03-Marzo-2024

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linvitato
Don Roman
Jachimowicz
don bosco nel mondo
Dove Dio
piange
le case di don bosco
Alessandria
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
salesiani
Don Marco
Panero
La luce
VINCERÀ!
MARZO
2024

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Un BRACCIO al COLLO
(Per colpa di don Bosco)
G iuseppe Buzzetti, uno dei
primi ragazzi da lui raccolti a
Valdocco, ha raccontato un
singolare episodio accaduto ai primi
tempi dell’Oratorio, di cui era stato
testimone. Ecco il suo racconto:
Quante volte ho visto don Bosco
passare le notti intere ad ascoltare i
giovani in confessione, e risvegliarsi
al mattino seguente ancora seduto
nello stesso confessio­
nale dove si era posto al
tramonto!
Una sera, vigilia di una
grande solennità, erano
suonate le 10 e c’era an­
cora un bel numero di
penitenti da confessare.
«Andate a dormire,
figlioli – disse loro
don Bosco –. È molto
tardi!»
«No, continui a con­
fessarci, abbia pazien­
za», lo supplicavano i
ragazzi.
Continuò, ma in breve
tempo uno dopo l’altro
tutti i ragazzi si addor­
mentarono...
Anche don Bosco si
addormentò, poggiando
la testa sul braccio di
un ragazzo di nome
Gariboldi, mentre lo
confessava. Il fanciullo aveva le mani
giunte, e teneva l’avambraccio disteso
e sporgente sul banco.
Verso le cinque del mattino don
Bosco si destò e, visti tutti i giovani
che dormivano adagiati per terra, si
rivolse a Gariboldi che fino allora
era rimasto sveglio: «Ormai è tempo
che andiamo a riposare».
Ma nel dire così gli altri si svegliaro­
no, e don Bosco dovette riprendere le
confessioni...
L’indomani don Bosco, sceso in cor­
tile verso le due pomeridiane, vide
che Gariboldi aveva il braccio destro
fasciato e legato al collo.
Gli domandò: «Che cosa hai fatto,
caro Gariboldi, a quel braccio?»
E lui: «Oh, niente!», e non voleva
dire nulla.
Don Bosco che lo co­
nosceva come ragazzo
piuttosto vivace, non si
accontentò e volle as­
solutamente sapere che
cosa avesse combinato.
«Se proprio lo vuol
sapere, glielo dirò»,
rispose il ragazzo.
E narrò il fatto singo­
lare.
Quel braccio era nero
e livido da far compas­
sione, perché durante
la notte era rimasto a
lungo immobilizzato
tra l’inginocchiatoio e
la testa di don Bosco.
Il ragazzo, pieno di
venerazione per il suo
direttore, non aveva
osato destarlo, benché
quell’indolenzimento
lo avesse fatto soffrire
parecchio.
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▲torna in alto
linvitato
Don Roman
Jachimowicz
don bosco nel mondo
Dove Dio
piange
le case di don bosco
Alessandria
La luce
VINCERÀ!
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
salesiani
Don Marco
Panero
MARZO 2024
ANNO CXLVIII
NUMERO 3
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: La luce vincerà
MARZO
2024
(Foto di Irina Wilhauk / Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Dove Dio piange
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 L’INVITATO
Don Roman Jachimowicz
16 LE CASE DI DON BOSCO
Alessandria
20 IN PRIMA LINEA
Don Marcelo Farfán
22 LA NOSTRA BASILICA
L’altare di san Giuseppe
24 NUOVI SALESIANI
Don Marco Panero
28 SANTI DI FAMIGLIA
Beato Czartoryski
32 FMA
Un robot in aula
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
Il sogno mancato della città
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
6
20
24
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
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Desiderati, Emilia Di Massimo, Ángel
Fernández Artime, Antonio Labanca, Sarah
Laporta, Carmen Laval, Cesare Lo Monaco,
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Il SOGNO di don Bosco
è più VIVO CHE MAI!
Davanti a tutto quello che sto vedendo nel mondo
salesiano, mi sento di dire con un po’ di autorità:
amato don Bosco, il tuo Sogno continua
a realizzarsi.
Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano,
come ogni mese, vi invio il mio persona­
le saluto dal cuore e dalle mie riflessioni,
motivate da ciò che sto vivendo, perché
credo che la vita arrivi a tutti noi e che ciò che con­
dividiamo, se è buono, ci fa bene e ci dona nuovo
entusiasmo.
Quaresima e Pasqua ci invitano a rinascere. Ogni
giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla
serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e crea­
re, di custodire e coltivare persone e talenti e crea­
ture, tutto intero il piccolo o grande giardino che
Dio ci ha affidato.
A noi salesiani la festa di Pasqua ricorda sempre
quella del 1846 a Valdocco, quando don Bosco pas­
sò dalle lacrime del prato Filippi alla povera tettoia
Pinardi e alla striscia di terreno intorno, dove il so­
gno cominciò a diventare realtà.
Ho visto il sogno continuare a realizzarsi.
Vi scrivo in questo momento da Santo Domingo,
nella Repubblica Dominicana. Ho fatto in prece­
denza una visita magnifica, molto significativa, a
Juazeiro do Norte (nel nord-est brasiliano di Re­
cife) e questi ultimi giorni sono stati dominicani.
Tra poche ore proseguirò per il Vietnam e, in mezzo
a questo “trambusto”, che può essere vissuto anche
con molta tranquillità, ho nutrito il mio cuore sale­
siano di belle esperienze e di confortanti certezze.
Ve le racconterò, perché parlano della missione sa­
lesiana, ma permettetemi di iniziare con un aned­
doto che un salesiano mi ha raccontato ieri, che mi
ha fatto ridere, mi ha commosso e mi ha parlato di
“cuore salesiano”.
Un piccolo lanciatore di sassi
Un confratello mi ha raccontato che qualche giorno
fa, mentre viaggiava lungo una delle strade dell’in­
terno di questo Paese, è passato vicino a un luogo
dove alcuni bambini avevano preso l’abitudine di
lanciare sassi contro le auto per provocare piccoli
incidenti – come rompere un finestrino – e nella
confusione rubare qualcosa al viaggiatore.
Ebbene, così che gli è successo. Stava attraversan­
do il villaggio e un bambino ha tirato una pietra per
rompere un finestrino della sua auto e ci è riuscito. Il
salesiano è sceso dall’auto, ha preso in braccio il bam­
bino e si è fatto portare dai suoi genitori. Solo che in
quella famiglia non c’era un padre (li aveva abbando­
nati da tempo). C’era solo una madre sofferente che
era rimasta sola con questo figlio e una bambina più
piccola. Quando il salesiano ha detto alla madre che
il figlio aveva rotto il finestrino dell’auto (cosa che il
ragazzo ha riconosciuto), che costava parecchio e che
avrebbe dovuto ripagarlo, la povera donna tra le la­
crime si è scusata, chiedendo perdono, ma facendogli
capire che non aveva alcun modo di pagarlo, che era
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povera, che avrebbe rimproverato il figlio... In quel
momento, la bambina, la sorellina del “piccolo Ma­
gone di don Bosco”, si è avvicinata timidamente con
il pugnetto chiuso, lo ha aperto e ha porto al salesia­
no l’unica moneta, quasi senza valore, che aveva. Era
tutto il suo tesoro e gli ha detto: “Ecco, signore, per
pagare il vetro”. Il mio confratello mi ha raccontato
che era così commosso che non riusciva più a parlare
e ha finito per dare alla donna un po’ di soldi per un
piccolo aiuto alla la famiglia.
Non sapevo come interpretare la storia, ma era così
piena di vita, dolore, bisogno e umanità che mi
sono ripromesso di condividerla con voi. E poche
ore dopo, molto vicino a dove alloggiavo nella casa
salesiana, mi è stata mostrata un’altra piccola casa
salesiana dove accogliamo i bambini senza nessuno
che vivono per strada.
La maggior parte di loro sono haitiani. Conoscia­
mo bene la tragedia che si sta consumando ad Haiti,
dove non c’è ordine, non c’è governo, non c’è leg­
ge... Solo le mafie dominano su tutto. Ebbene, sape­
re che questi bambini, minori arrivati qui non si sa
come, che non hanno un posto dove stare, vengono
accolti nella nostra casa (in tutto 20 al momento),
per passare poi in altre case, una volta stabilizzati,
con altri obiettivi educativi (nelle quali abbiamo, tra
varie case e sempre con salesiani ed educatori laici,
altri 90 minori), mi ha riempito il cuore di gioia e mi
ha fatto pensare che Valdocco a Torino, con don Bo­
sco, è nato così, e così siamo nati noi salesiani, e un
piccolo gruppo di quei ragazzi di Valdocco, insieme
a don Bosco, ha dato vita “de facto” alla congrega­
zione salesiana quel 18 dicembre 1859.
Come non vedere “la mano di Dio in tutto questo”?
Come non vedere che tutto questo lavoro è il risul­
tato di molto più di una strategia umana? Come non
vedere che qui e in migliaia di altri luoghi salesiani
nel mondo si continua a fare del bene, sempre con
l’aiuto di tante persone generose e di tante altre che
condividono la passione per l’educazione?
Quest’anno, in Spagna-Madrid e in altri luoghi
(anche in America), è stato presentato il magni­
fico cortometraggio “Canillitas”, che mostra la vita
di tanti di questi giovani. Sono stato felice di toc­
care con mano e con gli occhi questa realtà. Ed è
proprio vero, amici miei, che il sogno di don Bosco
si sta realizzando ancora oggi, 200 anni dopo.
Ieri ho poi trascorso l’intera giornata con giovani
del mondo salesiano che si definiscono e si sento­
no leader, in tutta l’America Latina salesiana, di un
movimento che cerca di far sì che almeno il mondo
educativo salesiano prenda molto sul serio la cura del
creato e l’ecologia con la sensibilità di papa France­
sco espressa nella “Laudato Si’”. I giovani di 12 Pae­
si dell’America Latina erano presenti (di persona o
online) nel loro movimento “America Latina Soste­
nibile”. È bello che i giovani sognino e si impegnino
in qualcosa che è buono per loro, per il mondo e per
tutti noi. Perché il mondo sia salvato: salvare vuol
dire conservare, e nulla andrà perduto, non un so­
spiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va
perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa
pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e
nascosto: se potremo impedire a un Cuore di spez­
zarsi, non avremo vissuto invano. Se potremo alle­
viare il dolore di una vita o lenire una pena, o aiutare
un bambino a crescere non avremo vissuto invano.
Mi sento, di fronte a tutto questo, di dire con un po’
di autorità: amato don Bosco,
il tuo Sogno è ancora molto
vivo.
State bene e siate felici.
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DON BOSCO NEL MONDO
Antonio R. Labanca di Missioni Don Bosco / Fotografie di Ester Negro
DOVE DIO PIANGE
I salesiani ci sono
Una piccola
profuga
in Sudan.
Se si procede nell’elencazione di tutti i con­
flitti in corso, viene da domandarsi in quale
regione della Terra oggi non vi sia spargi­
mento di sangue, dove non avvenga l’omici­
dio quotidiano con le armi impugnate da un nemi­
co. Le parole che papa Francesco pronunciò dieci
anni fa: “Siamo entrati nella Terza guerra mondiale,
solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”, se potevano
suonare allora come un’immagine enfatizzata per
svegliare i mass media, oggi si rivelano una profezia
inascoltata. Se i responsabili delle nazioni avevano
percepito quell’espressione come uno dei suoi tanti
appelli morali, oggi possiamo scommettere che sia
giunta alle loro orecchie come un’analisi realistica
e preoccupante. Ne ha dato riscontro il Presidente
della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, che
nel dicembre scorso ha fatto esplicito riferimento
all’allarme del Papa nell’incontro con il corpo di­
plomatico accreditato in Italia.
Il mortale silenzio
Il pontefice stava rientrando dalla Corea del Sud, e
certamente la sua visione, partita dai “confini” della
Terra, ormai l’abbracciava per intero. Era il 18 ago­
sto 2014, da sei mesi era iniziata l’occupazione russa
delle regioni orientali dell’Ucraina: si era palesato il
fatto che il conflitto mai sopito fra le grandi potenze
economiche e militari non aveva più freni, che l’az­
zardo al tavolo dei potenti poteva manifestarsi anche
nelle aree meno periferiche rispetto ai loro tavoli. Le
guerre non sono scatenate “lontano”, in una logica
perversa: non si prende più a motivo una crisi locale o
la competizione per le risorse o per la posizione geo­
grafica di un territorio, ma espressamente per mani­
festare la forza e la determinazione dei vertici statali.
Il pensiero e l’appello del Papa dovevano servire a
suscitare la reazione delle opinioni pubbliche assie­
me a quella degli uomini e delle donne scelti per
governare i rapporti fra gli Stati. Ma in dieci anni
anche le voci più autorevoli fra queste sono rimaste
inascoltate: su tutti, quella del Segretario generale
delle Nazioni Unite, António Manuel de Oliveira
Guterres. La dinamica degli eventi sembra essere
risucchiata in un gorgo inarrestabile.
E Dio che fa? Ascolta le preghiere per la pace che
tanta parte dell’umanità gli rivolge? È la domanda,
molte volte provocatoria, che si fa in certe discus­
sioni per tirare in ballo la questione fondamentale
se lui davvero esista e se sia davvero dalla parte del
povero, dell’afflitto, del perseguitato, della vittima.
La risposta che le persone spiritualmente più sen­
sibili sussurrano è che Dio in questo momento stia
piangendo. Abbiamo allontanato le nostre coscien­
ze dall’interrogativo se sia peccato dichiarare guer­
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re, progettare e attuare terrorismo con le bombe o
anche solo con le parole: per l’uomo maturo do­
vrebbe bastare la sua coscienza, la sua intelligenza.
Eppure…
Ma se Dio piange non è solo per gli ultimi con­
flitti, a noi più prossimi o più simbolici dal punto
di vista storico-religioso, ma anche per il silenzio
che fa da complice di tante guerre, che predispone
l’immunità di dittatori e di mercanti di morte, che
tollera la fame e la persecuzione.
Dio piange per i bambini abbandonati a loro stessi o
ai trafficanti, per chi da un certo giorno in poi vede
segnato il confine del suo esistere entro la cinta di
un campo profughi, per chi è libero sulla carta ma
è costretto dalla violenza a subire la sottrazione dei
suoi diritti a causa della violenza o della corruzione,
per gli impoveriti dalle scelleratezze dei governanti.
Piange per chi è svuotato della possibilità di capire
che cosa stia succedendo intorno a lui e possa trovare
una via di fuga attraverso la conoscenza. Piange per
chi vive nell’abbondanza di cibo, di tempo libero,
di reti di comunicazione… ma ha perso la capacità
di avvertire le invocazioni di chi ha fame, di chi è
schiavo, di chi è prigioniero: anche lui vive rinchiuso.
Se ci diamo di tanto in tanto l’impegno di scorrere
la carta geografica, possiamo individuare decine di
situazioni che si aggrappano alla nostra sensibilità
per cercare di avere giustizia. Lo stesso papa Fran­
cesco, al primo incontro con un drappello di nuovi
diplomatici accreditati alla Santa Sede, ne ha citati
alcuni: Sudan, Repubblica Democratica del Congo,
Myanmar, Libano e Gerusalemme, Haiti, Ucraina.
Sudan: un Paese che vive tra il Sahel e il grande
Nilo, un territorio che ha fatto strada ai commer­
ci per secoli, ponte naturale fra Mar Rosso e cuore
dell’Africa, ha il privilegio di aver scoperto oggi l’e­
norme potenzialità posta sotto terra (petrolio e mi­
nerali preziosi) ma anche la condanna di aver attirato
l’attenzione di profittatori armati fino ai denti. La
guerra fratricida che è scoppiata un anno fa, e che
presto ha perso l’attenzione dei media, è affidata a
governanti mai eletti e a generali in competizione
fra loro, appoggiati non solo da Paesi stranieri che
scommettono sull’uno o sull’altro fra i contendenti,
ma da eserciti in mano agli affaristi delle guerre: i
legionari della Wagner sono i veri arbitri sul terre­
no, mentre la popolazione è sottoposta a migrazioni
forzate. Gli anni della guerra nel Darfur avevano
già creato un esodo di massa e tensioni etniche; le
ripercussioni del conflitto sui Paesi confinanti sono
ulteriore motivo di preoccupazione.
Congo, Repubblica democratica: l’antica ric­
chezza del Paese si è persa con il colonialismo belga
che ha fatto strage di 6 milioni di abitanti, sostitui­
to qualche decennio dopo dal dominio delle impre­
se straniere che sfruttano la produzione agricola e
soprattutto la ricchezza del sottosuolo. Anzi, i mi­
nerali più ricercati negli ultimi tempi a beneficio
delle tecnologie più aggiornate sono proprio situati
in questo Paese: quelle “terre rare” che fanno rim­
picciolire le misure dei componenti dei nostri appa­
Rifugiati
in Congo.
Nota dell’autore: in ciascuna delle situazioni qui richiamate in cui “Dio piange” c’è un piccolo nucleo di figli di Don Bosco che opera per la pace
attraverso il servizio ai poveri. Partono dai più piccoli “aiutandoli anzitutto nello studio e poi coinvolgendoli in mille attività di gruppo per pas-
sare il tempo in maniera sana ed educativa: sport, teatro, musica, preghiera... Continuano ad andare in cerca dei più poveri e ad aiutarli senza
chiedere niente in cambio, anzi, proprio perché non hanno nulla da dare in cambio” come descrive l’intervento nel Paese più dimenticato fra
quelli citati, il Myanmar (rif. https://www.missionidonbosco.org/news/myanmar-viaggio-missionario). E così strappano a Dio un sorriso.
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DON BOSCO NEL MONDO
Una profuga
rohingya in
Myanmar.
recchi elettronici (anche quello con il quale sto scri­
vendo; n.d.r) e ingigantire le differenze fra poveri e
ricchi. “Lì si vede la miseria nuda”, ha testimoniato
don Angel Antúnez, presidente di Missioni Don
Bosco in visita in Congo nel 2022. Bambini sfrut­
tati nelle miniere militarizzate, disimpegno del
governo dal capitolo “istruzione”, famiglie dissolte
dalla mancanza di lavoro retribuito e dalla salute
resa sempre più precaria dalla sottoalimentazione.
Myanmar: lo sfondo è dato dal colpo di stato che
tre anni fa ha posto fine a una democrazia molto
precaria. L’organizzazione dell’Onu che si occupa
delle emergenze umanitarie, l’Ocha, ha tracciato il
quadro dal punto di vista di una popolazione che
sta praticando meccanismi di adattamento negativi:
restringimento dei consumi alimentari, svendita dei
beni personali, abbandono scolastico, fuga dal Pae­
se anche in modalità ad alto rischio. Si è osservato
l’abbassarsi dell’età media dei contraenti il matrimo­
nio: ragazzini estromessi da casa per cercare fortuna
sommano la loro povertà a quella del coniuge. Sono
sistematicamente frenati gli aiuti da parte delle or­
ganizzazioni non governative e di quelle religiose.
Aung San Suu Kyi, l’attivista difensore dei diritti
civili e poi Capo di Stato, è stata connivente con la
repressione della minoranza dei Rohingya. Una pa­
rentesi che aveva fatto sognare la democrazia e attri­
buire a lei il premio Nobel nel 1991.
Libano e Gerusalemme: quel che accade è un esi­
to annunciato quando gli Accordi di pace di Oslo nel
1993 aprirono la strada al riconoscimento reciproco
di Israele e Palestina ma le intenzioni non dichiarate
si sarebbero progressivamente incarnate nelle forze
integraliste dei due popoli. Difficile sciogliere i nodi
creati con la stessa fondazione dal nulla – se non dal­
le reminiscenze di un passato lontano – dello Stato
ebraico e dall’esternalizzazione a carico di un popolo
reduce da un dominio imperiale dell’antisemitismo
da parte dell’Europa tutta, dell’Est e dell’Ovest,
dopo la seconda guerra mondiale. Il Libano sta si­
lenziosamente pagando il prezzo di ogni conflitto
nella regione, accogliendo milioni di profughi pa­
lestinesi e siriani: questi ultimi a loro volta vittime
di un braccio di ferro fra Stati Uniti e Russia che
ha scatenato ulteriormente le anime del terrorismo
e ingaggiato eserciti a pagamento. Senza contare il
terremoto che lascia ancora oggi città distrutte.
Haiti: la situazione di quel pezzo dell’isola di Hi­
spaniola viene raccontata, da chi riesce a far uscire
le informazioni, come un girone dell’Inferno. La
minaccia fisica è quotidiana, si vive nella paura dei
Nella Festa del Battesimo del Signore, otto bambini della Chiesa della
Sacra Famiglia, unica parrocchia cattolica a Gaza, hanno ricevuto la Prima
Comunione. Un momento di gioia dopo un anno di preparazione nel bel mezzo
della guerra. Le missionarie peruviane della Famiglia del Verbo Incarnato, María
del Pilar e María del Perpetuo Socorro Llerena Vargas, che hanno deciso di
rimanere nella zona del conflitto per aiutare le vittime, hanno espresso la loro
grande gioia nel vedere questi bimbi ricevere Gesù Eucaristia per la prima volta.
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rapimenti per pochi soldi. Le armi circolano quanto
– e forse più – delle sostanze stupefacenti, le bande
armate sono controllate da militari che rispondono
del loro operato a capi criminali. Nascere lì significa
essere votati a un destino inesorabile: abbandono da
parte della famiglia, ingresso nel sistema di soprav­
vivenza della strada, sfruttamento da parte di adulti
senza scrupoli. La “carriera” è quella di diventare
mercenari, aguzzini, spacciatori, capibanda. Il tutto
sotto lo sguardo “distratto” degli Organismi inter­
nazionali e dei Paesi più potenti delle vicinanze,
che evidentemente si servono di un “porto franco”
per i loro commerci più sporchi. L’energia elettrica
che serve alla vita quotidiana è diventata un lusso, e
solo per poche ore al giorno.
Ucraina: ormai a due anni dall’inasprirsi del con­
flitto con la Russia, non si vede una soluzione mili­
tare (se mai questa possa essere ipotizzata allo stato
delle cose) mentre la diplomazia continua a essere
la grande assente per disegnare una via di uscita.
La gente di Kyiv continua a provare a vivere senza
l’incubo dei missili, ma sul fronte di combattimen­
to i militari e gli abitanti continuano a fare i conti
quotidiani con la morte, con la penuria di cibo, con
il freddo gelido, con i campi che non sono più col­
tivabili. A operazioni belliche terminate ci sarà una
divisione profonda fra due Europe, fra due tradizioni
religiose, fra bellicisti e costruttori di pace. Già ora
vi è la ricaduta, sulle famiglie dell’intero continente,
delle speculazioni sui prodotti agricoli e sulle risor­
se energetiche; per i popoli africani che dipendono
dalle forniture di cibo proveniente dai due Paesi in
guerra il pericolo reale è quello di nuove carestie.
Mentre torna a minacciarsi l’uso di armi nucleari.
Ai Paesi citati dal Papa ci permettiamo di aggiun­
gerne uno che costituisce il caso emblematico per
l’America latina:
Venezuela: lo Stato che faceva da locomotiva del
cono sudamericano è precipitato in una situazio­
ne che ha dell’inverosimile. Il governo sta facen­
do tutto quanto non era neppure immaginabile
per schiacciare nell’indigenza e nell’ignoranza la
maggioranza della popola­
zione. In nome di una pre­
sunta rivendicazione sociale,
ha creato un’ingiustizia più
profonda: la cessione dello
sfruttamento delle sue ma­
terie prime a Paesi stranieri,
la dipendenza totale delle
famiglie dal benvolere di
funzionari corrotti per di­
sporre dei beni di consumo,
una descolarizzazione mai
dichiarata ma conseguita
attraverso lo smantellamen­
to dell’apparato, una salu­
te pubblica per cui solo chi
ha denaro può sperare nelle
cure. Silenziati i mass me­
dia, minacciati gli oppositori
politici, imbavagliato il sistema giudiziario, resta
campo libero per recitare a soggetto il ruolo dei
vendicatori di ingiustizie pregresse mentre il traffi­
co (e il consumo) danno energia al sistema.
Dio piange per tutto quanto sta accadendo in Terra
Santa e nel mondo. Un prezioso intellettuale cattolico,
Raniero La Valle, ha condiviso una riflessione: come
dopo la furia del nazismo ci siamo interrogati su quale
concetto di Dio possiamo avere, così oggi la doman­
da è quale concetto di Dio dopo Gaza? «Forse è un
Dio che ispiri la gente a piangere su Gerusalemme e
su Gaza, Hamas a non uccidere Ebrei, Israele a non
fermarsi sul ciglio dell’abisso, a non trafiggerne mille
per uno, noi tutti a rimettere in comunione la Terra e
la dignità di tutte le creature».
Ragazzi di
Haiti con la
loro pagella
“salesiana”.
Ucraina e
Venezuela.
Anche qui
la gente si
abitua a fare
i conti con la
disperazione.
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1.10 Page 10

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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
«Come anche noi...»
NON È FACILE
CHIEDERE PERDONO
Possiamo dire “scusa”,
ma non sempre è
sufficiente per chiedere
scusa. Ogni giorno,
chiedere perdono è più
sottile di quanto sembri,
ma così necessario.
shutterstock.com
P arole offensive, fastidiose omissioni, errori
ed errori con gravi conseguenze... La vita
quotidiana offre mille e una possibilità di
sbagliare, per azione o per omissione. Ma
se chiedere scusa è il minimo richiesto alla portata
di tutti, “scusarsi bene”, invece, richiede un certo
know-how. Non basta dire poche parole, è comun­
que necessario seguire i diversi passaggi che con­
sentono di riparare il guasto o l’infortunio subito.
Nessuna vera scusa senza riconoscere il dolore che
uno ha inflitto all’altro, scrive essenzialmente il te­
rapeuta. Nel 2016 Roy Lewicki, Professore Emeri­
to presso il Dipartimento di Management e Risorse
Umane della Columbus University (Ohio), ha con­
dotto un esperimento che ha coinvolto settecento­
cinquantacinque persone. Il tema: quali scuse sono
veramente riparatrici? Alla fine, sei elementi sono
stati identificati come veramente determinanti. Lo
studio, che ha avuto un effetto virale, da allora è
stato considerato «il» riferimento sull’argomento.
Esprimere il rimpianto
“Mi dispiace davvero”, “Mi dispiace tanto”... Espri­
mere il tuo rimorso in modo chiaro, se possibile
sinceramente, è il punto di partenza essenziale.
Nel complesso, tendiamo a saltare direttamente a
spiegazioni che suonano sgradevolmente come au­
toassoluzione. Inutile dire che una tale postura non
dispone l’altro favorevolmente nei nostri confron­
ti e, soprattutto, non ripara nulla nella relazione.
Chiedere scusa richiede una piccola dose di umiltà,
perché si tratta di dire (e pensare è sempre meglio)
al nostro interlocutore che siamo consapevoli di
averlo ferito o di aver danneggiato qualcosa nella
relazione. Solo l’espressione di questa consapevo­
lezza può creare un clima di ascolto e accoglienza.
Spiegare che cosa è successo
Non basta chiedere scusa per fare ammenda. Pren­
dersi il tempo per spiegare che cosa ci ha portato
a ferire l’altro, volontariamente o meno, è neces­
10
marzo 2024

2 Pages 11-20

▲torna in alto

2.1 Page 11

▲torna in alto
sario per esprimere il valore che diamo al nostro
approccio, e quindi alla relazione. L’importante è
che il nostro interlocutore capisca come abbiamo
“sbagliato”: contesto, stato d’animo, possibile ma­
linteso... Queste informazioni lo aiuteranno a farsi
un’idea più precisa di che cosa fosse in gioco e del
perché della trasgressione, che lo aiuterà a scegliere
in modo consapevole se deciderà, in seguito, di pas­
sare la spugna o meno.
Riconoscere la responsabilità
Il passato non può essere cancellato. È inutile cer­
care di dimenticare l’offesa. Questo meccanismo di
difesa seppellisce la sofferenza, l’odio e il risenti­
mento da qualche parte nell’inconscio, dove la loro
forza distruttiva continua ad agire con ancora mag­
giore violenza.
Certo, tendiamo a trovare scuse per noi stessi nel­
lo stesso momento in cui proviamo a crearle. Non
è né molto onesto né molto produttivo. Riconoscere
la nostra responsabilità senza cercare di esonerarci
è il minimo che possiamo fare quando abbiamo ol­
trepassato la linea gialla. Puoi ferire senza volerlo,
ma l’infortunio viene sempre da una causa reale. Di­
menticare un evento ovviamente non è intenziona­
le, è meglio riconoscere i propri torti ed esprimere il
proprio rimorso piuttosto che rimanere bloccati spie­
gando all’infinito che dovevamo gestire un’emer­
genza e che, magari, non eravamo in gran forma.
Manifestare il proprio stato d’animo
Una volta espressi i rimpianti, richiamati i fatti e
ammessa la nostra responsabilità, è tempo di senti­
re. È essenziale che ci raccontiamo ciò che provia­
mo: colpa, imbarazzo, rimpianto, vergogna... Met­
tere in parole queste emozioni, questi sentimenti,
equivale a mostrare l’empatia che probabilmente ci
mancava quando ci feriamo a vicenda. L’espressione
del nostro rimorso permette al nostro interlocutore
di sentire che prendiamo la misura della sua ferita
e che ci riguarda. Il che, di per sé, può già essere
riparatore per l’altro.
«NON VI ODIERÒ»
Se ciò che chiamiamo Occidente ha un senso, questo senso palpita
nelle parole con cui il signor Antoine Leiris si è rivolto ai terroristi che
a Parigi hanno ucciso sua moglie: «Venerdì sera avete rubato la vita
di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio
figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio
neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale
ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel
corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore.
Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa igno-
ranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi
paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificas-
si la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era
bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi inna-
morai perdutamente di lei più di dodici anni fa.
Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vit-
toria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni
e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non
entrerete mai.
Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eser-
citi del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil
che si sveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come
ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la
sua vita questo bambino vi farà l’affronto di essere libero e felice.
Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
Suggerire una riparazione
Questo passaggio è particolarmente valido per
danni quantificabili, materiali, ma non solo. È pos­
sibile chiedere all’altro come potremmo recuperare,
riscattarci o attenuare il dolore che abbiamo cau­
sato. Non si tratta ovviamente di comprare la pace
o acquistare una buona coscienza, ma di proporre
di riparare, nel modo che sarebbe opportuno per
l’altro, il danno che gli abbiamo fatto subire.
Chiedere perdono
Ultima tappa del cammino: la richiesta di perdono,
che richiede tanta umiltà quanta sincerità. Il perdo­
no è un’offerta volta a ristabilire un equilibrio rotto,
un contratto tradito. Ma la persona che ha subito
un torto è libera di concederlo o meno. E devi ac­
cettarlo.
marzo 2024
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2.2 Page 12

▲torna in alto
L’INVITATO
Sarah Laporta
ROMAN JACHIMOWICZ
Consigliere Regionale
per Europa Centro Nord
«La Regione Europa Centro Nord è un
territorio molto vasto, che va dalla Siberia
all’Irlanda e dall’Irlanda a Malta passando
per la Francia. A ciò si aggiungono Paesi
come la Turchia, l’Azerbaigian e la Georgia.
In totale, sono più di 20 i Paesi in cui
lavoriamo e circa 20 le lingue diverse. Una
regione estremamente ricca di tradizione
e storia, che non è omogenea in termini
di cultura, etnia, politica o religione».
Si può presentare?
Non ho molto da dire su di me, posso solo dire che
sono un salesiano felice.
La mia avventura con la congregazione salesiana è
iniziata molto tempo fa, quando avevo pochi anni
nella città di Dębno dove sono cresciuto. La casa
della mia famiglia era sempre aperta ai Salesiani.
Abbiamo ospitato molti confratelli e ognuno di loro
ha portato molta gioia, ottimismo e vita quando ci
ha fatto visita. La nostra casa si riempiva sempre
di un’atmosfera speciale durante le loro visite, con
tante storie, musica, discorsi in lingue diverse, che
per me erano molto interessanti e affascinanti. Si
facevano lunghe e intelligenti discussioni, si scam­
biavano libri, si parlava di religione, arte, attualità,
altri Paesi. Spesso i confratelli salesiani si incon­
travano in casa mia con persone che a quel tempo
erano rappresentanti locali del governo comunista
in Polonia. Erano incontri pieni di confessioni,
discussioni profonde e riflessioni. Tutto questo ha
lasciato in me il desiderio di essere come loro, sem­
pre pieno di gioia, ottimista, coraggioso, con ampi
orizzonti intellettuali. La mia casa di famiglia ap­
parteneva a una parrocchia diocesana, ma siamo
sempre stati più vicini ai Salesiani, che lavoravano
nella casa accanto. All’epoca non conoscevo bene
lo specifico del carisma salesiano, nemmeno la bio­
grafia di don Bosco. Ero più attratto dall’ottimi­
smo e dalla capacità di apertura dei salesiani, dalla
loro capacità di entrare in contatto rapidamente e
con gli altri. Una persona che si distingueva parti­
colarmente tra i salesiani era don Kazimierz Ciche­
cki, poi missionario e organizzatore della missione
salesiana in Zambia.
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marzo 2024

2.3 Page 13

▲torna in alto
to ciò mi ha fatto vedere questo periodo nei
miei ricordi come il più affascinante dal
punto di vista salesiano. Nel 2016 sono
diventato Ispettore della mia Ispettoria
pln. La mia Ispettoria a quel tempo era
la più grande della regione ecn con più
di 300 confratelli e missioni non solo in
Polonia, ma anche nella parte europea in
Russia, Georgia e Svezia. Molti dei nostri
confratelli lavoravano in Germania in quel
periodo. Una caratteristica che distingueva la
nostra Ispettoria di Pila dalle altre 3 in Polonia
era il gran numero di scuole e centri educativi.
Com’è nata la sua vocazione?
Dopo la scuola secondaria il mio primo desiderio
era quello di studiare matematica o chimica. Non
avevo problemi con lo studio e ho sostenuto l’esame
di maturità molto bene, quasi il migliore di tutta la
scuola. Inoltre, come alternativa, ho preso in consi­
derazione lo studio delle scienze della conservazio­
ne. Che cosa mi abbia spinto a scegliere la strada
salesiana non riesco a spiegarlo ancora oggi. Pro­
babilmente è stata una chiara ispirazione dello Spi­
rito Santo. Sono entrato in noviziato tardi e come
candidato coadiutore. L’allora ispettore provinciale
dell’Ispettoria di Pila, per obbedienza, mi ordinò
di cambiare la mia decisione. Sono stato ordinato
sacerdote il 25 maggio 1995.
Subito dopo l’ordinazione presbiteriale, sono stato
assegnato a lavorare nella scuola salesiana di Stetti­
no, appena fondata, come vicepreside. All’epoca il
direttore era un laico. Durante questo periodo ho
approfondito gli studi di pedagogia. Dopo un anno
sono diventato preside della scuola e lì ho lavorato
fino al 2006. È stato un periodo di creazione di
molti tipi di scuole e di costruzione e allestimento
di altri edifici. Nel 2006 sono diventato diretto­
re della comunità e della scuola di Aleksandrów
Kujawski. Questo è stato il periodo più bello del
mio lavoro come salesiano. Il lavoro diretto con i
giovani, lo sviluppo della scuola, molte sfide. Tut­
Qual è il suo compito attuale?
All’ultimo Capitolo Generale sono stato eletto, in
modo del tutto inaspettato per me, consigliere re­
gionale. È iniziata una fase completamente nuova
della mia vita. La Regione ecn è un territorio mol­
to vasto, che va dalla Siberia all’Irlanda e dall’Ir­
landa a Malta passando per la Francia. A ciò si
aggiungono Paesi come la Turchia, l’Azerbaigian
e la Georgia. In totale, sono più di 20 i Paesi in cui
lavoriamo e circa 20 le lingue diverse. Una regione
estremamente ricca di tradizione e storia, che non
è omogenea in termini di cultura, etnia, politica o
religione. Una regione in cui troviamo Paesi consi­
«Il bisogno più
pressante delle
nostre Ispettorie
sono nuove buone
vocazioni.
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2.4 Page 14

▲torna in alto
L’INVITATO
«La grande
sfida rimane
quella di
mantenere i
nostri centri
e il livello
carismatico del
nostro lavoro.
Tuttavia, è
impossibile
non vedere i
molti aspetti
positivi
del lavoro
salesiano nei
nostri centri».
derati democratici e Paesi con una
chiara tendenza al regime autori­
tario. Una regione in cui alcune
nazioni stanno ancora guarendo
dal trauma della guerra o stanno
lottando con essa, come nel caso
attuale dell’Ucraina. Infine, una
regione religiosamente diversa,
con paesi in cui predominano le
fedi cattolica, protestante, orto­
dossa e musulmana. L’Europa è
diversa anche in termini di ric­
chezza, pil pro capite e abbondanza di sistemi giu­
ridici diversi. A ciò si aggiungono i molti forti le­
gami con le varie tradizioni e costumi della propria
storia e cultura. Tutto ciò crea una regione estrema­
mente ricca, diversificata, affascinante, consapevole
del suo ricco patrimonio e del suo passato a volte
molto difficile, con un’enorme influenza sul resto
del mondo.
Qual è la realtà attuale dell’Europa?
La realtà dell’Europa non si può riassumere in po­
che parole, non si può insegnare, è un’esperienza
molto più grande della nostra im­
maginazione e degli stereotipi in
cui spesso viviamo. È un organi­
smo molto sensibile, delicato, e di
tutto questo bisogna tenere conto
quando si parla di Europa o si la­
vora in essa. Bisogna anche con­
siderare che la regione europea
è sempre stata la fucina di varie
ideologie, a volte estremamente
distruttive, che sono ancora mol­
to forti e presenti nella mentalità
degli europei di oggi. Un altro aspetto poco cono­
sciuto è che la fascia dei poveri esclusi, che dipen­
dono dall’assistenza sociale, è in costante aumento
in Europa.
Sebbene l’Europa si consideri una regione plurali­
sta e aperta, molto spesso questo pluralismo rimane
a livello di discorso intellettuale o dichiarativo. La
realtà è talvolta molto difficile per chi cerca una
nuova vita in Europa, una migliore situazione eco­
nomica, nuove prospettive o la fuga dalla guerra.
Spesso si ha l’impressione che l’Europa non sia
pronta per una vera integrazione, per garantire e
rispettare la dignità umana, di cui parla tanto nei
suoi vari documenti, e che veda nei rifugiati solo
nuovi lavoratori da utilizzare strumentalmente.
Viaggiando per l’Europa, possiamo incontrare mol­
ti modi positivi di convivenza tra culture diverse,
ma anche molte periferie povere e senza prospettive
che formano una sorta di ghetto. È qui che nasco­
no più spesso la ribellione e la frustrazione delle
giovani generazioni di persone che vivono in Euro­
pa da molti anni, a volte da due o tre generazioni,
e che non hanno pari opportunità di sviluppo. Se
guardiamo anche ai tassi di occupazione e alle op­
portunità per i giovani, alla possibilità di acquistare
una casa per creare una famiglia e garantire un ade­
guato tenore di vita, possiamo anche constatare che
la disoccupazione giovanile è in aumento in molti
Paesi della nostra regione. A volte l’Europa, a mio
avviso, appare stanca, spinta dall’inerzia della sua
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marzo 2024

2.5 Page 15

▲torna in alto
antica grandezza, priva di iniziative ottimistiche
e creative. Vale anche la pena di notare il rapido
processo di secolarizzazione dei Paesi europei. In
alcune regioni d’Europa, soprattutto nella parte
settentrionale, è così forte che le Chiese cristiane
hanno perso la loro voce guida nel plasmare la vi­
sione dell’uomo, della morale, ecc. In molti luoghi
finora considerati profondamente religiosi, l’appar­
tenenza alle chiese cristiane è ormai ridotta.
Com’è la realtà salesiana?
Si può concludere che ci troviamo di fronte a una
necessità di rievangelizzazione. Osservando le sta­
tistiche, si nota un rapido aumento del numero di
persone appartenenti a religioni non cristiane. Nel
complesso, si può concludere che la regione ecn,
così come l’Europa nel suo complesso, sta viven­
do una serie di crisi. Questo crea, a mio avviso, un
buon ambiente per lo sviluppo del nostro carisma,
poiché per sua natura si rivolge a persone e luo­
ghi in crisi. Il nostro carisma è nato in un’epoca di
grandi conflitti tra le società, di cambiamenti eco­
nomici e di crisi della Chiesa. La nostra compren­
sione di come lavorare con i giovani in crisi fa parte
della nostra identità. Tutto ciò significa che i Sale­
siani, nella loro offerta pastorale-educativa, offrono
anche molte buone soluzioni per i giovani di oggi.
Ho incontrato in molti Paesi europei, nelle nostre
Ispettorie, molti centri che si concentrano su un la­
voro che restituisce dignità ai giovani, che li aiuta
a vivere e a sviluppare le loro aspirazioni, a ricevere
un’istruzione, a imparare a vivere in modo indi­
pendente. Sono esempi bellissimi del nostro lavoro
salesiano diretto e pieno di carisma di dedizione.
Un altro tema è il problema della nostra offerta di
sviluppo, della vita religiosa. Sono convinto che in
nessun luogo trascuriamo questo aspetto importan­
te del nostro lavoro, anche se a volte ci troviamo a
lavorare in ambienti di fede non cristiani, secolariz­
zati o indifferenti. A volte una conversazione aperta
sulla fede può essere molto difficile, dato il contesto
culturale e sociale degli ambienti in cui lavoriamo.
Qual è la sfida?
Non è una novità che alcuni dei nostri centri siano
gestiti da laici che si dichiarano non credenti o che
seguono religioni non cristiane. Tuttavia, è impos­
sibile non vedere i molti aspetti positivi del lavoro
salesiano nei nostri centri. Siamo ciò che è l’Euro­
pa di oggi, non tanto cercando di conformarsi alle
nuove tendenze culturali, ma piuttosto cercando di
comprenderla e di trovare modi efficaci per rag­
giungere i giovani. La grande sfida rimane quella
di mantenere i nostri centri e il livello carismatico
del nostro lavoro. Non è un segreto che alcune delle
nostre Province religiose siano composte da confra­
telli già anziani. Il prezioso rafforzamento dei con­
fratelli con i giovani attraverso il Progetto Europa è
utile e necessario, ma non affronta sufficientemente
il problema demografico nella regione ecn.
Il nostro bisogno più grande?
Per rafforzare la nostra presenza carismatica nella
nostra regione, abbiamo bisogno di nuove vocazio­
ni locali. È un compito difficile ma, credo, possibi­
le, anche nelle province dove non ci sono nuove vo­
cazioni da molti anni. Sicuramente, come sempre,
c’è bisogno della buona testimonianza di una vita
felice e realizzata, al servizio di Dio, di ogni con­
fratello. Quest’anno abbiamo 3 novizi. Il prossimo
anno sembra essere decisamente migliore da questo
punto di vista. Indipendentemente dai dati progno­
stici della nostra regione, è necessario approfondire
il nostro lavoro a stretto contatto con i laici.
marzo 2024
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2.6 Page 16

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
Manuela Cibin
ALESSANDRIA
nonostante tutto
Come il padre, tenaci, infaticabili, coraggiosi.
La prima sede
dell’oratorio
e (a destra,
al centro)
il celebre
calciatore
Gianni Rivera
cresciuto qui.
ISalesiani arrivarono ad Alessandria nel 1898.
Erano trascorsi due anni da quando don Mi­
chele Rua, primo successore di don Bosco,
aveva preso contatti con monsignor Salvaj, ve­
scovo della città, per prospettargli l’apertura di una
casa salesiana.
Nel 1898, quindi, i Salesiani sotto la direzione di
don Giovanni Mazzetti, iniziarono la loro opera in
Via Santa Maria di Castello, nel cuore antico della
città nell’attuale Scuola Secondaria Cavour.
Venne aperto l’oratorio festivo e si avviarono le at­
tività di convitto interno.
Fino agli anni della guerra l’attività proseguì rego­
lare. Nel 1915, però, l’edificio venne sequestrato ed
adibito ad ospedale militare e solo alla fine del 1919
tornò nelle mani dei Salesiani. L’attività dell’Ora­
torio era molto viva: numerosi ragazzi vi si recavano
per fare merenda, per giocare, o per preparare qual­
che rappresentazione teatrale.
Durante gli anni della seconda guerra mondiale
il collegio ebbe gravi difficoltà per il reperimento
dei beni necessari, tanto che nel 1942 la riapertu­
ra dopo le vacanze natalizie fu posticipata a causa
della mancanza del carbone per il riscaldamento.
Si arrivò al tragico 5 aprile 1945: la città intera si
unì al dolore delle Figlie di Maria Ausiliatrice per i
bombardamenti che colpirono la scuola di Via Ga­
gliaudo mietendo molte vittime.
Il primo dopoguerra vide una lenta ripresa delle
normali attività, ma fu un periodo di ristrettezze:
nel 1946 i Salesiani tagliarono un platano del loro
cortile, per poter accendere il riscaldamento.
I ragazzi ripresero assiduamente a frequentare l’ora­
torio, che offriva loro pane, pallone e preghiera e la
possibilità di soddisfare anche il bisogno di aggre­
gazione e di gioco. Divennero bravi quei ragazzi con
il pallone, tanto che la prima formazione ufficiale,
nel 1951, rimase imbattuta per l’intero campionato.
Negli anni, dalle fila della Don Bosco uscirono veri
campioni: Delfino, Sogliano, Fossati e Gianni Ri­
vera, diventato il primo italiano a vincere il “Pallo­
ne d’oro”.
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2.7 Page 17

▲torna in alto
Un angolo
dell’oratorio,
oggi.
Una periferia su misura
Intanto alla periferia della città, in fondo a Corso
Acqui, sorgevano dal 1939 delle casermette, che fin
dal 1947 erano state adibite ad abitazione provviso­
ria per le famiglie di profughi che non avevano un
alloggio dove sistemarsi.
Dal 1955 due sacerdoti dalla parrocchia di San
Giovanni Evangelista, all’inizio del quartiere Cri­
sto, si recavano settimanalmente alle Casermette e,
in una sala dell’asilo di 30 metri quadri, celebrava­
no la Messa.
Proprio alle Casermette il 1° giugno 1957 venne ca­
nonicamente eretta la Parrocchia di San Giuseppe
Artigiano il cui parroco era don Luigi Riccardi. I
salesiani di Santa Maria di Castello speravano che
venisse loro affidata la parrocchia, anche perché la
vecchia sede necessitava di ristrutturazione e amplia­
mento per le tante esigenze giovanili, ma alcuni lavo­
ri non potevano essere eseguiti, a causa della presenza
di edifici che erano a ridosso del vecchio collegio.
La curia, da parte sua, vedeva di buon occhio l’af­
fidamento della nascente parrocchia ai Salesiani,
perché la zona aveva delle caratteristiche, “così
popolari e giovanili” adatte ad un’opera che si de­
dicava fin dalle origini all’educazione dei ragazzi.
Dunque il vescovo don Giuseppe Gagnor convocò
don Bartolomeo Tedeschi, direttore dell’istituto di
Via Santa Maria di Castello e gli disse: “Ci tengo
ad affidarla ai Salesiani, anche come exallievo”.
Il giorno 11 aprile 1959 la stessa fu affidata uffi­
cialmente ai Salesiani e don Bartolomeo Tedeschi
ne divenne parroco. La piccola comunità salesiana
era formata dal direttore, da don Giovanni Rizzan­
te e da Giacomo della Casa: tre pendolari che non
potevano ancora trasferirsi perché mancavano la
casa parrocchiale e la chiesa.
Pochi giorni dopo l’affidamento ufficiale, il Pre­
fetto di Alessandria, il dott. Sarro, espresse al di­
rettore il suo desiderio che qualcuno si prendesse
cura delle duecento famiglie di profughi giuliani
che sarebbero arrivate, e delle tante famiglie, molte
indigenti, che abitavano la zona e promise un aiu­
to economico per il progetto. Mantenne la parola,
inviando 300 mila lire il 5 febbraio 1960 e, soprat­
tutto, appoggiando la domanda del Direttore don
Tedeschi per chiedere sussidi al Ministero dell’In­
terno.
Si tirarono su le maniche
Appena la parrocchia venne ufficialmente affidata
ai Salesiani, essi pensarono a come allargarsi per
ospitare campi da gioco all’aperto e al chiuso per
l’inverno, locali adatti alle scuole e alle attività pa­
storali. Richiesero l’acquisto di un terreno inutiliz­
zato che apparteneva al governo e che era compreso
nel territorio delle Casermette. Il Prefetto ancora
una volta si dimostrò ben disposto verso la comuni­
tà dei Salesiani quando, dopo tre anni di pratiche,
marzo 2024
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2.8 Page 18

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
Fiorente e in
pieno sviluppo
è il centro
professionale
Cnos Fap
(meccanica
auto, meccanica
industriale e
servizi logistici
all’impresa;
corsi di
formazione di
vario genere
per adulti).
privatamente comunicò al direttore che il terreno
che essi volevano acquistare era stato sbloccato dal
Ministero dell’Interno e che il governo aveva ri­
nunciato al terreno in favore dei Salesiani. La cifra
era però esorbitante, così il direttore dovette chie­
dere una rateizzazione.
I lavori di costruzione proseguirono fra mille dif­
ficoltà: enormi le spese, numerosi i furti e continui
i danni subiti; le Cronache riportano momenti dif­
ficili che ci introducono bene nell’ambiente in cui
i nostri Salesiani erano chiamati ad operare. Pro­
prio alla vigilia dell’apertura ecco che cosa accad­
de: “tutti i vetri erano infranti per opera di alcuni
monelli della vicina casermetta. Ai monelli si era­
no aggiunti i ladri che andavano ricuperando i tubi
di piombo dei lavandini, i fili della luce, le porte
e quanto potevano asportare. Non è possibile dire
lo stato di sudiciume in cui furono abbandonati i
locali […]”.
I nostri Salesiani non si fecero abbattere, si tirarono
su le maniche e misero a posto; ma ai problemi si
aggiunsero problemi: appena ventiquattr’ore dopo
l’impresa comunicò di non voler più proseguire i
lavori a causa dei continui furti subiti.
I momenti di stallo non riuscirono comunque a
fermare i Salesiani. Mi torna in mente il titolo di
un bel libro di Antonio Miscio per definire queste
fondamenta umane dell’opera parrocchiale: Come il
padre, tenaci, infaticabili, coraggiosi.
La tenacia produsse frutti fin da subito, tanto che
le attività partirono, malgrado tutto, in poche set­
timane.
Nel 1961 la situazione del quartiere era di 948 fa­
miglie e 3013 anime. Oltre 180 famiglie nelle due
casermette. I Salesiani distribuivano aiuti: a molte
famiglie che dormivano per terra hanno dato un
letto, la merenda era assicurata a chi era presente
all’oratorio, un aiuto non si negava a nessuno, ogni
tanto un gioco nuovo era acquistato e diventava de­
gno di nota nelle cronache della casa. Si legge nelle
Cronache del 1961: “la nostra parrocchia, ricca solo
di poveri”.
I cittadini del quartiere avevano grandi speranze;
faceva offerte anche chi non era benestante, perché
credeva nella riuscita di quel progetto.
Trattandosi di quella che potremmo definire, senza
paura di smentita, terra di missione, l’appoggio e
la speranza della popola­
zione erano per i Salesiani
la prova di una solidarietà
impregnata nel tessuto so­
ciale. La chiesa era ancora
in fase di costruzione, però
la Chiesa, quella con la C
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marzo 2024

2.9 Page 19

▲torna in alto
maiuscola, si sa, non è fatta di mattoni, ma di per­
sone; essa dunque esisteva.
Dopo vari ostacoli e tanti debiti, il 29 luglio 1962
finalmente venne inaugurata la chiesa. Il giornale
locale La Voce Alessandrina scrisse: “Il sogno del
Borgo Don Bosco (Casermette) è finalmente una
consolante realtà”.
Dopo la Chiesa di persone, ora era pronta anche la
chiesa di mattoni.
Il Centro don Bosco oggi
La presenza salesiana in Alessandria oggi è garan­
tita da tre opere: il Centro Don Bosco, l’Istituto
Angelo Custode delle Figlie di Maria Ausiliatri­
ce (scuola materna, elementare e media), l’Istituto
Maria Ausiliatrice con la presenza di una comunità
di suore anziane e ammalate e un centro ciofs. È
attivo il gruppo dei Salesiani Cooperatori, unico per
i tre centri. Al Centro don Bosco si trova una comu­
nità religiosa composta da sei confratelli che anima­
no l’oratorio, il centro professionale Cnos Fap (mec­
canica auto, meccanica industriale e servizi logistici
all’impresa; corsi di formazione di vario genere per
adulti), la parrocchia San Giuseppe artigiano che
raggiunge una popolazione di circa 9000 abitanti, e,
infine, l’asd don Bosco, società sportiva che coin­
volge 300 tesserati tra calcio, pattinaggio artistico,
danza, gioco danza e ginnastica artistica. Da segna­
lare che l’asd don Bosco fa parte del circui­to seguito
dal settore giovanile della Juventus fc.
L’opera del don Bosco è in un territorio che ha co­
nosciuto negli ultimi 30 anni molti cambiamenti a
partire dalla tipologia di immigrazione (da quella
istriana-fiumana-dalmata a quella meridionale e
ora quella da tutto il mondo), dalla tipologia di si­
tuazione demografica (inizialmente forte natalità e
centralità del Centro Don Bosco nell’aggregazione
a un decremento delle nascite e a un maggiore indi­
vidualismo e anonimato) e, infine, dalla situazione
giovanile (presenza di ragazzi figli di immigrati,
una parte importante di ragazzi e giovani indiffe­
renti alle proposte religiose, sedotti dalle tentazioni
del nostro tempo).
Il Centro Don Bosco garantisce in questo com­
plesso di periferia una presenza costante, dinamica
e propositiva. Cerca di farsi carico della vita delle
persone così come si presentano, aiutandole a non
sentirsi sole e a trovare un ambiente con una pro­
posta di vita alternativa a una situazione segnata
da disorientamento e, a volte, dalla rassegnazione.
La pluralità di ambiti di servizio del Centro Don
Bosco esprime la volontà dei Salesiani e di tutta la
comunità educativa pastorale di entrare nella vita
delle persone secondo la loro situazione e le loro
esigenze per aiutarle a dare sempre più un senso
alla propria esistenza, che possa far riconoscere il
Signore Gesù.
Al Centro Don
Bosco si trova
una comunità
religiosa
composta da
sei confratelli
che animano
l’oratorio e
la parrocchia
San Giuseppe
artigiano che
raggiunge
una
popolazione
di circa 9000
abitanti.
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IN PRIMA LINEA
Antonio R. Labanca di Missioni Don Bosco
Incontro con
DON MARCELO FARFÁN
Ispettore salesiano dell’Ecuador
«Noi salesiani siamo conosciuti per il nostro lavoro
con i ragazzi di strada e con i popoli indigeni.
Restiamo fermi sul nostro carisma educativo
per dare istruzione e per affrontare la fatica
di vivere senza prospettive di occupazione».
L’ allerta sulla situazione in Ecuador è stata
lanciata da tempo, ma solamente i fatti
recenti l’hanno portata all’attenzione dei
media internazionali. E, come accade
spesso, cambia il modo di reagire alla violenza ma­
nifestatasi a seconda delle analisi che si fanno sulla
condizione sociale del Paese.
Don Marcelo Farfán è l’ispettore salesiano dell’E­
cuador. Il contatto quotidiano con i giovani negli
spazi degli oratori e delle scuole gli consente di
comprendere dove risiedano le cause neanche molto
remote dei fenomeni oggi alla ribalta della cronaca.
“La situazione è di una grande insicurezza, le scuole
sono chiuse e anche molti lavori si stanno svolgendo
a distanza. È stato decretato il coprifuoco, dalle 23
alle 5 del mattino. Il governo parla di un conflitto
armato interno, una specie di guerra delle bande
locali alleate con il narcotraffico internazionale
contro le forze dell’ordine dello Stato”.
Ma chi compone le bande armate?
“Sono giovani e giovanissimi non addestrati mili­
tarmente. Sono espressione della criminalità orga­
nizzata e questo, da un certo punto di vista, è più
preoccupante perché compiono azioni molto vio­
lente e imprevedibili. In questi giorni, ad esempio,
hanno lanciato una bomba in una zona di Quito
molto frequentata, e solo per un caso non hanno
provocato una strage”.
Gran parte dei componenti delle bande sono sen­
za preparazione all’attività terroristica, e questo si
è chiaramente manifestato nell’occupazione degli
studi televisivi, con la polizia che è riuscita a im­
mobilizzarli senza incontrare una resistenza effica­
ce. “Sono giovani che non hanno la consapevolezza
di quel che fanno né delle conseguenze delle loro
azioni” sottolinea don Farfán.
Ma come si creano queste bande?
“Una delle strategie dei narcotrafficanti è di offrire
gratuitamente la droga ai ragazzi per creare dipen­
denza, così questi diventano pronti a fare qualsiasi
cosa pur di averne. Il pagamento delle loro presta­
zioni avviene con denaro e sostanze. In Ecuador
non c’era grande consumo di stupefacenti, ma negli
ultimi anni è cresciuto in maniera esponenziale”.
C’è anche una fertilità del terreno sociale per questo
fenomeno. “Il problema del traffico commerciale
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della droga” spiega il salesiano “si deve prendere sul
serio, incominciando dall’investimento su scuola e
lavoro. Tanti giovani che fanno parte delle bande
armate sono caduti nella trappola perché non ve­
dono un altro futuro. Abbiamo bisogno di un vero
cambiamento dello Stato, delle politiche dell’istru­
zione pubblica e dello sviluppo economico”.
Gli Ecuadoriani chiedono l’aiuto internazionale
perché la ramificazione del narcotraffico ha di­
mensioni che superano quelle del Paese. “Ci sono
ventidue gruppi distinti, con capi locali, ma questi
sono sottoposti ai cartelli della droga di Messico,
Colombia e Albania. I vertici dell’organizzazione
sono fuori da qui, e negli ultimi anni hanno creato
alleanze molto forti sul nostro territorio nazionale”.
Incominciare dai giovani
Relativamente tranquillo fino al decennio scorso,
l’Ecuador era considerato solamente una via di
passaggio della coca dal Perù, dalla Bolivia e dalla
Colombia verso le piazze mondiali dello spaccio.
“Dopo la pandemia e anche a causa di questa, ab­
biamo registrato un impoverimento della popola­
zione” spiega don Farfán, “il 30% vive in situazione
di povertà, il 15% di grave povertà. Il governo ha
diminuito il finanziamento per l’istruzione e anche
quello per il contrasto al traffico di droga”.
Da qui una desolata denuncia: “Il nostro Paese dal
2020 è diventato per i cartelli centroamericani una
specie di paradiso per operare senza la pressione
delle polizie specializzate che operano negli altri.
L’Ecuador è diventato centro di smistamento. La
malavita è entrata negli apparati statali, nella magi­
stratura, nella polizia, nella classe politica”.
Una compenetrazione fra società sana e società
malata avviene anche nella vita quotidiana. Il no­
stro interlocutore spiega che anche i giovani degli
oratori e delle scuole si trovano a fianco a fianco
dei figli e dei nipoti dei narcotrafficanti e dei gio­
vani apprendisti del settore. “Fatti di estorsione
sono molto presenti: il nostro collegio della città di
Esmeralda ha visto allontanarsi 80 ragazzi perché
le loro famiglie erano sotto minaccia. Nella stessa
città come a Guayaquil, nei quartieri molto pove­
ri si pratica una violenza ordinaria che interessa le
bande contrapposte, ma coinvolge inevitabilmente
l’intera popolazione”.
Rimane – anche in queste situazioni – il dovere di
resistere: “Quel che vogliamo fare è offrire uno spa­
zio di speranza per chi non ha opportunità. Noi
salesiani siamo conosciuti per il nostro lavoro con
i ragazzi di strada e con i popoli indigeni. Restia­
mo fermi sul nostro carisma educativo per dare
istruzione e per affrontare la fatica di vivere senza
prospettive di occupazione. Grazie a Dio la nostra
comunità non incontra ostacoli in questo compito,
e non abbiamo registrato nessun attacco ai confra­
telli. Siamo rispettati, ma non sappiamo come le
cose potranno evolvere”.
Approfondimenti in:
https://www.salesianos.org.ec/2024/01/11/comunicado-
del-inspector-ecuador-situacion-de-inseguridad-y-
desconfianza/
https://www.missionidonbosco.org/progetti/un-proget-
to-nutrizionale-rivolto-ai-bambini-a-rischio
Relativamente
tranquillo fino
al decennio
scorso,
l’Ecuador è
diventato
preda della
malavita,
che minaccia
soprattutto
i giovani,
cominciando
dai più piccoli.
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LA NOSTRA BASILICA
Natale Maffioli
L’ALTARE
di SAN GIUSEPPE
Come lo ha voluto don Bosco
L’ altare dedicato a san Giuseppe doveva
rappresentare per don Bosco quello che
assieme al principale dava il tono a tutta
la decorazione della chiesa. Don Bosco
aveva già predisposto a chi dedicarlo, mancava la
pala con l’immagine del titolare. La struttura era
pronta e già in loco; l’altare di marmo era stato do­
nato da un benefattore, era stato realizzato con il
marmo giallo di Siena, il verde Alpi e, ovviamen­
te, l’arabescato bianco di Carrara, la mensa era so­
stenuta da due mensole e il paliotto decorato con
una testa alata di cherubino. Due incorniciature di
marmo verde Alpi erano inquadrate da una corni­
ce in marmo apuano e di giallo di Siena. I gradi­
ni inferiori dei candelabri erano arricchiti da teste
angeliche alate, al centro il maestoso tabernacolo
era sormontato da un timpano spezzato e divide­
va il secondo gradino, più ridotto, per i candelie­
ri. Come si dirà in seguito, bisognerà attendere un
paio di decenni prima che si realizzasse la cornice
marmorea che doveva inquadrare il dipinto della
Sacra Famiglia di Nazareth.
Ed ecco come descrisse il quadro lo stesso don Bo­
sco che aveva dato al pittore il disegno della com­
posizione simbolica da lui desiderata.
«San Giuseppe è in piedi sopra una nuvola, por­
tando sul braccio sinistro il Bambino Gesù, il quale
tiene sulle ginocchia un panierino pieno di rose.
Il Bambino piglia le rose e le dà a san Giuseppe
che man mano le fa piovere sulla chiesa di Maria
Ausiliatrice che vedesi di sotto ed ha per sfondo
la collina di Superga. L’atteggiamento del Bambi­
no è di una grazia singolare perché, rivolto al suo
Padre putativo, gli sorride con infinita dolcezza.
A compiere questo delizioso gruppo, sta a lato del
Bambino Gesù, ritta in piedi e in bella movenza,
la sua Santissima Madre, con le mani giunte, tutta
rapita nella contemplazione di quel dolce scambio
di ineffabile amorevolezza tra il suo divin Figlio e il
suo purissimo Sposo. Tre angeli stanno ai lati della
Sacra Famiglia: quello che porta la verga fiorita ha
le fattezze d’una bimba, morta qualche anno prima,
figlia della marchesa Fassati, che rimase profonda­
mente commossa e riconoscente.
Due altri angioletti, in alto, sostengono una fascia
su cui è scritto: Ite ad Joseph.
Un giorno don Giacomelli, già compagno di
seminario e negli ultimi anni confessore di don Bo­
sco, avendo osservato che nel quadro san Giuseppe
lascia cadere rose bianche e rose rosse, chiese se il
diverso colore significasse qualche cosa di speciale.
Don Bosco non rispose e il Giacomelli continuò a
dire, per conto suo, che forse le rose bianche erano
figura delle grazie che piacciono più a noi, e quelle
rosse di quelle che piacciono di più a Dio. Don Bo­
sco sorridendo rispose: «Va bene! Le rose rosse sono
le migliori!». Il color rosso infatti è simbolo di amo­
re, di carità, di sacrificio. Don Bosco, devotissimo
di san Giuseppe, volle che fosse uno dei patroni
principali del suo primo Oratorio e poi di tutta la
Congregazione salesiana. Nelle grandi chiese da lui
edificate, dedicò sempre un altare a questo Santo.
L’altare di san Giuseppe fu inaugurato il 26 aprile
1874.
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SALESIANI
O. Pori Mecoi
DON MARCO
PANERO
Professore di filosofia morale e Consigliere
della Penitenzieria Apostolica.
Autore di La tenda del convegno una
raccolta di Meditazioni di vita spirituale.
Ti puoi presentare?
Sono un salesiano. Ho 41 anni e, ormai, più di
metà della mia vita l’ho trascorsa nella Congrega­
zione Salesiana. Sono contento che sia così, non lo
cambierei anche se potessi. Esigenze inaspettate mi
hanno poi condotto dal Piemonte, mia terra d’ori­
gine, a Roma, presso l’Università Pontificia Sale­
siana (UPS), dove risiedo e svolgo il mio compito
principale di insegnamento.
Com’è nata la tua vocazione?
Sono originario di Bra, cittadina in provincia di Cu­
neo, a cui i Salesiani hanno fatto un gran bene, con
un’opera fondata nel 1959 e tuttora fiorente. Il mio
legame con la casa salesiana risale alla fanciullezza,
attraverso l’oratorio e la catechesi, che hanno accom­
pagnato la mia adolescenza e la gioventù, ritman­
done le tappe con il progressivo coinvolgimento nei
servizi di animatore e catechista. Vi erano all’epoca
gruppi formativi ben strutturati per le varie fasce
d’età, cosicché divenne abituale per me vivere la con­
fessione mensile, durante tutti gli anni del liceo.
Con il senno del poi, riconosco che questa forma
discreta di accompagnamento fu l’elemento deci­
sivo per la maturazione di una relazione personale
con il Signore Gesù e, all’interno di questa, per la
scoperta della mia vocazione salesiana sacerdotale,
sebbene nessuno me l’avesse mai proposta. Così, a
19 anni, il giorno del conseguimento della maturità
classica, annunciai la mia scelta, lasciando tutti di
stucco, compagni di classe e commissione esami­
natrice!
Delle tue esperienze passate,
quale ricordi con più gratitudine?
Senza dubbio gli anni del tirocinio pratico trascorsi
nella casa di Châtillon, in Valle d’Aosta. Tre anni
intensissimi, vissuti al ritmo serrato del convitto
scolastico, nel contatto prolungato con i giovani e
con una comunità educativo-pastorale vivace… e
pure con numerose ascensioni alle principali cime
valdostane! L’anima di quell’esperienza benedet­
ta, però, era la Comunità salesiana e lo stile che
la permeava. Fu lì, negli anni di tirocinio, che ini­
ziai a comprendere vitalmente quello spirito ora­
toriano di cui avevo sentito parlare negli anni di
formazione precedenti. E compresi la grandezza e
la bellezza della vocazione salesiana alla scuola di
don Bosco, la sua profondità apostolica, a dispetto
di possibili riduzionismi funzionalisti. Fu per me
un’importante conferma vocazionale, maturata
gradualmente.
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La persona che non dimenticherai.
Non sono poche le persone a cui debbo tanto… Una
tra tutte: don Giuseppe Abbà († 2020), confratello
salesiano che fu mio predecessore nella cattedra di
filosofia morale all’ups e, prima ancora, mia guida
nella preparazione della tesi dottorale. Un mae­stro
autorevole e stimato nella propria disciplina, un
ricercato appassionato, che seppe fare della vita di
studio una spiritualità, e della ricerca accademica
un apostolato nobile ed efficace. Gli debbo molto,
e resta per me esempio e monito.
Professore di filosofia morale e
Consigliere della Penitenzieria
Apostolica: che cosa implica?
Sono contento della porzione di missione salesia­
na che mi è stata affidata. Mi convinco sempre
più che l’insegnamento universitario, strettamente
connesso con la formazione superiore delle nuove
generazioni, è un campo di missione altamente
salesiano. Tutt’altro che un rifugio nelle retrovie.
Quanto bene può fare una parola chiara e fondata!
In certi casi, può indirizzare una vita. La filosofia
morale, in effetti, si interessa proprio alla direzione
della vita nel suo insieme, alle “grandi scelte” che
plasmano un’esistenza e sono gravide di innumere­
voli implicazioni. In fondo, l’analisi filosofica e lo
studio dei grandi autori del passato mirano proprio
a ragionare con i giovani a questo livello. Qui siamo
ormai oltre la semplice trasmissione di informazio­
ni, o le prestazioni d’esame: è il punto in cui l’erudi­
zione matura in cultura e, forse, in sapienza di vita.
Questo è il fascino dell’università.
Ormai da quasi cinque anni, presto inoltre servizio
«Sono contento
della porzione
di missione
salesiana che
mi è stata
affidata. Mi
convinco
sempre più che
l’insegnamento
universitario,
strettamente
connesso con
la formazione
superiore
delle nuove
generazioni,
è un campo
di missione
altamente
salesiano».
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SALESIANI
«Il mio
libro è una
raccolta di
Meditazioni di
vita spirituale,
costruite
attorno ad
un’unica,
consolante
verità di fede:
la presenza
di Dio
nell’anima,
descritta
allegorica­
mente
attraverso
l’immagine
della
tenda del
convegno».
come consigliere presso la Penitenzieria Apostolica,
un dicastero vaticano (tecnicamente, un tribunale)
dedicato principalmente alla promozione e alla tu­
tela del sacramento della Confessione, unitamente
alla trattazione delle problematiche che ne possono
derivare (il cosiddetto “foro interno”). Tra le altre
iniziative, la Penitenzieria organizza annualmente
un Seminario sulla confessione, destinato a sacer­
doti, religiosi e fedeli laici; ci ha sorpresi il grande
interesse suscitato e la vasta diffusione che hanno
avuto le conferenze tenute, accessibili anche su
YouTube. È recentemente uscito anche un volume
che ne raccoglie gli atti, e che può servire come
strumento sicuro di formazione (Penitenzieria
Apostolica, «Ti sono perdonati i peccati» (Mc 2,5).
Celebrare il sacramento della Confessione oggi, a cura
di K. Nykiel - M. Panero - U. Taraborrelli, San
Paolo 2023, € 18).
A proposito di libri: La tenda del
convegno… Com’è nato questo volume?
Si tratta, come recita il sottotitolo, di una raccolta
di Meditazioni di vita spirituale, costruite attorno
ad un’unica, consolante verità di fede: la presenza
di Dio nell’anima, descritta allegoricamente at­
traverso l’immagine della tenda del convegno, il
padiglione mobile realizzato da Mosè per ospitare
l’arca dell’alleanza. La nostra anima
è la tenda del convegno, laddove
si realizza la nostra unione con il
Signore che viene a prendere di­
mora in noi. È quanto la teologia
insegna con il bel nome di “ina­
bitazione”, e che in queste pagine
tento di sviluppare in modo acces­
sibile, preoccupato anzitutto del
giovamento spirituale che
il lettore ne può trarre.
Il contenuto del vo­
lume viene dalla
predicazione, che
ho rielaborato dan­
dogli forma redazionale, ma conservando il tono
colloquiale, libero da preoccupazioni di esaustività.
Non è un testo “accademico”, ma un umile compa­
gno di viaggio, scritto unicamente con la speranza
che possa fare del bene a qualche anima, nutrendo
la fede. Se il buon Dio vorrà servirsi di questo pic­
colo strumento, ben venga la sua diffusione!
Un’opera di “apostolato della buona
stampa”?
Esattamente. Sappiamo quanto don Bosco des­
se importanza a questa forma di apostolato, da
lui stesso praticata e sempre incoraggiata. Oggi la
quantità di informazioni disponibili e di facile ac­
cesso è immensamente superiore, eppure proprio
per questo risulta indispensabile una parola sicura
di orientamento e formazione della fede del po­
polo di Dio. La vita di fede non può essere data
per scontata nei credenti; spenta o corrotta la fede,
anche l’espansione apostolica vien meno e la carità
si raffredda, oppure assume forme secolarizzate o
ideologiche.
Non si tratta di insegnare una “dottrina teorica ed
astratta”, come dice bene il cardinale Mauro Pia­
cenza, nella generosa prefazione al volume. Occor­
re piuttosto mostrare lo spessore e la bellezza delle
grandi verità di fede, le loro implicazioni spirituali
e morali, il loro impatto reale sull’esistenza, quando
vengono assunte per ciò che sono, nella loro com­
pletezza. Sono convinto che ogni verità di fede,
se rettamente accolta, eserciti un potere risanato­
re sull’intero organismo credente, rigenerandolo
nell’integrità dottrinale e morale. In fondo, l’an­
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marzo 2024

3.7 Page 27

▲torna in alto
nuncio potrà iniziare da dove si preferisce, purché
il seme sia trasmesso integro; per virtù propria,
fecondato dalla grazia, germinerà nei cuori fedeli
ben oltre le nostre aspettative. Davvero la fede cri­
stiana, nel fascino della sua intangibile integrità, è
il dono più prezioso che abbiamo da offrire, pegno
di speranza per i piccoli e i poveri.
Altri libri nel cassetto?
Ho scritto Nella tenda del convegno nei ritagli di
tempo, a fianco degli impegni di studio e inse­
gnamento. Mi piacerebbe comporre un commen­
to alle preghiere comuni del cristiano; mi pare un
tema popolare e salesiano, che possa fare del bene
e aiutarci a riscoprire il tesoro prezioso che, come
cristiani, già possediamo.
Marco Panero,
Nella tenda
del convegno.
Meditazioni di vita
spirituale.
Ed. Ancora 2023
€ 15
ISBN 978-88-514-2783-2
Grazie a tutti coloro che hanno
contribuito alla ricostruzione del centro
polifunzionale del Don Bosco Technical
School di Cebu, nelle Filippine centrali.
Con le donazioni ricevute abbiamo
potuto destinare alla missione
5000 euro, pari a 288.792,88 pesos
filippini (php), e restituire a circa
1200 ragazzi e ragazze una palestra
per fare sport, assistere a spettacoli,
convegni e incontri di formazione.
Nel 2021, il tifone Raj – Odette ha
lesionato molti edifici del Don Bosco
Technical School, tra cui la palestra,
dove i giovani erano abituati a riunirsi
e partecipare alla Santa Messa.
“I nostri ragazzi e le nostre ragazze
vogliono ardentemente tornare
nelle loro classi”, ci raccontava Leah
Samson, responsabile dell’ufficio
progetti, all’indomani del ciclone.
Ora hanno di nuovo uno spazio
di aggregazione per socializzare
e crescere in armonia.
Con il vostro aiuto,
il loro desiderio
si è realizzato.

3.8 Page 28

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SANTI DI FAMIGLIA
Teresio Bosco
Beato don Augusto
CZARTORYSKI
II principe
polacco
che si fece
salesiano.
Dal 31 gennaio
al 31 maggio
1883, don Bo­
sco (68 anni)
viaggia sfinito per la Fran­
cia chiedendo l’elemosina.
Il 18 maggio accetta l’in­
vito della nobile famiglia
polacca Czartoryski, e
celebra Messa nel loro palazzo parigino, l’Hotel
Lambert. Gli servono Messa il capo famiglia
principe Ladislao (55 anni) e il primogeni­
to Augusto (25 anni). Al termine, Augu­
sto gli chiede un colloquio privato. Don
Bosco guarda quel giovane principe alto e
sottile come una palma, e gli dice strane
parole: «Da lungo tempo desideravo
far conoscenza con lei, principe».
A Valdocco, don Bosco sovente
saluta i suoi con frasi scherzo­
se: «Buon giorno, marchese!».
«Come sta, signor conte?».
Ma questa volta non scher­
za. Sa che il giovane uomo
che gli sta davanti è un prin­
cipe vero, discendente da una
delle due famiglie più antiche
e più nobili della Polonia. Un giorno potrebbe di­
ventare il sovrano della gente polacca. Ma sa anche
che Dio ha dei disegni misteriosi su questa persona.
La famiglia Czartoryski
Dopo la morte del re polacco Giovanni Sobiesky
(1696), che aveva sconfitto i turchi nella celebre
battaglia di Vienna, le due famiglie più potenti, cu­
stodi delle antiche istituzioni della patria, furono
i Czartoryski e i Potocki. Adam Jerzy Czartoryski
(Varsavia 1770 - Francia 1862) nonno di Augusto,
fu il più celebre uomo di stato della famiglia. Do­
vette assistere giovanissimo alla seconda spartizio­
ne della Polonia (1793) e alla sua cancellazione dalla
carta geografica europea (1795). Sebbene contrario
a una guerra contro la Russia, fu coinvolto nell’in­
surrezione del 1830, quando fu eletto capo del
Governo provvisorio. Fallita l’insurrezione,
fu condannato a morte dai Russi e fuggì in
esilio a Parigi. E Hotel Lambert, sulle rive
della Senna, divenne la sede della famiglia e
il centro dell’attività politica dei polacchi in
esilio. Adam mantenne ambasciatori a
Costantinopoli, Roma, Londra e in
altre capitali europee.
Ladislao Czartoryski (1828-1894),
secondo figlio di Adam e padre di
Augusto, si dedicò alla fondazione
di scuole per esuli polacchi.
Nel 1855 sposò la principessa
Maria Amparo Munoz di Vi­
sta Alegre, figlia della regina
di Spagna Cristina di Borbone.
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3.9 Page 29

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Questa donna esile, dalla salute molto fragile e dal­
la dolce faccia di bambina, il 2 agosto 1858 divenne
mamma dell’erede dei Czartoryski, che fu gravato
da una gloriosa serie di nomi delle illustri casate
paterna e materna: Augusto, Francesco, Maria,
Anna, Giuseppe e Gaetano.
Nell’agosto del 1864 la tubercolosi si portò via la
principessa Maria Amparo, e Augusto rimase sen­
za mamma. Quella donna dolcissima, di cui Augu­
sto sentirà la mancanza per tutta la vita, gli lasciò
un’eredità regale, ma anche la fragilità di salute e
l’inclinazione a quella malattia, la tisi, che in que­
gli anni falcidiava inesorabile le case dei poveri e le
case dei re. E gli lasciò anche una qualità rara: il
distacco dalle cose. La mamma prima, il figlio poi,
le guardarono sempre come se vi vedessero dentro
l’incapacità di farli felici.
Alla ricerca della salute perduta
Mentre i resti mortali della mamma vengono por­
tati a Sieniawa dove i Czartoryski hanno il mauso­
leo di famiglia, papà Ladislao guarda con appren­
sione il figlio che ha una tosse secca e persistente.
Da questo momento, tutta la vita di Augusto sarà
un inseguimento faticoso della buona salute che
non verrà mai. Lo mandano a cercarla nell’aria
fine della montagna, in quella calda delle regioni
marine, la inseguirà fin sulle spiagge desertiche
dell’Africa. I suoi studi, che alternano la lingua po­
lacca a quella francese, si svolgono in luoghi diver­
sissimi: a Pau sui Pirenei, a Roma, a Montpellier,
nella terra natia di Polonia.
La prima Comunione la fa nella cripta della chiesa
parrocchiale di Sieniawa, dove riposano gli avi illu­
stri e la mamma. La festa grande che fanno intorno
dà fastidio ad Augusto. Ha 13 anni, e lo dice a Blot­
nicki, l’anziano signore che l’accompagna dovunque
per ordine del padre: «Non potrebbero lasciarmi in
pace almeno in questo giorno, io e il Signore?».
Nel 1874, a 16 anni, è alto e sottile come una spada,
e la tosse è sempre lì, ora smette ora torna, a dirgli
che anche per i principi la vita è cosa fragile.
Papà gli mette accanto (al posto dell’ormai trop­
po anziano Blotnicki) un lituano-polacco, Raffae­
le Kalinowski, che per la fedeltà alla sua patria ha
fatto dieci anni di lavoro forzato in Siberia, dov’è
stato l’angelo consolatore di tanti martiri. È così
profondamente cristiano, che i deportati prega­
vano: «Per le preghiere di Kalinowski, liberaci o
Signore». Stanno tre anni insieme, Augusto e il
lituano-polacco. Poi Kalinowski entra nel mona­
stero dei Carmelitani di Cracovia. Oggi lo veneria­
mo come santo.
Augusto ha letto con lui le biografie di un principe
italiano e di un nobile polacco, Luigi Gonzaga e
Stanislao Kostka, che hanno preferito la santità alla
nobiltà. È da quando Kalinowski entra nel mona­
stero, che Augusto comincia a pensare seriamente a
lasciare tutto per Dio.
Il re di Spagna, cugino di Augusto, lo invita a re­
spirare l’aria sana del golfo di Biscaglia. Augusto
Nel 1883
l‘incontro con
don Bosco.
Per il principe
Ladislao è
l’occasione
di parlare con
il fondatore
dei salesiani
di scuole da
aprire nelle
terre polacche
attorno a
Cracovia,
occupate
dall‘Austria.
Augusto gli
parla anche
del suo
avvenire.
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3.10 Page 30

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SANTI DI FAMIGLIA
Augusto
in abiti
principeschi.
La sua è una
famiglia
potentissima.
vi trascorre l’estate. L’inverno va a trascorrerlo a
Davos, nell’aria frizzante delle montagne svizze­
re. Poi ancora all’inseguimento della salute a Na­
poli, a Capri, sulle balze di Assisi dove pensa più
a Francesco che agli ordini dei medici. E ancora
in Sicilia, in Normandia. Poi i medici consigliano
l’Africa; ai bordi del Sahara Augusto incontra La­
vigerie, l’apostolo dei neri.
1879: Augusto ha raggiunto l’età maggiorenne, e
riceve in consegna il patrimonio di famiglia. Lo
considera solo un gesto, poiché papà continuerà ad
amministrare tutto come prima, e poiché dal se­
condo matrimonio con la principessa Margherita
d’Orléans, a papà sono nati altri due figli, molto
più sani di lui, e quindi adatti a ricevere l’eredità e
le glorie di famiglia.
Nel 1883 l’incontro con don Bosco. Per il principe
Ladislao è l’occasione di parlare con il fondatore dei
salesiani di scuole da aprire nelle terre polacche at­
torno a Cracovia, occupate dall’Austria.
Augusto gli parla anche
del suo avvenire: non si
sente chiamato al ma­
trimonio, a cui lo spinge
il padre. Pensa al con­
vento dei Carmelitani,
dov’è Kalinowski, o a
un’altra famiglia religio­
sa dove dedicarsi tutto a
Dio. Don Bosco non gli
dà una risposta netta.
Lo consiglia di pensare
e di pregare.
Da questo momento
comincia tra Augusto
e don Bosco un’assi­
dua corrispondenza. Il
condensato di tutte le
lettere che partono da
Torino per il principe
si può racchiudere in
queste parole scritte da
don Bosco il 26 gennaio 1885: «Se il desiderio dello
stato ecclesiastico è molto forte nell’anima del prin­
cipe, sarebbe bene rinunziare all’amministrazione
dei beni paterni. Se invece non è ancora definiti­
vamente radicato, allora il principe farà molto bene
adattandosi ai desideri del padre ed accettando
l’ordinamento di tutte le successioni». In una parola
Augusto, che ha ormai 27 anni, non deve aspettare
che altri decida per lui su che cosa fare nella vita.
Deve decidere lui, e affrontare tutte le conseguenze
della sua decisione.
Dopo un periodo in cui Augusto tenta di fare l’am­
ministratore dei beni di famiglia nelle terre polac­
che, matura la sua decisione: sarà sacerdote, si de­
dicherà a Dio e basta.
Venga lei a farsi salesiano
5 luglio 1886. I principi Ladislao e Augusto sono
a Valdocco da don Bosco. Si parla dei bisogni della
gioventù polacca e dell’inizio dell’opera salesiana in
Polonia. Don Bosco dice: «Verremo, verremo anche
da voi... appena avremo personale adatto». Allora
don Francesia, presente al colloquio, dice con la sua
maniera scanzonata ad Augusto: «Signor principe,
venga lei a farsi salesiano. Don Bosco aprirà subito
una casa in Polonia». Si sorride. Ma con ogni pro­
babilità, questa frase è decisiva per l’orientamento
di Augusto. Non pensa più ai Carmelitani né ai
Gesuiti (dove sembra volerlo spingere don Bosco).
Sarà salesiano. Don Bosco esita, ma Augusto supe­
ra ogni difficoltà ricorrendo al Papa. All’inizio del
giugno 1887 è in udienza da Leone XIII, gli con­
fida la sua decisione, l’opposizione di suo padre e le
esitazioni di don Bosco. Il Papa gli dice: «Ritornate
a Torino, presentatevi a don Bosco, portategli la
benedizione del Papa. E gli direte essere desiderio
del Papa che vi accetti fra i Salesiani. Siate perseve­
rante e pregate».
Il 30 giugno 1887, dopo un distacco doloroso dal
padre, Augusto è a Torino. Il 17 luglio inizia il
suo aspirantato salesiano. Don Bosco, soddisfatto
che la «decisione irrevocabile» sia stata finalmente
30
marzo 2024

4 Pages 31-40

▲torna in alto

4.1 Page 31

▲torna in alto
presa, gli ha detto parole stupende: «Ebbene, mio
caro principe, io la accetto. Fin d’ora Ella fa parte
della nostra Pia Società e desidero che continui ad
appartenervi fino alla morte. Il povero don Bosco
morirà presto, e se il suo successore la volesse allon­
tanare per qualunque motivo ed Ella non vorrà, ba­
sterà che dica che è volontà di don Bosco che Ella
non se ne vada».
Il noviziato, Augusto lo inizia il 20 agosto dello
stesso anno in Torino, sulla collina di Valsalice.
Entrando, vede un cartello con tre parole: «Dio.
Anima. Eternità». Quella sera commenta per
scritto: «Eternità. Com’è potente questa parola. La
si dovrebbe scrivere per ogni dove, sul frontespizio
di ogni casa, sulla base di tutti i monumenti, sulla
copertina di tutti i libri».
Il 31 gennaio 1888, prima che Augusto finisca il
suo noviziato, don Bosco muore. I suoi resti mor­
tali vengono tumulati proprio a Valsalice. Augusto
passa ore in preghiera su quella tomba.
2 ottobre 1888. Il principe Augusto Czartoryski
fa voto di povertà, castità, obbedienza e diventa
salesiano. Quattro mesi prima ha firmato l’atto di
rinuncia a tutti i suoi diritti di primogenito.
Da tempo, nelle terre polacche arriva il Bolletti­
no Salesiano. La notizia che il giovane principe è
diventato salesiano suscita interesse ed entusiasmo.
Alcuni giovani, volendo imitarlo, vengono a
Torino. Don Rua, successore di don Bosco, fa loro
posto a Valsalice.
La vita spartana e il cibo semplice a cui Augusto si
sottopone come ogni salesiano, nei primi tempi ri­
danno vigore alla sua salute. Può compiere gli studi
di teologia, ed è ordinato sacerdote il 2 aprile 1892.
Dice Messa per la sua famiglia il 3 maggio, festa
nazionale polacca. Gli serve Messa il fratello Vitol­
do. Il papà e la principessa Margherita ricevono la
Comunione dalle sue mani.
Ma la malattia che ha portato alla tomba sua ma­
dre, torna inesorabile. Nell’autunno don Augusto
è ad Alassio, in una villetta, con alcuni chierici
polacchi che studiano teologia. Uno di essi annota:
«Quando il vento soffia un po’ forte, il principe
cammina barcollando».
La primavera del 1893 accende mille colori, ma
non ne porta nessuno sulla faccia pallida del princi­
pe. Passa i pomeriggi pregando e fissando il mare.
La morte arriva la sera dell’8 aprile. Ha 35 anni.
La sua dolcissima mamma, quando morì, ne aveva
solo 30.
Nel 1898 i primi Salesiani polacchi aprono la loro
prima Casa a Oswiecim. Ora quei Salesiani sono
un migliaio, e lavorano per i giovani in Polonia e in
ogni parte del mondo.
Negli anni durissimi della seconda guerra mondia­
le, nella parrocchia salesiana di Cracovia un prete
faceva scuola di latino a un giovane operaio che vo­
leva diventare prete, Karol Wojtyla. Divenne prete,
Vescovo e Papa, con il nome di Giovanni Paolo II
ed è stato lui, nel gennaio 1979, a proclamare l’eroi­
cità delle virtù del principe Augusto Czartoryski.
Fu beatificato il 25 aprile 2004.
Un quadro
che ritrae
Augusto con
alcuni santi
della Famiglia
Salesiana.
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4.2 Page 32

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FMA
Emilia Di Massimo
UN ROBOT in aula
“È da molti anni che insieme ai docenti di area scientifica
proponiamo progetti pomeridiani che ci hanno permesso
di vedere il grande potenziale della robotica educativa”.
Giocare d’anticipo
“È la disciplina che si occupa della progettazione e
realizzazione dei robot e delle loro possibili applica­
zioni. In questa scienza, sia le fasi della ricerca sia
quelle dell’applicazione tecnologica, integrano com­
petenze di meccanica, informatica ed elettronica”.
Così il dizionario Treccani definisce la robotica;
sappiamo che l’ambito di applicazione dei robot si
sta continuamente ampliando e gradatamente sta
sostituendo soprattutto i lavori umani pesanti. Sap­
piamo tuttavia che a riguardo i pareri sono favore­
voli e contrari ma, ci spiega suor Daniela Faggin,
direttrice della scuola dell’Istituto Don Bosco delle
Figlie di Maria Ausiliatrice di Padova, “è un ulte­
riore ed importante tassello della strategia salesiana
che mira ad armonizzare il carisma, fondato sull’e­
ducazione integrale della persona, con l’esplorazione
consapevole delle potenzialità delle nuove tecnolo­
gie”. Il 6 maggio 2023, è stata inaugurata l’aula di
Robotica finanziata, nell’ambito del Progetto Scuo­
la Innovazione, dalla Fondazione Cariparo. Tra i
presenti all’evento, a nome dell’Ente erogatore, il
dottor Francesco Bicciato, il quale ha sottolineato
“la capacità delle Salesiane di integrare l’attività di­
dattica tradizionale con attività esperienziali, pro­
getti multidisciplinari e innovazione tecnologica”.
“L’azione educativa – afferma Bicciato – può es­
sere incisiva solo rimanendo al passo con i tempi,
se non anticipandoli, con una grande attenzione
ai contesti sociali e culturali; don Bosco ha voluto
per i suoi ragazzi il meglio: laboratori e strumen­
ti all’avanguardia perché potessero competere nel
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4.3 Page 33

▲torna in alto
mondo del lavoro. Ereditando e coltivando questo
spirito, l’Istituto Don Bosco di Padova ha deciso
di sperimentarsi anche nel campo della Robotica”.
La realizzazione dell’aula è la capacità di giocare
d’anticipo per la formazione dei giovani, degli inse­
gnanti e degli educatori i quali, in seguito, saranno
supportati dal Mind4Children, spin-off dell’Uni­
versità degli studi di Padova, “al Servizio del Po­
tenziale Umano”.
Un ruolo cruciale
“L’aula è stata pensata per favorire un tipo di ap­
prendimento più coinvolgente e stimolante: quello
che passa attraverso l’esperienza pratica, che ri­
chiede di lavorare su progetti da realizzare. Questo
nuovo spazio facilita lo scambio di informazioni e
di sapere tra ragazzi chiamati ad affrontare insieme
problemi di natura diversa, a pensare e a condivi­
dere per arrivare a soluzioni, costruendo insieme
conoscenza”. A sostenerlo è il prof. Luca Zacchigna,
insegnante di matematica e scienze nella scuola
secondaria di primo grado. “È da molti anni che
insieme ai docenti di area scientifica proponiamo
progetti pomeridiani che ci hanno permesso di ve­
dere il grande potenziale della robotica educativa.
Fino ad oggi erano progetti condotti con pochi
studenti negli spazi del laboratorio di scienze che
ben si prestava alle dinamiche di lavoro a piccoli
gruppi; oggi, con il nuovo laboratorio di robotica,
possiamo utilizzare questa modalità didattica non
frontale con tutta la classe”. L’aula ha permesso di
ampliare gli spazi di apprendimento dell’informa­
tica e non solo. “Il laboratorio di informatica tra­
dizionale negli ultimi anni è divenuto uno spazio
molto ricercato e utilizzato sia dai ragazzi del Liceo
delle Scienze applicate sia dagli studenti delle me­
die”. La robotica educativa non si può certo definire
come uno strumento educativo nuovo. Il termine
robotica educativa fu coniato negli anni Sessanta da
Seymour Papert; i docenti di Matematica, Fisica,
Scienze e Tecnologia dell’Istituto si sono confron­
tati, hanno frequentato un corso di formazione che
li ha aiutati a conoscere i nuovi strumenti tecnolo­
gici a servizio della loro didattica. Non ci si deve
illudere che basti solo un artefatto tecnologico per
facilitare i processi di apprendimento, non crea au­
tomaticamente apprendimento nei nostri allievi. È
cruciale il ruolo del docente che conosce a fondo i
vantaggi e i limiti di ciascun strumento didattico
utilizzato in classe. Al di là delle mode e dei fa­
cili entusiasmi che possono riguardare la robotica,
dobbiamo tenere ben presente che è nella misura
in cui il docente domina lo strumento tecnologico,
senza venirne dominato, che può fruttuosamente
impiegarlo con gli allievi per costruire conoscenza,
per creare occasioni di apprendimento.
“Credo che la chiave per guardare al futuro sia ricor­
darci che “l’educazione è cosa di cuore”, prosegue il
prof. Zacchigna, “essere attenti a dare la giusta im­
portanza alle attività che riguardano l’uso delle nuo­
ve tecnologie e della robotica in classe, senza perdere
di vista la relazione tra il docente, l’allievo ed il sape­
re. Non è il singolo strumento a fare la differenza ma
il dialogo educativo, anche se ora, al Don Bosco di
Padova, i robot diventano oggetti con cui imparare a
ragionare sul mondo che ci circonda”.
Corso di
formazione
per docenti
sui nuovi
strumenti
dell’aula
di robotica
educativa.
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 3
RISPLENDERE
Educare non è salire in cattedra, ma è tracciare un sentiero.
Educare è essere ciò che si vuole trasmettere.
Educare è risplendere!
A veva ragione lo scrittore Ippolito Nievo a
dire che se “la parola è suono, l’esempio
è tuono”. L’esempio ha una forza peda­
gogica straordinaria, almeno per quattro
ragioni.
Intanto perché i figli imparano molto di più spian­
doci che ascoltandoci. È un dato di fatto che i ra­
gazzi sono sempre tutt’occhi. I genitori, forse, non
se ne accorgono neppure, intanto i figli fotografano
e registrano.
Essere ciò che si vuole trasmettere
L’esempio ha valenza pedagogica, poi, perché ciò
che è visto compiere da altri è un invito ad essere
imitato, è un eccitante per l’azione. Gli studiosi ci
dicono che quando, per esempio, vediamo una per­
sona muovere un braccio, camminare, saltare... nel
nostro cervello vengono, istintivamente, messi in
moto gruppi di cellule (i “mirror neurons” o neuroni
specchio) che spingono a ripetere ciò che si è visto.
La terza ragione della forza pedagogica dell’e­
sempio sta in questa verità che i bravi insegnanti
conoscono bene: “Se sento, dimentico. Se vedo, ri­
cordo. Se faccio, capisco”. “Se vedo, ricordo”.
Dentro ognuno di noi sono memorizzati mille
gesti dei nostri genitori: è bastato vedere il loro
comportamento, per non poterli più dimenticare.
L’attrice Monica Vitti confessa: “Il rapporto con mia
madre è stato determinante. A lei devo tutta la mia
forza e il mio coraggio, la serietà e il rigore che ho
applicato nei confronti del mio lavoro”. A sua volta,
Enzo Biagi confida: “Di mio padre ricordo la gran­
dissima generosità, l’apertura e la sua disponibilità
verso tutti... Non è mai passato un Natale, e il no­
stro era un Natale modesto, senza che alla nostra
tavola sedesse qualcuno che se la passava peggio di
noi... Non è mai arrivato in ritardo in stabilimento.
E io ho imparato che bisogna fare ogni giorno la
propria parte”. Il papa Paolo VI: “A mio padre devo
gli esempi di coraggio. A mia madre devo il senso
di raccoglimento, della vita inferiore, della medi­
tazione”. Occhio agli esempi, dunque! È l’avver­
timento che ci invia, inconsciamente, Marco (otto
anni): “lo da grande mi voglio sposare perché così
mia moglie mette sempre in ordine la casa e io non
mi stanco. Non aiuterò mia moglie perché sono un
maschio”. Le testimonianze riportate sono la prova
che i passi del padre e della madre fanno l’andatu­
ra del figlio. Le testimonianze riportate provano
che vi è un insegnamento di tipo emanatorio:
vi sono persone la cui sola presenza costituisce
già un’elevazione!
Ma, soprattutto, le testimonianze
riportate ci lanciano la domanda
più seria tra tutte: “I figli
ci guardano: che cosa
vedono?”.
Finalmente, l’esempio è
decisivo perché è proprio
l’esempio a dare
serietà alle parole.
Si può dubitare di
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marzo 2024

4.5 Page 35

▲torna in alto
quello che uno dice, ma si crede a quello che uno fa.
A questo punto è facile concludere: educare è non
offendere mai gli occhi di nessuno!
Il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij ci ha la­
sciato un messaggio pedagogico straordinario: “Io
mi sento responsabile, non appena qualcuno posa il
suo sguardo su di me”.
Una poesia che ha fatto fortuna
“Ho pubblicato per la prima volta I bambini impara-
no quello che vivono nel 1954 nella rubrica settima­
nale per famiglie che tenevo su un giornale locale
della California del sud. All’epoca avevo una figlia
di dodici anni e un figlio di nove. Ero consulente
familiare nel programma di pedagogia per adulti
del locale distretto scolastico ed ero la direttrice del
servizio pedagogico per genitori in una scuola ma­
terna. Non immaginavo neppure lontanamente che
la mia poesia sarebbe diventata un classico in tutto
il mondo”.
Così racconta Dorothy Law Nolte, l’autrice di que­
sta poesia, che in poco tempo ha fatto il giro del
mondo:
La poesia esprime con semplicità un principio pe­
dagogico molto salesiano: i più piccoli apprendono
veramente solo dalle esperienze condivise con adul­
ti significativi. L’educazione è una forma di appren-
distato pratico della vita. In famiglia la “convivenza”
è tutto. Il primo stadio dell’educazione passa attra­
verso gli occhi e si forma concretamente attraverso
l’atmosfera familiare: non è mai questione di “pre­
diche” o insegnamenti astratti.
I bambini sono come spugne. Assorbono tutto
quello che facciamo e diciamo. Imparano da noi
in ogni momento, anche quando non ce ne ren­
diamo conto. Quello che la dottoressa Nolte af­
ferma è che l’ambiente e il modello emotivo della
famiglia formano le strutture di base della perso­
na dei figli.
La maggior parte delle madri e dei padri vogliono
realmente essere amorevoli, comprensivi, disponi­
bili, sinceri e giusti con i propri figli. La loro pre­
parazione sui metodi e sulle tecniche d’interazione,
comunicazione e disciplina è però quasi sempre
approssimativa. La fretta e le preoccupazioni ma­
teriali bruciano anche le migliori intenzioni.
Se i bambini vivono con le critiche, imparano a condannare
Se i bambini vivono con l’ostilità, imparano a combattere
Se i bambini vivono con la paura, imparano a essere apprensivi
Se i bambini vivono con la pietà, imparano a commiserarsi
Se i bambini vivono con il ridicolo, imparano a essere timidi
Se i bambini vivono con la gelosia, imparano a provare invidia
Se i bambini vivono con la vergogna, imparano a sentirsi colpevoli
Se i bambini vivono con l’incoraggiamento, imparano a essere sicuri di sé
Se i bambini vivono con la tolleranza, imparano a essere pazienti
Se i bambini vivono con la lode, imparano ad apprezzare
Se i bambini vivono con l’accettazione, imparano ad amare
Se i bambini vivono con l’approvazione, imparano a piacersi
Se i bambini vivono con il riconoscimento, imparano che è bene avere un obiettivo
Se i bambini vivono con la condivisione, imparano a essere generosi
Se i bambini vivono con l’onestà, imparano a essere sinceri
Se i bambini vivono con la correttezza, imparano cos’è la giustizia
Se i bambini vivono con la gentilezza e la considerazione, imparano il rispetto
Se i bambini vivono con la sicurezza, imparano ad avere fiducia in se stessi e nel prossimo
Se i bambini vivono con la benevolenza, imparano che il mondo è un bel posto in cui vivere.
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Il sogno mancato
della CITTÀ
Ha perso la città, ha perso un
sogno, / abbiamo perso il fiato
per parlarci. / Ha perso la città,
ha perso la comunità, / abbiamo
perso la voglia di aiutarci...
In ogni tempo e in ogni civiltà, lo spazio poli­
tico e sociale della città ha rappresentato per
antonomasia un luogo privilegiato di scambio
e di aggregazione, il cuore pulsante della vita
associata, il laboratorio in cui sperimentare forme
inedite di protagonismo civile e l’utopia di un’iden­
tità condivisa e plurale. Nell’immaginario colletti­
vo di intere generazioni di giovani – e non solo –
Hanno vinto le corsie preferenziali,
hanno vinto le metropolitane,
hanno vinto le rotonde e i ponti a quadrifoglio
alle uscite autostradali.
Hanno vinto i parcheggi in doppia fila,
quelli multipiano vicino agli aeroporti,
le tangenziali alle otto di mattina
e i centri commerciali nel fine settimana.
Hanno vinto le corporazioni infiltrate
nei consigli comunali,
i loschi affari dei palazzinari,
gli alveari umani e le case popolari.
Hanno vinto i pendolari...
Ma ha perso la città, ha perso un sogno,
abbiamo perso il fiato per parlarci.
Ha perso la città, ha perso la comunità,
abbiamo perso la voglia di aiutarci...
la città è sempre stata sinonimo di cambiamento
e di emancipazione sociale: l’orizzonte sognato in
cui poter uscire dal proprio isolamento e dove po­
ter trovare migliori condizioni di esistenza, tanto a
livello materiale quanto sul piano relazionale e cul­
turale. Non a caso, in tanta parte della letteratura e
della cinematografia più o meno recenti l’esperien­
za “formativa” del trasferimento nella grande città
coincide con la conquista di una maggiore consape­
volezza di sé e di un ruolo significativo all’interno
della società, con l’appropriazione di uno “spazio di
senso” al di fuori del proprio individualismo. In al­
tre parole, con la costruzione della propria adultità.
Ma nella presente fase storica, segnata da un sempre
più marcato sfilacciamento dei rapporti di solidarietà
orizzontale e di buon vicinato e da una certa rare­
fazione della socialità a tutti i livelli, la dimensione
utopica della città si traduce spesso in un “sogno
mancato”. Lungi dal configurarsi come incubatrici di
comunità, le nostre città assumono spesso i tratti di
templi della frenesia e dell’anonimato, in cui i ritmi
di vita sono scanditi dal consumismo e dall’omologa­
zione. Un paesaggio antropico fatto di luci elettriche
e cemento, di “alveari umani” e centri commerciali
aperti a tutte le ore del giorno e della notte, di strade
trafficate e freddi grattacieli, in cui non c’è più posto
per i mestieri antichi, per i piccoli negozi di quartiere,
per relazioni autentiche e solidali. E in questi “non
luoghi” spesso privi di una propria identità distinti­
va, i giovani faticano a trovare il proprio “posto nel
mondo” e ad individuare punti di riferimento sensati,
limitandosi il più delle volte ad attraversare distrat­
tamente lo spazio urbano, senza riuscire a radicarsi
compiutamente nel tessuto connettivo della città.
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▲torna in alto
Eppure, a dispetto di una società che fa dell’indivi­
dualismo il proprio principio ispiratore e che ci sol­
lecita a ripiegarci egoisticamente nella sfera del pri­
vato disinteressandoci di tutto ciò che avviene “al di
fuori del nostro giardino”, mai come oggi i giovani
adulti appaiono affamati di comunità! Mai come
oggi avvertiamo il desiderio di recuperare una di­
mensione di socialità che si nutra della condivisione
di idee, progetti, speranze e difficoltà. Mai come
oggi sperimentiamo il bisogno di “mettere radici”
in un luogo che ci sentiamo in diritto di chiamare
“casa”, al quale “appartenere”, in cui trovare acco­
glienza e identità, pur senza dover rinunciare all’a­
pertura costruttiva verso la dimensione più ampia e
sfaccettata del globale, in un equilibrio dinamico tra
localismo e universalismo.
Certo, siamo consapevoli di quanto il valore del­
la cittadinanza possa essere esigente e difficile da
esercitare: esso richiede impegno vigile e respon­
sabilità, capacità costante di discernimento critico
degli eventi politici e dei fenomeni sociali, dispo­
nibilità a farsi carico anche delle povertà e delle
ingiustizie che emergono dalla compagine sociale,
per farsi promotori di iniziative di “cura” a benefi­
cio dello spazio urbano e dell’intera collettività. Ma
Hanno vinto le catene dei negozi,
le insegne luminose sui tetti dei palazzi,
le luci lampeggianti dei semafori di notte,
i bar che aprono alle sette.
Hanno vinto i ristoranti giapponesi,
i locali modaioli frequentati solamente
da bellezze tutte uguali,
le montagne d’immondizia, gli orizzonti verticali,
le giornate a targhe alterne e le polveri sottili.
Hanno vinto le filiali delle banche,
hanno perso i calzolai...
E ha perso la città, ha perso un sogno,
abbiamo perso il fiato per parlarci.
Ha perso la città, ha perso la comunità,
abbiamo perso la voglia di aiutarci...
(Niccolò Fabi, Ha perso la città, 2016)
solo scommettendo sulla logica virtuosa dell’essere
con e dell’essere per possiamo sperare di restituire
alle nostre città un’autentica qualità di vita e una
preziosa funzione di “generatività sociale”, nella
consapevolezza che una comunità non la si trova
preconfezionata in qualche negozio, ma la si co­
struisce pazientemente tutti insieme dando, ognu­
no nel proprio piccolo, un contributo significativo
per edificare una società più umana e “all’altezza
dei nostri sogni”.
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4.8 Page 38

▲torna in alto
LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Il SOGNO dei NOVE ANNI
Da quando il Rettor Maggiore ha posto
al centro della Strenna 2024 il famosissimo
sogno che don Bosco ebbe a nove-dieci
anni ovunque se ne è parlato, se ne sta
parlando e se ne parlerà. Ma al di là
delle legittime interpretazioni attuali
e vitali del sogno, che ne dice la storia?
Il manoscritto
originale di
don Bosco del
racconto del
primo sogno.
Il punto di vista
della storia
La storia ci dice tante
cose. Anzitutto che il so­
gno dei nove-dieci anni è
uno dei 150/160 sogni di
don Bosco di cui posse­
diamo redazioni manoscritte o testi a stampa. Inol­
tre che il sogno si ripeté più volte lungo la vita di don
Bosco e qualche volta con aggiunte molto significa­
tive. Don Bosco scrisse questo sogno di suo pugno a
50 anni di distanza e la redazione definitiva è frutto
di un’attenta revisione del testo non solo stilistica.
Inoltre, ponendo questo sogno all’inizio delle Me-
morie dell’Oratorio, don Bosco gli assegna un ruolo
strategico, facendone un simbolo unificante del tutto
il lungo racconto autobiografico. Tanto più che, scri­
ve lui stesso, “rimase profondamente impresso nella
mente per tutta la vita” e che “non mi fu mai possi­
bile togliermi… dalla mente”.
La storia infine ci dice che le Memorie dell’Oratorio
e dunque anche il sogno, per espressa volontà di
don Bosco, dovevano essere riservate ai Salesiani
e non diventare di pubblico dominio, né prima né
dopo la sua morte. Ma i salesiani non hanno accolto
questa richiesta, pubblicandole molte volte.
Il punto di vista della psicologia
Gli psicologi non sono d’accordo sul valore da dare
(o non dare) ai sogni, ma sono comunque tutti del
parere che essi acquistano consistenza nel momento
in cui vengono narrati a qualcuno. Di conseguenza
si può affermare che si è di fronte ad una narra­
zione a due voci, quella del narratore e in qualche
modo quella dell’uditore; nel nostro caso don Bosco
ed i suoi interlocutori, i ragazzi o i salesiani.
Le moderne teorie psicologiche poi offrono vari
livelli interpretativi dell’universo immaginifico di
don Bosco, ma tutte concordano nel dire che l’im­
portante è ciò che il sognatore vuol comunicare al
suo uditorio in quel determinato momento. Infine
con tutta la buona volontà del sognatore di raccon­
tare fedelmente il sogno avuto, rimarrà sempre però
la differenza fra immagini, sensazioni, emozioni,
che costituiscono la materia onirica, e la condizione
puramente verbale della narrazione.
Il contesto
Sempre la storia ci dice anche che don Bosco trascor­
se una vita a Valdocco (1846-1888) alla presenza dello
“straordinario” e del “divino” e non temette di rendere
manifesta questa “presenza” di cui aveva percezione ai
suoi figli, ai suoi benefattori, allo stesso Papa.
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4.9 Page 39

▲torna in alto
Se ne resero conto direttamente i giovanissimi
collaboratori di Valdocco quando nel 1861 si im­
pegnarono individualmente e in gruppo a pren­
dere nota delle “doti grandi e luminose… dei fatti
straor­dinari… dei grandi disegni… di qualche cosa
di sovrannaturale”, che avevano quotidianamente
sotto gli occhi.
Se ne rese conto lo stesso papa Pio IX che lo invitò
due volte, nel 1858 e nel 1867, a porle per iscritto
quale incoraggiamento e norma ai figli della Con­
gregazione: “Il bene grandissimo che faranno certe cose
quando si verranno a sapere dai vostri figli, voi non
potete intenderlo pienamente”.
Don Bosco attese a lungo prima di scrivere. Lo
fece solo dopo che la Congregazione salesiana era
stata approvata da Roma (1870), come pure le sue
Costituzioni (1874) e nel momento in cui si stava­
no fondando le prime case salesiane all’estero, in
Francia e in Argentina (1875). Anche le Figlie di
Maria Ausiliatrice erano ormai in via di approva­
zione diocesana (1876).
Quasi sessantenne – si sentiva anziano e lo era
per l’epoca – don Bosco dovette porsi il problema
di dare una fondazione storico-spirituale alla sua
Congregazione. Lo risolse con il ricordarne le ori­
gini provvidenziali che la giustificavano. Che cosa
infatti poteva fare di meglio che “narrare” ai suoi
figli come la “Congregazione degli Oratori” nella
sua genesi, sviluppo, finalità e metodo fosse un’i­
stituzione voluta da Dio come strumento per la sal­
vezza della gioventù nei tempi nuovi?
Il testo delle Memorie
dell’Oratorio
Si mise dunque all’opera e redasse il testo delle
Memorie dell’Oratorio con tre precisi obiettivi: uno
pedagogico “Servirà di norma a superare le diffi­
coltà future, prendendo lezione dal passato”; uno
spirituale: “Servirà a far conoscere come Dio abbia
egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo”; uno
ludico: “Servirà ai miei figli di ameno trattenimen­
to, quando potranno leggere le cose cui prese parte
il loro padre”. Ne nac­
quero così, a giudizio
di un esperto pedago­
gista, P. Braido “una
storia dell’oratorio più
‘teologica’ e pedago­
gica che reale”, delle
“memorie del futuro”,
più che del passato,
un racconto in cui “la
parabola e il messag­
gio” vengono prima e
“al di sopra della sto­
ria”. Pure lo storico
Pietro Stella giudicò
le Memorie “una sorta
di poema religioso e pedagogico costruito sull’inte­
laiatura e l’idealizzazione di aneddoti autobiogra­
fici”. Dunque siamo in presenza di un documento
riflesso, riassuntivo e programmatico da leggersi
secondo criteri spirituali e pedagogici, esattamente
quelli per cui don Bosco l’ha scritto.
Il sogno
Ma che cosa Giovannino Bosco ha sognato quella
notte di 200 anni fa? Quali parole ricordò di ave­
re udito dal personaggio celeste e da sua madre?
Diciamolo subito: impossibile saperlo. Si possono
avanzare solo ipotesi, con la convinzione che alla
fine rimarranno sempre delle difficoltà perché si
dovrebbe distinguere fra la reale esperienza oniri­
ca avuta da Giovannino e la libera narrazione, fat­
ta a tavolino molti decenni dopo. Non solo, ma si
dovrebbe pure entrare nel merito della distinzione
fra storia, ricostruita con procedimenti scientifici e
rigorosi, racconto autobiografico per uditori interes­
sati, memoria che seleziona i fatti lontani nel tempo
soprattutto attraverso l’uso dei simboli, espediente
letterario o narrativo per orientare e stimolare l’at­
tenzione del lettore. Con tutto ciò, molto si può
ancora dire. Lo vedremo la prossima volta.
(segue il prossimo mese)
marzo 2024
39

4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di marzo preghiamo per la canonizzazione del Beato
Bronislao Markiewicz, sacerdote fondatore.
Preghiera
Onnipotente eterno Iddio
Bronislao Markiewicz (Pruchnik,
che nei tempi particolarmente duri e cruciali
Polonia, 13 luglio 1842 - Miejsce
susciti uomini ricolmi di spirito apostolico,
Piastowe, Polonia, 29 gennaio
1912), venne ordinato sacerdote
dell’arcidiocesi di Przemyśl il 15
settembre 1867. Dopo diciotto
anni di zelante e fruttuoso mini-
stero presbiterale, nel 1885 partì
per l’Italia ed entrò tra i Salesiani.
Il 27 marzo 1887 emise la profes-
sione religiosa nelle mani di don
Bosco. A seguito di alcune incom-
prensioni rientrò in diocesi, dove
i quali, come astri mostrano alle nazioni
la via che porta ad un futuro migliore,
fa’, te lo chiediamo umilmente,
che il tuo servo il Beato Bronislao Markiewicz
venga, al più presto, riconosciuto santo dalla Chiesa
a tua gloria e a salvezza delle anime,
specialmente degli orfani e dei bambini abbandonati.
Santissima Vergine, la cui grandezza e potenza,
quale Regina di Polonia,
il Beato Bronislao ha diffuso con tanto zelo e tanta efficacia,
gli fu affidato l’incarico di parroco
appoggia la nostra preghiera.
a Miejsce Piastowe. Oltre all’atti-
Amen.
vità parrocchiale ordinaria, si de-
dicò alla formazione dei giovani
poveri e orfani, dando origine a
due nuove Congregazioni religio-
se, che pose sotto la protezione di
san Michele Arcangelo. Fu beatifi-
cato il 19 giugno 2005.
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Martedì 16 gennaio 2024 presso la cappella della Fondazione
del Bocage a Chambéry ha avuto luogo la sessione di apertura
per la ricognizione canonica e il trattamento conserva-
tivo dei resti mortali del venerabile Camille Costa de
Beauregard (1841-1910), sacerdote diocesano.
Ringraziano
Desidero ringraziare san Dome-
nico Savio per la grazia fatta a
una mia nipote, che dopo due
gravidanze non portate a termine
è riuscita in questi giorni ad avere
una bellissima bambina di nome
Adele Margherita.
stagione di prurito e malesse-
re. Ebbene ho pregato tanto e
mamma Margherita mi ha esau-
dita! Ora non trepido più ad ogni
inizio d’estate. Grazie, grazie
Mamma Margherita!
Stefania Attilia - Nave (Brescia)
Da alcuni anni soffrivo nella
stagione calda di un fastidioso
disturbo in tutto il corpo, coper-
to da pustole rosse che mi pro-
curavano un fortissimo prurito
e che nemmeno il dermatologo,
interpellato più volte, riusciva a
debellare. Ho invocato Mamma
Margherita perché mi toglies-
se questo disturbo e all’inizio di
ogni estate trepidavo pensando
che avrei trascorso una nuova
Desidero ringraziare pubblica-
mente san Giovanni Bosco e
san Domenico Savio per averci
protetti ed assistiti in questi due
anni di pandemia proteggendoci
dal Covid nonostante che il rap-
porto di lavoro sia sempre stato
continuativo ed a contatto con
altre persone, inoltre di averci
protetti durante i viaggi effettua-
ti assistendoci.
Sandra Gremmo
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marzo 2024

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Luis Rosón
Don Luis Antonio Gallo
Morto a Roma, il 31 dicembre 2023, a 88 anni
Il 31 dicembre 2023 finiva il pel-
legrinaggio in questo mondo il
nostro fratello, professore e ami-
co don Luis Gallo. Era nato il 20
agosto 1935 a Sacanta, provincia
di Córdoba in Argenina, da José e
Rosa Ferrero. Dalla sua cara fami-
glia e del suo ambiente aveva ere-
ditato l’assiduità e l’instancabile
impegno che sempre ha posto
nell’assolvere il suo servizio. Un
vero culto del lavoro, ma fatto da
un cordiale rapporto con gli altri
che sempre lo ha caratterizzato e
abbiamo saputo apprezzare tutti
quanti noi che lo abbiamo fre-
quentato, allievi, colleghi, fratelli
e amici, oltre al coraggio e alla
fortezza cristiana nell’affrontare
le diverse prove della vita. Dopo
gli anni di aspirantato, noviziato,
studentato filosofico (Córdoba) e
teologico (Torino-Crocetta), ordi-
nato sacerdote nel 1963, è stato
destinato all’insegnamento della
filosofia (1963-1964) e della teo­
logia (1965-1971) a Córdoba e a
Valparaíso (Chile) (1973-1974).
Viene chiamato alla Facoltà te-
ologica dell’UPS-Roma, dove ha
conseguito il dottorato con un’ap-
prezzata tesi su il padre Marie-Do-
minique Chenu tanto apprezzata e
lodata dallo stesso Chenu e pubbli-
cata nel 1977.
Da quel 1976 ha svolto in maniera
competente, appassionata e gene-
rosa la sua missione di docente in
teologia attraverso numerosi corsi
e seminari di teologia sistematica
riguardanti il mistero di Dio, di Cri-
sto, della Chiesa, l’evangelizzazio-
ne in America Latina, con speciale
riferimento alla realtà dei giovani.
È stato profondamente amato e sti-
mato dai suoi studenti come pochi
altri professori all’UPS, ne è prova
il fatto che tanti lo abbiano scelto
come moderatore dei lavori di Bac-
calaureato, Licenza e Dottorato.
Sono state apprezzate la sua com-
petenza teologica, la sua didatti-
ca e un’invidiabile capacità di
relazione umana. È stato invitato
a tenere, durante interi semestri
e periodi estivi, corsi in diversi
centri salesiani (Cremisan, Gua-
dalajara, Lima, Quito, Asunción)
e Pontificia Università Urbaniana
e tanti contributi a convegni e se-
minari di studio.
Sono stati più di trenta anni di do-
cenza universitaria, oltre venti vo-
lumi da lui redatti personalmente
– molti tradotti in varie lingue
– e tanti articoli con speciale at-
tenzione alla vita delle comunità
cristiane, alla realtà sociale, cultu-
rale e cristiana del continente la-
tinoamericano, il continente della
speranza. Il suo filo rosso è sem-
pre stato il Dio di Gesù di Nazaret
e la Sua “passione per la vita”
degli uomini, particolarmente gli
ultimi, i preferiti di Dio. “La gloria
di Dio è l’uomo vivente”, sottoli-
neava con san Ireneo.
Da non trascurare, oltre alla sua
docenza, il suo ministero sale-
siano e sacerdotale fatto servizio
alla Facoltà, alle comunità di san
Domenico Savio e san Francesco
di Sales, come direttore. In que-
sta ultima ha passato i suoi ultimi
quindici anni della vita. Il suo zelo
sacerdotale le domeniche, la pre-
dica di tantissimi esercizi spiritua-
li, il fedele e generoso servizio alla
comunità di Priscilla, tanto amata
e delicata e fedelmente servita
per più di quarant’anni e che lo
hanno ricambiato con tanto af-
fetto e carità cristiana.
Da sottolineare ancora i più di cin-
quanta pellegrinaggi condotti e
guidati con grande competenza e
passione evangelica in Terra Santa.
Altro ambito di attenzione che Luis
Gallo ha portato nella riflessione
pastorale è stato l’attenzione al
“povero”, ai poveri del mondo,
come da buona esperienza della
teologia latinoamericana. Ha dun-
que sempre cercato di superare
l’orizzonte prettamente occiden-
tale di una civiltà del benessere,
del crogiolarsi nelle domande
esistenziali della ricerca del senso
(del “proprio” senso della vita), per
aprire all’attenzione per l’altro.
L‘aver camminato con coraggio
per strade inesplorate e l’aver ela-
borato una riflessione teologica e
pastorale, per tanti aspetti innova-
tiva, non è stato esente di contrasti
e penose incomprensioni anche
nella nostra università. Non è stato
un camminare facile né esente da
ostacoli, ma ha messo ancora più
in luce la delicata, tenace e tanto
praticata delicatezza, discrezione,
mitezza cristiane di un uomo, sale-
siano e sacerdote profondamente
evangelico. Tutto questo, dono di
Dio, coltivato da lui nella carità fat-
ta servizio in tutti i fronti che ab-
biamo esposto e sottolineato della
dura e dolorosa malattia che ha
saputo vivere con il Signore e con
la Madre Purissima e Ausiliatrice
con un grazie sempre nelle labbra
a quanti hanno avuto l’opportuni-
tà di rendergli qualche servizio, in
particolare le care sorelle dei Sacri
Cuore di Gesù e di Maria.
Come un ultimo regalo a tanta
gentilezza, passione e fedeltà a
Gesù ha potuto godere con la bea­
tificazione dell’ammirato e imita-
to cardinal Eduardo Pironio, al
quale tanto rassomigliava, nella
passione per il Regno, nell’amore
alla Chiesa e persino nel carattere.
Sei con il Signore tuo Gesù in Lui
vivi per sempre in pace, caro don
Luis, tanto amabile, tanto amato
e tanto presente nella vita e per la
Vita di tanti.
marzo 2024
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5.2 Page 42

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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Cia, Liz, Pio, Tri.
Parole di 5 lettere: Aurei, Email,
Enfil, Evasi, Ischi, Laser, Perni, Stone,
Tobia, Zebre.
Parole di 6 lettere: Indira, Elisir,
Ginger, Guaina, Navata, Soviet,
Umlaut .
Parole di 9 lettere: Sabbatico.
Parole di 10 lettere: Analcolica,
Vandalismo.
Parole di 11 lettere: Sciogliersi.
Parole di 14 lettere:
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso,
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le
? Claustrofobica.
Parole di 17 lettere:
Teleriscaldamento.
?
parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 19 lettere:
La soluzione nel prossimo numero.
Extraterritorialità.
UN CALICE PER IL MARTIRIO
Era il 1885 e don Bosco fece due sogni molto vividi che se da un lato potevano impressionare da un altro
potevano essere visti di buon auspicio. Nel primo, un gruppo di ragazzi andava incontro al Santo dicendo-
gli di averlo aspettato per lungo tempo e, nel secondo, due grandi calici si levavano al cielo riempiti uno di
sudore e l’altro di sangue. In quello stesso anno, Luigi, XXX, allora dodicenne nato a Oliva Gessi in prov.
di Pavia accettò di studiare nell’oratorio salesiano di Valdocco a Torino, alla condizione di non farsi prete.
Ma vuoi per l’atmosfera densa di ardore missionario e vuoi per il fascino di don Bosco, decise di prendere
i voti. Frequentò la facoltà di filosofia a Roma, a 22 anni fu ordinato sacerdote e l’anno dopo era direttore
dei novizi salesiani a Genzano di Roma. Ma la sua vera vocazione erano le missioni e nel 1906 partì per la
Cina e a Macao fu direttore spirituale della casa salesiana dove lavorò soprattutto in favore degli orfani.
Il sogno dei due calici prese improvvisamente significato quando, nel 1918, un gruppo di missionari salesiani prima di partire per Shiu-
Chow in Cina da Torino ricevette il dono dal Rettor Maggiore da consegnare al nostro Luigi, ormai diventato monsignore: il calice con il
Soluzione del numero precedente
quale erano stati consacrati i 50 anni del santuario di Maria Ausiliatrice. Questi, ricevuto il prezio-
so e simbolico dono, dichiarò: “Don Bosco vide che quando in Cina un calice si fosse riempito di
sangue, l’Opera salesiana si sarebbe diffusa in mezzo a questo popolo. Tu mi porti il calice visto
dal Padre: a me il riempirlo di sangue per l’adempimento della visione”. Nel 1930, il monsignore
e il giovane missionario Callisto Caravario partirono in barca per raggiungere la missione di Lin-
chow ma furono uccisi dai banditi. Venne beatificato nel 1983 e canonizzato, insieme con altri
martiri cinesi, il 1º ottobre 2000.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
CHIODI
C’ era una volta un ragazzo
dal carattere molto
difficile. Si accendeva
facilmente, era rissoso e
attaccabrighe.
Un giorno, suo padre gli
consegnò un sacchetto di chiodi,
invitandolo a piantare un chiodo
nella palizzata che recintava il
loro cortile tutte le volte che si
arrabbiava con qualcuno.
Il primo giorno, il ragazzo piantò
?
trentotto chiodi.
Con il passare del tempo, comprese
che era più facile controllare la sua
ira che piantare chiodi e, parecchie
settimane dopo, una sera, disse a
suo padre che quel giorno non si
era arrabbiato con nessuno.
Il padre gli disse: «È molto bello.
Adesso togli dalla palizzata un
chiodo per ogni giorno in cui non
ti arrabbi con nessuno».
Dopo un po’ di tempo, il ragazzo
poté dire a suo padre che aveva
tolto tutti i chiodi.
Il padre allora lo prese per mano,
lo condusse alla palizzata e gli
disse: «Figlio mio, questo è molto
bello, però guarda: la palizzata è
piena di buchi. Il legno non sarà
mai più come prima. Quando
dici qualcosa mentre sei in preda
all’ira, provochi nelle persone a
Gli esseri umani sono fragili e vulnerabili.
cui vuoi bene ferite simili a questi
buchi. E per quante volte tu chieda
scusa, le ferite rimangono».
Tutti portano un’etichetta che dice: «Trattare con cura,
maneggiare con cautela, merce delicata».
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5.4 Page 44

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