07-Luglio-Agosto-2025

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in prima linea
Ungheria
le case di don bosco
Ferrara
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
salesiani
Don Bolis
giovani santi
Ceferino
LUGLIO/
AGOSTO
2025

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Il PIEDE
del PAPA
D on Bosco era molto intelli-
gente, quindi era molto
curioso. Nel 1858, si era
recato a Roma, dopo aver fatto
testamento, come si usava allora.
Aveva molti permessi da chiedere e
molte faccende da sbrigare in Vatica-
no per i suoi progetti. Il papa Pio IX e
i cardinali lo avevano accolto con
grande cordialità. Anche a Roma
tutti volevano bene a don Bosco, che
perciò poteva gironzolare a suo
piacere.
Il giorno di Pasqua, don Bosco riuscì
a intrufolarsi sulla loggia di San
Pietro, il grande balcone da cui il
Papa benediceva la folla. Da lassù,
osservava estasiato la folla della piaz-
za. Migliaia di persone con la faccia
rivolta alla loggia. E poi i battaglioni
della fanteria pontificia, la cavalleria
e l’artiglieria; e vicino ai portici del
Bernini e in fondo, presso le case,
migliaia di carrozze ferme e, su quel-
le, gruppi di persone in piedi. Era un
brulichio indescrivibile, uno zoccolio
di cavalli, un rumore assordante.
Assorto nel contemplare quello
spettacolo, don Bosco non si accorse
di essere rimasto solo sul balcone.
Fece per andarsene, ma si trovò
imprigionato tra le stanghe della
sedia gestatoria, la portantina su cui
sedeva il Papa vestito
con gli abiti più solenni
e la preziosa corona in
testa.
Don Bosco, confuso
e intralciato, non
riu­sciva a muoversi.
Come se non bastas-
se, il Papa gli appoggiò
un piede sulla spalla.
A tutti gli spettatori sem-
brò che don Bosco reggesse il Papa
sulle spalle.
Il pavimento della loggia era cospar-
so di foglie e fiori, così don Bosco si
curvò per raccoglierne qualcuno per
ricordo e in questo modo si liberò
del piede papale.
La sera del 6 aprile tornò all’udienza
dal Santo Padre, e questi appena lo
vide, gli disse con serietà:
«Abate Bosco, dove vi siete andato a
ficcare il giorno di Pasqua in tempo
della benedizione papale? Davanti
al Papa! e con la spalla sotto il suo
piede, come se il Pontefice avesse
bisogno di essere sostenuto da don
Bosco!»
«Santo Padre, rispose il Santo con
tranquillità ed umiltà, fui colto
all’improvviso».
Il Papa sorrise e poi consegnò a
don Bosco il fascicolo con tutte le
richieste che aveva fatto. Gli aveva
concesso tutto.
«Santo Padre, la Santità Vostra si è
degnata di concedermi quanto ho do-
mandato, e per ora non mi resta che
ringraziarla dal più intimo del cuore».
«Eppure, eppure, voi desiderate
ancora qualche cosa».
A questa replica don Bosco rima-
se sospeso senza proferir parola; e
Pio IX: «E come? Non desiderate voi
di far stare allegri i vostri giovanetti,
quando sarete tornato in mezzo a
loro?»
«Santità, questo sì».
Il Papa aprì un cassetto e ne trasse
un bel gruzzolo di monete d’oro e
senza contarle le porse a don Bosco
dicendo: «Prendete e date una buona
merenda ai vostri figliuoli».
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LUGLIO/AGOSTO 2025

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in prima linea
Ungheria
le case di don bosco
Ferrara
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
salesiani
Don Bolis
giovani santi
Ceferino
LUGLIO/AGOSTO 2025
ANNO CXLIX
NUMERO 7
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Questi sono i mesi
LUGLIO/
dell’aria aperta, del sole e dell’allegria
AGOSTO
2025
(Foto Juice Flair/Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 IN PRIMA LINEA
Ungheria
10 LE CASE DI DON BOSCO
Ferrara
14 SALESIANI
Don Umberto Bolis
18 LA NOSTRA FAMIGLIA
Antonio Boccia
22 LA NOSTRA BASILICA
24 TEMPO DELLO SPIRITO
26 FMA
Cammini di speranza
30 GIOVANI SANTI
Ceferino
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
La felicità... nonostante tutto
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Papa Leone XIII e don Bosco
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
6
14
18
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Fabio Attard
La SINDROME di Filippo
e quella di Andrea
Nel racconto del vangelo di
Giovanni, capitolo 6, versetti 4-14,
che presenta la moltiplicazione dei
pani, abbiamo alcuni dettagli sui
quali mi soffermo un po’ a lungo
tutte quelle volte che io medito o
commento questo brano.
T utto inizia quando davanti alla “grande”
folla affamata, Gesù invita i discepoli a
prendere la responsabilità di darle da
mangiare.
I dettagli di cui parlo sono, il primo, quando Filippo
dice che non è possibile assumere questa chiamata a
causa della quantità di gente presente. Andrea, inve-
ce, mentre fa notare che “c’è qui un ragazzo che ha
cinque pani d’orzo e due pesci” per poi sottovalutare
questa stessa possibilità con un semplice commento:
“ma che cos’è questo per tanta gente?” (v. 9).
Desidero semplicemente condividere con voi, caris-
simi lettrici e lettori, il fatto che, alcune volte, senza
saperlo, possiamo essere contagiati dalla sindrome
di Filippo o da quella di Andrea. Qualche volta
forse anche da ambedue!
Nella vita della Chiesa, come anche nella vita della
Congregazione e della Famiglia Salesiana le sfide
non mancano e non mancheranno mai. La nostra
non è una chiamata a formare un gruppo di perso-
ne dove si cerca soltanto di stare bene, senza distur-
bare e senza essere disturbati. Non è un’esperienza
fatta di certezze prefabbricate. Fare parte del corpo
di Cristo non ci deve distrarre e neanche toglierci
dalla realtà del mondo, così com’è. Al contrario, ci
spinge ad essere pienamente coinvolti nelle vicen-
de della storia umana. Ciò significa innanzitutto
guardare la realtà non soltanto con gli occhi uma-
ni, ma anche, e soprattutto, con gli occhi di Gesù.
Siamo invitati a rispondere guidati dall’amore che
trova la sua fonte nel cuore di Gesù, cioè vivere per
gli altri come Gesù ci insegna e ci mostra.
La sindrome di Filippo
La sindrome di Filippo è sottile e per questo
motivo, è anche molto pericolosa. L’analisi che fa
Filippo è giusta e corretta. La sua risposta all’invito
di Gesù non è sbagliata. Il suo ragionamento se-
gue una logica umana molto lineare e senza difetti.
Guardava la realtà con i suoi occhi umani, con una
mente razionale e, a conti fatti, non percorribile.
Davanti a questo modo “ragionato” di procedere,
l’affamato smette di interpellarmi, il problema è
suo, non mio. Per essere più precisi alla luce di ciò
che viviamo quotidianamente: il rifugiato poteva
stare a casa sua, non deve disturbarmi; il povero e
il malato se la vedono loro e non spetta a me esse-
re parte del loro problema, tantomeno per trovare
loro la soluzione. Ecco la sindrome di Filippo. È
un seguace di Gesù, però la sua maniera di vedere e
interpretare la realtà ancora è statica, lontana anni
luce da quella del suo maestro.
La sindrome di Andrea
Segue la sindrome di Andrea. Non dico che è peg-
gio della sindrome di Filippo, ma ci manca poco per
essere più tragica. È una sindrome fine e cinica: vede
qualche possibile opportunità, però non va oltre. C’è
una piccolissima speranza, però umanamente non
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è percorribile. Allora si giunge a squalificare sia il
dono come anche il donatore.
Due sindromi che sono ancora con noi, nella Chie-
sa e anche tra noi pastori e educatori. Stroncare una
piccola speranza è più facile che dare spazio alla
sorpresa di Dio, una sorpresa che può far sbocciare
una seppur piccola speranza. Lasciarsi condiziona-
re da clichés dominanti per non esplorare oppor-
tunità che sfidano letture ed interpretazioni ridut-
tive, è una tentazione permanente. Se non stiamo
attenti, diventiamo profeti ed esecutori della nostra
stessa rovina. A forza di restare chiusi in una lo-
gica umana, “accademicamente” raffinata e “intel-
lettualmente” qualificata, lo spazio per una lettura
evangelica diventa sempre più limitato, e finisce
per sparire.
Quando questa logica umana e orizzontale è messa
in crisi, per difendersi una delle reazioni che susci-
ta è quella del “ridicolo”. Chi osa sfidare la logica
umana perché lascia entrare l’aria fresca del Van-
gelo, sarà riempito di ridicolo, attaccato, preso in
giro. Quando questo è il caso, stranamente possia-
mo dire che siamo davanti ad una strada profetica.
Le acque si muovono.
Gesù e le due sindromi
Gesù supera le due sindromi “prendendo” i pani con-
siderati pochi e per conseguenza irrilevanti. Gesù
apre la porta a quello spazio profetico e di fede che ci
è chiesto di abitare. Davanti alla folla non possiamo
accontentarci di fare letture e interpretazioni autore-
ferenziali. Seguire Gesù implica andare oltre il ra-
gionamento umano. Siamo chiamati a guardare alle
sfide con i suoi occhi. Quando Gesù ci chiama, da
noi non chiede soluzioni ma donazione di tutto noi
stessi, con ciò che siamo e ciò che abbiamo. Eppure,
il rischio è che davanti alla sua chiamata rimaniamo
fermi, per conseguenza schiavi, del nostro pensiero e
avidi di ciò che crediamo di possedere.
Solo nella generosità fondata sull’abbandono alla
sua Parola arriviamo a raccogliere l’abbondanza
dell’agire provvidenziale di Gesù. “Essi quindi li
raccolsero e riempirono dodici ceste di pezzi che di
quei cinque pani d’orzo erano avanzati a quelli che
avevano mangiato” (v. 13): il piccolo dono del ragaz-
zo fruttifica in maniera sorprendente solo perché le
due sindromi non hanno avuto l’ultima parola.
Papa Benedetto così commentava questo gesto del
ragazzo: “Nella scena della moltiplicazione, viene
segnalata anche la presenza di un ragazzo, che, di
fronte alla difficoltà di sfamare tanta gente, mette
in comune quel poco che ha: cinque pani e due pe-
sci. Il miracolo non si produce da niente, ma da una
prima modesta condivisione di ciò che un semplice
ragazzo aveva con sé. Gesù non ci chiede quello
che non abbiamo, ma ci fa vedere che se ciascuno
offre quel poco che ha, può compiersi sempre di
nuovo il miracolo: Dio è capace di moltiplicare il
nostro piccolo gesto di amore e renderci partecipi
del suo dono” (Angelus, 29 luglio 2012).
Davanti alle sfide pastorali che abbiamo, davanti a
tanta sete e fame di spiritualità che i giovani espri-
mono, cerchiamo di non aver paura, di non restare
attaccati alle nostre cose, ai nostri modi di pensare.
Offriamo quel poco che abbiamo a Lui, affidiamo-
ci alla luce della sua Parola e che questa e solo que-
sta sia il criterio permanente delle nostre scelte e la
luce che guida le nostre azioni.
Il Rettor
Maggiore
con il sindaco
di Torino e
l'ispettore
dell'Icp.
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IN PRIMA LINEA
Andrea Marillai
UNGHERIA
Intervista a Gábor
Vitális, ispettore
Il motto della mia ordinazione sacerdotale è “Prima di tutto,
sii tu stesso un esempio di buone opere; nella dottrina sii
integro e serio”.
La reliquia
del beato
Stefano
Sándor.
Nella sede ispettoriale è in corso una
riorganizzazione: dopo il trasloco, gli
oggetti trovano una nuova collocazio-
ne, portando con sé le loro storie e i
ricordi. “Davanti a questa croce, una donna ha pre-
gato per anni perché diventassi sacerdote – indica il
crocifisso appeso alla parete don Gábor – ma non ha
vissuto abbastanza per vedere la mia ordinazione.
I suoi figli me l’hanno donato durante la mia prima
Messa. Quest’immagine invece l’ho portata con me da
Péliföldszentkereszt, perché per me rappresenta il mes-
saggio che il compito del religioso è sostenere il cielo per
gli uomini, per i giovani, ed essere un ponte tra il cielo
e la terra, portando qui la realtà divina affinché la vo-
lontà di Dio possa realizzarsi.”
Ti ricordi il momento in cui, per la prima
volta, ti è venuta l’idea di diventare
sacerdote?
Non è stata una rivelazione improvvisa, come un
fulmine a ciel sereno, e non ricordo un momento
preciso in cui ho deciso di diventare sacerdote. Ma
la vicinanza di Cristo mi attirava già da quando mi
preparavo alla prima comunione. Sicuramente, già
dalla sesta o settima classe della scuola elementare,
ogni tanto mi veniva in mente: “E se diventassi pre-
te? O magari un religioso?” Durante il liceo, questo
pensiero non mi abbandonava: sentivo dentro di me
che Dio mi chiamava a qualcosa di più, che dovevo
servire il Signore Gesù intorno all’altare.
Non hai mai avuto dubbi o momenti
di incertezza?
Sì, eccome. Continuamente. Il dubbio non era tan-
to sul fatto che non sentissi la chiamata di Dio, ma
piuttosto c’era in me una sorta di ribellione: volevo
qualcos’altro, non ero sicuro, pensavo che sareb-
be stato bello avere una famiglia. Mi chiedevo:
“Davvero Dio mi chiama a questo, se comporta
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anche delle rinunce?” Non è stato facile prendere
una decisione, perché dovevo lasciare andare certe
cose per potermi concentrare sulla mia vocazione.
Naturalmente allora non riuscivo a esprimerlo così
chiaramente – lo capisco solo adesso, con il senno
di poi. Alla fine del liceo mi sono iscritto a inge-
gneria dei trasporti e mi sono trasferito a Budapest,
al Politecnico. Dopo i primi mesi ho iniziato a sen-
tire che quella non era la strada che Dio aveva pen-
sato per me, che stavo solo sprecando tempo. Una
mattina, mentre ero sul tram, ho deciso che da quel
giorno avrei pregato ogni giorno affinché, se dav-
vero avevo una chiamata al sacerdozio, potessi dire
di sì a Dio. Alla fine del primo semestre ho lasciato
l’università, e il 1° marzo del 2000 mi sono trasfe-
rito nella comunità salesiana per un discernimento
vocazionale. Durante quel periodo, dentro di me
cresceva sempre più forte la convinzione: “È questo.
È questo che cercavo. È questo che desidero.” Così,
a settembre, ho iniziato il noviziato.
Con il motto della tua ordinazione
sacerdotale hai puntato in alto – “Prima
di tutto, sii tu stesso un esempio di buone
opere; nella dottrina sii integro e serio”.
Perché hai scelto proprio questo versetto?
Cercavo una citazione che potesse davvero accom-
pagnarmi come motto per tutta la mia vita sacerdo-
tale. Una mattina d’autunno, durante l’Ufficio del-
le letture, ho trovato questo versetto dalla Lettera
a Tito, e ho capito subito: è questo. I giovani, allora
come oggi, hanno bisogno di esempi. Di persone
autentiche che non mettono se stesse al centro, ma
che prendono esempio da Cristo e Lo rendono pre-
sente. Per le persone è importante poter avere fidu-
cia nella Chiesa e nei religiosi, e poter vedere Cristo
attraverso di loro.
Devo confessare che inizialmente volevo usare
solo la prima parte: “Prima di tutto, sii tu stesso
un esempio”. Ma mi sembrava troppo presuntuoso
Come hai conosciuto i salesiani?
I salesiani sono tornati nella mia città natale, a Bor-
sodnádasd, all’inizio degli anni ’90. Ricordo ancora
con grande affetto la loro presenza. Don Balzsay era
già molto anziano, ma con lui ho fatto delle confes-
sioni memorabili, molto belle. Ancora oggi cerco di
andare a confessarmi ogni due settimane – anche da
bambino sentivo un forte impulso interiore a farlo.
Don Szilvágyi ci ha introdotti alla vita comunitaria
salesiana: ci mandava a campi estivi, ritiri spirituali.
Ogni estate organizzava una gita per i chierichetti,
e durante quell’escursione celebrava una Messa solo
per noi, un gruppo di 25-30 ragazzi. Una volta, nei
giorni precedenti a uno di questi incontri, ho so-
gnato che distribuivo la Comunione ai fedeli. Glielo
raccontai, e lui – in via del tutto eccezionale – mi
diede il permesso di comunicare uno dei miei com-
pagni chierichetti. Sapevamo bene che l’Eucaristia
non è un gioco, ma il sacerdote comprese quanto
fosse importante, per il discernimento della mia vo-
cazione, quel gesto di grande fiducia.
Il Clarisseum,
culla dei
salesiani in
Ungheria. È
stato in parte
restituito
dallo Stato.
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IN PRIMA LINEA
In alto:
Don Gábor
Vitális, nuovo
Ispettore.
Sotto:
Salesiani
ungheresi
con il Rettor
Maggiore
emerito
don Pascual
Chávez.
– perché io non sono l’esempio,
lo è Cristo. E non potevo sem-
plicemente aggiungerlo. Così ho
lasciato l’intero versetto, e oggi
so quanto sia importante anche
la seconda parte: “nella dottrina
sii integro e serio”. Si diventa
davvero discepoli di Cristo solo
quando si è seri e irreprensibi-
li nell’insegnamento, così che
chi guarda noi, possa vedere
Lui. Ma questo è un dono. Nel
mio cammino ho sperimentato
quanto sia essenziale conoscere l’insegnamento e
viverlo con serietà. Don Pascual Chávez, ex Ret-
tor Maggiore, ha scritto molto sulla santità. La sua
prima lettera circolare si intitolava proprio: Salesia-
ni, siate santi! Conservo ancora la traduzione un-
gherese – anche se ormai le pagine si sono staccate
per via del tempo e dell’uso.
Ci sono state situazioni in cui sei riuscito
a vivere lo spirito del tuo motto e ad agire
secondo quel principio?
Sì. Per esempio, pochi mesi dopo la mia ordinazio-
ne sacerdotale è partito il programma delle colazioni
per i bambini a Óbuda. Non è facile per me alzarmi
presto, ma quando all’alba anda-
vo a comprare panini freschi per
i bambini, provavo una grande
gioia nel farlo per loro. Le non-
ne e i giovani che mi aiutavano
in questo progetto hanno perce-
pito l’essenza della spiritualità
salesiana: la gioia del donarsi,
dell’agire nello spirito di don
Bosco. Anche a Kazincbarcika,
dove ho servito come parroco,
ci sono stati momenti simili.
Le persone cercano l’esempio di
Cristo – non solo noi, ma Cristo. È bello sapere che
posso essere uno strumento nelle mani di Dio.
Nel tuo primo giorno ufficiale di lavoro,
hai dovuto prendere una decisione grave
che ha coinvolto l’intera provincia.
In che misura questo determina il futuro,
che cosa vorresti o dovresti cambiare?
Viviamo tempi in cui le difficoltà ci mettono alla
prova, ma il compito di un leader non è fuggire dai
problemi, bensì affrontarli. Dobbiamo farci una
domanda: “Signore, che cosa vuoi dirci attraverso
questa situazione?” La nostra credibilità dipende
dalla nostra capacità di creare un sistema chiaro
e trasparente, che non solo impari dagli errori del
passato, ma garantisca che certe cose non possa-
no più accadere. L’autenticità della nostra Chiesa si
fonda sull’azione sincera, responsabile e umile; non
può essere rafforzata attraverso il silenzio. Il cam-
mino della purificazione è doloroso, ma rappresen-
ta l’unica possibilità per poter guardare al futuro
con cuore puro e vera speranza.
Su chi farai affidamento durante il tuo
mandato come superiore provinciale?
Vorrei aiutare la nostra provincia a uscire da una
logica in cui siamo mossi soltanto dalla necessità
o dalla costrizione. Voglio sostenere i confratel-
li affinché la loro vocazione poggi su fondamenta
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L’ISPETTORIA “SANTO STEFANO RE” DELL’UNGHERIA (UNG)
Oggi i salesiani ungheresi continuano il lavoro dei loro predecessori in 5 luoghi: a Budapest, con due case, tra cui la sede Ispet-
toriale; a Péliföldszentkereszt-Nyergesújfalu, a Kazincbarcika e Szombathely.
Quanto al personale salesiano, l’Ispettoria conta 27 salesiani: 19 sacerdoti, 5 coadiutori e 3 chierici. Inoltre, ci sono anche
9 missionari salesiani: 4 vietnamiti, 3 indiani, 1 nigeriano e 1 polacco.
L’età media dei salesiani è di 45 anni, il più giovane ha 26 anni, mentre il più anziano ne ha 85.
I Figli di Don Bosco dell’Ispettoria “Santo Stefano Re” dell’Ungheria (UNG) lavorano in diverse istituzioni educative (asili, scuo-
le, collegio per universitari), così come in parrocchie, oratori e altre strutture, in cui, collaborando con i laici e i giovani, si
impegnano con dedizione a portare avanti il sogno di don Bosco.
ancora più solide: che la preghiera e la vita spiri-
tuale, così come la pastorale giovanile, siano vissu-
te in modo tale da rafforzare ulteriormente la loro
chiamata. Inoltre, desidero coinvolgere molto di
più i membri impegnati della Famiglia Salesiana,
affinché non siano presenti solo spiritualmente, ma
possiamo lavorare insieme in modo più efficace.
Ma tutto questo sarà possibile solo se la vocazione
salesiana è forte. Spero di poter trarre molte rifles-
sioni dal 29° Capitolo Generale, perché in molte
ispettorie si affrontano difficoltà simili, o anche
problemi più profondi. In tutta Europa mancano
le vocazioni; è vero che nelle province più grandi
ci sono ancora più persone, quindi riescono a li-
berare più risorse. Noi siamo molto al limite delle
nostre possibilità, ma abbiamo una grande risorsa
che finora non abbiamo sfruttato appieno: la Fa-
miglia Salesiana. Occorre riflettere seriamente sul
futuro, e questo non significa solo pensare a come
gestire la rete delle nostre opere, ma piuttosto come
renderle ancora più salesiane, affinché il religioso
possa vivere pienamente la propria vocazione, e
tutta la Famiglia Salesiana possa diventare visibile.
Ho davanti a me due esempi belli. Il primo sono i
campi estivi di Ibrány, dove ho percepito la bellez-
za di essere una vera famiglia insieme ai giovani,
ai genitori, ai bambini. Insieme adulti e ragazzi,
salesiani e animatori. Il secondo è il “campo nella
fattoria”, dove ognuno aveva il proprio compito, e
sapevamo che non si trattava solo di un campo esti-
vo, ma di una grande famiglia. Vorrei vivere questo
ancora più profondamente, perché ce n’è davvero
un grande bisogno.
Come vorresti vedere la provincia
tra sei anni?
Vorrei vederla come una provincia “rivitalizza-
ta”, con una visione forte per il futuro, preparata
ad accogliere e accompagnare un numero sempre
maggiore di giovani. Una provincia in cui la santità
non è soltanto riconosciuta nella figura del Beato
Stefano Sándor, ma è un cammino che ciascuno di
noi desidera vivere personalmente. Un luogo dove
c’è una prospettiva chiara, e dove il nostro carisma
contribuisce concretamente a valorizzare la Chiesa
Cattolica in Ungheria. Per don Bosco, il progetto
di Dio e l’impegno per i giovani erano le priorità
assolute. Il futuro dipende da un impegno autenti-
co: significa che, anno dopo anno, ci impegniamo
sempre di più a servire ciò che Dio ci chiede.
«Vorrei che
la nostra
Ispettoria fosse
“rivitalizzata”,
con una
visione forte
per il futuro,
preparata ad
accogliere e
accompagnare
un numero
sempre
maggiore di
giovani».
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LE CASE DI DON BOSCO
La comunità (da Vittorio Chiari)
FERRARA
Una formidabile
lezione di speranza
San Benedetto, tempio di vita spirituale e di memorie storiche.
Dov’era e com’era!
Guerra e arte non sono mai andate d’accordo, lo leg-
giamo anche nel piccolo tratto di storia del tempio di
San Benedetto. Negli anni della guerra è ricordato il
28 dicembre 1943: gli aerei arrivano all’improvviso,
segnalati dall’urlo straziante delle sirene d’allarme.
Altrettanto rapidamente se ne vanno, lasciando die-
tro di loro decine di morti.
Senza preavviso, gli aerei
ritornano il 28 gennaio
1944, alcuni giorni dopo il
primo attacco che ha semi-
nato morti e distruzione.
Questa volta non mietono
vittime umane, ma colpi-
scono tragicamente una
delle chiese più familiari
nel panorama di Ferrara, il
tempio di San Benedetto,
che sorgeva su via dei Prio-
ni, oggi corso Porta Po.
Fotografie dell’epoca rappresentano i cumuli di
macerie che circondano lo scheletro dei pilastri ri-
masti in piedi, alberi senza foglie, tragico simbolo
di bellezza profanata e violentata: affreschi, quadri,
statue, arredi distrutti per sempre. San Benedetto
era una chiesa stupenda, facilmente riconoscibile
per il campanile pendente come la Torre di Pisa,
progettata su disegno dell’Aleotti nel 1621 e com-
pletata nel 1646. Era la chiesa dei monaci dell’Ab-
bazia di Pomposa, che nel 1553 la malaria aveva
costretto a emigrare in città, a Ferrara.
I Salesiani
Nel 1912, i Salesiani ottengono parte dei chiostri e
nei locali trasferiscono la scuola-convitto dell’Isti-
tuto San Carlo, che aveva avuto la sua prima sede
in via Brasavola, dove era sorto per opera di monsi-
gnor Baldi e affidato loro nel 1897.
ll San Carlo come scuola e convitto che ha accolto
migliaia di studenti della provincia e della regione,
è rimasto aperto fino agli anni ’80 quando, scaduto
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il contratto, fu restitui­to al demanio proprietario
dell’immobile.
Nel 1927 si conclusero i lavori di restauro del Tem-
pio ritornato all’antico splendore d’arte per l’opera
intelligente e coraggiosa del canonico monsignor
Benedetto Pavani, deciso a dare nuova veste, solen-
ne e appropriata, a un’opera riconosciuta da secoli
patrimonio della città estense.
Nel 1930, l’arcivescovo Ruggero Bovelli sollecita i
Salesiani ad assumersi l’impegno della parrocchia.
Primo parroco è don Michele Gregorio, un piemon-
tese di grande cultura e umanità, che inizia la sua
opera aprendo un oratorio per i giovani e cercando
un rapporto diretto con le famiglie più povere e ab-
bandonate della città, tentando di creare un ambien-
te favorevole all’educazione e all’evangelizzazione.
Valente compositore, è ricordato come autore della
musica di “Giù dai colli”, canto in onore di don Bo-
sco conosciuto in ogni angolo del mondo salesiano.
Durante il conflitto bellico nel 1944 a causa di tre
ripetuti bombardamenti, come già detto, chiesa e
collegio vengono distrutti. Si salva il campanile.
Di fronte alle macerie il parroco don Gregorio ri-
pete a tutti “È inutile piangere! Dobbiamo rico-
struire la nostra chiesa ‘dov’era e com’era’”, citando
la frase degli abitanti di Venezia, dopo il crollo del
campanile della Basilica di San Marco.
Nella sua “testardaggine” trova come collaborato-
ri altri due tenaci “testardi”: l’arcivescovo di Ferra-
ra monsignor Ruggero Bovelli e l’onorevole Natale
Gorini, allora deputato eletto in città. Non pochi in
città sconsigliano di ricostruire, suggerendo di pro-
gettare una nuova chiesa e abbandonare i disegni del
Rossetti. La gente di San Benedetto è invece d’ac-
cordo con il parroco: il tempio è memoria familiare
del quartiere e le memorie non si possono distrugge-
re azzerandole.
La guerra è stagione effimera, violenta, sanguino-
sa, ma passa e rinasce la speranza, che per la gente
sta nel ricostruire il tempio.
I lavori cominciano nel 1951 per terminare nel
1954, il 21 marzo, con la solenne consacrazione da
parte di monsignor Bovelli alla presenza del car-
dinale di Milano, Ildefonso Schuster benedettino.
Santi e beati
Non è stato possibile purtroppo riparare le ferite
inferte al patrimonio d’arte del tempio. Sono an-
date distrutte opere, tele e affreschi pregevoli dei
più noti artisti ferraresi ed emiliani del xvi secolo.
Distrutto pure il prezioso ciborio proveniente da
Pomposa.
In tre anni di lavoro, il tempio è risorto nello spazio
pensato dal Rossetti: è una realtà ricuperata nella
memoria delle sue linee e nell’aspetto di chi lo ha
edificato per primo.
A San Benedetto hanno soggiornato alcuni santi
e beati: san Carlo Borromeo, che lo Scarsellino ha
avuto modo di ritrarre dal vivo; il beato don Mi-
chele Rua, il primo successore di don Bosco che
ha accolto l’invito della chiesa ferrarese di aprire
una Casa salesiana in città; infine il beato cardinale
Schuster che in San Benedetto ha celebrato la mes-
sa dei suoi cinquant’anni di sacerdozio.
Pagina
precedente:
La guerra
è stagione
effimera,
violenta,
sanguinante,
ma passa e
rinasce la
speranza,
che per la
gente sta
nel ricostruire
il tempio.
Sopra:
E il cuore di
don Bosco
continua a
battere.
LUGLIO/AGOSTO 2025
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2.2 Page 12

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
Tanti Salesiani
hanno lasciato
una traccia
indelebile
nel cuore
di diverse
generazioni
che a Sambe
(così è
conosciuta
l’Opera
salesiana)
sono cresciute
e si sono
formate.
All’inizio di questo nuovo secolo non sono mancate
traversie e dolorose vicissitudini. Nel 2007 un in-
cendio ha danneggiato il presbiterio e l’intera chie-
sa, lasciando miracolosamente illeso il crocifisso in
bronzo e intatto il legno della croce, annerito solo
dal fumo provocato dall’incendio. Dopo due anni,
il tempio ha potuto di nuovo riprendere vita con le
funzioni religiose. Una gioia davvero breve perché
il 12 maggio 2012 un forte terremoto si abbatté
su Ferrara, rendendo di nuovo inagibile la chiesa.
Bisognava ricominciare – ancora una volta – tutto
da capo.
Completate importanti opere di sicurezza e manu-
tenzione, la chiesa di San Benedetto nell’aprile del
2019, ha finalmente riaperto le porte ai fedeli della
contrada e della città.
Le memorie, dono di un passato antico e recente,
permettono di riconoscere quelle radici che garan-
tiscono il futuro del quartiere, fatto di persone, di
vicende liete e tristi, che non possiamo dimenticare.
È triste il paese che non ha memorie e dimentica il
suo passato.
La storia continua
Una storia gloriosa e, a tratti, faticosa e tragica ma
sempre segnata da semi e germogli di speranza.
La comunità salesiana, dopo la chiusura del Col-
legio San Carlo, accanto al tempio ha edificato,
nel 2000, un moderno Oratorio-Centro giovanile,
punto importante di riferimento educativo e cultu-
rale per i giovani della città e per le famiglie: vera
casa che accoglie, scuola che avvia alla vita, parroc-
chia che evangelizza e cortile per vivere in amicizia
e allegria.
Lo frequentano ragazzi e ragazze della circoscri-
zione, ma anche giovani della città e del forense,
in spazi che favoriscono l’integrazione, la parteci-
pazione nel sociale, nel volontariato più vivo e ope-
roso, insostituibile “pietra viva” della Comunità.
Particolare attenzione viene posta in Oratorio sulla
Catechesi per l’Iniziazione cristiana, i percorsi di
mistagogia per giovani delle Superiori ed Univer-
sitari, la Scuola di Formazione per Animatori ed
Educatori. Tante sono le proposte che in parrocchia
vogliono coprire i temi di vita delle varie età. Ben
accolta è la catechesi rivolta ai genitori che chiedo-
no il Battesimo per i loro figli, così come è deside-
rata e partecipata, nel Gruppo Giovani Famiglie, la
proposta mensile di incontri e catechesi per fami-
glie con bimbi piccoli.
Per la formazione permanente alla vita cristiana,
viene offerta ogni settimana la Catechesi degli
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LUGLIO/AGOSTO 2025

2.3 Page 13

▲torna in alto
“UNA FORMIDABILE LEZIONE DI SPERANZA”
Dopo aver visionato con attenzione e cura la serie di pannelli con foto e didascalie che ben descrivevano la storia e le vicissi-
tudini subite dalla chiesa nel corso degli anni, una turista di passaggio sussurrò a mezza voce: “Incredibile storia, questa del
San Benedetto. Non potrò più dimenticare queste foto!” Il parroco, che si trovava lì vicino e che aveva sentito queste parole,
pensò bene di completarne il pensiero: “Ha proprio ragione, mia cara signora. Davvero questa chiesa ne ha viste di tutti i
colori: distruzione e macerie nell’ultima guerra; poi incendio e terremoto... disgrazie continue, povera chiesa”. Ma non poté
aggiungere altro perché fu subito interrotto: “No! No! Volevo dire che, nonostante tutti i colpi e le ferite che ha dovuto subire,
questa chiesa ha dell’incredibile perché ogni volta si è rimessa in piedi, è sempre rinata”. Il parroco, sentita quell’osservazione,
totalmente inattesa, restò interdetto e senza parole: lui aveva posto l’accento sul buio di quella storia, mentre quella donna ne
aveva colto la capacità di ricominciare da capo, la forza e il coraggio di risollevarsi di nuovo dopo ogni batosta, di riprendere a
vivere dopo ogni caduta! “Una formidabile lezione di speranza”, confessò più volte il parroco, ricordando quell’incontro e quel
semplice dialogo avvenuto nella chiesa di San Benedetto.
Adulti. Anche la tradizionale Benedizione delle
case viene mantenuta nell’ottica di creare quelle re-
lazioni con le famiglie, indispensabili per ascoltare,
cogliere risorse, esigenze e problematiche del varie-
gato territorio parrocchiale.
In parrocchia sono attivi e operosi i Salesiani Coo­
pe­ratori e la Caritas con il suo Centro d’ascolto.
Vari gruppi di volontari si rendono disponibili per
ogni esigenza pastorale. Anche i Giovani da Tanto
Tempo (ottant’anni è l’età minima richiesta!), grup-
po di anziani che si ritrovano un pomeriggio alla
settimana per un incontro di formazione e attività
varie, offrono una bella testimonianza di vita cri-
stiana, speranza e allegria salesiana.
L’Opera Salesiana gestisce pure il Cinema San Be-
nedetto, che è Sala della Comunità e ricercato spa-
zio per proiezioni di qualità. In esso si svolgono, da
più di vent’anni, i Tè Letterari, incontri culturali
a cadenza mensile ben conosciuti, stimati e parte-
cipati dalla città. Se all’oratorio salesiano è nata la
s.p.a.l. (Società Polisportiva Ars et Labor), oggi
è soprattutto il luogo dello sport e del gioco per
tutti, sia nella Palestra “pgs San Benedetto” sia nei
campi ben attrezzati, dove piccoli e grandi si ritro-
vano per vivere il loro tempo libero. Tutti i giorni
il salone e i campi sono aperti al gioco e alle cor-
se dei ragazzi, ma è soprattutto nel periodo estivo
che tutti gli ambienti oratoriani risuonano di canti,
bans, risate fragorose e grida delle centinaia di ra-
gazzi che frequentano il Grest.
A San Benedetto tornano volentieri anche gli exal-
lievi, presenti oggi in vari settori della città e della
provincia, come affermati professionisti o generosi
lavoratori.
Tanti Salesiani hanno lasciato una traccia indele-
bile nel cuore di diverse generazioni che a Sambe
(così è conosciuta l’Opera salesiana) sono cresciu-
te e si sono formate. Ancora oggi, a cuore aperto,
San Benedetto accoglie tutti nel segno della carità,
come voleva e sognava don Gregorio, fedele copia
di don Bosco a Ferrara, città dalle mille memorie,
che ci impegna a guardare al futuro e ai suoi giova-
ni con grande speranza.
LUGLIO/AGOSTO 2025
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2.4 Page 14

▲torna in alto
SALESIANI
U.B.
DON UMBERTO BOLIS
Ho sentito «seguimi»
e sono partito
Quando mi chiedono: «Come nacque la tua
vocazione? Perché sei salesiano? Quando hai
deciso?» non sono stato sbalzato da cavallo come
Paolo; non è venuto un angelo a indicarmi il
cammino. Ho percorso la strada che mano
a mano mi si apriva davanti e che solo
ora guardando indietro mi rendo conto
che Qualcuno mi ha guidato.
Vilcabamba
La storia di Vilcabamba per me comincia a fine
agosto del 1992. Come mi succedeva da qualche
anno, avevo passato i mesi estivi delle vacanze sco-
lastiche in Perù, a Chacas, nella parrocchia di don
Ugo de Censis, salesiano, guida della Operazione
Mato Grosso. Ora dovevo rientrare. Ma... sorpresa!!
Padre Ugo mi offriva una “gita premio” a Vilca-
bamba, nel sud del Perù, accompagnato da un ar-
cheologo italiano responsabile di un progetto italo-
peruviano di sviluppo di questa zona. Progetto di
cui esisteva solo una gran quantità di fogli con di-
segni e preventivi.
Andai, osservai e da Lima scrissi a padre Ugo la
mia impressione: “La zona è molto povera; sareb-
be giusto fare qualcosa per questa gente”. Era come
avessi detto: “Ci sto”.
Infatti, con l’inizio del nuovo anno, preceduto da
tre volontari della omg, diventai “vilcabambino”.
Iniziava dall’altra parte del mondo un nuovo pezzo
di storia della mia vita. Capii che mi si offriva la pos-
sibilità di prendere sul serio le belle parole pronun-
ciate tante volte sulla carità e di tradurle in pratica.
Cominciai con Lino, Rosanna e Angelo la prepa-
razione alle prime comunioni, un primo abbozzo di
oratori, le celebrazioni delle messe, la visita alle co-
munità lontane, con lunghi viaggi a cavallo anche di
vari giorni accompagnato dal fedele Eloy, prezioso
aiuto fin dall’inizio perché conosceva tutti i sentieri.
Questi primi anni sono stati anche il momento in
cui più ho vissuto la “malattia del mattone”; scuola
di falegmameria con internato a Vilcabamba; scuola,
sempre con internato a Lucmala, con internato per le
ragazze a Oyara.
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LUGLIO/AGOSTO 2025

2.5 Page 15

▲torna in alto
Negli stessi anni, si co-
minciò anche il laborato-
rio femminile a Totora, in
Apurimac, sempre al sud,
zona ancora più povera di
Vilcabamba. Per raggiun-
gere sia Vilcabamba sia Totora si parte da Cuzco.
Distanze enormi con i fuori strada: 8-9-10 ore, se
tutto va bene.
Oyara
Nel marzo del 2000, Lino viene ordinato sacerdo-
te e viene incardinato nel vicariato di puerto
maldonado a cui appartiene Vilcabamba. Lascio
quindi la zona di Vilcabamba e mi sposto a mezza
valle in Oyara. Da tempo il vescovo mi aveva chie-
sto di celebrare qualche Messa anche ad Oyara, dal
momento che i Domenicani non potevano più.
La prima Messa mi fece capire che si doveva co-
minciare tutto da zero. La Messa delle... “10” co-
minciò alle “11”. Popolazione presente... 3 persone.
Uno che suonava la chitarra, perfettamente stonata,
uno che da solo cantava come poteva e una signora
che durante tutta la celebrazione ci faceva partecipi
delle sue orazioni gridate e accompagnate da pro-
fondi lamenti. Il tutto accompagnato dagli squittii
della grande popolazione di pipistrelli che vivevano
tra le lamiere del tetto.
Si ricominciò: prime Comunioni, oratorio, costru-
zione della chiesa, interventi vari da inventare per
dare lavoro a molti adulti che non avevano entrate.
Con l’arrivo di Luca e Claudia cominciò anche l’at-
tività della stalla con la produzione di formaggi.
in seminario. Don Ugo,
ovviamente non può.
Nessuno mi obbliga, ma
capisco che devo essere io
ad offrirmi.
È un cambio totale, di
clima, di mentalità, di problematiche: è tutto da
inventare. Ci sono tante zone di recenti invasioni,
dove mancano i servizi fondamentali, dove la gente
cerca di sopravvivere, dove spesso non esistono
norme morali.
Grande è la popolazione giovanile. Cominciamo
con una nuova parrocchia, naturalmente intitolata
“Don Bosco”, con l’oratorio, le prime comunioni,
le attività per creare una comunità. Si inizia un la-
boratorio di falegnameria a Neschuìa per i ragazzi.
Nasce una scuola secondaria cattolica. Senza di-
menticare gli adulti, ma è evidente l’importanza di
lavorare con i giovani per costruire un futuro.
Ma apparve anche il Parkinson.
Il clima di Pucallpa non mi era particolarmente fa-
vorevole.
Era necessario decidere; o fermarmi a Pucallpa o
tornare da dove ero venuto. A Pucallpa mi ero tro-
vato bene, sia nella parrocchia don Bosco appena
iniziata e poi lasciata a padre Massimo Mattaruc-
chi, sia nella scuola-laboratorio di falegnameria, sia
per lo spirito di famiglia che c’era tra i sacerdoti
Don Umberto
Bolis, un
missionario
in stile
salesiano.
Sotto:
La chiesa
di Oyara.
Pucallpa e ritorno
Nel 2007 altro cambio. Don Gaetano, rettore del
seminario di Pomallucay, viene nominato vescovo
del Vicariato dì Pucallpa, nella selva nel nord del
Perù. È un salesiano ed è giusto che qualcuno lo
accompagni. Padre Ernesto non se la sente, padre
Elio per le sue condizioni di salute non sarebbe di
grande aiuto, perciò continua ad insegnare filosofia
LUGLIO/AGOSTO 2025
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2.6 Page 16

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SALESIANI
Casa per
ospiti ed
ammalati
a Cuzco.
del Vicariato, ma il calore eccessivo della selva non
favoriva la mia salute e il Parkinson si dimostrava
un nemico da combattere.
Mi dispiaceva lasciare Pucallpa e mi dispiaceva
lasciare monsignor Gaetano e tuttavia non me la
sentivo di restare, date le difficoltà con la salute. La
selva, a parte il calore a volte insopportabile, è un
ambiente piacevole, con dei panorami mozzafiato.
La natura si presenta in generale ancora inconta-
minata; si resta sorpresi per la bellezza e la varietà
delle piante, dei fiori, degli insetti e degli animali.
È un piccolo segno di quello che doveva essere il
paradiso terrestre o che potrebbe essere la terra se
l’uomo non rovinasse tutto in nome del guadagno.
«Torna ad Oyara» fu il consiglio di padre Ugo.
Così eccomi di ritorno ad Oyara dove, nel frattem-
po, la stalla aveva avuto una nuova sistemazione,
diventando una stalla modello, riconosciuta tale
anche dagli ingegneri di Senasa (servicìo nacio-
nal sanidad agricola). Ma il mio ritorno sembrava
anche aver suscitato in alcune persone vicine alla
parrocchia, il diritto di erigersi a giudici degli al-
tri costringendomi ad ascoltare una lunga serie di
pettegolezzi.
Ero ad Oyara da pochi giorni e mi cercano al telefo-
no. Non c’era ancora la diffusione dei cellulari. Vado
al telefono pubblico, rispondo. È la priora del con-
vento di clausura di Quillabamba. I soliti preamboli
di incensazione, e poi: «Non può venire a dettare gli
Esercizi Spirituali al convento?» Cado dalle nuvole
mentre come in un frullatore girano le domande: chi
avrà fatto il mio nome? E perché? Non ho mai pre-
dicato ritiri alle suore; non ascolto più quello che dice
la priora. Dico di sì, prendo nota delle date e saluto.
Mentre ritorno verso casa mi dò dello stupido mille
volte. Ma ormai il “dado è tratto”. Così il giorno fis-
sato mi presento al convento con tutti i miei appun-
ti, fotocopie di qualche libro, qualcosa da leggere.
La giornata passa velocemente, ma quando arrivo a
sera, mi prende il magone. Consumo la mia frugale
cena da solo come il pranzo e la colazione del resto,
nel parlatorio del convento. Poi rivedo un poco gli
appunti per le meditazioni del giorno successivo,
cerco di organizzare le cose, però, non sono nep-
pure le otto. Di andare a dormire a quest’ora non
se ne parla proprio. Passeggio un poco pregando il
rosario. Alla fine di questo ritiro, riprendo così la
mia vita ad Oyara, cercando di far coincidere le ore
delle messe con le ore di autonomia che mi con-
cede il Parkinson. E sarebbe andata avanti così se
non fosse avvenuto un fatto che mi fece decidere
di andare a Cuzco. Racconto tutto nel modo più
semplice. Una notte entrarono in casa tre persone
mascherate, mi legarono minacciandomi con una
pistola e un coltello alla gola, se avessi reagito, pre-
sero i soldi ed alcune altre cose, mi legarono bene
mani e piedi con filo di ferro e mi lasciarono lì.
Riuscii a liberarmi qualche ora dopo. Trascuro i
commenti che potrei fare, non mi lascio andare a
scrivere sospetti. Interpretai il fatto come un segno.
Andai nella casa di Cuzco, casa di accoglienza per
amici e giovani di passaggio e di aiuto agli amma-
lati che dalle nostre parrocchie vengono inviati per
terapie particolari.
A Cuzco faccio il cappellano dell’ospizio. Ho più
tempo per pregare; imparo ad avere pazienza, a
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LUGLIO/AGOSTO 2025

2.7 Page 17

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cercare di essere più buono, a tenere uno sguardo
buono sulle persone. Invecchiando si impara o si
cerca di imparare. E scrivo.
Tante vite donate
Una delle cose belle che è cresciuta con l’entusiasmo
di Pilar, moglie di Chicco, responsabili della casa, è
il gruppo della carità. Si organizzano attività varie
per raccogliere soldi da usare per gli ammalati o
per le missioni che più hanno bisogno. È ripetere
in qualche modo, con giovani peruviani, un inizio
della omg, l’idea della carità, del lavoro di gruppo,
del fare gratis, rende contenti ed entusiasti i giova-
ni, qui come in Italia. C’è chi si domanda come è
stato possibile che l’omg sia cresciuto senza regole
scritte e senza capi, e sia presente in America latina
svolgendo la sua attività da oltre 50 anni. Forse la
risposta non è difficile.
Basta seguire la prima legge fondamentale che
riass­ume tutto il Vangelo: quella del dono gratuito,
della carità, fino a dare la vita, se fosse necessario.
È il cammino tracciato fin dai primi anni dell’omg
con la morte di Claudio in Brasile.
Mi sono dilungato a descrivere questo periodo del-
la vita, ma non va dimenticato che la parrocchia
di Vilcabamba comprende anche Oyara. Quando
mi sono stabilito a Oyara, ricordavo spesso a pa-
dre Lino che la parrocchia era sua. Del resto, come
era lo stile di padre Ugo, i seminaristi che venivano
dall’omg non erano incardinati tutti nella diocesi
di Huari. Alcuni sono incardinati in Italia, altri in
America Latina. Padre Lino fu incardinato nel Vi-
cariato di Puerto Maldonado e quindi divenne par-
roco di Vilcabamba. Io sono sempre rimasto, ovun-
que sia andato, un salesiano in “prestito”. Tutto è
stato possibile per l’aiuto dei volontari della omg.
Questi anni sono stati anche gli anni dell’inizio
della missione ad Apurimac, a Totora ed a Ma-
mara. Dopo varie lettere intercorse tra monsignor
Berni, della prelatura di Chuquìbambilla, e padre
Ugo, si decise di accettare ed aprire una missione
a Totora. All’inizio si pensava a una piccola comu-
nità di ragazze dedicate alla preghiera, all’oratorio
e all’aiuto ai poveri. Bastò poco tempo per rendersi
conto che sarebbe stato opportuno iniziare un labo-
ratorio per formare catechisti per l’oratorio. Iniziò
un laboratorio femminile nella casa della Sabìnita,
una signora generosa che mise a disposizione la sua
abitazione. Avremmo desiderato iniziare le prime
comunioni e l’Oratorio anche a Mamara, paese a
poca distanza da Totora, che poteva vantare una
grande e bella chiesa coloniale. A Mamara si era
però generato un problema che aveva obbligato il
vescovo a prendere posizione.
Il sindaco, abusando della sua autorità, aveva dato
alla polizia il terreno della canonica antica, di pro-
prietà della Chiesa, per costruire il posto di polizia.
Per cercare di suscitare un’adeguata reazione della
popolazione di fronte all’evidente abuso, il vesco-
vo aveva proibito la celebrazione della Messa. La
situazione non sembrava destinata a sbloccarsi fin-
ché la soluzione non venne, ancora una volta, da
padre Ugo: costruimmo come segno di pace una
nuova caserma della polizia recuperando il terre-
no dell’antica canonica. Padre Ugo aveva ancor una
volta dimostrato che se si vuole costruire la pace,
bisogna saper perdere.
Ma i miei spostamenti non sono ancora finiti. Per
i problemi di cuore non posso andare in altura e
la mia residenza cambia ancora direzione: Lima, la
capitale.
Mi rendo utile in ciò che posso e ciò che mi si chie-
de. E i sacerdoti giovani mi chiamano “nonno” con
affetto. Mi sento a mio agio, e spero di essere dav-
vero un anziano ricco di saggezza e fede.
Scuola di
mosaico.
I lavori di
artigianato,
molto
apprezzati,
sono venduti
per sostenere
le attività
caritatevoli.
LUGLIO/AGOSTO 2025
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2.8 Page 18

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LA NOSTRA FAMIGLIA
Marta Rossi
“CON DON BOSCO
NEL CUORE,
ovunque mi trovo”
Incontro
con Antonio
Boccia
Coordinatore Mondiale
dei Salesiani Cooperatori,
il terzo ramo della
Famiglia Salesiana
Nel 2026 l’Associazione dei
Salesiani Cooperatori festeggerà
150 anni dalla fondazione, a opera
di don Bosco: la data coinciderà
con il congresso mondiale,
appuntamento importante per
tracciare una linea ma, soprattutto,
per guardare al futuro.
Da Torre Annunziata nella provincia di
Napoli, dove vive, al mondo intero,
con lo spirito di don Bosco come gui-
da. Antonio Boccia è il Coordinatore
Mondiale dell’Associazione dei Salesiani Coopera-
tori, gruppo della Famiglia Salesiana, realtà viva e
diffusa in tutti i continenti.
Terzo ramo della Famiglia Salesiana, dopo sdb e
fma, i Salesiani Cooperatori nacquero dall’intui­
to profetico di don Bosco nel 1876: fin dall’inizio
della sua opera apostolica, si circondò di amici,
uomini e donne, che potevano dargli una mano
nelle attività che prendevano forma, dalla scuola
all’oratorio, dall’assistenza in cortile fino ai labo-
ratori professionali. In quel suo “ho sempre avuto
bisogno di tutti”, don Bosco ha sempre incluso i
suoi numerosi collaboratori e amici laici. Nel 1876
dà forma associativa a questo numeroso gruppo di
persone entusiaste di stargli accanto: nascono così
i Salesiani Cooperatori. Don Bosco stesso ne trac-
cia una regola spirituale, da “salesiani nel mondo”:
siamo lontani dal Concilio Vaticano II e nonostan-
te i suoi numerosi tentativi di inserire i Salesiani
Cooperatori nelle Costituzioni della Congregazio-
ne che stava per nascere, non gli fu permesso. Ha
continuato però a lavorare fino alla fine con i laici,
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LUGLIO/AGOSTO 2025

2.9 Page 19

▲torna in alto
dando loro responsabilità e offrendo amicizia e pro-
fondo senso di corresponsabilità nell’educazione dei
giovani.
Oggi, i Salesiani Cooperatori sono circa 30mila in
tutto il mondo, in 102 nazioni. Sono organizzati in
diversi livelli: il cuore dell’associazione è il centro
locale, presente prevalentemente nelle case sale-
siane, poi il livello provinciale, quello regionale e
infine, il consiglio mondiale. Antonio ne è il coor­
dinatore mondiale dal 2018.
Sposato con Franca, 64 anni, Antonio è padre di
Giuseppe, Carolina (Figlia di Maria Ausiliatrice)
e Vincenzo (sposato con Katia), nonno di Antonio
Savio e Matteo. Salesiano cooperatore da oltre 40
anni, dal 2018 appunto è coordinatore mondiale
dell’Associazione, dopo aver prestato il suo servizio
a livello locale, provinciale e regionale.
Con entusiasmo e spirito di servizio, guida questa
comunità laicale impegnata a vivere il Vangelo nel-
lo stile salesiano, dentro la quotidianità delle fami-
glie, dei luoghi di lavoro, delle opere salesiane, delle
parrocchie e delle periferie esistenziali.
Nel 2026 l’Associazione dei Salesiani Coopera-
tori festeggerà 150 anni dalla fondazione, a opera
di don Bosco: la data coinciderà con il congresso
mondiale, appuntamento importante per tracciare
una linea ma, soprattutto, per guardare al futuro.
gli anni dell’adolescenza, un salesiano che seguiva
la nostra squadra di basket ci provocò: «Non potete
fare gli animatori per sempre, scegliete una forma
adulta di fede». Così ho incontrato l’Associazione
dei Salesiani Cooperatori e ho capito che, da laico,
potevo vivere pienamente lo spirito di don Bosco.
Ho detto il mio “sì” quasi 46 anni fa. Da allora l’o-
pera di Torre Annunziata ha accompagnato i mo-
menti più importanti della mia vita: il matrimonio
con Franca e il cammino di fede dei nostri figli.
“Il mio sì è nato nella semplicità
dell’Oratorio Salesiano”
Antonio, com’è nato il suo legame
personale con don Bosco e che cosa l’ha
portata a diventare salesiano cooperatore?
Fin da ragazzino frequentavo l’Oratorio salesiano
della mia città. Ricordo ancora il primo giorno: gli
amici mi portarono dal Direttore per presentarmi;
quando, dopo qualche ora, stavo uscendo, lui mi
salutò chiamandomi per nome. In mezzo a tanti
ragazzi si era già ricordato di me: quella carezza di
attenzione mi conquistò, e l’oratorio divenne la mia
seconda casa. Crescendo ho trovato lì un ambiente
accogliente, vivace, innamorato dei giovani. Dopo
LUGLIO/AGOSTO 2025
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2.10 Page 20

▲torna in alto
LA NOSTRA FAMIGLIA
«Don Bosco
ha continuato
a lavorare fino
alla fine con
i laici,
dando loro
responsabilità
e offrendo
amicizia e
profondo
senso di cor­
responsabi­lità
nell’educazione
dei giovani».
“La vocazione si vive
anche nel lavoro”
Nella sua esperienza professionale, quali
valori salesiani ha cercato di incarnare e
trasmettere nel quotidiano?
La gentilezza, l’ascolto e quella pazienza educativa
che ho respirato in famiglia e all’oratorio li porto
con me ogni giorno al lavoro. Sono in un’azienda
che sviluppa software gestionali e, occupandomi
dell’area commerciale, incontro persone di ogni
tipo. Spesso non servono discorsi altiso-
nanti: basta il modo in cui tratti
un cliente o un collega perché
passi il messaggio del “meto-
do preventivo”. Da una decina
d’anni lavoro accanto a molti
giovani, quasi coetanei dei
miei figli; con loro parlia-
mo spesso di sogni, di
scelte e di fu-
turo. Per me
il lavoro non è
separato dalla
vocazione: è
uno dei luoghi
privilegiati in
cui la testimo-
nianza laicale
prende corpo.
“Uniti nella diversità,
per una missione comune”
Come Coordinatore Mondiale
dell’Associazione, quali sono le sfide
più importanti che ha affrontato e quali i
traguardi raggiunti finora?
La sfida più grande è farci sentire un’unica famiglia
pur parlando lingue diverse e vivendo in contesti
culturali, sociali e politici molto lontani. Nei viaggi
nei cinque continenti ho visto crescere la coscienza
di essere laici salesiani nella Chiesa e nel mondo,
anche se con ritmi diversi. Come Consiglio Mon-
diale puntiamo su formazione, comunicazione e
corresponsabilità. Il passo decisivo, direi, è stato
adottare uno stile di animazione sinodale: lavorare
insieme, ascoltarci, decidere insieme. Così è nato
un nuovo slancio missionario dentro l’Associazione
e in piena sintonia con tutta la Famiglia Salesiana.
“Ci sentiamo una grande famiglia
salesiana”
L’Associazione promuove un forte spirito
di famiglia e corresponsabilità: come
viene vissuto questo spirito a livello
locale e internazionale?
Il clima di famiglia è la prima cosa che colpisce
chi ci incontra. A livello locale si traduce in
incontri semplici, preghiera e iniziative edu-
cative. Sul piano internazionale è più com-
plesso, ma anche affascinante: durante la pan-
demia abbiamo imparato a usare le piattaforme
online e oggi ci ritroviamo regolarmente
in rete per formazione e condivisione.
Poi ci sono i Congressi: quelli regio-
nali, già celebrati nelle nostre undi-
ci regioni, e il Congresso Mondiale
che, a maggio 2026, vivrà la sua se-
sta edizione in occasione dei 150 anni
dell’Associazione, fondata il 9 maggio
1876. In quei momenti senti davvero di
appartenere a una famiglia carismatica
che ha qualcosa da dire alla Chiesa.
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LUGLIO/AGOSTO 2025

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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“Un sogno, una promessa
e il futuro”
L’Associazione è in cammino verso questo
appuntamento storico che è quello
della celebrazione dei 150 anni dalla
fondazione. Come si stanno preparando
i Salesiani Cooperatori a questo evento?
Il 9 maggio 2026 celebreremo i 150 anni dell’As-
sociazione. Per non arrivare impreparati abbiamo
avviato nel 2023 un cammino triennale che ruota
attorno a tre parole: sogno, promessa, futuro. Nel
primo anno abbiamo fatto memoria delle origini,
rileggendo i fatti, anche personali di ogni Coope-
ratore, che ci hanno generato. Nel secondo – quel-
lo che si avvia alla conclusione – vogliamo rinno-
varci, attingendo linfa dal nostro Progetto di Vita
Apostolica e rafforzando il senso di appartenenza.
Il terzo anno sarà il tempo del rilancio: rilancere-
mo l’Associazione verso le sfide che ci attendono,
facendo emergere con più forza la nostra identità
laicale. Tutto il Consiglio Mondiale sta animando
questo percorso perché diventi un’esperienza corale
vissuta da ogni cooperatore.
“Dico ai giovani: non abbiate
paura di mettervi in gioco”
Quale messaggio sente di voler
lasciare oggi ai giovani che desiderano
impegnarsi nella Famiglia Salesiana
come Salesiani Cooperatori?
Ragazzi, non abbiate paura di sognare in grande
e di sporcarvi le mani! Vivere da laico lo spirito di
don Bosco è una strada entusiasmante e molto con-
creta, fatta di relazioni vere. Don Bosco ci ha vo-
luti semplici e profondi: capaci di portare speranza
ovunque ci troviamo. Dio ha un sogno unico per
ciascuno di voi: la felicità nasce quando quel sogno
incontra il vostro. Ascoltate il cuore, distinguete le
voci che vi parlano dentro e assumetevi la responsa-
bilità delle vostre scelte. Serviranno umiltà, forza e
costanza, ma ne vale la pena. Il mondo ha bisogno
di giovani adulti gioiosi, affidabili e generosi. Met-
tetevi in gioco: scoprirete che la santità è una vita
piena e felice.
Per conoscere meglio l’Associazione dei Salesiani Coope-
ratori e le attività a livello mondiale, si può visitare il sito
ufficiale: www.asscc-mondiale.org
Antonio Boccia
con il Rettor
Maggiore e
Joan Lluis
Playà delegato
del Rettor
Maggiore per
la Famiglia
Salesiana.
LUGLIO/AGOSTO 2025
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3.2 Page 22

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LA NOSTRA BASILICA
Natale Maffioli
DUE SCULTURE
interessanti
A perenne ricordo di due giovani martiri.
Nella cappella delle reliquie sono conser-
vate due sculture che meritano la nostra
attenzione: san Tarcisio martire e santa
Cecilia, quest’ultima è una copia della
ben più famosa scultura del Maderno conservata
nella basilica romana dedicata a questa santa.
La statua di san Tarcisio è opera dello scultore
francese Alexandre Falguière. Jean-Alexandre-
Joseph Falguière era nato a Tolosa nel 1831, fin da
adolescente si dedicò alla scultura e alla pittura,
per la prima disciplina fu allievo dello scultore
francese François Jouffroy. Partecipò al Prix de
Rome del 1859 dove si classificò primo. Ottenne
in seguito una borsa di studio triennale che gli
permise di soggiornare a Villa Medici a Roma.
Nel 1882 venne nominato professore all’École delle
Belle arti di Parigi; come pittore dipinse il soffitto
della Salle des Illustres del Campidoglio di Tolosa e
morì a Parigi, il 19 aprile 1900.
Nella cappella contigua a quella di san Tarcisio è
conservata una copia della statua di santa Cecilia
scolpita nel 1600 dallo scultore Stefano Maderno;
l’originale si trova nella basilica romana in Traste-
vere dedicata alla santa. L’opera fu scolpita dopo
che fu rinvenuto, nel 1600, il corpo incorrotto di
santa Cecilia, martire romana del ii secolo, al di
sotto dell’altare della chiesa. In seguito al ritrova-
mento del corpo, il cardinale Paolo Emilio Sfon-
San
Tarcisio.
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LUGLIO/AGOSTO 2025

3.3 Page 23

▲torna in alto
Santa
Cecilia.
drati commissionò il restauro della chiesa, inclusa
una nuova tomba per la Santa.
La scultura di Maderno riproduce la posizione nel-
la quale fu ritrovato il corpo della santa. Da notare,
il messaggio eloquente di Cecilia, che con la mano
destra forma il numero tre e con la sinistra il nume-
ro uno, ad indicare le tre Persone della santissima
Trinità ma un’unica sostanza, ma anche i tre colpi
della lama subiti nella decapitazione.
Il capo reciso è dolcemente avvolto da un sudario.
Cecilia: il Vangelo sul cuore
La Legenda Aurea, la raccolta medievale di biogra-
fie agiografiche composta in latino dal domenica-
no Jacopo da Varagine, nella quale sono confluiti
molti elementi narrativi della Passio, racconta che
fu papa Urbano I, con l’aiuto di alcuni diaconi, a
seppellire il corpo della giovane martire presso le
Catacombe di San Callisto, in un posto d’onore vi-
cino alla Cripta dei Papi.
Nell’821, papa Pasquale I, grande devoto della
Santa, invocata come “la vergine Cecilia che porta-
va sempre sul suo petto il Vangelo di Cristo”, traslò
le reliquie nella cripta della Basilica di Santa Ceci-
lia in Trastevere, costruita in suo onore. Alla vigilia
del Giubileo del 1600, durante i lavori di restau-
ro della Basilica voluti dal cardinale Paolo Emilio
Sfrondati, venne ritrovato il sarcofago contenente il
corpo della giovane Santa in ottimo stato di con-
servazione, avvolto in un abito di seta ed oro.
Tarcisio: l’Eucaristia stretta
al petto
La sua storia si snoda nel terzo secolo. In quel pe-
riodo l’imperatore Valeriano perseguita i cristiani e
Tarcisio è un giovane ministrante della Chiesa di
Roma. Frequenta le catacombe di San Callisto e,
un giorno, si offre di portare il Pane consacrato ai
carcerati e agli ammalati.
Ma lungo il cammino incontra alcuni giovani paga-
ni. Si accorgono che Tarcisio stringe qualcosa al pet-
to e tentano di strapparglielo. Il ragazzino non cede e
allora viene preso a calci, qualcuno afferra delle pie-
tre e gliele tira contro. Tarcisio resiste e riesce a non
far profanare le ostie. Soccorso ormai in fin di vita,
tra le mani serrate strette al petto c’è ancora un pezzo
di stoffa con l’Eucaristia. Dopo la morte, Tarcisio è
sepolto nelle catacombe di San Callisto.
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3.4 Page 24

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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Il MESSAGGIO
del CIELO
Per il Salmo 19, Dio parla con una voce così
forte che è impossibile non sentirla.
shutterstock.com
È un’orchestra immensa, una musica
universale e sconfinata: «I cieli narrano la gloria di Dio, il
firmamento annunzia l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno
ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia,
senza discorsi, senza parole, senza che si oda alcun suono.
Eppure la loro voce si espande per tutta la terra…».
Nel cielo, nella terra, nel giorno e nella
notte, il Creatore parla. Ma oggi gli
esseri umani non lo percepiscono più.
Forse preferiscono o si preoccupano di
tante altre cose, come narra un’antica storia.
Dalla sua finestra affacciata sulla piazza del mer-
cato il Maestro vide uno dei suoi allievi, un certo
Haikel, che camminava in fretta, tutto indaffarato.
Lo chiamò e lo invitò a raggiungerlo.
«Haikel, hai visto il cielo stamattina?». «No, Mae­
stro».
«E la strada, Haikel? La strada l’hai vista stamatti-
na?». «Sì, Maestro».
«E ora, la vedi ancora?». «Sì, Maestro, la vedo».
«Dimmi che cosa vedi». «Gente, cavalli, carretti,
mercanti che si agitano, contadini che si scaldano,
uomini e donne che vanno e vengono, ecco che cosa
vedo».
«Haikel, Haikel – lo ammonì benevolmente il
Mae­stro –, fra cinquant’anni, fra due volte cin-
quant’anni ci sarà ancora una strada come questa
e un altro mercato simile a questo. Altre vetture
porteranno altri mercanti per acquistare e vendere
altri cavalli. Ma io non ci sarò più, tu non ci sarai
più. Allora io ti chiedo, Haikel, perché corri se non
hai nemmeno il tempo di guardare il cielo?».
San Francesco, fedele alla Scrittura, ci propone di
riconoscere la natura come uno splendido libro nel
quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua
bellezza e della sua bontà: «Difatti dalla grandezza
e bellezza delle creature per analogia si contempla
il loro autore» (Sap 13,5) e «la sua eterna potenza
e divinità vengono contemplate e comprese dal-
la crea­zione del mondo attraverso le opere da lui
compiute» (Rm 1,20).
Per questo chiedeva che nel convento si lasciasse
sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi
crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le
avrebbero ammirate potessero elevare il pensiero a
Dio, autore di tanta bellezza. Il mondo è qualcosa
di più che un problema da risolvere, è un mistero
gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode.
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LUGLIO/AGOSTO 2025

3.5 Page 25

▲torna in alto
FISIONOMIA DEL CREATORE
Il canto del cielo e della terra è una voce potente
che proclama l’esistenza del Creatore. Più la scien-
za si evolve, più scopre l’inevitabile necessità di un
Creatore. Un Creatore che ci lascia il suo identikit
nella Creazione.
L’Universo è sovranamente intelligente. Nel
1687 Newton scriveva nei suoi Philosophiae na-
turalis principia mathematica: «Questa magnifica
costruzione che lega il sole, i pianeti e le comete
non poté nascere se non dal pensiero e dal comando
di un Essere intelligente e potente. E se le stelle
fisse sono i centri di simili sistemi, anch’essi saran-
no tutti costruiti secondo un disegno e sottomessi
all’azione di un solo Signore. Egli è eterno e in-
finito, onnipotente e onnisciente, governa tutto e
conosce tutto, ciò che accade e che può accadere, è
presente dall’infinito all’infinito».
Gli scienziati intravedono sempre più l’intelligenza
incredibile del Creato. Paul Dirac, premio Nobel
per la fisica, afferma: «Dio è un matematico eccelso
che ha fatto ricorso a una matematica molto avan-
zata per costruire l’Universo».
George Smoot, premio Nobel per la fisica, dice:
«L’evento più catastrofico che possiamo immagina-
re, il Big Bang, a guardare più da vicino, appare
come qualcosa di finemente orchestrato».
Un altro Premio Nobel, Arno Penzias, afferma:
«L’astronomia ci indica un evento unico, un Uni-
verso creato a partire dal nulla, che si regge sul
delicatissimo equilibrio necessario per rendere
possibile la nascita della vita, e che obbedisce a un
progetto nascosto».
E il celebre professor Dyson confessa che «più esa-
mino l’Universo e i particolari della sua architettura,
più trovo delle prove del fatto che l’Universo, in un
certo senso, doveva sapere che saremmo arrivati».
Questa nostra Terra è stata preparata come una
culla proprio per noi.
L’Universo è incredibilmente bello. I bambini lo
vedono anche in una pozzanghera per la strada o in
una processione di formiche.
All’entrata della scuola si era formato un nutrito
capannello di mamme che aspettavano i loro bam-
bini. Naturalmente i bambini erano il soggetto del-
la chiacchierata.
«La mia bambina fa dei disegni incredibili!» diceva
una. «Pensate che il mio Fabio batte suo padre a
scacchi!» incalzava un’altra. «La mia bambina ha
imparato a usare il computer molto meglio di me!»
Pareva che tutte avessero dei bambini eccezionali.
Solo una mamma era rimasta silenziosa. La guar-
darono con aria vagamente incuriosita. Lei disse:
«La mia Sara sa fare una cosa: sa stupirsi. Davanti
ad ogni cosa mi dice sorridendo a braccia aperte:
“Mamma, che bello!”»
La piccola Sara è d’accordo con il grande Albert
Einstein che disse: «Ci sono soltanto due modi di vi-
vere. Uno è pensare che nulla sia un miracolo, l’altro è
pensare che tutto sia un miracolo».
Rimane una questione. La domanda delle doman-
de: perché? Perché Dio ha creato questo capolavo-
ro? Scoprirlo è fondamentale per ciascuno di noi:
perché un giorno, quello del mio compleanno, Dio
mi ha messo qui?
L’Universo è un progetto amorevole. Il Crea-
to è stato affidato agli esseri umani. Solo gli esseri
umani “assomigliano” al Creatore: sono intelligen-
ti e “crea­tivi”, possono prendere decisioni,
sanno che cosa significa amare. Il pro-
getto, in fondo, è semplice: tu sei
stato creato per amore e quindi
tu amerai.
Anna Frank, prigioniera nel-
la stanza dove era nascosta,
scrisse: Prova anche tu, una
volta che ti senti solo o infelice
o triste, a guardare fuori dalla
soffitta quando il tempo è così
bello. Non le case o i tetti, ma
il cielo. Finché potrai guarda-
re il cielo senza timori, sarai
sicuro di essere puro dentro e
tornerai ad essere felice.
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3.6 Page 26

▲torna in alto
FMA
Monica Sana
Continua dal numero precedente
Cammini di SPERANZA
Sulle orme di Maria Domenica Mazzarello
A rrivare per la prima volta oppure ritornare a Mornese è, per ogni FMA
e per ogni membro della Famiglia Salesiana, ritornare alle proprie
origini carismatiche.
Mornese fu il luogo testimone dello svolgersi della vita di Maria Domenica
Mazzarello per 42 anni. Per Main, Mornese fu una porta aperta, che allargò
il cuore agli orizzonti del mondo.
A Mornese è nato un progetto di Dio che raggiunge oggi i 5 continenti: l’Isti-
tuto delle FMA. A questo riguardo è molto significativa la lettera scritta da
don Costamagna in viaggio verso l’America: «È così piccolo codesto paese,
è un nonnulla codesta casa, eppure per noi è un gran che, per noi è ancora
il centro attorno a cui si raggiran le ruote della nostra vita raminga» (don
Giacomo Costamagna).
Casa del Sarto Valentino Campi
Casa Pampuro
Alla fine del 1861,
Teresa Pampuro, una
Figlia dell’Immaco-
lata, ospitava in casa
Petronilla, su indica-
zione di don Pestari-
no, dopo la morte del
padre.
In questa casa a mag-
gio del 1862, Maria
Domenica e Petro-
nilla iniziarono un piccolo laboratorio con tre alun-
ne in una stanza.
Le tre compagne cominciarono entusiaste la loro
attività. Le madri erano contente dei progressi delle
loro figlie e continuavano a mandarle.
Le alunne aumentavano, lo spazio disponibile ben
presto fu insufficiente, l’illuminazione si rivela
scarsa, perciò presero la decisione di cercare un lo-
cale più adeguato.
Maria Domenica, consapevole che lei e Petronilla
non possono andare a lavorare in campagna e che
entrambe desiderano fare del bene alle giovani del
Paese, propone all’amica di imparare il mestiere del
sarto e di aprire un laboratorio con il fine princi-
pale di togliere le ragazze dai pericoli, farle buone,
insegnare loro il mestiere di sarta, a conoscere ed
amare il Signore.
Con l’approvazione di don Pestarino e dei loro ge-
nitori, le due amiche iniziano “l’apprendistato” dal
sarto Valentino Campi e, oltre al mestiere, impara-
no anche il valore delle stoffe.
Casa Maccagno (1862)
Angela Maccagno, fondatrice della Pia Unione
delle Figlie dell’Immacolata, offrì loro gratis una
stanza al pianterreno della sua casa situata vicino
alla Parrocchia. Vi rimasero circa due mesi.
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LUGLIO/AGOSTO 2025

3.7 Page 27

▲torna in alto
Su consiglio di don Pestarino, Maria Domenica e
Petronilla cercarono un nuovo ambiente ed affit-
tarono dalla signora Birago una piccola stanza ma,
ben presto non risultò adeguata e cercarono un al-
tro luogo.
Contrattarono in seguito con il fratello della Mac-
cagno una stanza spaziosa ed arieggiata e un picco-
lo giardinetto. Il luogo era molto indicato per ac-
cogliere le ragazze: qui continuarono il laboratorio
quotidiano e iniziarono l’Oratorio festivo.
Casa delle Figlie dell’Immacolata
Casa Bodrato
Nel 1863 si presentò una situazione che, poco a poco,
portò alla nascita del primo internato (casa-famiglia).
Un commerciante rimasto vedovo chiese a Maria
Domenica e a Petronilla se potessero tenere durante
tutto il giorno le sue figlie di sei ed otto anni. Poco
dopo, la richiesta fu di tenerle anche la notte.
Dopo aver consultato don Pestarino e ricevuto il
suo parere positivo, affittarono un’altra stanza sullo
stesso corridoio per sistemare i letti. Ma anche que-
sta non si rivelò una soluzione ideale.
Il sig. Antonio Bodrato offrì loro due stanze in af-
fitto nella casa di fronte a quella della Maccagno.
Erano stanze ampie e vi si potevano sistemare 5
letti in ognuna. Il dormitorio venne trasportato
nella casa del Bodrato mentre il laboratorio conti-
nuò in quella della Maccagno.
Quella può essere considerata una vera scuola di
lavoro. Contemporaneamente cominciò, senza co-
noscere ancora don Bosco e la sua opera, il primo
oratorio festivo per le ragazze.
Nel 1861, alla morte del padre, don Pestarino, di-
viso il patrimonio familiare, decide di costruire una
casa vicino alla Chiesa parrocchiale. È aiutato eco-
nomicamente da Angela Maccagno, Teresa Pam-
puro e Petronilla.
Nella nuova costruzione vive con il suo segretario
Giovanni Bodrato per quasi un anno fino all’agosto
del 1867 e poi, con l’approvazione di don Bosco, si
trasferisce al Collegio lasciando libera la casa per le
Figlie dell’Immacolata.
Nell’ottobre del 1867, dopo aver preparato il labo-
ratorio e i dormitori, iniziano la vita comune Maria
Mazzarello, Petronilla Mazzarello, Giovanna Fer-
rettino, Teresa Pampuro e tre fanciulle.
Le Figlie dell’Immacolata rimangono in questa
casa fino al 23 maggio del 1872, data in cui di sera
vanno a vivere al Collegio.
6. IL COLLEGIO
Il Collegio è la prima casa madre delle Figlie di
Maria Ausiliatrice. Vi si accede per la stretta via di
Borgoalto che dalla piazzetta del paese sale verso il
castello dei Doria, oppure da via Mario Ferrettino
(una volta via Valgelata), che dalla piazzetta attra-
versa un gruppo di case ed arriva all’antica entrata.
Nel 1861, durante la convalescenza, a Maria Do-
menica passando per una collinetta di Borgoalto,
parve di trovarsi di fronte a un caseggiato, mai visto
prima, con numerose ragazze e si disse: “Ma qui
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3.8 Page 28

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FMA
Simbolo emblematico e custode dello spirito del-
le origini, rappresenta la freschezza di tale spirito,
della povertà vissuta con serenità, del lavoro corre-
sponsabile, dello stile di relazioni semplici ed aper-
te, di disponibilità ed allegria.
non c’è mai stato questo palazzo! Che succede?” E
sentì una voce che le disse: “a te le affido!!!”
La proposta di costruire un collegio per i ragazzi
del paese venne da don Pestarino con l’approvazio-
ne data da don Bosco, come collegio per i ragazzi. Il
13 giugno 1865 si fece la cerimonia di “posa” della
prima pietra. Poi, nel 1871, giunse il veto dalla cu-
ria di Acqui: non si poteva destinare il collegio per
i ragazzi; don Bosco decise che sarebbe diventato la
casa per l’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Nel 1872 vi si trasferì Maria Mazzarello con le sue
giovani, che divennero Figlie di Maria Ausiliatrice.
La cameretta di Madre Mazzarello
La cameretta è situata al primo piano. Madre Maz-
zarello occupò questa camera dal 1872 al 1879. Pic-
cola ed essenziale, è un luogo ricco di ricordi ed
insegnamenti. Da qui la Madre scriveva le lettere
alle sorelle con il desiderio di raggiungere le fi-
glie lontane, in modo particolare quelle partite per
le missioni in America Latina. In questa camera
alimentava il suo desiderio di essere missionaria e
scriveva alle figlie: “Sebbene vi sia il mare immenso
che ci divide, possiamo vederci ed avvicinarci ad ogni
istante nel Cuore Sacratissimo di Gesù [...]” (L 22).
Il Pozzo
L’antico pozzo, da cui le prime Figlie di Maria Au-
siliatrice attingono l’acqua per i bisogni della casa,
si trova allo stesso posto nel cortile del collegio ed
è stato ristrutturato conservando le sue linee essen-
ziali e le dimensioni.
La Cappella del Collegio oggi
È stata benedetta e inaugurata il 16 aprile 1995,
giorno della Pasqua del Signore.
La ristrutturazione è stata realizzata su disegno
dell’ing. Innocenzo Timossi, sdb, che, attraverso
la linearità architettonica, ha saputo far emergere i
tratti fondamentali della spiritualità di santa Maria
Mazzarello.
Il presbiterio è stato realizzato utilizzando marmi,
colonnine, tessere di mosaico della cappella prece-
dente. Due sono i punti di attrazione nel presbiterio:
Il tabernacolo-croce: la croce e il tabernacolo
costituiscono un unico blocco. Gesù continua a
dare la sua vita per noi nel Pane dell’Eucaristia.
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3.9 Page 29

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La statua di Maria Ausiliatrice: è al centro della
piccola abside. Non si può dissociare l’Eucaristia
dalla devozione a Maria. L’amore a Maria è stato
intenso nella vita di Maria Mazzarello.
Le vetrate realizzate dall’artigiano Franco Cristia-
ni su disegno del pittore Nino Marabotto, parlano
dello “spirito di Mornese” vissuto nei vari momenti
della vita di santa Maria Mazzarello.
7. IL ROVERNO:
LUOGO DI SOLIDARIETÀ
Dalla strada che porta ai Mazzarelli, dopo la piaz-
za Gustavo Doria, si svolta a destra per via san Car-
lo e si continua fino al bivio dove si prende la strada
di sinistra e si scende inoltrandosi sempre più nel
bosco. Si giunge così al torrente Roverno.
Per ogni Figlia di Maria Ausilia-
trice il Roverno è un luogo simbo-
lo che racchiude molti temi della
spiritualità mornesina.
Le prime sorelle, aiutate e guida-
te dalla Madre, Maria Domenica
Mazzarello, hanno compreso che
la vita salesiana consiste nella condi-
visione semplice, operosa e lieta di un
lavoro quotidiano – spesso duro – che le
rende vicine alle persone, alla gente del paese, alle
ragazze. Non ci sono privilegi, come le donne di
Mornese si va al torrente per lavare la biancheria
e, sotto il sole cocente, si piega la schiena tutto il
mattino.
CONTATTI
Casa per Ferie S. Maria Mazzarello
Via M. Ferrettino 18-15075 Mornese AL
Tel. 0143887860 www.fmamornese.org
email: accoglienza.mornese@fmapiemonte.it
Casa per Ferie Mazzarelli
Via S. M. Mazzarello 44 - 15075 Mornese AL
Tel. 0143875334 www.fmamornese.org
email: accoglienza.mornese@fmapiemonte.it
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3.10 Page 30

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GIOVANI SANTI
Da Ricardo Emilio Noceti
CEFERINO
Santo eroe
della Patagonia
È l’unica raffigurazione di ragazzi presente
nella Basilica Vaticana. In alto, nell’ultima
nicchia a destra della navata centrale, una
grande statua di san Giovanni Bosco indica l’altare
e la tomba di san Pietro. Accanto a lui stanno due
giovani, uno dalle fattezze europee e l’altro con i tipici
tratti somatici della gente sudamericana. È evidente
il riferimento ai due giovani santi: Domenico Savio e
Ceferino Namuncurá.
Gli abitanti originari della Patagonia (al-
meno al di qua della Cordigliera) era-
no i Tehuelches, indiani gentili che gli
spagnoli conobbero fin dalle loro pri-
me escursioni e che popolavano l’esteso territorio
della costa e dell’altopiano patagonico. Ma secondo
un lento processo di penetrazione iniziato nel xvii
secolo, i Mapuche (provenienti da oltre la Cordi-
gliera) affermarono gradualmente la loro presenza
e lasciarono la loro impronta culturale.
Cominciarono gradualmente a imporre la loro lin-
gua e poi divennero occupanti più stabili del terri-
torio, mentre diverse tribù migrarono verso est e si
stabilirono nella Patagonia argentina.
I Mapuche erano organizzati in clan o picco-
li gruppi (che raramente contavano più di 400
persone) ed erano governati da un lonco o caci-
que. Erano un popolo profondamente religioso
che adorava incondizionatamente Nguenechén, il
Dio supremo al cui dominio sono subordinate le
potenze e le forze della natura.
Ceferino Namuncurá visse pienamente in questa
organizzazione tribale: suo padre aveva il ruolo di
cacique e succedette a Calfucurà nel coordinamento
degli eserciti guerrieri che dovevano affrontare l’in-
vasione dei bianchi e partecipò alle credenze del suo
popolo durante l’infanzia, quando era a Chimpay.
Suo padre era un uomo intelligente e accorto, che
cercava di difendere i diritti e gli interessi del suo
popolo. Il generale Roca, come altri governanti
dell’epoca, non comprendeva il problema degli in-
digeni. Vedevano gli aborigeni attraverso il prisma
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LUGLIO/AGOSTO 2025

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

▲torna in alto
Santuario
dedicato a
Ceferino a
San Ignacio,
presso Junin
de los Andes.
del “barbaro, selvaggio, incivile”. Ritenevano impos-
sibile qualsiasi accordo con le popolazioni indigene e
mancavano di una vera politica di integrazione.
Namuncurá si rese conto che un’ulteriore resisten-
za era impossibile. Sarebbe stato un inutile spar-
gimento di sangue. Inviò quindi un’ambasciata
al generale Villegas per presentare la resa. Poiché
quest’ultimo in un primo momento non volle rice-
verli, gli indigeni si rivolsero a don Milanesio, per-
ché facesse da mediatore, assicurando le condizioni
minime per una resa onorevole.
Il 5 maggio 1884 Namuncurá arrivò dal generale
Roca, si arrese ufficialmente e ricevette il grado di
colonnello della nazione. Da lì fu inviato con la sua
gente a Chimpay, vicino all’omonimo forte.
Chimpay: la culla
Ceferino nacque il 26 agosto 1886. Sua madre si
chiamava Rosario Burgos. Ceferino crebbe in un
ambiente tipicamente mapuche. Nel Natale del 1888
fu battezzato da don Milanesio e il suo certificato
di battesimo si trova nella parrocchia di Patagones.
In realtà, i missionari passavano raramente per
Chimpay, quindi possiamo presumere che Ceferi-
no si sia nutrito della religione mapuche durante i
suoi primi anni di vita. Sappiamo che si manifesta-
va come un figlio affettuoso e fedele, capace di aiu-
tare i genitori fin dalla più tenera età (trasportava
legna dall’alba per risparmiare il lavoro alla madre).
All’età di tre anni, cadde accidentalmente nel fiu-
me e fu violentemente travolto dalla corrente, ma
fu poi riportato a terra quando i genitori dispera-
vano di poterlo rivedere. Questo fatto fu sempre
considerato miracoloso dai suoi genitori e fu da
loro tramandato.
Ceferino a Buenos Aires
La tribù stava attraversando momenti difficili a
Chimpay. Da un lato, Namuncurá amministrava e
distribuiva rigorosamente il suo stipendio di colon-
nello tra la sua gente. Ceferino
si rendeva conto della situa-
zione di “prostrazione”
e problematicità che il
suo popolo stava viven-
do. E ne parlò con suo padre.
Con un’intuizione sorpren-
dente per un ragazzo di un-
dici anni, disse al padre Na-
muncurá: “Padre, le cose non
possono andare avanti così.
Voglio studiare per essere
utile alla mia gente”.
Namuncurá acconsentì
ai desideri del figlio e si
recò alla scuola sa-
lesiana Pio IX
di Almagro.
LUGLIO/AGOSTO 2025
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▲torna in alto
GIOVANI SANTI
Statua
del Beato
Ceferino nel
Museo dei
Mapuche.
Lì Ceferino fu accettato ed entrò il 20 settembre
1897. Quando il padre Manuel lo visitò, qualche
giorno dopo, Ceferino gli dimostrò di essere com-
pletamente felice e di voler rimanere a studiare in
quella scuola.
Ceferino studiò lo spagnolo intensamente e tenace-
mente. Si guadagnò immediatamente il rispetto e
l’apprezzamento della stragrande maggioranza dei
suoi compagni di classe.
Non dimenticò mai di essere un Mapuche. Conti-
nuò a scrivere e a mantenere i contatti con il padre,
la madre e gli altri membri della sua tribù. Era, tra
l’altro, un abilissimo cavaliere.
Fin dal suo ingresso nel Collegio Pio IX, Ceferino
mostrò un interesse insolito (per non dire eccezio-
nale) per il Vangelo di Gesù, che cominciò a cono-
scere a poco a poco. In realtà, più che di interesse,
si trattava di vero entusiasmo. Anzitutto, si preparò
con grande dedizione alla Prima Comunione e alla
Cresima, eventi che lo segnarono profondamente.
Da quel momento in poi, cominciò a vivere molto
intensamente l’Eucaristia quotidiana come l’in-
contro più profondo e pieno con Gesù. Allo stesso
modo, prese molto sul serio l’u-
sanza salesiana di visitare Gesù
Sacramentato. In lui si forgiò
un’amicizia forte e semplice con
il Signore.
Prendeva molto sul serio il Ca-
techismo e partecipava anche ai
concorsi di catechesi che si svol-
gevano in quel periodo. In un’oc-
casione ottenne anche il secondo
posto in una di queste impegnati-
ve competizioni.
Ma Ceferino si sente anche chia-
mato a comunicare ai suoi com-
pagni di scuola quello che lui
stesso sta imparando. Per questo
si offrì come assistente catechi-
sta in un piccolo gruppo di ra-
gazzi che facevano il catechismo
nell’Oratorio della Scuola San Francesco di Sales.
Ma il suo apostolato è più ampio. Quando è in mez-
zo ai suoi compagni, cerca di vivere ciò che assimila
e di avvicinarli a Gesù. Lo fa quasi spontaneamen-
te. Sente che il Vangelo va vissuto e comunicato.
Per questo, una delle grandi gioie che l’adolescente
Mapuche ebbe fu la grande missione che monsi-
gnor Cagliero svolse nella tribù Namuncurá, a San
Ignacio. In quella missione, Cagliero preparò per-
sonalmente il cacique che, il 25 marzo 1901, fece la
prima Comunione e poi la Cresima.
E Ceferino dirà poi pubblicamente: “Anch’io di-
venterò salesiano e un giorno andrò con monsignor
Cagliero a insegnare ai miei fratelli la via del cielo,
come loro hanno insegnato a me”.
Verso la fine del 1901 però comparvero i primi
sintomi di una malattia e i superiori pensarono di
mandarlo a Viedma, confidando che il clima della
Patagonia potesse facilitare la sua guarigione.
Ma poiché la malattia non si fermava e Ceferino
aveva ancora sbocchi di sangue, monsignor Caglie-
ro decise di ricorrere all’ultima spiaggia: portarlo in
Italia per vedere se la medicina europea poteva fare
qualcosa per salvargli la vita.
Il viaggio in Italia
Quando Ceferino ricevette la notizia del suo viag-
gio in Italia, provò una grande gioia: avrebbe potu-
to visitare le terre di don Bosco, il grande sognatore
della Patagonia. D’altra parte, il suo cuore sentiva
un dolore molto grande. Ripartire, lasciare l’am-
biente familiare di Viedma, dove ognuno forma-
va un solo cuore e una sola anima, abbandonare di
nuovo le amate terre della Patagonia, allontanarsi
così tanto e forse definitivamente dalla sua famiglia
e dalla sua tribù.
Ma partì.
Passando a Buenos Aires, visse un momento di in-
tensa gioia quando ritrovò i suoi compagni di classe e
i superiori del Collegio di Almagro. Tutti si accorsero
al primo sguardo che la sua salute era peggiorata e,
quando don Vespignani gli chiese direttamente del
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LUGLIO/AGOSTO 2025

4.3 Page 33

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suo stato di salute, Ceferino rispose: “Normale”, ma
ammise di aver avuto diversi vomiti di sangue.
In Italia, Ceferino passò di scoperta in scoperta.
Viveva ogni momento molto intensamente, non
con la frivolezza del turista, ma con la profondità
del credente.
E diventò corrispondente viaggiante, inviando un
gran numero di lettere e cartoline a parenti, supe-
riori, missionari e amici (purtroppo molte di queste
missive sono andate perdute).
Pochi giorni dopo il suo arrivo, fu portato a visitare
il successore di don Bosco, don Michele Rua. L’in-
tervista lo scosse interiormente e lo riempì di emo-
zione. Da quel momento in poi, Ceferino godette
di molte attenzioni e anche diverse personalità del-
la vita pubblica, culturale ed ecclesiastica italiana,
manifestarono il desiderio di incontrarlo.
Durante il suo soggiorno a Torino, Ceferino ebbe
tre occupazioni principali: la preghiera intensa e la
preghiera contemplativa; trascorreva lunghe ore al
Santuario di Maria Ausiliatrice, in intimo dialogo
con Gesù Eucaristia. In secondo luogo, come ab-
biamo già detto, egli scriveva al suo popolo che non
dimenticava mai. In terzo luogo, visitò le comunità
salesiane di Torino e della zona, accompagnando
abitualmente monsignor Cagliero.
E il 21 novembre Ceferino si trasferì nella scuola sa-
lesiana del Collegio di Frascati. Lì si integrò come
un normale studente anche se visse momenti di pro-
fonda solitudine. Continuò a comunicare con la sua
famiglia e con i salesiani conosciuti in Argentina e
si applicò con ferrea volontà allo studio. Al Collegio
sarà ricordato per il suo spirito di preghiera, la sua
pietà eucaristica, la sua semplicità e la mitezza.
La morte
Ma arrivò il momento della resa totale. Ai primi di
marzo del 1905 Ceferino non poté più frequentare le
lezioni. Alla fine di quello stesso mese venne ricove-
rato all’Ospedale Fatebenefratelli.
Nella sua permanenza in ospedale, tutte le testimo-
nianze sono concordi nel sottolineare la sua conti-
nua preghiera, la sua disponibilità alla Volontà di
Dio, la sua forza nella sofferenza.
“Non è mai stato sentito lamentarsi di nulla, anche
quando il solo vederlo gli dava compassione e strap-
pava lacrime, tanto sembrava consumato e sofferente.
Al contrario, non solo non si lamentava delle sue sof-
ferenze, ma le dimenticava per pensare a quelle degli
altri: un giovane della nostra casa di Roma era stato
portato all’ospedale e messo nel letto accanto, che
era, come Namuncurá, nell’ultimo periodo della sua
malattia. Ceferino diede coraggio a questo giovane
con parole piene d’amore e gli insegnò a rivolgere
ogni azione, ogni sofferenza, a Dio nostro Signore”.
E a padre Iorio, tre giorni prima di morire, disse:
«Padre, presto me ne andrò; ma raccomando questo
povero giovane che mi sta accanto; venite a trovarlo
spesso... Se poteste vedere quanto soffre... Di not-
te non dorme quasi nulla, tossisce e tossisce...» E
ha detto questo mentre era nel momento peggiore,
mentre lui stesso non solo non dormiva quasi nulla....
Durante il periodo in cui fu ricoverato in ospedale,
in mezzo alla sua grande debolezza, trasse forza da
questa per scrivere a suo padre don Manuel una let-
tera affettuosa, in cui voleva rassicurarlo sulla sua
salute.
Monsignor Cagliero, che era stato il suo grande so-
stegno in quegli ultimi giorni, gli diede gli ultimi
sacramenti e lo accompagnò fino alla fine. Morì
tranquillamente l’11 maggio 1905.
La
venerazione
per Ceferino è
molto diffusa
in Argentina.
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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 18
GUARDARE e VEDERE
Il bambino si accorge se è solamente guardato o se è visto.
Si accorge se si è lì per lui e con lui o se si è lì per l’amica
con la quale parliamo; se si è per il bucato che stiamo
stirando, per la televisione che stiamo guardando.
Una maestra stava correggendo i compiti
dei suoi studenti.
Nel frattempo, suo marito passeggiava
per casa con lo smartphone in mano,
immerso nel suo gioco preferito.
Quando arrivò all’ultimo compito da correggere, la
maestra iniziò a piangere in silenzio.
Il marito, vedendola, le chiese: «Cosa è successo?».
La moglie rispose: «Ieri ho dato come compito ai
miei studenti di scrivere qualcosa sul tema “Il mio
desiderio”».
Il marito disse: «Va bene, ma perché
piangi?» La moglie, trattenendo le
lacrime, rispose: «Correggendo l’ul-
timo compito, non sono riuscita a
trattenere il pianto». Il marito, in-
curiosito, chiese: «Cosa c’era scritto
di così commovente?»
La moglie cominciò a leggere: «Il
mio desiderio è diventare uno
smartphone. I miei genitori
amano molto il loro smartpho-
ne. Si prendono cura del loro
smartphone al punto che
a volte si dimenticano
di prendersi cura di me.
Quando mio padre torna
stanco dal lavoro, ha tempo
per il suo smartphone, ma non per
me. Quando i miei genitori stanno facendo qualco-
sa di importante e lo smartphone squilla, al primo
squillo rispondono subito, ma non fanno altrettan-
to con me... anche se sto piangendo. Giocano con il
loro smartphone, ma non con me. Quando parlano
con qualcuno al telefono, non mi ascoltano, anche
se sto dicendo qualcosa di importante. Quindi, il
mio desiderio è diventare uno smartphone».
Dopo aver ascoltato quelle parole, il marito si com-
mosse e chiese alla moglie: «Chi ha scritto questo
tema?». La moglie, con gli occhi lucidi, rispose:
«Nostro figlio».
Il contatto visivo
Tutti i figli amano essere guardati. Persino gli ado-
lescenti che sembrano così sicuri e indipendenti.
Che cosa sono i tatuaggi, il piercing, le tante cure
del look, talora molto strane, se non un’invocazione:
«Guardateci!».
Ebbene, guardiamo i figli! Il contatto visivo è una
straordinaria via educativa.
Lo sguardo soddisfa i bisogni emotivi del figlio.
Con lo sguardo si comunica amore. Lo sanno
bene gli innamorati che talora sembrano man-
giarsi con gli occhi. Guardare uno è come dirgli:
“Tu esisti per me! Tu sei entrato nei miei pensieri,
nei miei affetti”. Nei campi di concentramento
tedeschi, era severamente proibito ai prigionie-
ri guardare negli occhi ì loro carcerieri. Perché?
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LUGLIO/AGOSTO 2025

4.5 Page 35

▲torna in alto
Perché questi avrebbero potuto intenerirsi.
Lo sguardo dà valore ai figli. Essere guardato si-
gnifica essere considerato. Non essere guardato
significa essere abbandonato, essere di nessuno.
È lo sguardo che, molto più che non i regali e i
denari, dà al figlio la certezza d’essere qualcuno.
Certo è che se guardassimo i figli, almeno quan-
to guardiamo il bagno o l’automobile, avremmo
indubbiamente ragazzi meno tristi, meno infeli-
ci, meno delusi della vita.
L’arte di guardare i figli
La cosa non è del tutto semplice. Vi sono, infatti,
modi buoni di guardare e modi sbagliati. Iniziamo
da questi.
Sguardi sbagliati. Un tipo di sguardo sbagliato è
lo sguardo poliziesco che controlla in continuazione il
figlio, non lo lascia libero un momento, lo tacchina
tutto il giorno. Lo sguardo poliziesco potrà, forse,
fare un figlio disciplinato, ma non un figlio educa-
to, come i carabinieri che mantengono l’ordine, ma
non formano gli uomini.
Un secondo tipo di sguardo sbagliato è lo sguar-
do minaccioso. Vi sono genitori che sfruttano lo
sguardo per dare ordini, rimproverare, criticare.
“Guardami negli occhi!”, urlano, fissando il figlio
con il loro sguardo fulminante. È vero che il figlio
va rimproverato, ma, forse, lo sguardo truce non è
la via migliore. Papà e mamma dovrebbero essere
ricordati dal figlio con altri occhi, non con quelli
severi e fulminanti.
Terzo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo indiffe-
rente. Tra tutti è il peggiore, l’indifferenza è sempre
insopportabile al figlio: gli gela l’anima; gli fa perde-
re la voglia d’essere al mondo. Non è forse vero che,
a ben pensarci, ha senso essere al mondo solo se si è
per qualcuno?
Sguardi buoni. Sguardo buono è lo sguardo generoso
che – si noti! – vede nel figlio ciò che nessuno vede.
Lo scrittore francese François Mauriac un giorno ha
detto: “Amare qualcuno significa essere l’unico a ve-
dere un miracolo che per tutti gli altri è invisibile”.
In ogni bambino c’è un miracolo nascosto. Se inco-
minciassimo a vedere ciò che il nostro figlio ha, non
avremmo più tempo di pensare a quello che non ha.
Altro sguardo buono è quello che non si limita a
‘guardare’, ma ‘vede realmente’. Vi sono tante per-
sone che ‘guardano’, ma non ‘vedono’. Guardare
è spontaneo, vedere è una conquista. Vedere una
persona è accorgersi che c’è per davvero; è capire
il suo stato d’animo, entrare in sintonia con i suoi
sentimenti. Il bambino si accorge se è solamente
guardato o se è visto. Si accorge se si è lì per lui e
con lui o se si è lì per l’amica con la quale parliamo;
se si è per il bucato che stiamo stirando, per la tele-
visione che stiamo guardando.
Terzo tipo di sguardo buono è quello sempre nuo-
vo. Il figlio cresce e cambia: dobbiamo rinno-
vare anche il nostro modo di guardarlo. Perché
ostinarci a vedere sempre la piccola pianta e non il
meraviglioso albero che sale? Perché non adattarci
alla sua crescita?
Ad un certo momento dobbiamo cambiare gli
occhiali e accorgerci che il figlio non è più un
bambino, ma un fanciullo, un adolescente, e trarne
le conseguenze nel nostro modo di parlargli e di
trattarlo. Voler continuare a vederlo sempre bam-
bino, è come otturare la fontana della vita che gli
irrompe dentro; è come potare un pino che è nato
per svettare e farne un basso bonsai.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
LA FELICITÀ...
nonostante tutto
Anche nei periodi più bui e
complicati della nostra vita,
la felicità può irrompere inattesa
tra le pieghe di un giorno
qualunque, regalandoci un
barlume di luce, una speranza,
una carezza sul cuore.
«Non aspettare che gli eventi ac-
cadano come vuoi tu. Decidi
di volere quello che succede…
e sarai felice». Così scriveva il
filosofo Epitteto nel ii secolo d.C.; lo avevano ca-
pito già gli antichi che la felicità è spesso un bene
Lo sai che a volte la felicità
ha il sapore del mare,
lascia un segno nell'anima
e le labbra salate.
Corrile incontro, tu baciala,
non farla aspettare,
se arriva in fondo a una lacrima,
tu lasciala entrare!
È una luce accesa che mi tiene sveglia,
è una luce accesa...
nonostante tutto, nonostante solo,
nonostante buio, nonostante vuoto,
nonostante perso, nonostante morto,
nonostante rotto, nonostante in lutto,
nonostante poco, nonostante vago,
nonostante credo, nonostante pago.
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sfuggente, un momento fugace da cogliere al volo,
un’occasione inaspettata che travalica i nostri stes-
si desideri e stravolge ogni nostro pronostico. Essa
semplicemente “accade”, come ci ricorda l’etimolo-
gia del termine inglese happiness (da to happen che
significa, appunto, accadere), e ci chiede di farci
trovare pronti per saperla riconoscere e afferrare.
La felicità – attimo luminoso di pienezza di senso –
può nascondersi nel profumo di una torta appena
sfornata che al mattino presto si spande per tutta la
cucina, in una passeggiata in riva al mare alla luce
del tramonto, in un pranzo con gli amici in una

4.7 Page 37

▲torna in alto
giornata festiva, in un gesto di gentilezza offerto o
ricevuto, nella scoperta di un fragile bocciolo che fa
capolino tra le piante del nostro giardino… Anche
nei periodi più bui e complicati della nostra vita, la
felicità può irrompere inattesa tra le pieghe di un
giorno qualunque, regalandoci un barlume di luce,
una speranza, una carezza sul cuore. Senza seguire
alcuna logica precisa, in modo talvolta misterioso e
senza alcun preavviso, essa si presenta imprevedi-
bile alla nostra porta e con la sua delicata irruenza
ci ricorda che spesso basta poco per toccare il cielo
con un dito.
Lo sanno bene i bambini, che gioiscono per ogni
piccolo traguardo, per ogni nuova conquista, per
ogni attenzione ricevuta e sanno essere autentica-
mente e incondizionatamente felici di fronte allo
sfavillio di una biglia colorata o al sapore dolce delle
prime ciliegie di stagione. Ma per gli adulti tut-
to diventa più difficile, le ambizioni si fanno più
esigenti e, in una quotidianità sempre più frenetica
e alienante, la felicità sembra spesso un miraggio,
un’aspirazione irraggiungibile, un obiettivo sempre
di là da venire e mai completo nella sua realizza-
zione.
Anche quando la felicità viene a farci visita, faccia-
mo fatica a riconoscerla e, nella nostra ricerca os-
sessiva di una perfetta completezza, a volte lascia-
mo che scivoli via senza essere stati capaci di farne
tesoro. Aspettiamo che nella nostra esistenza tutto
vada per il verso giusto, rimandiamo ad un futuro
indeterminato i nostri sogni di felicità e, nel frat-
tempo, perdiamo la capacità di godere dei piccoli e
grandi momenti lieti di cui la vita ci fa dono ogni
giorno. Ci dimentichiamo di lasciare aperto uno
spiraglio del nostro cuore per accogliere fiduciosi
ciò che dà luce alle nostre giornate e, più proce-
diamo nel cammino verso l’adultità, più ci lasciamo
sopraffare dal cinismo e della rassegnazione che ci
impediscono di assaporare fino in fondo la beatitu-
dine della semplicità.
È, invece, proprio nelle piccole gioie quotidiane che
spesso si cela la felicità più autentica; una felicità
Mi rimane la voglia,
vado in paranoia
se non posso farlo un'altra volta,
e poi un'altra ancora...
nonostante tutto, nonostante tutto...
Sento una musica nella testa,
la cassa atomica che ci pesta,
non c'è una logica, è una festa!
La felicità, la felicità...
Voglio una musica che mi prenda,
la luce cosmica di una stella
e quella magica che ha solo l'alba,
e non mi basta mai, mai...
Sai che a volte la felicità
poi ti viene a cercare,
ti lascia un segno nell'anima,
che ti sembra l'estate.
Corrile incontro, tu chiamala,
leggera, senza una nuvola,
se arriva in fondo a una pagina,
tu non la strappare!
È il tuo fuoco acceso che mi tiene sveglio,
è il tuo fuoco acceso...
Sai che vedo chiaro sotto questo velo
e che la mattina guardo ancora il cielo...
nonostante l'odio, nonostante devo,
nonostante cerco, nonostante affondo,
nonostante cado, nonostante voglio,
nonostante brucio, nonostante a pezzi,
nonostante troppo, nonostante pazzi.
Nonostante tutto, nonostante tutto...
(C. Cremonini feat. Elisa, Nonostante tutto, 2024)
che rischiara il nostro buio, nonostante le difficoltà
e i problemi che ci travolgono, nonostante il vuoto
di senso in cui ci sembra talvolta di affondare, no-
nostante tutte le ferite e le cadute che lasciano in
noi cicatrici profonde, nonostante le delusioni e la
solitudine che a volte ci fanno sentire persi... Una
felicità che, nonostante tutto, bussa timidamente
alla nostra porta e, persino nei momenti più tri-
sti ed incerti, non smette di sorprenderci. Ma so-
prattutto una felicità che ci chiama a vivere ogni
istante con pienezza e gratitudine, poiché – come
ci ricorda anche santa Teresa di Calcutta – «non c’è
momento migliore di questo per essere felici»!
LUGLIO/AGOSTO 2025
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4.8 Page 38

▲torna in alto
LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
PAPA LEONE XIII
e don Bosco
L’elezione di papa Leone quattordicesimo
ci invita a sospendere la serie di letture
missionarie per fare memoria di come
don Bosco abbia vissuto e descritto
l’elezione nel 1878 di papa
Leone tredicesimo (1810-1903),
l’ispiratore del nuovo pontefice.
Papa Leone
XIII è stato il
256º vescovo
di Roma e papa
della Chiesa
cattolica dal 20
febbraio 1878
fino alla morte.
È ricordato
nella storia dei
papi dell’epoca
moderna come
pontefice che
ritenne che
fra i compiti
della Chiesa
rientrasse
anche l’attività
pastorale
in campo
sociopolitico.
Don Bosco non ha dovuto correre a
Roma, come tanti, né per i funerali di
Pio IX, né per l’elezione del successore
Leone XIII: si trovava infatti in città
dal 22 dicembre 1877 – vi si sarebbe soffermato
fino al 26 marzo 1878 – dunque poté “assistere”
tanto alla morte di Pio IX il 7 febbraio 1878, quan-
to al conclave che elesse il successore il 20 febbraio.
Del conclave si era interessato personalmente al-
cuni giorni prima presso il Ministro dell’Interno,
Francesco Crispi, che gli aveva garantito la piena
libertà di svolgimento dell’assise cardinalizia a
Roma, nonostante il gravissimo contenzioso aperto
dal 1870 fra la Santa Sede e il Regno d’Italia.
Il 20 febbraio con soli tre scrutini da parte dei 61
cardinali (tre assenti) fu eletto papa il vescovo di
Perugia, cardinale Gioachino Pecci. Non ci fu nes-
suna sorpresa: il cardinale Camerlengo entrò in
conclave papa e uscì papa.
Don Bosco subito prese carta e penna e due giorni
dopo gli fece pervenire la lettera di felicitazioni e di
ubbidienza a nome di tutta la Congregazione sale-
siana: “Beatissimo Padre, La elezione straordinaria di
V. S. a capo supremo della Chiesa riempì tutti i cattoli-
ci della più grande consolazione. A tanti figli adottivi
umilmente, ma nel modo più affettuoso e rispettoso si
associano i Salesiani, o religiosi della pia Società di S.
Francesco di Sales.
Questa congregazione è stata consigliata, diretta, ap-
provata dalla veneranda memoria di Pio IX, ma ha
tuttora grande bisogno della protezione di V. S. affin-
ché possa conseguire la stabilità necessaria a promuovere
la maggior gloria di Dio.
Tutti prostrati ed uniti in un cuore solo ed in un’anima
sola venerano, riconoscono il Successore di S. Pietro, il
Capo supremo della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo
nell’augusta persona di V. S.; tutti i Salesiani e i fan-
ciulli loro affidati con affetto figliale offrono fatiche,
cuore, sostanze e vita, sia in Europa sia nelle missioni
estere, qualora V. S. giudichi di servirsi dell’opera loro.
Colla massima venerazione e con inalterabile attac-
camento dimandano l’apostolica benedizione, mentre
a nome di tutti per la prima volta ha l’incomparabile
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LUGLIO/AGOSTO 2025

4.9 Page 39

▲torna in alto
onore di potersi prostrare ai piedi / Di V. S. Aff.mo Ob-
blig.mo Figliuolo/ Sac. Gioanni Bosco/ Rettor. Magg.
dei Salesiani della Congregazione Salesiana.
Un sincero augurio dunque, un sacro impegno da
parte di tutta la Congregazione, ma anche una ve-
lata richiesta di protezione. Ne aveva bisogno.
Don Bosco sarebbe poi stato ricevuto in udienza par-
ticolare il 16 marzo e negli anni successivi varie altre
volte. Indimenticabile è quella del 5 aprile 1880 nella
quale il papa gli affidò la costruzione della chiesa del
Sacro Cuore presso la stazione Termini. Don Bosco
accettò, ma dovette convincere il riluttante e pruden-
te suo Consiglio Generale a confidare nella Provvi-
denza per trovare l’enorme quantità di denaro che
sarebbe occorso. Sette anni dopo, il 17 maggio 1887,
quattro giorni dopo una nuova udienza (sarebbe sta-
ta l’ultima) gli indirizzò il seguente scritto:
“Beatissimo Padre, Io parto da Roma altamente soddi-
sfatto per la caritatevole e veramente paterna accoglien-
za fattami dalla Vostra Santità. La chiesa e le scuole del
Sacro Cuore sono attivate, gli abitanti di questo popo-
latissimo quartiere possono comodamente compiere i re-
ligiosi loro doveri. Devesi compiere l’ospizio pei poveri
orfanelli e se Dio mi dà vita speriamo di ultimarlo [sa-
rebbe invece morto mesi dopo]. Abbiamo eziandio da
saldare la spesa della facciata della chiesa. Se Vostra San-
tità potesse in tutto o in parte venirci in aiuto pel residuo
di L. 51.000 le nostre finanze sarebbero regolate. Tutti
i nostri orfanelli in numero di 250.000 pregano ogni
giorno per la conservazione in buona sanità della San-
tità Vostra, per cui tutti lavoriamo di cuore. Compatisca
questa mala scrittura; umilmente prostrato dimando per
tutti i Salesiani la benedizione/ Della Santità Vostra/
Obbl.mo figlio/ Sac. Gio. Bosco/ Rettore”.
Non si può non ricordare che papa Leone XIII era
stato il promotore della Concordia fra il vescovo di
Torino monsignor Lorenzo Gastaldi e don Bosco,
dopo un decennio di contrasti e dissapori.
Il conclave
Salito al soglio pontificio Leone XIII, don Bosco tor-
nò a Torino. Non perse tempo e in autunno era in
grado di dare alle stampe due volumetti delle “Lettu-
re cattoliche” per complessive 288 pagine con il titolo
“Il più bel fiore del collegio apostolico, ossia la elezio-
ne di Leone XIII con breve biografia dei suoi elet-
tori”. Nell’introduzione così motivava il suo intento:
Ad un avvenimento così solenne, così importante tutti
i Cattolici sarebbero lietissimi di potersi trovare pre-
senti, vedere, osservare e notarne tutte le particolarità.
Ma ciò essendo possibile soltanto ad un piccolo numero,
io credo di fare a tutti cosa grata, esponendo qui con
particolari circostanze questo atto straordinario… Ciò
fo tanto più volentieri, perché espongo cose, delle quali
fui testimonio oculare… Io pertanto esporrò le cose che
precedettero ed accompagnarono la elezione del novello
Pontefice Leone XIII…”.
E nei successivi 13 capitoli tracciava l’origine dei
conclavi, la terminologia in uso nelle cerimonie, un
minuzioso resoconto delle fasi del conclave appe-
na tenuto, dei cenni biografici del nuovo papa e in
appendice un brevissimo profilo dei 63 cardinali
elettori. Lasciamo ai nostri elettori la facile lettura
on line del testo donboschiano: vi troveranno in ab-
bondanza le informazioni sul conclave di cui siamo
stati inondati noi un secolo dopo dai moderni mez-
zi di comunicazione di massa. Né più, né meno,
ad eccezione degli alloggi dei cardinali e della at-
trezzatura della Cappella Sistina come si evince da
questa breve citazione:
“Chi in que’ giorni fosse capitato in Vaticano avrebbe
veduto un numero grande di muratori, di scalpellini a
mettere in ordine mattoni, pietre e calce per chiudere i
portici di quel cortile, mentre altri tiravano su dei mu-
ricci per dividere le sale e ridurle in piccole cellette. Chi
dirigeva tutti quei lavori era un uomo già assai cono-
sciuto per la sua rara pietà e per la sua singolare atti-
tudine nel maneggio de’ grandi affari. Quell’uomo era
il Camerlengo di S. Romana Chiesa, era il Cardinale
Gioachino Pecci. Tutti erano maravigliati alla perizia,
alla fermezza e prontezza con cui dirigeva quelle sva-
riate operazioni. Fu appunto allora che taluno cominciò
a dire che lo zelo, la scienza, la pietà del Cardinale Pecci
avrebbero formato le doti di un Gran Pontefice”.
LUGLIO/AGOSTO 2025
39

4.10 Page 40

▲torna in alto
I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
Nei mesi di luglio-agosto preghiamo per la beatificazione e
canonizzazione della Venerabile Teresa Valsé Pantellini.
Nasce a Milano il 10 ottobre 1878
da una famiglia agiata. Il padre
Giuseppe, fervido credente e gran-
de lavoratore, è padrone di diversi
alberghi in Egitto, dove Teresa
trascorre i primi anni della sua vita.
Educa la figlia ad amare i poveri e
ad aiutarli sempre. La famiglia si
trasferisce prima a Milano, poi a
Firenze. A 12 anni Teresa perde il
padre. Questa esperienza l’aiuta
nel maturare un più profondo spi-
rito di preghiera. Riceve un’accura-
ta istruzione letteraria ed artistica,
e coltiva le virtù umane sotto la
guida dolce, ma esigente, della
mamma. Nel giorno della prima
Comunione avverte la chiamata
allo stato religioso e si offre al Si-
gnore con profonda gioia. Quando
la madre trasferisce la famiglia a
Roma per favorire gli studi univer-
sitari del fratello Italo, Teresa entra
nel collegio delle Dame del Sacro
Cuore e si impegna nelle Conferen-
ze di San Vincenzo. Nella basilica
del S. Cuore a Roma trova la guida
spirituale nella persona di don Fe-
derico Bedeschi che l’accompagna
nel discernimento vocazionale e la
sostiene nelle difficoltà che attra-
versa per diventare la Figlia di Ma-
ria Ausiliatrice. Teresa può entrare
nell’Istituto delle FMA solo dopo la
morte della mamma. È il 2 febbraio
1901. Nel momento della decisione
di diventare religiosa, aveva scritto
al fratello Italo: “Ho deciso irrevo-
cabilmente”. Atteggiamento man-
tenuto per sempre, insieme con la
scelta di “passare inosservata” che
ha segnato tutta la sua esistenza.
Trascorre gran parte della vita reli-
giosa a Roma Trastevere, a partire
dal periodo di noviziato. Le case di
Bosco Parrasio e di Via della Lunga-
ra ospitano nell’oratorio le ragazze
Ringraziano
Vorrei ringraziare pubblicamente
Maria Ausiliatrice, san Dome-
nico Savio, san Giovanni Bosco
e Mamma Margherita per il
grande aiuto ricevuto dalla mia
famiglia. Ad agosto 2022 sono
stata operata per un carcinoma al
seno ed è iniziato un calvario an-
che perché pure mia mamma già
anziana aveva dei gravi problemi
di salute e mio marito a causa del
mio tumore è andato in depressio-
ne. Ho vissuto davvero un incubo,
considerato che a quel tempo i
miei bambini erano davvero mol-
to piccoli. Ho pregato tantissimo
e l’aiuto per la mia famiglia non
si è fatto attendere. Infatti, la mia
situazione si è rivelata migliore
del previsto, ho così potuto evita-
re la chemioterapia. Mio marito
è uscito dalla brutta depressione
in tempi brevi e mia mamma si è
risollevata ed ha trascorso un pe-
riodo davvero sereno ed in forma
nonostante i suoi 84 anni e la gra-
ve malattia. Ringrazio i santi della
Famiglia Salesiana di cuore perché
mi hanno sempre aiutato, anche
più povere del quartiere, piccole
lavandaie delle case dei ricchi. Tra
le religiose della comunità, suor
Teresa è la più amata dalle giovani,
che sentono il fascino della sua pre-
senza sorridente e gentile. Emette
la prima professione a Nizza Mon-
ferrato (1903) e torna a Roma come
suora professa, per dedicarsi con
nuovo entusiasmo all’oratorio e
alla catechesi. È esperta nel teatro,
nella preparazione dei canti, ma
non tralascia di aiutare nei lavori di
casa. Manda avanti la lavanderia e i
laboratori delle ragazze povere con
serenità e spirito di sacrificio. Non
arrestano il suo cammino di santità
i sintomi sempre più insistenti di un
male che la consuma: la tubercolo-
si. Sente che è giunto il momento di
amare la sofferenza – non solo di
accettarla come dono che unisce al
Crocifisso: «Quello che vuoi, o Gesù,
lo voglio anch’io, e lo voglio finché
lo vuoi Tu». La gioia e la semplicità
di Mornese, il sacrificio silenzioso,
la sua continua unione con Dio e
l’amore filiale a Maria sono i punti
saldi del suo progetto di vita. Passa
gli ultimi mesi della vita nell’infer-
meria di Torino, dove termina la
sua corsa il 3 settembre 1907. È sta-
ta sepolta a Nizza Monferrato. Nel
1926 inizia il Processo canonico che
il 12 luglio 1986 giunse alla dichia-
razione della venerabilità.
Preghiera
O Gesù, che hai detto di imparare da te che sei mite ed umile di cuore,
degnati di glorificare la Venerabile suor Teresa Valsé Pantellini,
tua sposa fedele e generosa apostola.
Concedi a noi le grazie che per sua intercessione ti domandiamo,
e fa’ che possiamo imitare la sua fede e la sua carità
per amare e lodare in eterno te, o Cristo,
che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo.
Amen.
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
17 maggio 2025: a Chambéry (Francia) Beatificazione del Vene-
rabile Servo di Dio Camillo Costa De Beauregard, sacerdote dio-
cesano, nato a Chambéry, in Francia, il 17 febbraio 1841 e ivi morto
il 25 marzo 1910.
quando devo fare i controlli e gli
esami sono sempre in ansia, ma
fortunatamente per il momento
è andato tutto bene nonostante a
volte certi sintomi lasciassero pre-
sagire il peggio. Purtroppo, nell’a-
gosto 2024 la mia cara mamma è
venuta a mancare, però anche in
quest’occasione io ho trovato l’a-
iuto dal cielo in quanto mia mam-
ma ci ha lasciato senza soffrire,
cosa praticamente impossibile
con la sua malattia. Ma sono pro-
prio certissima dell’aiu­to ricevuto.
Anche quando davvero sembrava
impossibile Maria Ausiliatrice, san
Domenico Savio, san Giovanni Bo-
sco e Mamma Margherita hanno
aiutato la mia famiglia ed io non
smetterò mai di ringraziarli. Dal
canto mio, io prometto che Loro
faranno sempre parte della mia
vita, della mia famiglia, della mia
casa e prometto di recitare gior-
nalmente le preghiere in Loro
onore.
(Katia)
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LUGLIO/AGOSTO 2025

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Marina Lomunno
Don Luigi
Ricchiardi
Morto a Guayaquil (Ecuador)
il 21 aprile 2025,
a 93 anni.
Una vocazione
dedicata a Gesù
e al servizio
degli altri, fino
all’ultimo respiro.
Don Luigi Ricchiardi,
classe 1932, salesia-
no torinese, è stato
parroco a Maria Ausiliatrice dal
novembre 1968 al settembre
1975. Inviato missionario nelle
opere salesiane in Ecuador là è
stato Vicario ispettoriale per 6
anni, responsabile nazionale della
catechesi e insegnante di Teolo-
gia. Dopo l’esperienza di parroco
nelle periferie di Quito, Guayaquil
e Cuenca, per otto anni ha vissuto
tra gli indigeni delle Ande a 3600
metri. Infine è stato rettore del
Santuario mariano salesiano del
Guayco intitolato a Mama Naty
(la Madonna della Natività nella
lingua locale) nella Provincia del
Bolivar, nell’Ecuador centrale.
Dotato di un carattere felice,
ottimista ed empatico si lasciò
guidare sempre dalla Provviden-
za, come don Bosco: «Capisco
adesso, più di prima, che Dio è,
come dice papa Francesco, il Dio
delle sorprese. Nel 1968 inaspet-
tatamente l’Ispettore mi fa la
proposta di andare ad accompa-
gnare per tre mesi un gruppo di
ragazzi e ragazze volontarie, nel
Mato Grosso, in Brasile. Nel perio-
do trascorso in quella missione,
sentii che il Signore mi chiamava
a offrirmi per essere missionario
per tutta la vita, non solo per
tre mesi! Le cose si complicano,
quando, ritornando a Torino, il
Rettor Maggiore di allora, don
Luig­i Ricceri, mi chiede di fare
il parroco di Maria Ausiliatrice.
Proprio non me l’aspettavo! Don
Ricceri mi disse: “Gigi, abbiamo
terminato il Concilio Vaticano II:
bisogna cambiare. Se metto un
confratello anziano non cambia
niente, metto te e tu vedrai ciò
che puoi fare”... Ho iniziato la mia
“avventura” di parroco a Maria
Ausiliatrice, da una parte con l’an-
sia missionaria e, dall’altra, con
il sogno e il timore di realizzare
poco a poco le proposte rinnova-
trici del Concilio.
Ho incontrato l’appoggio incondi-
zionato dei superiori, dei confra-
telli che mi hanno accompagnato
e della maggior parte della gente,
specialmente dei giovani e dei
poveri. Ho cercato di essere un
pastore “con l’odore delle pecore”
come dice oggi papa Francesco.
Più vicino possibile alla gente
(in modo speciale agli immigra-
ti), mi sono appoggiato molto
all’oratorio e alla collaborazione
delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
La lettera pastorale del cardinal
Pellegrino, “Camminare insieme”,
mi aiutò moltissimo. Cercavamo
di programmare le diverse attivi-
tà insieme al Consiglio pastorale,
preparavamo insieme ai laici la
predica della domenica cercando
di dare alle celebrazioni liturgiche
un tono di incarnazione nella vita
personale e sociale. La presenza
nel Comitato di quartiere mi ha
interrogato e mi ha aiutato a cre-
scere come persona e come sacer-
dote religioso.
L’idea di partire per le missioni
non mi aveva mai abbandonato,
anzi era uno stimolo a vivere con
coraggio la mia responsabilità
pastorale. Nell’estate del 1975, a
cento anni della prima spedizio-
ne missionaria di don Bosco, don
Ricceri mi dà il “semaforo verde”
per partire per l’Ecuador. Un mo-
mento di gioia perché vedevo re-
alizzato il mio sogno missionario
ma anche di sofferenza per dover
lasciare tante persone e tante
iniziative che avevano riem­pito la
mia vita per sette anni, nonostan-
te i miei errori e le mie mancanze.
Cercai di far sentire alla gente del-
la parrocchia che erano loro che
mi mandavano in missione: “Con
don Gigi la parrocchia di Maria
Ausiliatrice si faceva missiona-
ria!”».
Perché in Ecuador? «Quella de-
stinazione non è stata una scel-
ta mia: l’ho accettata con gioia
anche se non conoscevo nulla di
questa realtà. Ma ero cosciente
che era il Signore che mi chiamava
a vivere la mia vocazione salesia-
na e sacerdotale in un nuovo con-
testo e ho cercato sin dall’inizio di
incarnarmi totalmente nel nuovo
mondo, specialmente nei più po-
veri e nei giovani. Mi sono sentito
felice e realizzato come sacerdote
e come salesiano nella missione
con la gente delle campagne, nei
sobborghi di Quito, Guayaquil
e Cuenca, fra gli indigeni delle
Ande, con i ragazzi di strada, con
i giovani che si preparavano alla
vita salesiana e sacerdotale. Ho
sentito sempre la responsabilità
di fare presente almeno un poco
di don Bosco, visto che mi aveva
voluto per sette anni a suo fianco
a Valdocco. Farlo presente con la
vicinanza alla gente, con un tratto
affettuoso e spontaneo, con un
ottimismo sognatore. C’è qui tan-
ta gente, specialmente giovani,
che mi chiamano non solo “papà”,
ma anche “nonno”.
Purtroppo anche da noi non
manca il rischio della droga, della
violenza, dell’edonismo… È forte
per molti la tentazione della vita
facile e comoda, della ricerca del
benessere personale, del vivere
come i ricchi...
Con occhi salesiani, credo di veder
in loro la speranza e la possibilità
di lottare per il mondo nuovo che
vuole Dio, anche se esternamen-
te non sempre la manifestano.
L’educazione e la nostra proposta
del Vangelo possono e debbono
aiutare a farli crescere in questa
prospettiva.
L’ultima benedizione di don Bo-
sco, sul letto di morte, è stata per
l’Ecuador. È una benedizione che ci
fa sentire la responsabilità di fare
presente nella vita quotidiana di
coloro che formiamo che sono par-
te della famiglia salesiana, e nelle
nostre scelte concrete in questi
momenti non facili per il nostro
Paese. La sfida non è soltanto di
stare dalla parte dei poveri e dei
giovani, ma anche e soprattutto
di credere in loro, di credere che
solo con loro e a partire da loro è
possibile progettare e realizzare un
Ecuador diverso come Dio lo vuole.
È questo il senso della proposta del
Rettor Maggiore: “Come don Bo-
sco, con i giovani e per i giovani”,
ed io aggiungerei ”con i poveri e
per i poveri”».
Il suo funerale è stato un momen-
to commovente e affollatissimo,
perché anche dal Cielo sapesse
che tutti gli volevano bene.
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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 4 lettere:
Oasi, Vino.
Parole di 5 lettere:
Avila, Epodi, Essai, Ceduo, Macao, Pinta,
Sartù, Sordi.
Parole di 6 lettere:
Blatte, Canopi, Domino, Ipazia, Notula,
Tresca.
Parole di 8 lettere:
Omelette, Sminuire.
Parole di 9 lettere: Artistico.
Parole di 10 lettere:
Anticipare, Costolette, Deprezzare,
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso,
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le
parole contrassegnate dalle tre X nel testo.
? Denunciati, Operatorio, Spasmodico.
Parole di 11 lettere: Ristagnante.
Parole di 12 lettere: Apocalittico.
?
La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 15 lettere: Scacciapensieri.
UNA SANTA GIORNATA
Don Bosco conduceva una vita semplice, ma scandita da ritmi precisi, tutti orientati al bene dei gio-
vani e alla sua missione educativa. Si svegliava molto presto, spesso alle quattro del mattino. Dopo
una breve preghiera personale, si dedicava alla celebrazione della Messa, cuore spirituale della sua
giornata. Dopo la colazione, iniziava subito il lavoro: incontrava ragazzi, organizzava lezioni, curava
l’oratorio. Era instancabile. Passeggiava tra i cortili parlando con i giovani, ascoltando le loro storie,
incoraggiandoli con parole gentili e paterne. Ogni sua azione era guidata dalla “carità preventiva”:
educare con amore prima che fosse necessario punire. Le sue giornate erano intense ma ordinate.
Tra le sue XXX vi era l’attenzione costante alla formazione morale e spirituale dei ragazzi, che
considerava la sua missione più alta. Durante il giorno trovava anche il tempo per scrivere lettere,
testi educativi e meditazioni. Il suo ufficio era sempre aperto a collaboratori, benefattori e sacerdoti.
Nonostante gli impegni, non trascurava mai la preghiera: rosario, meditazione e momenti di adora-
zione erano parte fondamentale della sua giornata. Pranzava in modo frugale e spesso condivideva
Soluzione del numero precedente
il pasto con i giovani, parlando con loro come un padre af-
fettuoso. Nel pomeriggio seguiva le attività dell’oratorio: i
giochi, le confessioni, gli incontri di catechismo e i momenti di svago, sempre con uno spirito educa-
tivo. La sera cenava presto e concludeva la giornata con la preghiera comune, dando l’esempio con
la sua presenza costante. Andava a dormire tardi, spesso dopo mezzanotte, stanco ma sereno. Ogni
giornata di don Bosco era un dono speso per Dio e per i giovani, con spirito di sacrificio, entusiasmo
e instancabile dedizione.
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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
LA CAROVANA
nel deserto
U n potente sovrano viaggiava
nel deserto seguito da una
lunga carovana che traspor-
altri forzieri e i cammelli erano già
sovraccarichi. Con un gesto tra il
dispiaciuto e il generoso, invitò i
«E tu» gli chiese il principe, «non ti
sei fermato a raccogliere niente?».
Il giovane diede una risposta piena di
tava il suo favoloso tesoro d’oro e
suoi paggi e i suoi scudieri a tenersi dignità e di fierezza: «Io seguo il mio
pietre preziose.
le pietre preziose che riuscivano a re».
A metà del cammino, sfinito
raccogliere e portare con sé.
dall’infuocato riverbero della sabbia, Mentre i giovani si buttavano avida- «Molti discepoli di Gesù si tirarono
un cammello della carovana crollò mente sul ricco bottino e frugavano
indietro e non andavano più con lui. Allora
?
boccheggiante e non si rialzò più. affannosamente nella sabbia, il princi-
Il forziere che trasportava rotolò per i pe continuò il suo viaggio nel deserto.
fianchi della duna, si sfasciò e sparse Si accorse però che qualcuno con-
Gesù domandò ai Dodici: “Forse volete
andarvene anche voi?”.
Simon Pietro gli rispose: “Signore, da chi
andremo? Tu solo hai parole che danno la
tutto il suo contenuto, perle e pietre tinuava a camminare dietro di lui.
vita eterna. E ora noi crediamo e sappiamo
preziose, nella sabbia.
Si voltò e vide che era uno dei suoi
che tu sei quello che Dio ha mandato”»
Il principe non voleva rallentare
paggi, che lo seguiva ansimante e
(Vangelo di Giovanni 6, 66-69).
la marcia, anche perché non aveva sudato.
LUGLIO/AGOSTO 2025
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Devolvere il 5×1000 nella tua dichiarazione dei
redditi non ti costa nulla, ma può far germogliare
esperienze che cambiano la vita.
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alla missione salesiana in tutto il mondo.
Nel 2025, nello stato brasiliano del Minas Gerais,
due orti e un frutteto salesiani diventeranno pale-
stre di vita per 1000 giovani: la Fondazione DON
BOSCO NEL MONDO sosterrà la rinascita di luoghi
dove si impara a collaborare, ad aver cura della
terra, a nutrirsi in modo sano e responsabile.
Ogni semina è un’occasione per imparare.
Ogni raccolto, un passo verso l’autonomia.
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consapevole, solidale e attenta al Creato.
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