01-Gennaio-2025

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▲torna in alto
salesiani
Padre
Peppe
linvitato
Il Regolatore
del CG29
don bosco nel mondo
Arequipa
la nostra storia
Il volto di don Bosco
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
la nostra gloria
Suor Maria
Troncatti
luoghi salesiani
Le nostre
Catacombe
GENNAIO
2025

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
LE CAMPANE
di Maria Ausiliatrice
Q uasi ad incorniciare
la cupola, l’archi-
tetto ha progettato
due campanili gemini; sono
in posizione arretrata
rispetto alla facciata, fondati
quasi a ridosso del transetto
e sono sormontati da due
angeli indicati dallo stesso
don Bosco come gli arcan-
geli Michele e Gabriele:
“Una di queste statue
rappresenta l’Angelo
Gabriele in atto di
offrire una corona alla
Santa Vergine; l’altro
s. Michele che tiene una
bandiera in mano su cui è
scritto in caratteri grossi
Lepanto”.
Fatti i campanili, don Bo-
sco pensò alle campane. Il 21
maggio 1868, festa dell’Ascensione
del Signore, alle tre pomeridiane,
vennero solennemente benedette le
cinque campane da collocarsi su uno
dei campanili. Erano appese con
grosse corde a robusti cavalletti di
legno, in mezzo al nuovo santua-
rio. Formavano un concerto in mi
bemolle. Era il primo nella città di
Torino.
Indimenticabile il sorriso di soddi-
sfazione di don Bosco, anche le cam-
pane facevano parte del suo sogno.
Sull’elegante silhouette di bronzo
erano incisi fregi ed immagini, l’una
nella parte superiore e l’altra presso
l’orlo, con due iscrizioni, dettate da
don Bosco. La prima una invocazio-
ne, la seconda il nome della persona
che aveva donato il denaro per la
fusione e il bronzo.
Tutte sonore, cristalline e squillanti,
con varie tonalità.
Piansero con funebri rintocchi la
morte di don Bosco e di don Rua,
e di tanti salesiani di Valdocco. Ma
poi piansero su se stesse, perché
dopo cinquant’anni furono mes-
se in disparte, come ferraglia
inutile.
Nel 1922, furono sosti-
tuite da altre campane di
maggiori dimensioni. Tre
anni durò il loro esilio,
ma nel 1925 ritrovarono
un campanile e una nuova
chiesa e un quartiere popola-
re, di gente schietta e gene-
rosa: la nuova chiesa salesiana
di Gesù Adolescente, nel Borgo
San Paolo di Torino. Sono anco-
ra là voce di Dio e di Maria.
Intanto don Bosco non si
fermava mai: guardando lo
spiazzo di brutta terra battu-
ta davanti alla Basilica, disse: «Qui
in mezzo mi piacerebbe innalzare un
monumento e una fontana di acqua
fresca. E poi qui accanto un gran
caseggiato che serva come d’albergo
ai preti, ai benefattori, alle benefat-
trici ed anche ai parenti degli alunni,
che venissero in Torino per visitare
la chiesa e assistere alle funzioni
solenni».
Pur con qualche variante, tutto è
stato fatto e la piazza è nuova e mol-
to elegante.
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salesiani
Padre
Peppe
linvitato
Il Regolatore
del CG29
don bosco nel mondo
Arequipa
la nostra storia
Il volto di don Bosco
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
la nostra gloria
Suor Maria
Troncatti
luoghi salesiani
Le nostre
Catacombe
GENNAIO
2025
GENNAIO 2025
ANNO CXLIX
NUMERO 1
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Il ricordo di don Bosco è il cuore
di questo mese (Dipinto di Lodovico Pogliaghi / Foto
Antonio Saglia).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL VICARIO
6 IN PRIMA LINEA
Arequipa
10 TEMPO DELLO SPIRITO
Le dieci qualità di un vero amico
12 L’INVITATO
Il Regolatore
16 LA NOSTRA GLORIA
Suor Maria Troncatti
20 LE CASE DI DON BOSCO
Barcellona Pozzo di Gotto
24 SALESIANI
Padre Peppe
26 LUOGHI SALESIANI
Le nostre Catacombe
30 LA NOSTRA STORIA
Il vero volto di don Bosco
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
La parola alle emozioni
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
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Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile: Bruno Ferrero
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Il Bollettino Salesiano
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Martoglio, Alessandra Mastrodonato,
Andrei Munteanu, Francesco Motto, Pino
Pellegrino, Giampietro Pettenon, Santo
Russo, Ezhanikattu Saimi, Giuseppe Soldà,
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i lavoratori.

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IL MESSAGGIO DEL VICARIO
Don Stefano Martoglio
Che dono,
IL TEMPO!
L’inizio del nuovo anno, nella nostra
liturgia, è illuminato dall’antichissima
benedizione con cui i sacerdoti
israeliti benedicevano il popolo: «Ti
benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per
te il suo volto e ti faccia grazia,
il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace».
Cari amici e lettori del Bollettino Salesiano,
siamo all’inizio di un anno nuovo, espri-
miamoci quindi a vicenda i migliori au-
guri per il tempo che verrà, per il tempo
che viene, dono che contiene ogni altro dono in cui
si sviluppa la nostra vita.
Riempiamo dunque questo augurio di contenuti
che lo illuminino. Diamo la parola a don Bosco che,
quando arrivò nel seminario di Chieri, si soffermò
sulla meridiana che, ancora oggi, campeggia sul
muro del cortile, e raccontava: «Alzando lo sguardo
sopra una meridiana, lessi questo verso: Afflictis lentae,
celeres gaudentibus horae». Ecco, dissi all’amico, ecco il
nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà pre-
sto il tempo» (Memorie Biografiche I, 374).
Il primo augurio che ci scambiamo, per viverlo, è
quello che don Bosco ci ricorda: vivi bene, vivi se-
reno e trasmetti serenità a chi ti circonda, il tempo
avrà un altro valore! Ogni momento del tempo è un
tesoro; ma è un tesoro che passa in fretta. Sempre
don Bosco amava commentare: «I tre nemici dell’uo-
mo sono; la morte (che sorprende); il tempo (che gli sfug-
ge), il demonio (che gli tende i suoi lacci)» (MB V, 926).
«Ricordati che essere felice non è avere un cielo senza
tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro
senza fatica, relazioni senza delusioni» raccomanda
un antico augurio. «Essere felici non è solo celebra-
re i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti.
Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere
la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e
periodi di crisi. È ringraziare Dio ogni mattina per
il miracolo della vita».
Un saggio teneva nel suo studio un enorme orolo-
gio a pendolo che ad ogni ora suonava con solenne
lentezza, ma anche con gran rimbombo.
«Ma non la disturba?» chiese uno studente.
«No» rispose il saggio. «Perché così ad ogni ora
sono costretto a chiedermi: che cosa ho fatto dell’o-
ra appena trascorsa?».
Il tempo è l’unica risorsa non rinnovabile. Si consu-
ma ad una velocità incredibile. Sappiamo che non
avremo un’altra possibilità. Perciò tutto il bene che
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possiamo fare, l’amore, la bontà e la gentilezza di
cui siamo capaci li dobbiamo donare adesso. Perché
non torneremo su questa terra un’altra volta. Con
un perenne velo di rimorso nel nostro intimo, sen-
tiamo che Qualcuno ci chiederà: «Che ne hai fatto
di tutto quel tempo che ti ho regalato?»
La nostra speranza si chiama Gesù
Nel tempo nuovo che abbiamo appena comincia-
to, le date e i numeri di un calendario sono segni
convenzionali, sono segni e numeri inventati per
misurare il tempo. Nel passaggio dall’anno vecchio
al nuovo anno è cambiato molto poco, eppure la
percezione di un anno che finisce ci costringe a
fare sempre un bilancio. Quanto abbiamo amato?
Quanto abbiamo perduto? Quanto siamo diventati
migliori, o quanto siamo diventati peggiori? Il tem-
po che passa non ci lascia mai uguali.
La liturgia, nel sorgere dell’anno nuovo, ha un
modo tutto suo di farci fare un bilancio. Essa lo fa
attraverso le parole iniziali del vangelo di Giovan-
ni; parole che possono sembrare difficili ma che in
realtà riflettono la profondità della vita: “In princi-
pio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo
era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è
stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è
stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini; la luce splende
nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”.
Al fondo di ogni nostra vita risuona una Parola più
grande di noi. Essa è il motivo per cui esistiamo,
per cui il mondo esiste, per cui ogni cosa esiste.
Questa Parola, questo Verbo, è Dio stesso, è il Fi-
glio, è Gesù. Il nome del motivo per cui siamo stati
fatti si chiama Gesù.
È Lui il vero motivo per cui ogni cosa esiste, ed è
in Lui che possiamo capire ciò che esiste. La no-
stra vita non va giudicata confrontandola con la
storia, con i suoi eventi e la sua mentalità. La no-
stra vita non può essere giudicata guardando a noi
stessi e alla nostra sola esperienza. La nostra vita è
comprensibile solo se la si accosta a Gesù. In Lui
tutto assume un senso e un significato, anche di
quello che di contradditorio e ingiusto ci è capita-
to. È guardando a Gesù che capiamo qualcosa di
noi stessi. Lo dice bene un salmo quando afferma:
“Alla tua luce vediamo la luce”.
Questo è il modo di vedere il Tempo secondo il
Cuore di Dio, e noi ci auguriamo di vivere questo
tempo nuovo così.
Il nuovo anno porterà a tutti noi, alla famiglia sa-
lesiana, alla Congregazione importanti eventi e
novità. Tutte dentro il dono del Giubileo che nella
Chiesa stiamo vivendo.
Dentro lo spirito del Giubileo lasciamoci traspor-
tare dalla Speranza che è la presenza di Dio nella
nostra vita.
Il primo mese di questo nuovo anno, gennaio, è
trapuntato di feste salesiane che ci portano alla Fe-
sta di don Bosco, ringraziamo Dio di questa delica-
tezza con cui ci dona di iniziare l’anno nuovo.
Lasciamo quindi l’ultima parola a don Bosco e fis-
siamo questa sua massima, perché forgi il nostro
2025: Figlioli miei, conservate il tempo e il tempo con-
serverà voi in eterno (MB XVIII, 482, 864).
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IN PRIMA LINEA
Giampietro Pettenon
AREQUIPA
Una storia vera e commovente, che tocca il cuore, come
lo sono sempre le situazioni in cui si riesce a far del bene
ai ragazzi più poveri ed abbandonati, i prediletti del nostro
amato padre don Bosco.
La cattedrale
del XVII
secolo ricca di
opere d’arte.
A requipa è la seconda città del Perù, dopo
la capitale Lima, con un milione di abi-
tanti che vivono in un altopiano sulle
Ande a circa 2400 metri di quota. Il
clima è molto bello e gradevole tutto l’anno: notti
fresche e giornate piene di sole che scalda. A sud
il panorama montano è caratterizzato dal cono del
vulcano “El Misti” che sembra dormire, ma quan-
do si sveglia e comincia a sbuffare, la gente si chiede
se il vecchio sonnacchioso si stia solo stiracchiando
o se abbia voglia di fare sul serio. Le colate laviche
sono frequenti e soprattutto i terremoti da queste
parti sono particolarmente distruttivi.
I salesiani sono arrivati in questa città coloniale a
fine ’800, ed hanno avviato subito una scuola per i
ragazzi di Arequipa e della regione.
Oggi l’opera di don Bosco, animata dalla comu-
nità salesiana con 5 confratelli e da circa 150 laici
(docenti, educatori, formatori, assistenti, animatori)
comprende il “Collegio Don Bosco”: scuola supe-
riore con 730 allievi molto apprezzata dalla gente
per la preparazione in campo tecnico/tecnologico
che offre ai giovani in vista del lavoro o dell’univer-
sità; il “CetPro”: centro di formazione professionale
con 140 allievi di diverse età che acquisiscono una
qualifica professionale in percorsi biennali, pro-
grammati soprattutto nei corsi serali rivolti ai lavo-
ratori che intendono aumentare la propria compe-
tenza nel mondo del lavoro; la “Casa Don Bosco”:
casa-famiglia che accoglie 28 giovani a rischio per-
ché provenienti da famiglie in difficoltà economica,
sociale, relazionale; il gruppo “Mamma Marghe-
rita” che aggrega circa 500 donne che ogni sabato
pomeriggio si trovano insieme per delle attività, as-
sieme ai tanti ragazzi e giovani che proprio il sabato
pomeriggio trasformano i cortili della scuola in un
oratorio pieno di vita, di attività sportive, musicali
e formative.
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Casa Don Bosco
Mi soffermo prima a raccontare l’esperienza della
Casa Don Bosco perché è una storia commovente,
che tocca il cuore, come lo sono sempre le situa-
zioni in cui si riesce a far del bene ai ragazzi più
poveri ed abbandonati, i prediletti del nostro amato
padre don Bosco. I minori accolti in casa sono 23,
a cui si aggiungono 5 giovani che hanno raggiunto
i 18 anni e che al termine della scuola superiore
hanno intrapreso il percorso degli studi universi-
tari: ingegneria gestionale, agronomia, economia,
topografia... Ognuno di loro ha una storia familiare
e personale fatta di privazioni, mancanza di affetto,
violenze. Vengono dalla periferia della città e dalle
zone montane (la sierra) limitrofe.
Padre Pedro, il direttore dell’opera salesiana, che
per questi ragazzi è davvero un papà, li va a cercare
nelle scuole frequentate dai più poveri. Chiede ai
direttori scolastici di segnalare i ragazzi che hanno
più difficoltà e, aiutato da una équipe di educatori,
fa’ una selezione di quelli che potrebbero essere ac-
colti in Casa Don Bosco. Quando arrivano hanno
dodici anni, l’età in cui inizia la scuola secondaria
in Perù. Sono deboli, hanno problemi di anemia a
causa della carenza di nutrizione: una patata, una
pannocchia di mais bollito a colazione, pranzo e
cena… quando va bene; sono abituati alla violenza
fisica di padri alcolisti che picchiano moglie e fi-
gli; non conoscono la tenerezza della mamma che
con molti figli manda fuori casa i più grandicelli,
che devono arrangiarsi. Un’educatrice ha racconta-
to che un ragazzino teneva sempre i capelli un po’
lunghi per coprire le orecchie, questo perché una
era stata rosicchiata dai topi quando era nella culla,
se di una culla si trattava!
Ho pranzato con loro ed ho visitato la loro casa:
semplice, senza nessun lusso, tutto era pulito, i letti
ben fatti, la sala studio in ordine, ma soprattutto
I salesiani
sono arrivati
in questa
città coloniale
a fine ‘800, e
hanno avviato
subito una
scuola per
i ragazzi di
Arequipa e
della regione.
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IN PRIMA LINEA
I minori
accolti in casa
sono 23, a cui
si aggiungono
5 giovani
che hanno
raggiunto i
18 anni e che
al termine
della scuola
superiore
hanno
intrapreso
il percorso
degli studi
universitari:
ingegneria
gestionale,
agronomia,
economia,
topografia...
ho respirato un clima di famiglia, sereno, cordiale,
fatto di amicizia e di aiuto reciproco. Non è facile
all’inizio, mi racconta padre Pedro, ci vuole costan-
za, vicinanza e pazienza per insegnare loro a non
essere egoisti, perché spesso la povertà porta a pen-
sare solo a se stessi. In questo percorso educativo
sono di grandissimo aiuto proprio quei 5 giovani
che, terminato il percorso di vita e di studio in casa
Don Bosco e raggiunta la maggiore età, restano
in casa-famiglia per frequentare l’università. Que-
sti giovani sanno capire al volo i problemi dei loro
compagni più piccoli perché li hanno vissuti prima
di loro e, come fratelli maggiori, si affiancano nel
cammino di crescita dei più piccoli, con tanta di-
sponibilità al servizio anche nelle cose più sempli-
ci e concrete. In Casa Don Bosco c’è la cuoca ma
non c’è altro personale di servizio; i ragazzi, guidati
dai più grandi, fanno le pulizie, aiutano in cuci-
na. Addirittura gestiscono la mensa scolastica del
Collegio. Gli studenti che si fermano nella mensa
scolastica, sono poco più di un centinaio: hanno i
giovani e i ragazzi della Casa Don Bosco che ser-
vono, puliscono e lavano i piatti. Tutto per raggra-
nellare qualche soldo che finanzi la loro esperienza
di vita. Lo stato peruviano non aiuta in alcun modo
questa attività, le famiglie di provenienza sono le
ultime che possono contribuire al sostegno econo-
mico (ne avrebbero bisogno loro per prime). Vivono
del frutto del loro servizio dentro l’opera salesiana e
della solidarietà di tanti benefattori, come gli amici
di Missioni Don Bosco, che sanno donare loro un
futuro.
Una dura prova che li ha colpiti quest’anno è stata
la morte improvvisa della signora Eliana, educatri-
ce di Casa Don Bosco, che per loro era la mamma
di tutti. Sempre serena e attenta a ciascuno, sapeva
donare un sorriso e un abbraccio di conforto quan-
do ce n’era bisogno. Un tumore al cervello se l’è
portata via in pochissimo tempo. Per i ragazzi è
stato come restare orfani una seconda volta! Padre
Pedro, molto saggiamente, ha condiviso con tut-
ta l’équipe formativa la decisione di non sostituire
subito Eliana con una nuova educatrice, perché la
mamma è unica e non si sostituisce come avviene in
un cambio di turno lavorativo. Tutti i formatori si
sono impegnati a dare più tempo in casa-famiglia,
fino alla conclusione dell’anno scolastico, per sop-
perire alla mancanza di Eliana, così da dare tem-
po a questi ragazzi di metabolizzare ed elaborare il
grave lutto che li ha colpiti.
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Come Mamma Margherita
Sentendo raccontare questa storia ho ripensato a
Mamma Margherita, la mamma di don Bosco,
che all’Oratorio di Valdocco era diventata la nuova
mamma di tutti i ragazzi poveri che suo figlio ac-
coglieva in casa e al duro colpo che fu, per lo stesso
suo figlio don Bosco, quando anziana andò in Pa-
radiso lasciando un vuoto incolmabile a Valdocco.
La seconda bella esperienza che desidero condivi-
dere con voi è stata l’incontro del gruppo “Mamma
Margherita” nel sabato pomeriggio.
Il gruppo raccoglie circa 500 donne, madri in gran
parte, provenienti dal ceto popolare della città, che
coordinate da un’équipe di 50 volontarie – bravissi-
me – ogni sabato si trovano insieme nelle aule della
scuola per fare dei laboratori di taglio e cucito, lavo-
ro a maglia, all’uncinetto, cucina, bricolage… Un’e-
sperienza, questa del gruppo Mamma Margherita,
che, partita 31 anni fa dal Collegio salesiano, ora è
replicata in altri tre centri della città con ulteriori
150 donne aggregate ai laboratori del sabato po-
meriggio.
Stanno insieme, parlano, condividono la loro vita di
famiglia con altre donne che vivono i medesimi pro-
blemi quotidiani. Il pomeriggio passato assieme, con
i figli che spesso le accompagnano e stanno in orato-
rio a giocare, è un tempo di riposo dalle fatiche quo-
tidiane, di relax anche mentale e psicologico. Mentre
le mani costruiscono qualcosa di nuovo e bello, la
mente si riposa, la tensione personale cala, si ricari-
ca l’energia e si ritrova la forza per affrontare la vita
quotidiana, che per loro spessissimo è fatta di tante
privazioni – quando il salario per vivere è misero – e
a volte di umiliazioni, quando i mariti sono violenti.
Aiutare 500 donne a vivere meglio la loro vita, signi-
fica aiutare 500 famiglie ad andare avanti, si semina
con generosità il bene, perché dietro ad ogni donna
ci sono una casa, un marito, dei figli da crescere...
L’opera salesiana è in grado di fare anche questo
servizio alla città di Arequipa. È il carisma educati-
vo di don Bosco che si esprime in modalità diverse
e tutte orientate alla cura della persona e all’educa-
zione dei giovani.
Anche per loro le necessità non mancano: una mac-
china da cucire in più per dare l’opportunità a tutte
di cucire qualche indumento per la famiglia; go-
mitoli di lana per confezionare un maglione per il
figlio o il nipotino... tante piccole cose che servono
a sostenere i laboratori.
E loro stesse, che conoscono bene che cos’è la so-
lidarietà non si tirano indietro quando si tratta di
dare una mano, con i loro piccoli capolavori messi
in vendita nei mercatini locali, contribuiscono al
sostegno della Casa Don Bosco.
È il circuito del bene che produce altro e nuovo
bene!
Il panorama
montano è
caratterizzato
dal cono del
vulcano “El
Misti” che
sembra dormire,
ma quando
si sveglia e
comincia a
sbuffare, la
gente si chiede
se il vecchio
sonnacchioso
abbia voglia di
fare sul serio.
Le colate laviche
sono frequenti
e soprattutto
i terremoti
da queste
parti sono
particolarmente
distruttivi.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Le dieci qualità di
UN VERO AMICO
Come si può diventare una
persona affidabile su cui i propri
cari possono sempre contare?
Ecco i tratti della personalità
dell’”amico perfetto” secondo
la psicologia attuale.
L’ amicizia è essenziale per il nostro benes-
sere emotivo e sociale. Ma per essere un
buon amico c’è di più che essere sempli-
cemente presente per i propri cari. Come
si fa a diventare l’amico perfetto? Secondo la psico-
loga Barbara Greenberg, in un articolo pubblicato
su Psychology Today, alcuni tratti della personalità
rafforzano e alimentano le relazioni personali.
Sviluppare questi tratti non solo può migliorare le
amicizie attuali, ma anche attrarre nuove relazioni
positive e gratificanti. Dall’onestà all’empatia, ogni
qualità svolge un ruolo cruciale nella creazione di le-
gami forti e duraturi. Coltivando questi tratti, tutti
noi possiamo aspirare a essere l’amico perfetto, so-
stenendo le persone a cui teniamo. Ecco le 10 qualità
che secondo la scienza rendono l’amico ideale.
tire, anche se può essere difficile da accettare, perché
il suo obiettivo è vedervi crescere e migliorare. Que-
sta apertura crea una base di fiducia e rispetto reci-
proco, rendendo il rapporto più profondo e duraturo.
2. Gentilezza e cortesia
Essere gentili ed educati è essenziale. Gli amici
piacevoli sono positivi, sorridenti e con buone in-
tenzioni. La loro presenza è confortante e sanno
come rendere felici gli altri.
Sanno come compiacere senza sforzo apparente,
rendendo ogni interazione piacevole e memorabile.
La loro presenza e la loro gentilezza rafforzano le
amicizie e promuovono un ambiente armonioso.
3. La disponibilità
Un amico esemplare si distingue per la sua imman-
cabile disponibilità. Fisicamente ed emotivamente
presente, è attento alle esigenze dei suoi cari. L’a-
scolto attivo ed empatico è il cuore di questa qua-
lità. Il dono del nostro tempo e delle nostre risorse
dimostra il nostro impegno verso gli altri.
Un sostegno emotivo costante crea inoltre un sen-
so di sicurezza e stabilità nella relazione. Un buon
amico dimostra a chi gli è vicino che può sempre
contare su di lui in ogni circostanza.
1. L’importanza dell’onestà
L’onestà è spesso indicata come la qualità più im-
portante in un amico. Costruisce la fiducia, una
componente essenziale di qualsiasi amicizia solida.
Essere onesti significa essere autentici e trasparen-
ti, senza nascondere i propri pensieri o sentimenti.
Un amico onesto vi dirà ciò che avete bisogno di sen-
4. La lealtà
La lealtà è un pilastro di un’amicizia solida. Un amico
leale si distingue per la sua incrollabile difesa dei vostri
interessi, anche in vostra assenza. In quanto custode
dei vostri segreti, garantisce discrezione e fiducia. Nei
momenti di prova, la loro presenza rimane costante,
rifiutandosi di abbandonarvi di fronte alle sfide.
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2.1 Page 11

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Questa lealtà crea legami indissolubili e un rappor-
to duraturo. La lealtà non è solo una virtù, ma la
prova di un impegno profondo e sincero verso l’al-
tra persona.
5. La pazienza
La pazienza è una virtù essenziale nei rapporti di
amicizia. Permette di gestire i conflitti senza ran-
core, favorendo risoluzioni pacifiche e costruttive.
Accettando le differenze senza giudicare, la pa-
zienza crea un ambiente in cui ognuno si sente li-
bero di essere se stesso.
La capacità di aspettare e capire, senza affrettarsi o
criticare, è essenziale per superare le sfide e mante-
nere un’amicizia duratura ed equilibrata.
6. Il rispetto
Un amico rispettoso apprezza le vostre opinioni, i
vostri sentimenti e il vostro tempo. Non cerca di
cambiarvi, ma vi accetta così come siete.
Questa accettazione incondizionata crea un clima
di fiducia e sicurezza, permettendo a tutti di rea­
lizzare il proprio potenziale. Il rispetto reciproco
rafforza le amicizie.
Un amico flessibile si adatta agli imprevisti con fa-
cilità, mostrando comprensione e accettazione dei
vincoli dell’altro.
9. La comunicazione
Esprimere apertamente pensieri e sentimenti ed es-
sere un buon ascoltatore rafforza la comprensione e
il legame.
L’ascolto attivo arricchisce il legame e facilita la ri-
soluzione dei conflitti.
10. L’empatia
L’empatia è la capacità di comprendere e condivide-
re i sentimenti degli altri. Rafforza quindi il lega-
me emotivo. Un amico empatico sa riconoscere le
emozioni degli altri e offrire un sostegno adeguato.
Essendo attenta ai bisogni emotivi, l’empatia arric-
chisce e consolida il rapporto di amicizia. Rende i
legami più forti e profondi.
7. La generosità
La generosità non si limita ai beni materiali. Com-
prende la condivisione di conoscenze, tempo ed
esperienze. Un amico generoso offre le sue cono-
scenze, aiuta chi gli sta vicino a crescere e a im-
parare. Condividere le proprie esperienze, belle o
brutte, arricchisce il legame offrendo lezioni di vita
e prospettive uniche.
Questa generosità, sia intellettuale sia emotiva, ali-
menta e rafforza l’amicizia. Crea legami profondi e
duraturi basati sul sostegno reciproco.
8. La flessibilità
Essere flessibili significa sapersi adattare a situa-
zioni mutevoli e trovare compromessi. Dimostra la
volontà di mantenere l’armonia e la stabilità nell’a-
micizia.
GENNAIO 2025
11

2.2 Page 12

▲torna in alto
L’INVITATO
Andrei Munteanu
IL REGOLATORE
Incontro con Alphonse Owoudou,
Regolatore del Capitolo Generale XXIX
Domenica 16 febbraio,
a Valdocco, Torino, avrà inizio
il ventinovesimo Capitolo Generale
della Congregazione Salesiana.
Questo evento è il principale
segno di unità della Congregazione
nella sua diversità.
L’assemblea
del Capitolo
XXIX.
Può presentarsi?
Mi chiamo Alphonse Owoudou, Salesiano di Don
Bosco, originario del Camerun (Visitatoria ate,
Africa Tropicale Equatoriale) in Africa. Ad aprile
2025 festeggerò i miei 56 anni. Attualmente sono
Consigliere Regionale per l’Africa. Prima di assu-
mere questo ruolo all’interno del Consiglio Ge-
nerale, sono stato Superiore della Visitatoria ate.
Questo periodo mi ha permesso di scoprire la mia
visitatoria, le sue opere e la grande comunità educa-
tiva e pastorale su un territorio di sei nazioni, ridot-
to in seguito a cinque con la nascita dell’acc.
Questa missione mi ha fatto scoprire e comprende-
re meglio la ricchezza, la complessità e la bellezza
dell’Africa salesiana, una regione piena di storia,
promesse, sfide e risorse.
Qual è il compito del Regolatore?
Nel contesto del Capitolo Generale, il ruolo del
Regolatore è principalmente quello di garantire il
coor­dinamento tecnico e la regolarità dei processi
prima e durante il Capitolo. Presiede la Commis-
sione Tecnica, incaricata dell’elaborazione del ca-
lendario dei lavori, del documento di lavoro pre-
parato dalla Commissione Precapitolare, nonché
delle raccomandazioni del Rettore Maggiore o del
12
GENNAIO 2025

2.3 Page 13

▲torna in alto
Vicario per il buon svolgimento dei Capitoli Ispet-
toriali e delle regole elettorali.
Il Capitolo Generale è spesso definito come “il se-
gno principale dell’unità della Congregazione nella
sua diversità”. È in questo spirito che il Regolatore
deve orientare e facilitare gli scambi affinché que-
sta unità si manifesti pienamente, grazie a una pre-
parazione accurata e a discussioni ben strutturate.
Perché il Capitolo è così importante
per la vita della Congregazione?
Il Capitolo Generale è cruciale per la vita della
Congregazione perché è il momento in cui i Sa-
lesiani si riuniscono per riflettere insieme su come
rimanere fedeli al Vangelo, al carisma di don Bosco
e alle esigenze delle epoche e dei luoghi in cui eser-
citano la loro missione. Guidati dallo Spirito Santo,
i Salesiani discernono la volontà di Dio per servire
meglio la Chiesa e la gioventù in un momento pre-
ciso della storia.
Oltre a questa dimensione spirituale e di riflessio-
ne sulla missione, il Capitolo Generale gioca un
ruolo centrale nel governo della Congregazione. È
durante il Capitolo che si svolgono le elezioni o le
rielezioni del Rettore Maggiore, del suo Vicario e
degli altri membri del Consiglio Generale. Questo
processo elettivo consente alla Congregazione di
scegliere i responsabili che guideranno la missione
salesiana per i prossimi anni. Queste elezioni sono
fondamentali perché assicurano non solo la con-
tinuità, ma anche la vitalità e l’adattamento della
Congregazione alle sfide attuali.
Qual è il tema del Capitolo?
Il tema centrale del 29° Capitolo Generale è “Ap-
passionati di Gesù Cristo, dedicati ai giovani”, con
il sottotitolo “Vivere la nostra vocazione salesiana
in modo fedele e profetico”. Questo tema ci invita
a tornare all’essenza della nostra identità consacra-
ta, centrata su Cristo e sui giovani. Si tratta di un
appello a rinnovare il cuore stesso della vocazione
salesiana, a ravvivare l’ardore spirituale e apostolico
che deve animare ogni Salesiano.
Il tema mette anche in luce tre grandi priorità per
I gruppi
di studio
e scambio
di idee.
GENNAIO 2025
13

2.4 Page 14

▲torna in alto
L’INVITATO
Il Capitolo
Generale è
cruciale per
la vita della
Congregazione
perché è il
momento in
cui i Salesiani
si riuniscono
per riflettere
insieme su
come rimanere
fedeli al
Vangelo, al
carisma di don
Bosco e alle
esigenze delle
epoche e dei
luoghi in cui
esercitano la
loro missione.
il rinnovamento: la vita spirituale e la formazione,
una collaborazione accresciuta con i laici e i membri
della Famiglia Salesiana, e infine, una revisione co-
raggiosa delle strutture di governo della Congrega-
zione per adattarle ai bisogni attuali della missione.
Chi sono i partecipanti?
Il 29° Capitolo Generale riunisce un totale di 225
capitolari e un’équipe di 45 confratelli e collabo-
ratori per la logistica e altri servizi. In particolare,
i membri del Consiglio Generale sono 14, tra cui
il Segretario Generale, il Procuratore Generale, il
Rettore Maggiore Emerito e, in ordine crescente, 1
capitolare della rmg, 2 dell’ups, 22 della Regione
Cono Sud, 27 dell’Interamerica e anche 27 dell’A-
sia Est Oceania, 29 della Regione Mediterranea,
32 della Regione Africa, 33 dell’Asia Meridionale
e, i più numerosi, dell’Europa Centro-Nord. Que-
sti capitolari arrivano al Capitolo generale portando
il discernimento e la speranza dei 13 544 sdb che
abbiamo contato per questo importante incontro, e
durante la CG29, il 93% dell’assemblea sarà com-
posto da chierici e il 7% da confratelli coadiutori.
appena attraversato da quel famoso mese di luglio
2023, con una resilienza che ammiro.
Sono convinto che Dio ci aiuterà ad affrontare le
sfide di questo Capitolo che il Rettor Maggiore
emerito, cardinal Àngel Fernández Artime, ha vo-
luto profetico e portatore di rinnovamento.
Detto ciò, le mie “preoccupazioni” si allineano na-
turalmente a quelle di tutti i miei confratelli, le cui
riflessioni sono state sintetizzate nell’Instrumentum
Laboris, derivante da 244 documenti ricevuti. Tra
le principali, c’è la questione dell’identità carisma-
tica. Molti esprimono la paura che il nostro carisma
salesiano perda gradualmente la sua specificità e
che rischiamo di diventare simili a qualsiasi orga-
nizzazione sociale.
Ci saranno sorprese?
Potrebbero esserci sorprese durante questo 29°
Capitolo Generale, a causa dell’ampiezza della sua
agenda e del desiderio espresso di prendere “deci-
Quali sono le sue preoccupazioni?
Mi sento complessivamente sereno, soprattut-
to dopo tutto il percorso “sinodale” che abbiamo
14
GENNAIO 2025

2.5 Page 15

▲torna in alto
SANTUARIO BASILICA MARIA AUSILIATRICE
TORINO
Il sogno continua
anche con il tuo aiuto
GRAZIE
per il tuo contributo
al restauro dei campanili
della Basilica Maria
Ausiliatrice
dSAiNTToUArRinIOoBASTILOICRA
MAR
INO
sioni coraggiose” e adottare una posizione “più pro-
fetica”. È in ogni caso ciò che molti di noi sperano.
Inoltre, come già sottolinea l’Instrumentum Laboris,
ci sono forti aspettative affinché questo Capitolo
sia un momento di coraggio e profezia. È probabile
che il CG29, invece di moltiplicare le esortazioni,
decida di focalizzarsi su alcune priorità chiave, in BANCA INTESA SANPBAANOCALINOTESA SANPAOLO
accordo con i segni dei tempi. Tra queste priorità, IBAN IT78 J030 6909IB6A0N61IT0780J003000691019560661904000 0115 694
potrebbe esserci un’attenzione particolare all’attua- BIC BCITITMM BIC BCITITMM
zione e al rafforzamento del protocollo di protezio- CAUSALE: CAMPANICLAUI SRALEESCTAAMUPARNIOLI RESTAURO
ne dei minori e delle persone vulnerabili, garan-
tendo che ogni opera salesiana sia un luogo sicuro
e protetto per tutti. L’educazione alla pace e alla
Intestazione cIonntteostazione conto
ORATORIO SAORLAETOSRIIAO NSAOLESSIA.NFORANCESCO
S. FRANDCEISSCOADLI ESASLESBBAASSILICLAICA
convivenza pacifica potrebbe anche figurare tra i
temi centrali, soprattutto nei contesti segnati dalla
violenza o dai conflitti.
Infine, le questioni contemporanee come la mis-
sione digitale, l’ecologia integrale e la giustizia so-
ciale potrebbero essere oggetto di decisioni audaci,
tenendo conto della diversità dei contesti in cui il
carisma salesiano deve esprimersi oggi. Focaliz-
zandosi su aree concrete, il Capitolo potrebbe for-
nire risposte profonde e coerenti alle sfide attuali,
Sostieni
BANqpCruoeAgsetIotNtoTsEuSA SANPAOL
IBANforfIuTn7d8inJg.0it30 6909 6061
BIC BCITITMM
CAUSALE: CAMPANILI RE
rispettando al contempo la ricchezza delle diverse
realtà locali.
ORATORIO SALES
D
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15

2.6 Page 16

▲torna in alto
LA NOSTRA GLORIA
T.B.
Suor MARIA TRONCATTI
dalla selva al cielo
Presto papa Francesco la dichiarerà santa.
La piccola
camera di suor
Maria Troncatti
e il suo abito
amorevolmente
conservati.
A Corteno di Brescia,
nel 1892, arrivava il
Bollettino Salesiano,
e la maestra, al termi-
ne della lezione, lo leggeva alle
sue scolarette e ai suoi scolaretti.
Leggeva le lettere dei missionari,
le loro avventure nei Paesi pove-
rissimi dell’America del Sud, il loro lavoro tra gli
emigrati e gli indios. Tra le scolarette che ascolta-
vano incantate c’era Maria Troncatti, nove anni e
l’innocenza che fioriva negli occhi chiari. Maria
avrebbe voluto partire subito per le missioni, ma
c’era altro da fare nella casa di papà Giacomo e di
mamma Maria. C’era da arrampicarsi, tutte le esta-
ti, sull’Alpe insieme alle capre, fino alla baita. C’era
da rimestare la polenta per il papà e i fratelli, che
custodivano le mucche nei prati alti, e mungevano
il latte e facevano i formaggi.
Nel 1900 Maria compì 17 anni, e radunò il coraggio
di confidare a qualcuno il suo grande desiderio.
Lo manifestò prima alla sorella maggiore, Cateri-
na, poi al parroco. La difficoltà enorme fu dirlo a
papà, un uomo rude e dall’amore tenerissimo per
le sue figlie. Un lampo severo dei suoi occhi e un
lungo silenzio corrucciato chiusero il discorso... per
quattro anni. Maria pregò, continuò obbediente e
serena la vita di tutti i giorni. Il parroco ogni tan-
to veniva a parlare, al padre e alla figlia. Nel 1904
Maria Troncatti compiva 21 anni, ed era sempre
decisa nella sua scelta. E papà diede il suo consen-
so. Le diede tutto l’occorrente per prepararsi il cor-
redo, non disse una parola di disapprovazione. Ma
quando la baciò sulla porta di casa, cadde svenuto.
La guerra e il tornado
La prima obbedienza la mandò a Rosignano Mon-
ferrato, cuoca e catechista tra le fanciulle, che su-
bito le vollero un gran bene. Da Rosignano a Va-
razze, mentre scoppia la prima guerra mondiale.
Suor Troncatti partecipa a un corso di infermiere,
mentre il collegio salesiano si trasforma in ospeda-
le militare. Ha 32 anni quando comincia a girare
per le corsie, tra i soldati dilaniati dalle granate. Il
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GENNAIO 2025

2.7 Page 17

▲torna in alto
25 giugno di quell’anno, 1915, un
violento tornado si abbatte su Va-
razze. L’acqua del torrente Teiro
invade il collegio, abbatte i muri.
Suor Troncatti si trova non sa
come su una tavola del refettorio
portata via dalla corrente tra gor-
ghi e rottami. Si rivolge alla Ma-
donna, e le promette che se avrà
salva la vita partirà per le missioni,
tra i lebbrosi. Si salva afferrando-
si a una ringhiera, mentre un’altra suora è travolta.
Alla Madre Generale scrive una lunga lettera, nar-
rando ciò che è accaduto e facendo la sua domanda
per le missioni, tra i lebbrosi. Passano sette anni, e
la domanda dorme nei cassetti della Superiora.
Una ragazzina, Marina Luzzi, nel marzo 1922 sta
morendo per una polmonite doppia. Suor Maria
le è accanto. Entrambe sanno che non ci sono più
speranze. A un tratto suor Maria bisbiglia: «Tu
presto vedrai la Madonna. Dille che mi otten-
ga da Gesù di andare missionaria tra i lebbrosi».
Marina la guarda, sorride, e riesce a bisbigliare la
risposta: «Lei andrà missionaria in Ecuador». «Ma
io ho chiesto di andare tra i lebbrosi». Marina sor-
ride sempre, e ripete: «In Ecuador». Marina Luzzi,
un’anima trasparente che aveva chiesto come ulti-
mo regalo di morire nella «casa della Madonna», va
incontro a Dio in quella stessa notte. E tre giorni
dopo Madre Daghero chiama suor Troncatti. «Hai
chiesto di andare in missione sette anni fa. Ma
come facevo a mandarti durante la guerra? Ora i
mari sono tornati tranquilli. Andrai in Ecuador».
Marsiglia, stretto di Gibilterra, Oceano Atlantico,
stretto di Panama, Oceano Pacifico. La nave co-
steggia la Colombia, scende lungo l’Ecuador e s’in-
fila nella baia di Guayaquil. Nella periferia della
città c’è una casetta di legno con alcune Figlie di
Maria Ausiliatrice, e nugoli di ragazze che can-
tano, studiano, giocano. Suor Troncatti passa lì il
suo primo Natale missionario. E lì impara le prime
nozioni sulla sua nuova patria. L’Ecuador aveva
sei milioni di abitanti, con questa
curiosa distribuzione: il 49% del-
la gente abitava lungo le rive del
mare; un altro 49% abitava nelle
province che si arrampicavano dal
mare fino alle cordigliere delle
Ande: erano bianchi e indigeni
che lentamente si erano mescola-
ti; il 2% abitava invece nelle vaste
e sconosciute terre dell’Oriente,
oltre le altissime e invalicabili
Ande. Questo 2% era costituito da coloni e avven-
turieri bianchi (giunti in gran parte da Perù e Co-
lombia) e dalle tribù di indios Shuar e Achuar. Tra
bianchi e indios c’erano incontri e scontri continui,
e tutti abitavano immersi nella «selva». Tra quel 2%
i missionari e le missionarie salesiane tentavano di
inserirsi e stabilirsi.
Grande spedizione alla terra
degli Indios
Dopo qualche tempo di «acclimatazione» a Chunchi,
una cittadina arrampicata sul dorso della cordigliera,
e abitata in prevalenza da indigeni (dove fu medica
nell’ambulatorio e farmacista nel piccolo spaccio di
medicine chiamato botiquin), il vescovo missionario
Domenico Comin arrivò e disse: «È ora di partire».
Prese avvio la grande spedizione che doveva varcare
l’altissima cordigliera andina e poi scendere nella fo-
resta, fino alla terra degli indios Shuar.
Padre Albino Del Curto, che avrebbe guidato la
spedizione, aveva percorso per primo quella zona
Un ritratto di
suor Maria e
una foto con i
suoi “clienti”
della selva.
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2.8 Page 18

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LA NOSTRA GLORIA
La
«madrecita»
senza paura e
la prima casa.
inesplorata, e insieme ad
alcuni operai aveva trac-
ciato un sentiero e costrui-
to alcune baracche che sa-
rebbero state il loro rifugio
durante il viaggio.
A Cuenca, 2000 metri di
altezza, l’ultima sosta tra
persone amiche, nella casa
dedicata al «Cuore di Maria». S’incamminarono
con il Vescovo, due salesiane, dodici robusti
portatori. In testa a tutti don Albino Del Curto,
e in coda gli uomini di scorta venuti da Cuenca
a cavallo, costeggiando torrenti che apparivano e
sparivano tra abissi paurosi e picchi di cui non si
vedeva la cima, salirono fino ai tremila metri di
Pailas. Quella località si sarebbe cercata invano sul-
le carte geografiche, perché l’aveva costruita poco
prima don Albino: una costruzione in legno con
tre stanzette. Poterono riposare una notte al riparo.
Al mattino il Vescovo disse la Messa, mentre sulla
foresta scendeva una pioggia torrenziale. Quan-
do la pioggia, che sembrava non finire mai, ebbe
una pausa, gli uomini del-
la scorta sellarono i cavalli
e iniziarono il ritorno. Le
missionarie e i missiona-
ri avrebbero continuato a
piedi, per il sentierino che
s’arrampicava senza fine
tra gli alberi della foresta.
S’incamminarono pregan-
do, tra rami stillanti e foglie viscide. Suor Troncatti
non ricordava quanto era durato il viaggio: ricorda-
va che aveva pregato, pianto, che aveva perso i tac-
chi degli stivaletti ed era svenuta. Don Del Curto,
in testa a tutti sempre, cantava le lodi della Madon-
na, e suor Maria cercava di unirsi almeno col cuore.
Operazione chirurgica
col temperino
Un colpo di fucile spazzò il brutto incantesimo.
Un colpo di fucile sparato da padre Corbellini, che
era venuto incontro con alcuni Shuar, aveva visto
dall’alto la carovana e dava così il benvenuto. Si
abbracciarono. Percorsero in canoa un tratto del
fiume Paute. Ed ecco Mendez, il centro del Vica-
riato apostolico affidato a monsignor Comin. Eb-
bero una brutta sorpresa: la missione era occupata
da un centinaio di Shuar armati e minacciosi. In
uno scontro tra due tribù, la figlia di un capo era
stata colpita da una pallottola che le aveva trapas-
sato il braccio e s’era conficcata nel seno. Il capo
si avvicinò a padre Corbellini e nel poco spagnolo
che sapeva fu brutalmente esplicito: «Tu curando,
noi aiutando. Tu non salvando, noi a tutti morte
dando». Il Vescovo si rivolse a suor Troncatti: «Lei
è l’unica che sa di medicina. Se la sente?». «No».
«Operi lo stesso. Noi pregheremo». Con un po’ di
tintura di iodio e un temperino sterilizzato sulla
fiamma, suor Maria affrontò l’ascesso che in quat-
tro giorni s’era formato attorno alla pallottola. Inci-
se a fondo dicendo: «Maria Aiuto dei Cristiani!» La
pallottola balzò fuori e andò a cadere ai piedi degli
Shuar, che scoppiarono a ridere contenti. E l’indi-
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GENNAIO 2025

2.9 Page 19

▲torna in alto
gena tredicenne, dopo tre giorni,
poté tornare con i suoi nella selva.
Dopo la sosta a Mendez, la caro-
vana proseguì per Macas, a quat-
tro giorni di cammino, risalendo il
corso del fiume Upano. Macas era
un villaggio di coloni, circondato
da Kivarìe, le abitazioni collettive degli Shuar. La
missione, con la casetta delle suore, sorgeva su una
collina. E l’accoglienza fu cordialissima. La gen-
te venne a portare i suoi doni: galline, bottiglie di
miele, uova, grappoli di banane. Suor Troncatti ab-
bracciò tutti, pianse un’ultima volta quando l’ispet-
trice e la novizia ripartirono insieme al Vescovo.
Poi si asciugò le lacrime, si rimboccò le maniche, e
alle due giovani missionarie restate con lei disse: «E
adesso lavoriamo. La Madonna ci aiuterà». Aveva
42 anni. Ne avrebbe passati altri 44 in quella selva,
nell’ambulatorio e nella scuola, sui sentieri e sul-
le canoe con cui raggiungeva le Kivarìe, tra quella
gente dalla pelle bianca e scura, che incominciò in
quei giorni a chiamarla «madrecita», piccola madre,
e non smise più.
144 anni di Madrecita
Come raccontare quei 44 anni, fitti di giorni e
di avvenimenti, di sacrifici e di successi, di lacri-
me e di salvezza? Maria Troncatti si logorò come
una moneta passata di mano in mano, che tutti
spendono e tutti consumano. Gli episodi, tutti gli
episodi di bontà e di carità forte, li ha registrati sol-
tanto il Signore.
Lui ha visto Yampauch, la piccola Shuar di un-
dici anni, fuggire da casa dove la mamma si era
impiccata dalla disperazione, e rifugiarsi da suor
Troncatti dicendo: «Tienimi con te». Ha visto la
mamma bianca, picchiata dal marito ubriaco,
fuggire nella notte insieme ai suoi bambini e bus-
sare alla casa delle suore: «Madrecita, se non ci tieni
con te, quello ci ammazza». Ha visto suor Maria
adottare il figlio illegittimo di una povera serva,
che tutti volevano uccidere, e che lei mise in una
culla vicino al suo letto, chiamò
Josè Maria e allevò come suo
figlio.
Dopo dieci anni di lavoro, suor Troncatti scrisse
nella relazione annuale: «Abbiamo 70 alunne nelle
classi elementari; 80 ragazze, fidanzate o spose nel
laboratorio per esterne; 20 piccole Shuar e 8 bian-
che orfane interne; 200 Shuar al catechismo». Va-
leva la pena piangere sul sentiero che saliva verso le
Ande, per piantare in questa selva il Regno di Dio.
Lo pensava, la Madrecita, mentre ogni sera face-
va la Via Crucis e aggiungeva un’ora di adorazione
alle preghiere che faceva con la sua piccola comuni-
tà. Nel novembre del 1947 l’isolamento della selva
è rotto di colpo: piccoli aerei riescono a collegare
Mendez alla capitale dello stato, Quito. Il 27 ago-
sto 1948 suor Troncatti sale su uno dei piccoli aerei
e va alla capitale a fare gli Esercizi Spirituali. Ha
65 anni. Negli anni seguenti vede arrivare la luce
elettrica, la stazione radio, il mulino, la trebbiatrice,
persino una jeep. Vede nascere, come un miracolo,
la Federazione Shuar, che difenderà le famiglie indi-
gene dalle prepotenze dei bianchi.
25 agosto 1969. Suor Troncatti ha 86 anni e le
gambe gonfie. Non la chiamano più «madrecita»
ma «abuelita», che significa «nonnina». Sale ancora
su un piccolo aereo per recarsi agli Esercizi Spiri-
tuali. Pochi minuti dopo, la radio della Federación
Shuar interrompe la trasmissione e una voce conci-
tata comunica: «Oggi, alle ore quindici, un aereo
è caduto poco dopo la partenza. La nostra madre,
suor Maria Troncatti, è morta». Era rimasta distesa
sull’erba a braccia spalancate. L’ultimo gesto riassu-
meva tutta la sua vita: aveva spalancato le braccia a
tutti, in nome di Dio.
Nei suoi
gesti c’era
un autentico
amore
materno.
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2.10 Page 20

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LE CASE DI DON BOSCO
Santo Russo
BARCELLONA
POZZO DI GOTTO
Cento anni d’amore per don Bosco
La magnifica
nuova chiesa.
Barcellona Pozzo di Gotto si trova nella
Provincia di Messina a circa 40 km sul-
la costa tirrenica andando verso Palermo.
Conta più di 40 000 abitanti ed è la città
più grande della provincia, dopo il capoluogo. È
un fiorente centro commerciale grazie alla sua po-
sizione geografica: si estende in una vasta pianura
verdeggiante che arriva fino al mare.
L’Opera Salesiana di Barcellona è stata preparata
prima ancora dell’arrivo dei Salesiani. Fin dall’i-
nizio del 1900 erano presenti alcuni Cooperatori
e Cooperatrici. Anche la presenza dell’Istituto Sa-
lesiano “S. Luigi” di Messina, i cui giovani spesso
venivano a Barcellona, contribuì a far conoscere
don Bosco e a far nascere nel cuore dei barcellonesi
la speranza di un Oratorio nel proprio paese.
Ma il merito più grande spetta al Reverendo Sacer-
dote Nunziato Bonsignore che fin dal 1906, perso-
nalmente, perorava la causa della presenza salesiana
a Barcellona al Rettor Maggior don Michele Rua.
Così lui stesso racconta l’accaduto nel commemora-
re il “Primo lustro della Fondazione” dell’Oratorio
di Barcellona (1928): “Reverendissimo Sig. Don
Rua, vorrà concedere Vostra Signoria un Oratorio
a Barcellona? Io piglierò su di me il fitto di una
casa che già ho in vista». Dopo breve riflessione il
Sig. D. Rua rispondeva: “I Salesiani verranno in
Barcellona ma… ci vuole…” fece quindi dei segni
di attesa con la mano ed infine continuò: “Dunque
verranno, quando avranno una casa propria con un
cortile…” ed allargando le braccia accennava alla
vastità del cortile.
Il terreno era preparato, la speranza sempre accesa,
l’insistenza sempre più frequente. Bisognava però
aspettare circa 20 anni prima che questo sogno si
realizzasse.
Infine la grande munificenza di due persone il
Commendator Salvatore Cattafi e Signora Maria
Teresa De Luca, che donarono una casa con un
cortile ai Salesiani per la loro opera, permisero la
realizzazione di questo sogno dei barcellonesi. A
questi coniugi il grazie e la riconoscenza illimita-
ta ed eterna dei Salesiani e dei barcellonesi, perché
con questo loro gesto sublime di carità e di amore
hanno permesso a tanta gioventù di Barcellona di
trovare nell’Oratorio un “oasi di pace”, un punto di
riferimento, un luogo di formazione umana, sociale
e religiosa, un luogo di socializzazione e di sano
divertimento.
20
GENNAIO 2025

3 Pages 21-30

▲torna in alto

3.1 Page 21

▲torna in alto
Una bella sassaiola
E il 17 gennaio 1924 arrivavano i Salesiani a Bar-
cellona. Così il Cronista della Casa descrive l’arri-
vo: “17 gennaio 1924. Don Spitale, Direttore parte
da Catania con D. Salini, il Chierico Faillace e il
Coadiutore Castiglione per aprire la nuova Casa. I
quattro Salesiani arrivano alla stazione di Barcello-
na alle ore 15,41 e sono fraternamente ricevuti da
una larga rappresentanza del clero».
Don Tullio Rizzo, uno dei primi salesiani di Bar-
cellona, in una sua memoria, così racconta il primo
impatto dei Salesiani con l’ambiente: “Proprio il 17
gennaio 1924 i giovani di Barcellona e i “Marsali-
noti” di Pozzo di Gotto si erano dati appuntamen-
to su ambo le sponde del torrente Longano, perché
schierati, rispettivamente, gli uni presso il paralle-
lepipedo dell’enel, gli altri presso l’attuale monu-
mento ai Caduti, si potessero cimentare in prima
linea a furore di sassate onde sfogare l’obbrobrio-
so vicendevole astio per lo stupido e malaugurato
campanilismo”.
Questo era il campo di lavoro dei primi Salesiani.
Essi si “rimboccarono le maniche” e subito inco-
minciarono il lavoro salesiano. Inizi difficili ma su-
perati dall’intelligenza, dall’abilità e dallo spirito di
sacrificio dei confratelli che ottennero subito grossi
risultati. Il 27 gennaio 1924 diedero ufficialmen-
te avvio all’Oratorio Festivo, che poi era sempre
quotidiano, l’opera principale dei Salesiani, con
126 giovani presenti al mattino e 322 alla sera. Fu
l’inizio promettente di una numerosa schiera di ra-
gazzi, giovani e adulti che cominciavano a frequen-
tare l’Oratorio e che di giorno in giorno si vedeva
sempre più numerosa.
L’Oratorio Salesiano sorge nella città in un punto
strategico: alla confluenza dei due borghi, Barcel-
lona e Pozzo di Gotto. Strategico sia dal punto di
vista urbanistico sia dal punto di vista educativo-
pastorale.
Attaccato ai margini del torrente e limitrofo al
Municipio, l’Oratorio fa da cerniera ed è punto di
incontro e di unione fra le due zone e, dal punto
di vista salesiano, in tale posizione, abbraccia tutta
quanta la città essendo accessibile da parte di tutti
i giovani.
Un ambiente povero di cui soprattutto i giovani
erano le naturali vittime.
La presenza dei Salesiani è stata provvidenziale.
Con il loro lavoro, con tanti sacrifici, con tanto in-
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3.2 Page 22

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
Lo stile è quello di sempre fatto di
familiarità, accoglienza, dialogo,
rispetto dell’altro e attraverso
attività di animazione sportiva,
culturale e sociale, e di formazione
civile, morale e religiosa.
Un’immensa solidarietà
Sono anche anni difficili, gli anni della seconda
guerra mondiale, ma vissuti e affrontati, pur fra
tante difficoltà, con coraggio, forza e amore per i
giovani. La tenacia, il coraggio, la fiducia dei Con-
fratelli, assieme alla solidarietà della città di Bar-
cellona, compatta e unita ai Salesiani, permisero
all’Oratorio di sopravvivere e riprendere nuova for-
za ed energia.
Gli anni che si susseguirono furono anni un po’
particolari: l’Oratorio era ormai cadente, aveva bi-
sogno di continue attenzioni: le esigenze comincia-
vano ad essere diverse e vi era bisogno di moder-
nizzarsi. Ma come fare? Anche se la generosità del
Commendatore Cattafi che lasciava i Salesiani suoi
eredi universali aveva dato uno spiraglio, l’impresa
sembrava difficile e quasi impossibile.
Salesiani, giovani ed amici sognavano un nuovo
Oratorio. Da allora un altro sogno “perseguita” i
Salesiani e la Città di Barcellona: al posto del “vec-
chio” Oratorio sognano una Palestra coperta con
nuove sale per un moderno Centro Giovanile e So-
ciale o una nuova vera Chiesa.
Il sogno, oggi, sta per realizzarsi per un rinnovato
servizio ai giovani e alla città.
gegno, a poco a poco, col sor-
riso e lo stile di don Bosco,
i Salesiani riuscirono a con-
quistare gli animi di questi
ragazzi.
I quali, dopo qualche diffidenza, incominciarono a
frequentare l’Oratorio e a gustare la gioia di cresce-
re nella serenità e nella pace: giocare liberamente
in cortile al pallone, alla sbarra, alla giostra, all’al-
talena e ad altri semplici giochi. Allontanati dalla
strada, potevano liberamente esprimere se stessi e
dare sfogo alle loro potenzialità.
La scuola, le preghiere, le varie associazioni, il tea-
tro, la musica trasformarono questi giovani, diven-
tati oggi, con grande soddisfazione della società e
dei Salesiani, “buoni cristiani e onesti cittadini”.
Un roseo futuro
Ancora oggi l’Oratorio gode di stima e riconoscen-
za nella Città e centinaia di giovani affollano ogni
giorno i cortili e le associazioni.
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3.3 Page 23

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La copertura del torrente Longano ha cambiato il
volto alla città odierna, tutta la città ha beneficiato
di continui interventi urbanistici, sociali, culturali
ed economici, da parte delle varie Amministrazioni
Comunali succedutesi, fino ad avere oggi una col-
locazione di rilievo fra le città messinesi.
Certo non mancano difficoltà proprie delle città
moderne che pongono ancora problemi di fragili-
tà giovanile, insicurezza sociale, illegalità diffusa,
incertezza nel futuro, residui di degrado sociale ed
economico. Sono sfide da accettare e, con l’impe-
gno di tutti, da vincere.
L’Oratorio oggi si pone come un punto di riferimen-
to educativo per la città, pronto a collaborare con la
Chiesa locale e con l’Amministrazione civile e le al-
tre agenzie educative, per venire incontro, con tutti
i mezzi a disposizione, alle richieste e ai bisogni dei
giovani per aiutarli a crescere e costruire un futuro
sereno. Tutto questo con lo stile di sempre fatto di
familiarità, accoglienza, dialogo, rispetto dell’altro e
attraverso attività di animazione sportiva, culturale
e sociale, e di formazione civile, morale e religiosa.
L’amore di don Bosco e l’amore dei giovani, in par-
ticolare per quelli più difficili, spinge i Salesiani a
credere in questa Opera così tipicamente salesiana
e a lavorare con tutte le loro forze, perché sanno
che l’Oratorio rimane ancora punto di riferimento
essenziale per tanti giovani e adulti di Barcellona
P.G., oasi di serenità, luogo di crescita umana, reli-
giosa e sociale.
IL SOGNO CONTINUA
Fra le strutture di una Casa salesiana non possono mancare tre
cose: una Cappella o Chiesa, un Teatro e un cortile. Per don Bo-
sco erano luoghi fondamentali per l’educazione e la crescita dei
giovani.
Quando i Salesiani giunsero a Barcellona avevano ricavato nella
Casa, unificando due saloncini, una Cappella interna perché i ra-
gazzi potessero dire le preghiere. Essendo però troppo piccola per
le celebrazioni con il popolo, fu loro affidata dall’Arcivescovo di
Messina la Chiesa dei SS. Cosma e Damiano che era posta accanto
all’Oratorio.
Date le precarie condizioni questa chiesetta fu lasciata e il sogno
dei Salesiani di avere una grande Cappella che potesse contenere
tanti ragazzi e persone, in modo particolare la Domenica e le fe-
ste, poiché l’affollavano all’inverosimile, si attuò con la ricostru-
zione del nuovo Oratorio ad opera della Regione Siciliana.
Anche questa chiesa si è rivelata molte volte insufficiente a con-
tenere la moltitudine di ragazzi e fedeli che vengono numerosi
per le varie celebrazioni, specialmente Prime Comunioni, Cresi-
me, Natale, Pasqua, don Bosco, Maria Ausiliatrice.
Ma i salesiani sono figli di un sognatore, così presto sarà pronta
una nuova magnifica chiesa.
I Salesiani continuano a lavorare con tutte le
loro forze, perché sanno che l’Oratorio rimane
ancora punto di riferimento essenziale per
tanti giovani e adulti di Barcellona Pozzo di
Gotto, oasi di serenità, luogo di crescita umana,
religiosa e sociale.
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3.4 Page 24

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SALESIANI
Romano Modugno Gugliotta
Il mitico PADRE PEPPE
Intervista a don Giuseppe Leo, da 44 anni
missionario in Centro America.
Ad un missionario consiglierei di partire senza grosse
valigie, libero di equipaggio, considerando che l’ufficio
personale del missionario deve essere il cortile.
Il mio sogno
nel cassetto
è creare un
centro di
spiritualità
nella capitale
panamense
per i giovani
delle nostre
case.
Sono nato a Villa
Santo Stefano (FR)
il 05/03/1949. In fa-
miglia eravamo cin-
que, una sorella più grande
ed un fratello più piccolo.
Come sei arrivato alla vocazione?
Da bambino. La domenica ogni tanto venivano in
paese i Missionari Passionisti provenienti dall’Ab-
bazia di Ceccano. Uno di questi era missionario in
Brasile. Avevo le idee chiare sul mio futuro, volevo
fare il prete.
Un giorno di agosto, era l’anno 1961, passò un ra-
gazzo del paese vestito da prete, tirocinante salesia-
no. Gli espressi i miei desideri, si fece carico di aiu-
tarmi ed il 24 settembre di quell’anno fui accettato
all’aspirantato salesiano. Avevo 12 anni, iniziava
così il mio percorso vocazionale. Feci i miei studi
tra Gaeta, Lanuvio e Genzano, fino al diploma di
liceo classico. A seguire 3 anni di tirocinio, primo
anno a Villa Sora a Frascati, secondo anno ad Ar-
borea in Sardegna, terzo anno tornai a Roma, al
Pio XI. Proseguii gli studi teologici per tre anni a
Roma, il primo al Sacro Cuore, il secondo a Santa
Maria Liberatrice a Testaccio e alla fine a Santa
Maria della Speranza, la parrocchia dell’università
salesiana. Avevo 28 anni.
L’anno seguente ci fu la mia ordinazione sacerdota-
le a Villa S. Stefano, il mio paese natale.
E quando nasce la vocazione missionaria?
Era nata sin da piccolo, ma la tenevo per me. Appe-
na ordinato sacerdote andai subito dal Rettor Mag-
giore di allora don Egidio Viganò, volevo essere
mandato in missione in Brasile nel Mato Grosso.
Don Viganò mi disse che servivano due sacerdoti
per Managua, in quegli anni si parlava della rivo-
luzione sandinista in Nicaragua. Mi chiese se me
la sentivo perché era una sfida impegnativa ma ac-
cettai. Confesso che furono anni difficili. Dopo tre
anni il governo nicaraguense ci costrinse a lasciare
la capitale, così ci spostammo a sud del paese a Ma-
saia, nella zona indigena del paese, dove restammo
sei anni.
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3.5 Page 25

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Che cosa successe dopo?
Dall’ispettoria centroamericana fui
mandato a Panama. Come prima cosa
ristrutturammo la scuola salesiana della
capitale. Dopo tre anni mi assegnarono
una nuova missione. A me ed un con-
fratello proposero di fare un’esplorazio-
ne nel paese al fine di aprire un’opera
salesiana che non fosse nella capitale. Si scelse il
Darien, la parte più remota e selvaggia della diocesi
panamense. Dal 1993 al 1997 feci questa esperien-
za nella foresta, poi di nuovo in marcia.
Altra obbedienza?
Venne a trovarmi un superiore, manifestai l’inten-
zione di fare un corso di antropologia, in particola-
re sulla Liturgia e sulla Storia della Chiesa. Dopo
un mese circa arrivò una borsa di studio di liturgia
a Barcellona. Non sapevo che il corso era di due
anni altrimenti…
Trascorso questo periodo di studio fui mandato di
nuovo a Roma all’oratorio della Speranza come re-
sponsabile del centro giovanile. Ma non era per me.
Venne a trovarmi un confratello compagno in mis-
sione. Mi propose di tornare con lui in Centroameri-
ca, in Honduras nello specifico. Parlai con l’ispettore
di allora don Pussino e presi la decisione di ripartire.
Rimasi in Honduras per 14 anni, costruimmo una
chiesa molto grande dal nulla insieme alla gente, in
zona di guerra fra bande giovanili. La chiesa diven-
ne il punto di riferimento della comunità.
Poi un’altra obbedienza?
Nel 2018, stavolta in Guatemala, nella zona mon-
tagnosa del paese, la più povera. Per oltre cinque
anni ho girato in circa 70 villaggi a rotazione evan-
gelizzando la popolazione locale, il popolo Q’eqchì,
gli antichi discendenti dei Maya.
Infine di nuovo a Panama.
Sì, da febbraio 2024 ennesimo trasferimento nella
capitale panamense dove tutt’ora mi trovo.
Immagini di una grande
vita donata completamente
a Dio e alla gente.
Se tornassi indietro nel
tempo, rifaresti la vita
del missionario?
Certamente, se dai alla gente
ti senti bene. Del resto è una
vocazione.
Che cosa consiglieresti
ad un salesiano
che vuole fare anche
il missionario?
Di partire senza grosse vali-
gie, libero di equipaggio, con-
siderando che l’ufficio per-
sonale del missionario deve
essere il cortile.
Dopo tanti anni trascorsi con i ragazzi,
che cosa pensi di loro?
Sono fantastici! Ti mettono in discussione, ti ob-
bligano a correggere continuamente le tue visioni.
Generalmente fanno più rumore alcuni, pochi, ra-
gazzacci scanzonati e senza ideali. Sono convinto
e credo nell’intuizione di don Bosco, il mio ideale
di come si possa vivere il cristianesimo. Don Bosco
diceva che in ogni giovane, anche il più difficile, c’è
un punto accessibile al bene e che nessun ragazzo
nasce cattivo. Sono purtroppo le circostanze della
vita che inducono spesso a fare scelte sbagliate.
Progetti per il futuro?
Il mio sogno nel cassetto è creare un centro di spiri-
tualità nella capitale panamense per i giovani delle
nostre case.
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3.6 Page 26

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LUOGHI SALESIANI
Ezhanikattu Saimi
Le nostre
CATACOMBE
Nessun cimitero cristiano dell’antichità può giustamente
vantare, come il Cimitero di San Callisto, di essere stato
il cimitero papale dei primi tempi della Chiesa. Ed è affidato
alla cura di una comunità salesiana per un indimenticabile
pellegrinaggio di fede.
R oma, anno 200 circa dell’era cristiana. Il
vescovo Zefirino raccoglie l’esigenza del-
la comunità cristiana del tempo di avere
un luogo proprio, cristiano, per la sepol-
tura dei defunti. Callisto, diacono, è uno dei primi
amministratori di questo luogo, che, pur molto ro-
vinato, è arrivato fino a noi, regalandoci una te-
stimonianza viva della fede in Cristo delle prime
generazioni cristiane.
Le Catacombe di San Callisto costituiscono il nu-
cleo cimiteriale più antico, e meglio conservato,
della Via Appia. Sorte verso la fine del secolo II
da una grande area sepolcrale comunitaria della
Chiesa, gestita autonomamente dall’autorità eccle-
siastica, prendono nome dal diacono Callisto che
fu preposto all’amministrazione del cimitero da
papa san Zefirino. Divenuto a sua volta pontefice,
Callisto ingrandì il complesso funerario e questo fu
il luogo dove trovarono sepoltura sedici pontefici
romani del III secolo (Cripta dei Papi).
La nostra visita
Subito entriamo nella cripta “dei Papi” che ha cu-
stodito i vescovi di Roma di quel tempo. Le poche
le lapidi sopravvissute, in frammenti, ci riportano
all’epoca delle persecuzioni, riprese intorno al 250.
Basta la piccola sigla greca “mtr” incisa di fianco ai
nomi, per evocare in noi la testimonianza dei mar-
tiri antichi e di ogni epoca.
Cecilia non riposa più in San Callisto, ora è in cit-
tà, nella sua basilica. La statua posta nel luogo ove
era il suo sarcofago evoca la sua gioventù, la sua
forza, la sua fede. Un taglio sul collo le impedisce
di parlare con voce umana, ma ecco che sentiamo
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3.7 Page 27

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quasi innalzarsi il suo canto a Dio: lei che muore
sgozzata, canta a Dio le sue lodi e ora, patrona della
musica, ispira la musica sacra di ogni tempo.
Percorriamo le lunghe gallerie vuote. Le guide,
raccontandoci con sapienza le tecniche di scavo e
di sepoltura, ci portano a gustare il nome di questo
luogo, un coemiterium, un dormitorio: queste tom-
be sono vuote come sarà vuota ogni tomba. “Laz-
zaro, vieni fuori”, il comando del Signore risuona
muto e solenne nei lunghi filari di loculi polverosi.
Ed ecco comparire i frammenti di lapidi, le incisio-
ni e gli affreschi che parlano di un mondo che non
ha paura della morte, dolorosa sì, ma semplice pas-
saggio alla vita con Dio. Allora “Aquilina dorme in
pace”, “Ciriaco vive con lo Spirito Santo”, il buon
Pastore guida il suo gregge, Giona esce dal ventre
del pesce, il banchetto evoca la festa del paradiso,
l’ancora ci avvisa che siamo arrivati nel porto sicuro
di Dio, la colomba parla di anima in pace…
Percorriamo solo una piccolissima parte del cimi-
tero, quella più significativa che contiene il ricordo
dei papi, di Cecilia e antichissimi affreschi. Le Ca-
tacombe si allungano per una ventina di chilometri
di gallerie, sono stimati circa 500 000 loculi, una
immensa città della speranza che ha custodito i pa-
stori di Roma e un centinaio di martiri, fra cui Tar-
cisio, il giovane martire per la custodia dell’Euca-
ristia, ancora meta di innumerevoli pellegrinaggi.
Salesiani, esprimendo il desiderio che questi luoghi
non fossero considerati “musei” ma “santuari” cioè
luoghi sacri.
Una ventina di confratelli, provenienti letteralmen-
te da tutto il mondo, aiutati da competenti guide
laiche, accolgono visitatori da ogni dove e in una
breve visita di una quarantina di minuti cercano
non solo di introdurre nella storia, ma soprattutto
nella spiritualità di questo posto.
Vengono pellegrini, studenti, croceristi, famiglie,
giovani e adulti, gruppi organizzati e singoli visi-
tatori. Alcuni restano delusi per non aver visto ossa
(rimosse e posate altrove in rispetto dei defunti),
come se le catacombe fossero un museo del maca-
bro. Pochi cercano la polemica e ci accusano di fare
proselitismo, quando semplicemente non è possibi-
le capire questo posto se non si comprende che l’in-
cisione di un pesce sull’intonaco, per i cristiani di
quel tempo e di ogni epoca, non è solo un graffito
sul muro, ma è la certezza che Gesù Cristo è il Fi-
glio di Dio, il Salvatore, per cui posso dormire nella
pace, posso rispondere all’imperatore e accettare un
verdetto di morte, il buon Pastore mi porterà con
sé. La maggior parte, credente o non credente, esce
emozionata e con un pensiero in più sulla vita e sul-
la morte, sui martiri e la testimonianza della fede,
sull’inutile arroganza dei potenti.
Una vera emozione
Nel 1930 Pio XI, che da giovane aveva conosciuto
don Bosco, affidò le Catacombe di San Callisto ai
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3.8 Page 28

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LUOGHI SALESIANI
La benedizione di Paolo VI
San Paolo VI, visitando le Catacombe di San Cal-
listo il 12 settembre 1965, benedisse le guide e in
poche frasi descrisse come presentare e come visi-
tare questo sacro luogo:
Alle guide che accompagnano i
Visitatori nelle catacombe, diamo
di cuore l’implorata Benedizione,
rilevando il carattere spirituale
dell’ufficio loro affidato.
Esercitatelo con fede, con devo-
zione, con cortesia, ricordando che
il Visitatore è sensibile, non meno
che alle vostre parole, all’animo e al
contegno con cui le pronunciate.
Aiutatelo a vedere bene codesti
santi luoghi, affinché egli vi pos-
sa intravedere l’umile splendore
della primitiva testimonianza
cristiana.
“Pellegrini di Speranza” è il motto del Giubileo
2025. Le Catacombe sono il santuario che custodisce
la Speranza Cristiana. Se state pianificando un pel-
legrinaggio nella Città Eterna, non trascurate questo
luogo così unico e significativo. Gli ampi prati che
custodiscono la catacomba, le cappelle sotterranee e
le chiesette di superficie, la chiesa che custodisce le
reliquie di san Tarcisio sono luoghi privilegiati per
rinnovare la nostra professione di fede.
Le gallerie
Vanno sfatati alcuni luoghi comuni che dipingono le cata-
combe, utilizzate dai Cristiani dei primi secoli, come tea-
tro di cruente azioni persecutorie e come estremo rifugio
dei fedeli in fuga.
Questa oscura visione delle catacombe non corrisponde
certamente allo spirito che aveva animato i primi Cristiani.
Le catacombe non erano altro che cimiteri comunitari e
non luoghi di rifugio anche perché questi siti erano ben
conosciuti dalle autorità romane. E anzi ne veniva am-
messa e riconosciuta la funzione funeraria.
Lapide papa Damaso
Papa Damaso, nella seconda metà del 300, abbellendo e
risistemando le Catacombe per onorare i martiri e favorire
i pellegrinaggi, fece incidere una lapide, sopravvissuta in
frammenti quasi completa, in cui descrive al pellegrino di
ogni epoca che cosa cercare nella Catacomba:
Se lo cerchi, sappi che qui riposa unita una schiera di Beati.
I sepolcri venerandi conservano i corpi dei Santi,
ma la reggia del cielo ha rapito per sé le anime elette.
Qui i compagni di Sisto che innalzano i trofei vinti al nemico.
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Qui il gruppo degli anziani che custodisce gli altari di Cristo.
Qui il Vescovo che visse nella lunga pace;
qui i santi confessori inviati dalla Grecia; qui giovani e ragazzi
e i vecchi con i loro casti discendenti, che preferirono conser-
vare la loro purezza verginale.
Qui, anch’io, Damaso, lo confesso, avrei voluto essere sepolto,
ma ebbi timore di disturbare le ceneri sante dei Beati.
Santa Cecilia
La liturgia di santa Cecilia, il 22 novembre, iniziava con
l’antifona in latino: “Cantantibus organis, Cecilia virgo in
corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor
meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar”.
Potremmo tradurla: “mentre si cantava accompagnando-
si con gli strumenti musicali la Vergine Cecilia cantava nel
suo cuore dicendo: – O Signore fa il mio cuore il mio corpo
immacolati in modo che io non sia confusa. –”
Possiamo pensare questo canto nell’ambito del suo ban-
chetto di nozze, in cui lei canta interiormente le lodi a Dio
mentre altri intonano canti profani. In tarde raffigurazioni è
Cecilia stessa raffigurata al suono dell’organo.
Questo suo cantare nel cuore ha reso Cecilia la patrona della
musica.
LA VISITA DI DON BOSCO
Nelle feste pasquali del 1858, don Bosco è a Roma. Le Memo-
rie ricordano una delle sue giornate: «Passò quindi alle catacombe
di S. Callisto. Quivi attendevalo probabilmente il Cavaliere G.B.
De Rossi, che aveva scoperte quelle catacombe, ed al quale ave-
valo presentato Mons. di San Marzano. Chi entra in quei luoghi
prova una tale commozione, che rimane indimenticabile per tut-
ta la vita; e D. Bosco era assorto in santi dolcissimi pensieri nel
percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, coll’assistere al
S. Sacrificio, colle preghiere in comune, col canto dei salmi e delle
profezie, colla santissima Comunione, coll’ascoltare la parola dei
Vescovi e dei Papi, avevano trovato la forza necessaria per il mar-
tirio che li aspettava. È impossibile mirare ad occhi asciutti que’
loculi che aveano rinchiuso i corpi sanguinosi o arsi di tanti eroi
della fede, le tombe di ben quattordici Papi che avevano data la
vita per testificare ciò che insegnavano, e la cripta di S. Cecilia. D.
Bosco era incantato dal sentimento che splende in queste imma-
gini, nelle quali l’arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre
la bellezza incomparabile dell’anima e l’ideale altissimo della
perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine Divina.
D. Bosco usciva dalle catacombe alle 6 della sera e vi era entrato
alle 8 del mattino. Aveva preso un po’ di refezione presso i reli-
giosi che le hanno in custodia» (Memorie Biografiche V, 919-920).
Forse don Bosco presentiva che la custodia di quel luogo santo
sarebbe stata affidata ai suoi figli.
Tutta la Famiglia Salesiana
mondiale è invitata a
visitare, nel corso dell’anno
giubilare, le Catacombe
di San Callisto, singolare
scrigno di speranza
affidato alla Congregazione
Salesiana.
Le informazioni più dettagliate e in diverse lingue si
possono trovare sul sito web www.catacombe.roma.it
oppure contattando direttamente le catacombe di San
Callisto: scallisto@catacombe.roma.it
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3.10 Page 30

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LA NOSTRA STORIA
Giuseppe Soldà
IL VERO VOLTO
di don Bosco
Don Giuseppe Soldà è l’autore
di un’opera monumentale: «Don
Bosco nella fotografia dell’800»
affettuoso omaggio a don Bosco
e rigorosa ricerca scientifica.
Don Bosco era personalmente contrario a
farsi fotografare. Del resto, nel suo primo
quarantennio di vita non risulta che ci
siano sue fotografie. Le prime risalgono
all’età di 46 anni. Dapprima cede al desiderio dei
suoi figli che ambivano avere un ricordo di lui. In
questo egli vede un modo per alimentare lo spiri-
to di famiglia e come un padre di famiglia tende a
mostrarsi negli atteggiamenti che possono essere di
esempio e di guida per i suoi figli. Si fa perciò ritrarre
nei comportamenti che reputa più significativi, em-
1
blematici. Lo vediamo difatti in mezzo ai ragazzi,
mentre confessa, col breviario in mano, in preghiera.
In un secondo momento, mentre le sue idee e le sue
opere cominciano a destare ammirazione e consen-
so, alcune persone amiche che credono in lui e lo so-
stengono nelle sue iniziative, gli chiedono un ritratto
come ricordo per l’affetto e la stima che egli suscita
in loro. E don Bosco, anche se continua a non pia-
cergli farsi fotografare, si piega alla necessità.
Don Bosco finisce così per vincere la sua personale
ritrosia nei confronti della foto, e ne fa anzi uno
strumento del suo apostolato, un mezzo per dif-
fondere gli aspetti fondamentali del suo impegno
di vita. E difatti spedisce le sue foto corredandole
spesso con frasi autografe come queste: «Dio be-
nedica e ricompensi tutti i nostri benefattori», «In
fin di vita si raccoglie il frutto delle opere buone»,
«Dio benedica e ricompensi largamente la carità dei
benefattori dei nostri orfanelli».
Presentiamo le più significative della sua vita, più
realistiche, dai suoi 46 ai 72 anni. Ci restituiscono
l’immagine della sua vicenda umana.
1  Don Bosco, a 46 anni, nella sua camera.
Risale al 1861. Considerando l’epoca, dal punto di
vista fotografico appare molto incisa. Don Bosco è
in una situazione abituale, seduto al tavolo di lavoro,
in una posizione spontanea, come se sospendesse la
sua attività per l’arrivo di una persona. In lui si nota
il volto scarno, affilato, di persona sofferente anche
se la sua espressione è serena e accogliente. In questo
periodo infatti don Bosco continua a lavorare mal-
grado le sue molteplici infermità, come si può notare
anche dalla sua postura che mostra affaticamento.
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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2
3  Don Bosco a Nizza nell’85. Ha 70 anni.
Don Bosco è a Nizza, sembra, per il decennale della
fondazione dell’opera. A Nizza c’era un numeroso
gruppo di cooperatori, amici e benefattori che gli
erano affezionati e che sostenevano le sue opere, ai
quali, con la gentilezza e l’astuzia che gli è propria,
vuole fare dono di una sua immagine. L’immagine
è fedele e non ritoccata. Mostra don Bosco ormai
vecchio e stanco, con il volto segnato dagli esiti
della tubercolosi miliare. Don Bosco appare con
il suo aspetto di contadino volitivo e tenace, dagli
occhi penetranti e sofferenti, dalle mani rudi ed
energiche. L’occhio sinistro è ancora vivace, mentre
il destro è visibilmente spento.
3
2  Don Bosco in poltrona, a 65 anni.
Scattata nel 1880 da M. Schemboche. Il fotografo
è tra i più rinomati e don Bosco vuole probabilmen-
te una bella fotografia da regalare a benefattori che
sostengono le molte opere nelle quali è impegnato
e per le quali necessita di denaro.
Sebbene già sessantacinquenne, don Bosco dimo-
stra in questa fotografia un aspetto ancora piuttosto
giovanile. Traspare dal suo volto l’energia dell’uo-
mo di azione. Si tratta di una foto che ebbe larga
diffusione perché fu scelta come immagine ufficiale
del Santo in occasione della beatificazione (1929) e
della successiva canonizzazione (1932). Era un’im-
magine consona ai gusti di quel tempo, ma essa
tuttavia non piacque a quanti avevano conosciuto
don Bosco di persona e preferivano piuttosto la fo-
tografia da cui trasparivano l’affabilità e la grande
carica umana del Santo.
Questa foto piace oggi, è divenuta il prototipo di
don Bosco. Da questa Caffaro Rore ha ricavato nel
1941 l’immagine che vediamo più frequentemente
e alla quale si ispirano tutte le interpretazioni del
Santo.
4  Don Bosco a 71 anni.
Sampierdarena 16 marzo 1886.
Don Bosco è in viaggio verso la Spagna. Si ferma
alcuni giorni a Sampierdarena per visitare la Co-
munità. Anche qui aveva molti amici e benefattori.
Proprio uno di questi, il marchese Spinola, vuole
una fotografia del Santo e per questo si reca da lui
con il fotografo quando don Bosco sta ripartendo.
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4.2 Page 32

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LA NOSTRA STORIA
È notizia curiosa che per scattare la fotografia don 5
Bosco rischia di perdere il treno, ma il caposta-
zione, avvertito, ritarda la partenza per aspettarlo.
Evidentemente la fama del Santo era già molto af-
fermata. Per molti anni questa fu l’immagine più
diffusa in quanto bella, molto fedele alla fisionomia
del Santo, preferita da chi viveva con don Bosco,
tanto che il Rollini, dopo la morte di don Bosco,
ne farà il quadro ufficiale. Colpisce in questa foto-
grafia la vivezza del sorriso e dello sguardo. Ci dà
un’immagine di don Bosco molto spontanea e na-
turale, con un’espressione tra il divertito, il compia-
ciuto, lo scherzoso: probabilmente proprio la situa- 5  Don Bosco nella villa Martì-Codolar.
zione di fretta che si era venuta a creare (attesa del Barcellona 3 maggio 1886.
treno, tanta gente presente, un po’ di confusione...) È l’unica fotografia di cui si conserva il negativo
ha avuto il sopravvento sulla situazione di posa. in lastra di vetro al collodio. È uno dei più belli e
4
fedeli ritratti di don Bosco, dal volto amabilmente
paterno, attorniato dai suoi figli, ragazzi e coope-
ratori. Tale immagine, già all’epoca, piacque molto.
La fotografia è strutturata in modo da incorniciare
e dar risalto alla figura del Santo. Don Bosco ha un
volto sereno, sorridente. Si vedono i suoi 72 anni,
ma è una vecchiaia vigorosa di uomo attivo, che
partecipa intensamente alla vita. Gli occhi sono vi-
vaci, penetranti, la bocca atteggiata spontaneamen-
te al sorriso; il suo volto dà un senso di dolcezza, di
amabilità, di bontà. Probabilmente esprime qui un
momento di soddisfazione nel sentirsi attorniato da
persone «sue», legate a lui: il senso della sua vita
realizzata negli altri e per gli altri.
6  Don Bosco con la prima spedizione
missionaria.
È la prima fotografia voluta da don Bosco. 1875. Don
Bosco corona il sogno di mandare i suoi Salesiani
nelle lontane Americhe, tra i figli degli emigrati.
È un avvenimento importante: i giornali ne parlano,
all’Oratorio c’è un gran fermento e tutto deve avere
l’impronta di un grande avvenimento, come in realtà
è. Per dar lustro alla circostanza giunge a Valdoc-
co il Console argentino a Savona. Don Bosco vuole
immortalare con una fotografia l’avvenimento per
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4.3 Page 33

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pubblicizzarlo e perché serva di stimolo. La fotogra-
fia mostra tutta l’importanza che a tale avvenimento
si desidera dare: don Bosco indossa il ferraiolo e lo
zucchetto come nelle grandi occasioni in cui si pre-
sentava al Papa, il Console G. Battista Gazzolo è
in grande uniforme, i partenti vestono alla spagnola,
con il mantello caratteristico di quei luoghi, per di-
mostrare in questo che erano «dei loro» e non degli
estranei. Su di essi spicca il Crocifisso da Missionari.
Don Bosco è nell’atto di consegnare un libro a don
Cagliero, capo della spedizione: sono le Costitu-
zioni. La posa è voluta espressamente da don Bosco
stesso. Egli desidera dare rilievo a questo gesto che
per lui ha un profondo significato. È interessante
leggere quanto a questo riguardo scrive don Rua:
«Quando il Venerabile don Bosco inviò i primi suoi
figliuoli in America, volle che la fotografia lo rap-
presentasse in mezzo a loro nell’atto di consegnare
a don Giovanni Cagliero, capo della spedizione, il
libro delle nostre Costituzioni».
L’immagine è composta artisticamente rispettando
un’equilibrata simmetria che lascia però spazio ad
un certo movimento. Le figure hanno posizioni tra
loro diverse e una certa spontaneità.
Al contrario, don Bosco, in entrambe le pose, ap-
pare rigido, decisamente in posa. Il volto non se-
gue l’azione che sta facendo, come ci si potrebbe
aspettare e questo accentua il senso della posa.
L’abito allargato, le spalle senza alcuna inclinazio-
ne, il volto decisamente di fronte contribuiscono a
creare l’effetto di rigidità. La macchina fotografica
gli toglieva spontaneità? Stando alle deposizioni
dei contemporanei, don Bosco era, in società, nel-
le situazioni ufficiali, piuttosto impacciato. E, pur
emanando un certo fascino dovuto alla sua ricchez-
za interiore, non aveva quella spigliatezza della per-
sona di mondo.
Permaneva in lui il tratto dimesso della sua origine
contadina: vivace ed energico nell’operare, restio
nei rapporti ufficiali.
6
1. Don Giovanni Cagliero.
2. Don Bosco. 3. Giovanni Battista
Gazzolo console argentino a Savona.
4. Don Giuseppe Fagnano destinato
direttore del collegio di S. Nicolás.
5. Coadiutore Bartolomeo Scavini
maestro falegname. 6. Coadiutore
Vincenzo Gioia 7. Don Valentino
Cassini. 8. Don Giovanni Baccino
che morirà diciotto mesi dopo
stroncato dall’eccessivo lavoro.
9. Coadiutore Stefano Belmonte
musico e attendente all'economia
domestica. 10. Don Domenico
Tomatis cronista della spedizione.
11. Ch. Giacomo Allavena.
12. Coadiutore Bartolomeo Molinari
maestro di musica strumentale e
vocale.
GENNAIO 2025
33

4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 12
Uno studente in
PIENA FORMA
Igenitori hanno un peso notevole sul rendi-
mento scolastico del figlio. Certo, avete ragio-
ne a dire che la parte decisiva del successo è
nelle mani del ragazzo: è lui che deve studiare,
fare attenzione, impegnarsi. Avete anche ragione a
dire che una buona fetta di responsabilità l’hanno
gli insegnanti con la loro preparazione, forse non
sempre eccellente, con il loro senso del dovere non
sempre lodevole, con la loro scarsa sensibilità psi-
cologica. Però resta certo che anche i genitori sono
responsabili dell’andamento scolastico del figlio.
Ebbene, volete che il vostro ragazzo sia sempre uno
scolaro in piena forma? Seguite questo decalogo:
potrà esservi utile.
1. Create un ambiente raccolto e sereno
Le discussioni e le urla in casa, la radio e la televi-
sione sempre a tutto volume provocano nervosismo
e stordimento. Come può un ragazzo fare atten-
zione a scuola quando ha la mente imbottita di im-
magini e saltellante come il telefonino che ha usato
pomeriggio e sera?
2. Dategli una solida motivazione
II problema di fondo dei ragazzi è: “Perché dob-
biamo studiare?” I genitori devono manifestare
chiaramente le loro aspettative. Attraverso l’inco-
raggiamento e l’esempio soprattutto. In fondo, i
bambini studiano per forza. Gli studi sono qualcosa
che interessa gli adulti, non loro. I piccoli vogliono
sapere, questo sì. Hanno una curiosità praticamen-
te immensa, che la scuola ordina e incanala, come
l’acqua destinata a produrre energia elettrica in una
centrale. Questo richiede sforzo. Molti ragazzi non
riescono però a vedere un obiettivo convincente nel
susseguirsi delle materie scolastiche. La vaga in-
dicazione di un mitico “pezzo di carta” non è più
sufficiente.
3. Lasciatelo dormire
Il ragazzo necessita di 8-10 ore di riposo al giorno.
Dopo una serata tranquilla, lontana da spettacoli
eccitati ed eccitanti, sarà bene che si infili sotto le
coperte attorno alle 21.
Anche qui: come può un ragazzo esser vivo a scuola
se già vi entra morto perché è stato sveglio fino alle
23 o alla mezzanotte e oltre?
4. Nutritelo con intelligenza
Al mattino, con tutta la famiglia seduta attorno al
tavolo (questo sarebbe l’ideale!) fa un’abbondante
colazione: latte, pane, marmellata, burro. Nell’in-
tervallo di mezza mattinata, poi, un buon frutto di
stagione (una mela, un’arancia...) è sempre meglio
delle più sofisticate merendine.
Insegnate un metodo di lavoro: il cervello diviene
tanto più efficiente quanto più efficientemente vie-
ne usato. La memoria lavora tanto meglio quanto
più viene fatta lavorare. L’intelligenza di molti gio-
vani è a rischio di atrofia, semplicemente per man-
canza di esercizio. Per poter riuscire a pensare, il
bambino ha bisogno che gli si insegni a pensare.
Per poter usare adeguatamente la memoria, ha bi-
sogno che gli si insegni a ricordare.
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4.5 Page 35

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5. Lasciatelo muovere
Il ragazzo ha un naturale bisogno di movimento
fisico. L’ora di ginnastica è senz’altro utile, ma non
sufficiente. Un’ora e mezza di moto dopo pranzo è
indispensabile per scaricare la tensione accumula-
ta nella mattinata. Lasciatelo giocare. Il bambino
prima di essere scolaro è sempre bambino. Ora, è
proprio il gioco che gli permette d’essere tale. Per
un ragazzo, giocare, non è mai tempo perso: è tutta
esperienza che entra. Gli scolari più distratti sono
spesso quelli che non sanno giocare o che giocano
male. Ai corsi extrascolastici si può dire “sì”, a con-
dizione che il loro impegno non superi un massimo
di 3-4 ore settimanali.
6. Siate presenti nella vita scolastica
Come sperare che un bambino prenda sul serio la
scuola se i suoi genitori se ne disinteressano? I fi-
gli sentono importante quello che i genitori dimo-
strano di considerare importante. I genitori devono
partecipare alle riunioni e agli incontri. Non come
una specie di controparte dell’istituzione scolastica,
ma come il più prezioso degli alleati. Non lasciateli
soli, ma non sostituitevi a loro. Per quanto è possi-
bile, i genitori devono evitare due comportamenti
opposti: sostituirsi ai ragazzi nello svolgimento dei
loro impegni oppure abbandonarli a se stessi, fa-
cendo al massimo “la guardia”.
7. Insegnate loro a gestire il tempo
È importante che i genitori aiutino i figli a “tenere
in ordine” la giornata, a fare una scaletta gerarchica
degli impegni. È bene che i genitori controllino il
diario con i figli. Per aiutarli a fare una programma-
zione che deve integrare con gli impegni scolastici
anche divertimento, gioco, sport, attività collettive.
cesso arriva puntuale. Evitate l’ansia da insuccesso.
È necessario tenere sempre separata la stima per
la persona del figlio dall’esito scolastico. Spesso il
giudizio scolastico guarda solo il risultato e non tie-
ne conto del progresso che ci può essere stato.
9. Non giudicate gli insegnanti
in presenza del figlio. Piuttosto, se qualcosa non
funziona, cercate di avere un colloquio franco con i
maestri ed i professori. Quanto più l’intesa e la col-
laborazione scuola-famiglia sono profonde e leali,
tanto più il fanciullo ne trae beneficio.
A casa, i ragazzi devono vedere concretamente “a
che cosa serve la scuola”. Se la scuola non viene
collegata alla vita, rischia di essere percepita come
un’inutile vessazione. Il periodo scolastico dei figli
è il più grosso investimento dei genitori per il futu-
ro. Un investimento che va protetto in ogni modo.
La scuola non è una condanna. Bisogna lottare, e
molto, perché i ragazzi sentano il piacere d’appren-
dere, il piacere di leggere, il piacere di ragionare.
L’amore per i libri, per esempio, di solito si impara
in casa.
10. Alla domenica...
poi, si sta tutti insieme: ci si diverte, si parla, si fa
una scampagnata... Ecco: se seguirete questi consi-
gli, il vostro ragazzo si presenterà tutte le mattine a
scuola in pole position, in piena forma, preparato per
essere uno scolaro attento, calmo, sereno.
8. Non aspettatevi troppo
(ma neppure troppo poco). Non pretendete che sia
il primo della classe. Vi sono genitori che trasmet-
tono al figlio l’ansia dell’interrogazione, del brutto
giudizio, dell’insuccesso. E, proprio allora, l’insuc-
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
La parola alle
EMOZIONI
Siamo talmente disabituati a decodificare
ciò che viviamo nella nostra interiorità
da non riuscire a comunicare agli altri
gli stati d’animo che si aggrovigliano
dentro di noi.
La nostra esistenza è intessuta di emozioni.
Esse rappresentano la nostra bussola in-
terna: ci aiutano a capire i nostri bisogni e
le nostre necessità, ci forniscono informa-
zioni sul nostro stato interiore di benessere o ma-
lessere, ci permettono di elaborare risposte efficaci
agli stimoli che provengono dall’ambiente esterno
Che fine ha fatto Dio
o l'eminenza spaziale?
Forse sta dietro alla luna
e resta lì a guardare,
che ormai non sa più che fare,
ormai non sa più che farne di noi...
Dici: “Va bene lo stesso,
che si può sempre sognare”.
Ti prego, spegni la luce,
non voglio più pensare!
Smetti di immaginare,
a cosa serve tutto questo immaginare?
È troppo tardi adesso per ricominciare!
Lo so, sono soltanto altre parole
disperse tra miliardi di persone,
ma, forse, raccontarsi un'emozione
è ancora un atto di rivoluzione...
e di gestire i momenti di crisi, giocando un ruolo
cruciale nei processi di decisione, giudizio e ragio-
namento. Le emozioni costituiscono, però, anche
un canale essenziale per entrare in relazione con
gli altri, per comunicare loro come ci sentiamo e
per comprendere i loro stati d’animo: in altre pa-
role, per uscire dalla nostra solitudine e costruire
un rapporto di empatia con le persone che abbiamo
accanto.
Eppure, in una società che tende ad anestetizzare la
nostra capacità di provare emozioni, privilegiando
sopra ogni altra cosa il principio di realtà e subor-
dinando il nostro desiderio di autenticità alle esi-
genze pressanti di una rappresentazione di sé che
risponda a precisi standard sociali da cui è bandita
ogni manifestazione di potenziale vulnerabilità,
facciamo sempre più fatica ad entrare in contatto
con il nostro vissuto emotivo. E, anche quando ci
proviamo, siamo talmente disabituati ad accogliere
e decodificare ciò che viviamo nella nostra interio-
rità da non riuscire a verbalizzare e comunicare agli
altri gli stati d’animo che si intrecciano, si stratifi-
cano, si aggrovigliano dentro di noi.
Non sono, del resto, solo i più piccoli o gli adole-
scenti a non saper riconoscere e nominare le proprie
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4.7 Page 37

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emozioni, complice una crescente semplificazione
della comunicazione virtuale che condensa anche il
sentimento più complesso in forme iconiche stan-
dardizzate – le cosiddette emoticon, o emoji – il cui
obiettivo dichiarato è proprio quello di offrire una
scorciatoia facilitata alla difficoltà di rappresentarsi
e condividere stati d’animo che non si compren-
dono. Ad essere sprovvisti delle parole adatte per
esprimere la propria tristezza, la propria rabbia, la
propria frustrazione, ma anche le proprie gioie e
gratificazioni, sono sempre più spesso anche i gio-
vani adulti, non di rado prigionieri del proprio indi-
vidualismo, timorosi di mettersi a nudo di fronte al
prossimo per raccontargli le proprie paure e i propri
desideri più intimi, rassegnati a una incomunicabi-
lità che non sembra trovare vie di salvezza.
Ma l’incapacità di dare un nome alle nostre emo-
zioni per poterle esplicitare a noi stessi e agli altri
comporta inevitabilmente un impoverimento del
nostro vissuto interiore, il misconoscimento delle
infinite sfumature che contribuiscono a conferire
significato e profondità alle nostre esperienze emo-
tive, condannandoci a un’esistenza arida e asettica,
refrattaria alla riflessione su noi stessi e alla relazio-
ne con l’altro. Affinché il cammino verso l’adultità
non sia accompagnato da una crescente tentazio-
ne a vivere la vita in modo impermeabile, è allora
quanto mai urgente ricominciare a dare ascolto alle
risonanze emotive che abitano la nostra interiorità,
educando con pazienza quell’«esprit de finesse» di
cui parlava Pascal, quale strumento indispensabile
per scendere a fondo nella conoscenza esistenziale
di noi stessi e dei moti più intimi del nostro
“cuore”. Solo una comprensione profonda
delle emozioni che albergano dentro di
noi può, infatti, restituirci la capacità,
e il desiderio, di raccontarci agli altri,
accettando la sfida liberante e rivo-
luzionaria di condividere le nostre
paure e fragilità con le persone
che ci circondano e ci cammi-
nano a fianco.
Davvero serve il male
per definire il bene?
Basta far finta di niente
e poi espiare le pene,
che non c'è niente che tu possa fare:
siamo animali incapaci di imparare.
È troppo tardi adesso per ricominciare!
Lo so, sono soltanto altre parole
disperse tra miliardi di persone
ma, forse, raccontarsi un'emozione
è ancora un atto di rivoluzione...
Che non è vero che sei solo,
non è vero, non è vero che sei solo,
non è vero!
Lo so che questa è solo una canzone
davanti a un grande muro di dolore,
ma, forse, raccontarsi un'emozione
è ancora un atto di rivoluzione.
Ma, forse, anche cantare un'emozione
è ancora un atto di rivoluzione...
(Diodato, Un atto di rivoluzione, 2024)
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
La benedetta
AVVENTURA
Il positivo esito del primo biennio
missionario oltreoceano.
Nelle parole del primo
capospedizione
Per iniziare questa rubrica di corrispondenze dalle
missioni diamo anzitutto spazio al grande missio-
nario don Giovanni Cagliero, l’evangelizzatore della
Patagonia. Testimone diretto, anzi protagonista in
terra sudamericana nel biennio 1875-1877, pochi
mesi dopo essere rientrato in Italia in un’inedi-
ta lettera al papa Pio IX traccia un circostanziato
resoconto dell’operato dei 34 salesiani, sacerdoti,
chierici e laici, sbarcati a Buenos Aires nelle due
prime spedizioni missionarie (1875, 1876).
Una chiesa nella capitale
e in un collegio della provincia
Scrive dunque don Cagliero: “Santo Padre… Ascol-
tate. Il mattino del 14 dicembre, [1875], arrivammo
sulle sponde del Plata, ed un padre senza averci mai
né veduti né conosciuti ci accoglieva tra le sue braccia,
mentre come cari fratelli altri si stringevano attorno
a noi offrendoci generosa ospitalità. Monsignor Fe-
derico Aneiros Arcivescovo di Buenos Aires riceve-
va come amati figliuoli i Missionari Salesiani, e loro
concedeva le necessarie facoltà perché potessimo su-
bito lavorare nella sua vastissima Arcidiocesi pel bene
delle anime”… “I Confratelli [della confraternita
della chiesa] della Misericordia fecero calde istanze
perché alcuni di noi si fermassero presso di loro per
provvedere al bene spirituale di più di trentamila Ita-
liani disseminati pe’ vari quartieri della Città”.
L’invito non sorprese i missionari in quanto veniva
incontro agli accordi presi per posta da don Bosco
con l’arcivescovo prima della loro partenza. Così
“due Sacerdoti con un Catechista sospesero il cam-
mino e riaprirono al Divin Culto la Chiesa della
Misericordia detta appunto de los Italianos. Quivi il
lavoro cresceva a misura che aumentavano i Catechi-
smi e la predicazione della parola di Dio… supera-
va le forze e il buon volere del piccolo numero degli
evangelici operai”. In effetti l’immenso lavoro apo-
stolico cadde sulle spalle di don Cagliero – che però
come superiore si assentava spesso per seguire gli
altri missionari – ma soprattutto di don G.B. Bac-
cino che a soli 34 anni soccombette: il primo della
innumerevole schiera di salesiani che nei 150 anni
successivi sarebbero morti “in terra di missione”.
Continua poi don Cagliero nel suo resoconto: “Gli
altri sette nostri compagni partirono per San Nicolás
de los Arroyos [240 km da Buenos Aires] dove un
mese dopo aprivano un collegio con sessanta allievi.
Iddio benedisse anche qui le nostre deboli fatiche,
ed il numero degli allievi in breve crebbe fino a due-
cento. Allora apparve cosa indispensabile aprire al
pubblico la chiesa del collegio, la quale ogni dome-
nica, mattino e sera, si riempiva di fedeli… Si notò
pure il bisogno di provvedere al bene spirituale dei
carcerati detenuti in quella città… I poveri abitanti
della campagna, sparsi in lontane vastissime pianure
vivevano privi di preti e di chiese con danno delle
anime loro, ed una o due volte al mese un nostro sa-
cerdote si recava a procurare loro i soccorsi spirituali
specialmente agl’infermi”.
Don Cagliero al Papa non racconta però le com-
plessità burocratiche per avere libertà di azione nel-
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4.9 Page 39

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la chiesa della Misericordia, i problemi economici
per la costruzione del collegio di San Nicolás, le
difficoltà della vita comunitaria dei confratelli…
Questo lo riservava soprattutto a don Rua e solo in
parte a don Bosco.
Il collegio di “Villa Colon”
in Uruguay e l’Ospizio
di Buenos Aires
Presto si offersero loro due altre possibilità di lavoro
prettamente salesiano: aprire un collegio nei pres-
si di Montevideo nel vicino Uruguay e un Ospizio
per “giovanetti abbandonati e pericolanti” in Bue-
nos Aires. Potevano forse rifiutarsi? No di certo
e così – scrive soddisfatto sempre don Cagliero al
papa – “Le due nuove case si riempirono ben pre-
sto di allievi: il collegio Pio fu inaugurato in Vil-
la Colón… con il Vostro Augusto Nome… Cento
sono gli allievi, che con la scienza ricevono la cri-
stiana educazione”.
A Buenos Aires poi con l’aiuto de’ soci di S. Vin-
cenzo nel maggio 1876 si aprì un Ospizio che acco-
glieva cinquanta orfanelli, “i quali col mestiere, che
li fa buoni operai, ricevono la Religione, che li farà
buoni cristiani”.
La prima parrocchia salesiana
nel mondo
Ancora in attesa di festeggiare il primo anno di
presenza in America, a fronte delle dimissioni del
parroco della Parrocchia di S. Giovanni Evangeli-
sta, l’arcivescovo di Buenos Aires la offrì ai salesia-
ni. Parrocchia difficilissima, ubicata nel quartiere
della Boca (del diablo come fu definita) con oltre 22
mila italiani, tanto poveri, quanto ostili e nemici
della religione, della chiesa, del papa. I salesiani
accettarono e due di loro, al dire di don Cagliero,
impavidi e al rischio pure della propria vita, “inco-
minciarono con la costante predicazione agli adulti
e il catechismo ai fanciulli, ad avvicinare quella po-
polazione alla povera chiesa di legno e alla frequen-
za dei SS. Sacramenti”.
La prima “missione” fra indigeni
e coloni fuori città
Ma i missionari non potevano pensare solo agli ita-
liani, benché questi quanto ai costumi fossero più
“indianizzati” degli stessi indios. Don Bosco li ave-
va mandati anche per i “selvaggi” ai quali non era
mai arrivato il vangelo. Così don Cagliero confida-
va a Pio IX la loro prima esperienza missionaria in
senso stretto: “Essendo poi nostro vivo desiderio di
avanzarci verso i selvaggi due nostri missionari, tra
cui l’umile esponente, incominciarono a portarsi tra
gl’Indigeni di Entre-Rios [a nord di Buenos Aires].
Quivi… convertita in cappella una rozza capanna
di paglia, si catechizzò, si predicò durante 15 giorni
agli indigeni ed ai coloni, i quali così poterono tut-
ti accostarsi ai SS. Sacramenti della Confessione e
Comunione. Si amministrò a molti il S. Battesimo
e si convalidarono parecchie unioni illegittime. Lo
stesso hanno fatto e tuttora fanno i salesiani di S.
Nicolás”.
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4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
VENDRAME COSTANTINO,
presbitero, Servo di Dio
Costantino Vendrame nacque il 27
agosto 1893 a S. Martino di Colle
Umberto (Treviso) da Pietro ed Ele-
na Fiori, genitori cristiani che con
il loro esempio comunicarono al
figlio l’amore al lavoro, al sacrificio,
alla preghiera e alla vita di fede.
Compì gli studi ginnasiali e liceali
nel seminario vescovile di Ceneda
(Vittorio Veneto), dove si distinse
nella pietà, nel comportamento,
nell’amore allo studio, manife-
stando ben presto interesse per le
missioni, per cui nel 1913 entrò tra
i Salesiani di Don Bosco, facendo il
noviziato nella casa di Ivrea.
Seguirono quattro lunghi anni di
servizio militare che temprarono
il suo carattere e lo preparano alla
missione, a cui avrebbe dedicato
tutta la sua esistenza. Terminato il
servizio militare compì i suoi studi
di teologia lavorando negli orato-
ri festivi di Chioggia e Venezia. Il
cardinale Eugenio Tosi lo ordinò
sacerdote il 15 marzo 1924 nella
chiesa del seminario maggiore di
Milano. Tre mesi dopo era invia-
to dai suoi superiori alla nuova
missione dell’Assam nel Nord-Est
India e il 5 ottobre ricevette il cro-
cefisso ai piedi di Maria Ausiliatri-
ce nella basilica a Lei dedicata in
Torino. Significativo ciò che scrive
alla partenza per l’India: «Scrivo
sotto lo sguardo della cara Ausi-
liatrice e del Cuor di Gesù in cui
tutto confido e da cui tutto spero,
perché essi sono la mia sola eredi-
tà e la mia grande ricchezza. Sono
nato nella povertà, sono cresciuto
nella povertà, ma l’amore a Gesù
mi ha portato a una maggiore e
più austera povertà di mano e di
cuore, avendo rinunciato a tutto,
perfettamente a
tutto, con voto,
col professare
nella Pia Società
di S. Francesco di
Sales, per essere
tutto di Dio, solo di
Dio». Il 2 dicembre, la
nave con il piccolo grup-
po di salesiani, che egli stesso
accompagnava, levava l’ancora
dal porto di Venezia. Il distacco
dalla terra natale fu molto sof-
ferto: «Uno strappo violento che
spezzò l’ultimo filo, ma consolato
da una visione radiosa di terre
sterminate, popoli innumerevoli
a cui annunciare la salvezza por-
tata da Gesù, ed anime, tante
anime in attesa di verità, giusti-
zia, amore».
La presenza salesiana in Assam
quando arrivò don Costantino
era agli inizi. Giunto a Shillong,
sperimentò la gioia dell’incontro
con monsignor Luigi Mathias, con
i religiosi veterani della missione,
i superiori, i chierici e i giovani
che erano là ad aspettarli con una
fraternità tutta salesiana. Monsi-
gnor Mathias era il grande strate-
ga della nuova impresa missiona-
ria. Mancava il soldato umile ed
eroico che si mettesse alla testa
dei suoi compagni e li guidasse
con il suo entusiasmo e con il
suo esempio ad eseguire i piani
e le idee di monsignor Mathias e
questa fu la parte riservata a don
Costantino Vendrame che così
scriveva: «Ecco davanti a noi tan-
te capanne e villaggi, montagne
e valli e fiumi. Ve ne sono ancora
moltissime che non vediamo. In
ogni villaggio e capanna in ogni
cuore dobbiamo
portare con il dono
della nostra vita
l’amore di Cristo
per ogni persona
senza dimenti-
care nessuno».
Dopo 32 anni,
nella regione Khasi
non vi era monta-
gna che egli non avesse
scalato, fiume che non avesse
guadato e villaggio in cui non fos-
se andato a portare la croce.
Si mise subito allo studio delle
lingue locali. Alla fine del suo
primo anno in India il giovane
missionario era già parroco del-
la parrocchia di Shillong, cen-
tro della prefettura apostolica
dell’Assam. Per parecchio tempo
fu quasi sempre l’unico sacerdote
ad accudire i bisogni della vasta
e fiorente parrocchia di Shillong.
Lasciava tutto e accompagnato
da un catechista andava lontano,
camminando per giorni e giorni
per portare la buona novella. Nel
1934, dopo 9 anni di lavoro, aveva
fatto sorgere ben 105 comuni-
tà. Aveva una grande resistenza
fisica, ma la sua vera forza l’at-
tingeva dalla sua viva fede, dalla
sua unione con il Signore nella
preghiera. Nei primi anni della
permanenza di don Vendrame in
India il suo superiore, monsignor
Luigi Mathias, fu un po’ perplesso
per questo uomo, diverso dagli
altri, che pareva vivere una vita
tutta sua e sfondava e convertiva,
dove altri bravi missionari prima
di lui non erano potuti passare.
Finché non gli avvenne di notare
più volte che la sera tardissimo
vi era una luce in chiesa. Andava
a vedere e trovava sempre don
Vendrame in profonda adorazio-
ne. «Ora capisco, disse, perché fa
tante conversioni».
Morì il 30 gennaio 1957 nell’o-
spedale di Dibrugarh, alla vigilia
della festa di San Giovanni Bosco.
Non possedeva nulla. Monsignor
Marengo diede una sua veste per
vestire la venerata salma. I funerali
furono un trionfo di fede e gratitu-
dine. Di lui fu detto: «Ricordiamo
don Vendrame come un sacerdote
che ci ha amato con il cuore di Cri-
sto, caldo e umano, forte e fedele,
pronto a dare la sua vita per noi».
Significativa la testimonianza
su don Vendrame del Servo di
Dio monsignor Oreste Maren-
go: «Per me egli fu un Salesiano
che, come don Bosco, pensava,
parlava e giudicava sempre in
termini di anime da salvare, uno
che ha mai pensato a sé. Se ha
commesso uno sbaglio, fu quello
di trascurarsi troppo perché non
vedeva altro che il bisogno delle
anime: il cibo ed il riposo erano
le ultime cose a cui pensava. […]
Come non si curava di sé, così non
ha mai minimamente cercato se
stesso nel suo lavoro. Soltanto dal
Sacro Cuore di Gesù attinse la sua
sete di anime. La sua austerità fu
soltanto superata dalla sua com-
passione per i poveri».
Apertura Inchiesta diocesana:
19 agosto 2006
Chiusura Inchiesta diocesana:
19 febbraio 2011
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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Renzo Ferraroli
DON SANDRO FERRAROLI
Morto a Bologna il 7 novembre 2021, a 84 anni
Salesiano generoso e buono per
natura don Sandro aveva affina-
to la sua sensibilità stando con i
ragazzi ai quali portava il mes-
saggio imparato da don Bosco.
Nel sogno dei 9 anni Giovannino
Bosco aveva sognato il Signore
che gli diceva di mettersi a capo
dei giovani e gli aveva indicato il
metodo: “Non con le percosse, ma
con la mansuetudine e la pazien-
za conquisterai questi giovani”.
Indicazione che don Bosco ave-
va seguito e passato ai suoi figli
ideando il sistema preventivo.
Un sistema che parla di ragione,
religione e amorevolezza. Per
conquistare i giovani bisogna non
solo voler loro bene ma è neces-
sario cercare di entrare nel loro
mondo, ascoltando i loro bisogni
e le loro richieste. Don Sandro –
l’aveva imparato bene – sapeva
che per portare i ragazzi a Dio
doveva abbassarsi al loro livello
condividendo i loro gusti e le loro
passioni in modo da farseli amici
e portarli ad amare i valori che la
sua testimonianza svelava. Così
aveva fatto a Vendrogno come
insegnante delle elementari ed
educatore, così a Fiesco con i ra-
gazzi delle medie e a Milano con i
giovani delle scuole superiori, così
a Pavia come direttore del pensio-
nato universitario, così a Bologna
come psicologo e orientatore.
Allora le battute scherzose, il
modo simpatico di correggere le
loro intemperanze, la ‘parolina
all’orecchio’ come piaceva a don
Bosco, la capacità di sdramma-
tizzare... tutto serviva per far
rinascere il sorriso e la voglia di
riprendersi in mano la loro vita.
Anche la sua passione per i treni
rientra in questo capitolo. A me
oggi rimane il dubbio di sapere
se in paradiso ci è andato con la
freccia rossa 1000 (il treno prefe-
rito!) o con Italo. Di certo il Signo-
re gli avrà riservato la carrozza
ristorante già imbandita per ac-
cogliere i tanti amici che stava per
incontrare.
Don Sandro in realtà era «un sale-
siano semplice e profondo, capa-
ce di simpatia ed empatia. Il suo
fine umorismo nascondeva il suo
modo di approcciarsi alla realtà,
guidato da una fede e fiducia pro-
fonda nei confronti dell’umano,
con una visione positiva e ottimi-
stica della vita» (come testimonia
anche suor Pina Del Core che gli è
stata a fianco per molti anni nel
Consiglio Direttivo del Cospes).
Anche quando l’obbedienza gli
aveva dato l’incarico di insegna-
re psicologia a Nave, il seminario
dei salesiani, i giovani chierici lo
ricordano non tanto per il conte-
nuto delle sue lezioni, per altro
ben preparate, ma per la sua te-
stimonianza di gioia nel vivere da
salesiano con i giovani.
Ma il salesiano don Sandro era
soprattutto orgoglioso di es-
sere sacerdote. Le telefonate
che ogni settimana mi faceva,
a parte i saluti e i convenevoli,
avevano spesso come tema il suo
dispiacere nel vedere sacerdoti o
religiosi che non si comportava-
no come avrebbe richiesto la di-
gnità della loro missione. Dispia-
ciuto e davvero profondamente
amareggiato.
Da parte sua si preparava con
scrupolo l’omelia domenicale.
Puntuale alle sue pratiche di
pietà e disponibile ai servizi di
ministero sacerdotale che la sua
comunità gli richiedeva. Una
dignità la sua che affondava le
radici nell’educazione umana e
cristiana ricevuta dai genitori e
dalla nostra comunità cristiana
(di Comun Nuovo) in cui aveva
vissuto i primi anni della sua vita
imparando a conoscere e amare il
Signore. Riconoscente soprattut-
to verso la sua famiglia, i genitori
in particolare, di cui conservava
le lettere che aveva ricevuto nel
periodo passato a Torino durante
gli studi teologici. Ultimamente
le aveva raccolte in un libretto.
Lettere piene di tenerezza e ca-
riche di quelle raccomandazioni
che ogni mamma e papà cristiani
rivolgono ai loro figli. Raccoman-
dazioni che lui aveva trasformato
in preziose regole di vita.
Don Erino Leoni, che era Direttore
a Nave quando don Sandro ter-
minò il suo servizio, disse: «II suo
servizio professionale espresso
anche nella pubblicazione di tre
testi, lo faceva da “ministro”».
I giovani salesiani alle sue lezioni,
partecipavano attendendo il rica-
mo delle sue barzellette o delle
indiscrezioni sull’lspettoria, sulla
Roma dell’università e sulle sue
amicizie altolocate che riempiva-
no la profondità dell’esperienza
professionale di una grande uma-
nità, semplice ma non banale,
vicina di quella prossimità che
costruiva “casa”.
A Nave ha insegnato dal 1998-
1999 al 2016-2017. Non so se in
19 anni ha fatto un paio di assen-
ze. In questo era straordinario.
Non prendeva troppo sul serio se
stesso, era allegro e positivo, non
riteneva che le sue materie sal-
vassero il mondo e non ammaz-
zava gli studenti di fronte ad una
insufficienza, ma non smetteva di
spronare».
Chi si avvicinava a don Sandro no-
tava immediatamente in lui una
semplicità di vita, un’amabilità di
tratto, una facilità di relazione. Si
potrebbe pensare che tutto ciò sia
stato espressione di una vita or-
dinaria e non invece frutto di una
profonda vita spirituale. La sempli-
cità di vita spesso nasconde e non
manifesta il vissuto autentico di
una persona, perché “l’essenziale è
invisibile agli occhi”.
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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: DDT, Emù, USA,
Via.
Parole di 4 lettere: Avis, Oman, Rent,
Sito, Thor.
Parole di 5 lettere: Fasti, Nobel,
Oneri, Ovada, Sofia.
Parole di 6 lettere: Casual, Elliot,
Gentil, Lutero, Nerina, Paglia.
Parole di 7 lettere: Tetrodo.
Parole di 8 lettere: Omofobia.
Parole di 9 lettere: Ad libitum,
Califfato, Dalai Lama, Fumigante.
? Parole di 10 lettere: Coraggiosi,
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso, Leningrado, Ted Kennedy.
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le Parole di 12 lettere: Inorgoglirsi.
?
parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 14 lettere:
La soluzione nel prossimo numero.
Rinascimentale.
IL SANTO A TAVOLA
Davanti a una tavola imbandita, pensando a don Bosco, sorgono spontanee
alcune domande, anche se possono sembrare banali: cosa mangiava, cosa gli
piaceva e che abitudini alimentari ebbe? Potremmo soffermarci su quanto
riportarono i testimoni a lui vicino, a parte i noti episodi miracolosi legati al
cibo che scarseggiava in quel mondo ottocentesco tanto lontano dai vizi del
consumismo moderno. Tali episodi miracolosi sono quelli delle moltiplicazio-
ni provvidenziali, avvenute in momenti e situazioni distinti, delle castagne
e della polenta, fatto dal quale don Bosco prese a definirsi, divertito, “prete da polenta”. L’atmosfera a tavola, nell’oratorio salesiano, era
sempre allegra e alla preparazione delle pietanze era dedita la madre del Santo, Margherita, almeno fin quando poté farlo. Tra i cibi che si
mangiavano, oltre alla polenta di castagne con salsiccia, pietanza ricca e prelibata, c’era anche un primo piatto spesso presente nella stagione
invernale: la minestra di riso e patate, ricetta che viene dalla tradizione contadina piemontese, molto semplice ma sostanziosa. Ma XXX
qual era? Com’era la mensa di don Bosco? Fu sempre frugalissima, quasi misera. O La minestra e il pane che si mangiavano nel refettorio o sua
Soluzione del numero precedente
Madre Margherita gli preparava una minestra per lo più di legumi, alle volte con pezzettini di carne
o di uova, o di zucca. Non di rado lo stesso piatto presentato alla mattina era riproposto alla sera
riscaldato. Don Bosco preferiva patate, rape ed erbe purché ben cotte, anche se insipide, dicendo che
erano più confacenti al suo stomaco. A colazione per molti anni non prese altro che una tazza di caffè
mescolato a cicoria, bevanda che, si sa, piace molto poco, in cui di rado vi bagnava una fetta di pane.
Non dava alcun peso a queste ristrettezze. Anzi, fu sempre fedele alla massima di san Francesco di
Sales: “Nulla chiedere e nulla rifiutare”.
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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
Cosa l’ha resa continuato a tenermi stretto, con gli
occhi che mi fissavano intensamente
in viso.
Mi chinai e gli chiesi: “C’è qual-
PIÙ FELICE
cos’altro che vuoi da me prima che
me ne vada, bambino?”
La risposta che mi diede cambiò
tutta la mia vita e capii allora il vero
nella vita?
significato della felicità.
“Voglio ricordare i tuoi lineamenti
per poterti riconoscere quando ti
vedrò in cielo e ringraziarti ancora
D urante un’intervista
televisiva, il conduttore
chiese al suo ospite
plici sedie, ridendo come se fossero
in un parco divertimenti!
La cosa che mi ha veramente ralle-
una volta con Dio”.
E tu, che cosa ti ha reso più felice
nella vita?
miliardario: “Cosa l’ha resa più
grato è stata quando uno dei bam-
felice nella vita?”.
bini si è aggrappato alla mia gamba
?
L’uomo rispose: “Ho attraversato
quattro fasi di felicità prima di
mentre stavo per andarmene.
Ho cercato di liberarmi delicata-
conoscere la vera felicità.
mente dalla sua mano, ma lui ha
La prima era possedere cose.
La seconda era possedere le cose
più costose e rare... Ma ho scoperto
che il loro effetto era temporaneo.
La terza, possedere grandi pro-
getti, come comprare squadre di
calcio o villaggi turistici. Ma non
ho trovato la felicità che avevo
immaginato.
La quarta fu quando un amico mi
chiese di contribuire all’acquisto
di sedie a rotelle per un gruppo di
bambini con difficoltà motorie.
Ho subito donato il denaro neces-
sario per l’acquisto delle sedie a
rotelle, ma il mio amico ha insisti-
to perché lo accompagnassi e con-
segnassi personalmente il regalo ai
bambini.
Ho visto la grande gioia sui volti
dei bambini... e come si muoveva-
no in tutte le direzioni sulle sem-
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Un rifugio per rinascere a Tijuana
Taxe-Perçue
Tassa riscossa
PADOVA cmp
TRASFORMA CON NOI LA FRONTIERA IN LUOGO DI SPERANZA
A Tijuana, mamme e bambini in fuga trovano
accoglienza al “Refugio Salesiano Don Bosco”.
Qui ricevono protezione, cure e opportunità
per pensare al futuro.
Ogni giorno, il Proyecto Salesiano Tijuana A.C.
accoglie 120 donne e 80 bambini e adolescenti,
offrendo loro un luogo sicuro dove riprogettare
la propria vita.
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