, che invece ha giocato un imprescin-
dibile ruolo nella vicenda umana e spirituale di don
Bosco. Il sogno, se ben interpretato, può dunque
essere fonte di legittimità carismatica per i membri
della Famiglia Salesiana; ma la storia di don Bosco
resta un’altra cosa.
Il francobollo
emesso
dalle Poste
Vaticane per i
duecento anni
del sogno
dei nove anni
di don Bosco.
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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di aprile preghiamo per la canonizzazione
del Beato Filippo Rinaldi, salesiano, terzo successore
di don Bosco.
Filippo (Lu Monferrato, Alessan-
dria, 28 maggio 1856 – Torino,
5 dicembre 1931), da fanciullo
conobbe don Bosco nella casa di
Mirabello e, dopo alcune resisten-
ze, a 21 anni ne accolse l’invito
a diventare salesiano. Ordinato
sacerdote nel 1882, gli venne af-
fidata la formazione di giovani
adulti aspiranti alla vita salesiana.
Dal 1889 svolse per dodici anni
la sua attività in Spagna e Porto-
gallo, fondando 16 nuove case.
Nel 1901 il Rettor Maggiore don
Michele Rua lo nominò Vicario
generale. L’intenso lavoro non gli
impedì di qualificarsi, nel mini-
stero sacerdotale, come finissima
guida spirituale. Diede impulso
alla Famiglia Salesiana in tutta
la sua ampiezza, arricchendola
con l’istituzione che in seguito si
configurò come istituto secolare
delle Volontarie di Don Bosco.
Istituì anche la Federazione In-
ternazionale degli Exallievi di Don
Bosco. Eletto Rettor Maggiore nel
1922, si dedicò in particolare alla
formazione dei confratelli e alla
fedeltà al carisma ricevuto da don
Bosco, esortando a una speciale
attenzione alla vita interiore e
all’unione con Dio. Diede grande
impulso alle missioni attraverso
la fondazione di istituti missio-
nari, la celebrazione di numero-
se spedizioni, la promozione di
riviste e associazioni. Coltivando
fin da giovane una filiale fiducia
in Maria Ausiliatrice e rivelandosi
genuino interprete del fondatore,
seppe cogliere con intuizione pro-
fetica i “segni dei tempi” rispon-
dendo con audacia e saggezza
alle nuove situazioni. San Giovan-
ni Paolo II lo annoverò tra i beati il
29 aprile 1990.
Preghiera
Dio, Padre infinitamente buono,
tu hai chiamato il Beato Filippo Rinaldi,
Terzo Successore di san Giovanni Bosco,
a ereditarne spirito e opere
e a dare inizio a varie realtà carismatiche
nella Famiglia Salesiana:
ottienici di imitarne la bontà,
l’intraprendenza apostolica,
l’operosità instancabile santificata dall’unione
con Dio.
Concedi a noi le grazie che affidiamo alla sua
intercessione.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
I NOSTRI LIBRI
Una novità affascinante
Attraverso l’analisi del celebre sogno dei nove anni di san Giovanni Bosco, questo libro rivolto ai giovani
invita a riflettere su questioni che toccano tanto l’esistenza umana quanto la vita spirituale. Da temi come
la vocazione e la risposta alla chiamata di Dio, al potere e significato del proprio nome, il libro offre degli
spunti per riconoscere ed esercitare i propri talenti e per diventare guide di altri, sempre mantenendo l’u-
miltà di riconoscersi bisognosi dell’aiuto di Dio. Interessante e caratteristico è l’approfondimento di ogni
passo del sogno di don Bosco, valorizzando alcuni dettagli spesso trascurati.
L’autore è salesiano sacerdote. Ha collaborato con Avvenire, L’Osservatore Romano e Vatican Insider de La
Stampa su cui ha trattato numerose tematiche educative sovente legate a personaggi dei romanzi fantasy.
Con Elledici ha pubblicato un’intervista con don Antonio Mazzi, il commento salesiano Evangelii Gaudium
con don Bosco e i due volumi del Vocabolario di Papa Francesco.
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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Sorelle Vdb
Maria Ida Paolotti
Salesiana Vdb
Morta in Burkina Faso il 4 gennaio 2024, a 80 anni
Maria Ida è nata il 22 luglio 1943
a Torino. Ha conseguito il diplo-
ma di insegnante di scuola pri-
maria. È entrata tra le Volontarie
nel 1966. Nel 1969 a Frascati, la
prima professione. Fino al set-
tembre del 1970 ha fatto parte
del Gruppo di Torino, poi si è tra-
sferita a Viareggio con i suoi ge-
nitori ed è entrata così a far parte
del Sottogruppo della Toscana,
all’epoca denominato di Colle val
d’Elsa, nato con le sorelle del po-
sto Clara Bargi e Laura Mazzoni,
che hanno svolto entrambe in
modo diverso un grande servizio
per l’istituto a livello centrale. Nel
Gruppo c’era anche Elena Mancini
di Pietrasanta, deceduta lo scorso
anno, che è stata anche Regiona-
le, e per tal motivo M. Ida diceva
scherzando di essere l’unico “sol-
dato semplice” del Sottogruppo,
di cui ha dovuto accettare più
volte di essere Responsabile. Lo è
stata dall’89 al 2000.
L’amore di M. Ida per i poveri ha
diretto tutta la sua vita e moti-
vato le sue scelte apostoliche.
Insegnante di scuola primaria,
volle andare in pensione appena
possibile (approfittando della
legge che consentiva agli statali
di andare in pensione dopo soli
20 anni di servizio) per dedicarsi
ai ragazzi. Prese in affidamento
due adolescenti, che seguì fino
alla maggiore età. Spese tutto
quello che poté per aiutare don
Pierino Gelmini ad aprire una Co-
munità Incontro in un’antica villa
a Brancoli, in provincia di Lucca,
data in concessione dal Comune
di Viareggio e lo fece perché in lui
vedeva don Bosco. Ci disse: «Sa-
pete, vedendo il suo amore e la
sua determinazione per i ragazzi,
io ci vedo don Bosco. Don Bosco
avrebbe fatto così».
A Viareggio M. Ida aiutò tante
persone che si rivolgevano a lei
per chiedere un alloggio, un so-
stegno, un qualsiasi aiuto. Lei non
diceva mai di no, cercava, trovava
possibili soluzioni, apriva la sua
casa. È per questo che per molti è
stata madre, poi nonna.
A Viareggio per molti anni visse
in via Fosso le Quindici, una zona
nella periferia della città, in una
roulotte, perché aveva venduto,
alla morte dei genitori, la casa.
Voleva vivere come e tra i dise-
redati.
Il 31 agosto 2016, con un nipote
e un’amica, dopo aver “sistema-
to” i suoi ragazzi, M. Ida, nono-
stante i molteplici problemi di
salute, parte da Viareggio con
biglietto di sola andata per sta-
bilirsi definitivamente a Kouini,
uno sperduto villaggio del Bur-
kina Faso.
M. Ida ha iniziato a inserirsi nel-
la vita quotidiana del villaggio,
ammirava la pazienza di quelle
persone e la loro capacità di esse-
re contente del poco che hanno.
Ha costruito negli anni a Kouini,
i “bisongo” (asili nido), la scuola
materna, la scuola primaria e
post-primaria, la scuola agricola,
il centro sanitario. Tali strutture
sono state donate al governo che
doveva solo provvedere a invia-
re il personale. Molti pozzi sono
stati costruiti in zone diverse per
rispondere a uno dei bisogni fon-
damentali del Sahel: l’acqua.
Un burkinabé: Larba, le è stato
vicino, l’ha aiutata con lo stesso
affetto di un figlio, prendendosi
in tutti i modi cura di lei, nella
vita quotidiana, nel comunicare
con le persone, infine durante la
malattia e fino alla morte.
M. Ida, con la sua pensione, con
le offerte di amiche e di amici,
poteva rispondere ai bisogni
delle persone che si rivolgevano
a lei e al suo cuore di madre. Era-
no tanti, non solo del villaggio
dove lei viveva, ma proveniva-
no anche da luoghi lontani. In
particolare, bambini, giovani
donne, giovani uomini. Tutti
avevano bisogno di cure parti-
colari, di operazioni, di protesi,
di interventi specialistici. Lei,
nei primi anni, li accompagnava
durante il percorso di cura, dalla
diagnosi fino alla guarigione e al
ritorno nel villaggio, successiva-
mente è stata aiutata perché la
salute e il progredire degli anni
avevano ridotto le sue possibili-
tà di spostamento. Si recava fino
alla capitale Ouagadougou o in
posti ancora più lontani dove
si potesse intervenire sulla ma-
lattia. Cercava anche di offrire
aiuti alimentari, latte artificiale,
quanto altro potesse emergere
dall’ascolto delle persone.
Il 2 agosto 2023, con l’unica so-
rella rimasta del suo Gruppo,
siamo andate a Viareggio, per
incontrare i due collaboratori
burkinabé inviati da M. Ida per
parlarci di come vengono im-
piegate le offerte che gli amici
le hanno inviato in questi anni.
Il viaggio era stato pagato da
M. Ida che voleva condividere il
suo desiderio di far continuare
l’opera di assistenza dei bambini
del villaggio anche dopo la sua
morte.
Abbiamo chiesto loro: «Che cosa
avete pensato di questa donna
bianca che è venuta a stare con
voi?». Loro hanno risposto: «Per
noi è la grand-mère», la nonna
di tutti, come dicono i burki-
nabé, «yaaba».
A dicembre 2023 ha contratto la
malaria Dengue, una malattia
virale, endemica in tante zone
dell’Africa. Sono state rispettate
le sue volontà, espresse in prece-
denza, di non subire trattamenti
invasivi, tanto meno un accani-
mento terapeutico. Voleva mo-
rire come aveva vissuto: come i
più poveri.
Prima di partire per l’Africa ci
disse: «Voglio morire lì, tra i po-
veri». Ha realizzato il suo sogno.
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5.2 Page 42

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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Bue, Ior, Man.
Parole di 4 lettere: Alba, Bari, Lidi.
Parole di 5 lettere: Etnia, Gliss,
Jacob, Lippi, Nuovi, Speck, Tozzi,
Viola.
Parole di 6 lettere: Airone, Astore,
Attimo, Lorena, Radium, Scisma.
Parole di 7 lettere: Artiere,
Javelin.
Parole di 8 lettere: Enologia,
Kolossal.
Parole di 9 lettere: Ambulacro.
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso,
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le
parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero.
? Parole di 10 lettere:
Anemometro, Areogramma,
Deidratato, Embrionale, Epilettico,
Stanghetta.
?
La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 11 lettere: Proibizioni.
PATRONO IN SUDAMERICA
I salesiani in Sudamerica, e nella fattispecie in Brasile, sono presenti fin dai primi anni dei viaggi
missionari. Quando don Bosco era ancora vivo, nel 1883, fu fondata la prima opera salesiana a
Rio de Janeiro da monsignor Lasagna. E attualmente, in Brasile, i salesiani sono una vera forza
educativa e pastorale. Grazie al loro intenso lavoro portano avanti centinaia di scuole e opere
sociali a favore dei ragazzi più poveri, che in quelle terre non mancano. Basti pensare al degrado
e all’arretratezza di quegli enormi agglomerati di baracche e povere costruzioni conosciuti in
tutto il mondo con il nome di favelas dove le condizioni di vita sono ai limiti della sopravvivenza.
È proprio per i giovani abitanti di questi poverissimi quartieri, disagiati economicamente e senza speranza, che i salesiani hanno un senso a
essere presenti. Verso don Bosco, e i suoi figli naturalmente, ci sono grande affetto e gratitudine, è risaputa l’offerta di ospitalità a chi non
ha casa, e dell’insegnamento della “via” per diventare buoni cristiani e onesti cittadini. Don Bosco raccontò con precisione di un sogno che
fece, in cui vedeva, sorvolandola, l’America Latina e precisamente anche la sua futura capitale cent’anni prima che fosse fondata: XXX,
Soluzione del numero precedente
“una terra promessa fluente latte e miele”. Quando fu fondata, dal nulla, proclamarono san Bosco
compatrono della capitale, assieme alla Vergine Aparecita. I salesiani vi sono arrivati con i primi
abitanti quando ancora si costruivano le strade e le prime case. L’architettura è molto moderna,
compresa la Cattedrale, poi vi sono due scuole con annessa la parrocchia e l’opera più grande è ge-
stita insieme alle suore salesiane, le Figlie di Maria Ausiliatrice, insieme al Santuario. Il Santuario,
un semplice ma moderno cubo, progettato dall’architetto Carlos Alberto Naves allievo di Niemeyer
fu inaugurato nel 1970 e dedicato alla memoria di don Bosco.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
Un piccolo BRUCO
C’ era una volta un piccolo
bruco che strisciava
risoluto con tutta la forza
Tutti quelli che lo incontravano,
ragni, talpe, rane, fiori, perfino un
topo non facevano che ripetere lo
emergevano due antenne e poi, piano
piano, due stupende ali iridescenti
attaccate al corpicino minuscolo
dei suoi minuscoli piedini in
stesso ritornello: «Lascia perdere.
di una farfalla che si librò in aria e
direzione del sole. Lo vide una
Non ce la farai mai!»
spalancò le ali mostrandole in tutto il
cavalletta e, curiosa com’era, gli
Ma il bruco continuava. Le sue forze loro splendore.
domandò: «Dove vai?»
però diminuivano finché esausto
Tutti gli animaletti tacquero confusi.
Senza rallentare il passo, il bruco
si fermò per riposare, ma prima si
Avevano avuto torto e si sentirono
rispose: «Ho fatto un sogno questa costruì un rifugio per pernottare.
molto sciocchi.
notte: mi trovavo in cima a quella Una specie di robusto sacco a pelo in Il bruco stava per realizzare facil-
montagna e potevo ammirare tutta cui si avvolse completamente. «Così mente il sogno per cui era vissuto,
la valle. Mi è piaciuto molto quello starò meglio» si disse.
era morto ed era tornato a vivere:
che ho visto e ho deciso di realiz- Tutti gli animaletti del bosco si
arrivare in cima alla montagna.
?
zarlo».
«Sei impazzito? Come puoi pensa-
radunarono per guardare la tomba
di quello che consideravano l’ani-
re di arrivare lassù? Per te un sas- male più stupido del mondo, morto
solino è già un’enorme montagna, di fatica per realizzare un sogno
una pozzanghera un mare e un
sconsiderato.
rametto una barriera insuperabile!» Una mattina, con il sole che splen-
Il bruchetto neanche l’ascoltava,
deva in modo speciale, si riunirono
contorcendosi e strisciando conti- in tanti intorno alla tomba del bruco
nuava a marciare.
divenuta un monumento all’insen-
Lo vide uno scarafaggio dalla luci- satezza, un ammonimento per i folli
da corazza nera: «Dove vai, bruco, che si buttano in imprese impossibili.
così di fretta?»
Improvvisamente si accorsero che
Ansimando per la fatica, il bru-
quel guscio compatto si lacerava e ne
co rispose: «Ho fatto un sogno e
voglio realizzarlo. Salirò su quella
montagna per guardare di là il
Vi auguro sogni a non finire
la voglia furiosa di realizzarne qualcuno
nostro mondo».
Lo scarafaggio scoppiò in una gras-
sa risata: «Non ci riuscirei neanche
io con le mie lunghe e robuste zam-
pe. Figurati tu, sgorbietto!» A forza
di sghignazzare, si rovesciò a gambe
vi auguro di amare ciò che si deve amare
e di dimenticare ciò che si deve dimenticare
vi auguro passioni
vi auguro silenzi
vi auguro il canto degli uccelli al risveglio
e risate di bambini
vi auguro di resistere all’affondamento,
in su, mentre il bruco continuava ad
avanzare, un centimetro alla volta,
con gran fatica.
all’indifferenza, alle virtù negative della nostra epoca.
Vi auguro soprattutto di essere voi stessi.
(Jacques Brel)
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5.4 Page 44

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CollativparroepreiafaTrEcRrResAcere
La Scuola Agraria Salesiana di Calulo
Il progetto Agricoltura per la Vita, finanziato dalla Fondazione DON BOSCO
NEL MONDO in Angola, è un programma formativo e professionale di sviluppo
agricolo, a favore dei giovani e delle loro famiglie, che insegna a praticare
l’agricoltura con tecniche rispettose dell’ambiente, offre possibilità lavorative
nel settore dell’agricoltura sostenibile e attiva un processo di economia
circolare a beneficio dell’intera comunità locale.
Scopri di più a pagina 6 di questo numero oppure su
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L’incontro che trasforma la tua vita
Sostienici con il tuo 5x1000!
Con la Tua firma, puoi aiutare i ragazzi e le ragazze
dei progetti della Fondazione DON BOSCO NEL MONDO
a formarsi e a trovare lavoro.
Codice Fiscale 97210180580