05-Maggio-2024

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
nel cuore dei salesiani
Maria
Ausiliatrice
da qui
al mondo
le case di don bosco
Mestre
linvitato
Don
Francesco
Preite
MAGGIO
2024

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Il MEDICO
non credente
U n importante medico venne
a visitare don Bosco. Dopo
alcune osservazioni di
carattere sociale, disse: “La gente
dice che lei può curare tutte le
malattie. È così?”. “Certo che no!”,
rispose il santo.
“Ma mi hanno detto che...”. L’uomo
istruito balbettò improvvisamente.
Frugando nelle tasche, tirò fuori un
piccolo quaderno. “Vede, ho anche i
nomi e il motivo per cui ognuno di
loro è stato curato”.
Don Bosco scrollò le spalle. “Mol-
te persone vengono qui a chiedere
favori per intercessione di Maria. Se
ottengono ciò che cercano, lo devono
alla Beata Vergine, non a me”.
“Ebbene, lasciate che Lei mi guari-
sca”, disse agitato il medico, battendo
il taccuino sul ginocchio ben vestito,
“e crederò anch’io a questi miracoli”.
“Qual è il suo disturbo?”.
“Sono epilettico”.
Le sue crisi, racconta don Bosco,
erano diventate così frequenti nell’ul-
timo anno che non poteva più uscire.
Disperato, sperava in un aiuto che
andasse oltre la medicina.
“Ebbene, faccia come fanno gli altri
che vengono qui”, disse don Bosco
con semplicità. “Lei vuole che la
Santa Vergine la guarisca. Allora si
inginocchi, preghi con me e si pre-
pari a purificare e rafforzare la sua
anima attraverso la confessione e la
Santa Comunione”.
Il medico fece una smorfia. “Sugge-
risca qualcos’altro… Non posso fare
nulla di tutto ciò”.
“Perché no?”
“Sarebbe disonesto. Sono un ma-
terialista, non credo in Dio o nella
Vergine Maria. Non credo nei
miracoli. Non credo nemmeno nella
preghiera”.
Per un po’ i due uomini rimasero in
silenzio. Poi don Bosco sorrise, come
solo lui sapeva fare, al suo visitatore.
“Lei non è del tutto privo di fede:
dopo tutto, è venuto qui sperando in
una guarigione”.
Mentre il santo gli sorrideva, qualco-
sa si risvegliò nel medico. Don Bosco
si inginocchiò e anche lui si inginoc-
chiò senza dire altro e si fece il segno
della croce. Pochi istanti dopo, iniziò
la sua confessione.
Dopo, dichiarò, provò una gioia che
non avrebbe mai creduto possibile.
Tornò più volte a ringraziare per la
sua guarigione spirituale.
Quanto all’epilessia, era semplice-
mente sparita.
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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
nel cuore dei salesiani
Maria
Ausiliatrice
da qui
al mondo
le case di don bosco
Mestre
linvitato
Don
Francesco
Preite
MAGGIO
2024
MAGGIO 2024
ANNO CXLVIII
NUMERO 5
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Mese di Maria, mese della tenerezza
(Immaculate/Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 NUOVI SALESIANI
Qui si fanno ancora Salesiani
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 L’INVITATO
Don Francesco Preite
16 LE CASE DI DON BOSCO
Mestre
20 NEL CUORE DEI SALESIANI
Da qui al mondo
24 INIZIATIVE
Jangany
28 I PRIMI SALESIANI
Giuseppe Buzzetti
32 FMA
Kunchada
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
Il mio posto nel mondo
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
12
20
32
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
MARIA AUSILIATRICE,
da qui al mondo
A mici, lettori del Bollettino Salesiano, ri-
cevete il mio affettuoso e cordiale saluto
in questo tempo di Pasqua. In un mondo
travagliato, scosso da guerre e non poca
violenza, continuiamo a dichiarare, annunciare e
proclamare che Gesù è il Signore, risorto dal Padre
e che vive. E abbiamo fortemente bisogno della
sua Presenza in cuori pronti ad accoglierlo.
Allo stesso tempo, ho potuto vedere il contenuto
del Bollettino di questo mese, sempre ricco e pieno
di vita salesiana, di cui sono grato a coloro che lo
realizzano. E mentre leggevo le pagine, prima di
scrivere il mio saluto, mi sono imbattuto nella pre-
sentazione di tanti luoghi salesiani nel mondo dove
è arrivata Maria Ausiliatrice.
Devo confessare che quando mi trovavo a Valdocco,
all’interno della magnifica Basilica di Maria Ausi-
liatrice, in questo luogo santo dove tutto parla del-
la presenza di Dio, della protezione materna della
Madre e di don Bosco, non riuscivo a immaginare
come si fosse avverato l’annuncio dell’Ausiliatrice
a don Bosco, dicendo che da qui,
da questo tempio mariano, la
sua gloria si sarebbe diffusa nel
mondo. E così è.
Nel servizio di questi
dieci anni come Ret-
tor Maggiore ho in-
contrato centinaia di
presenze salesiane nel
mondo dove la Madre
era presente. E ancora
una volta vorrei raccon-
tarvi la mia ultima espe-
rienza. È stato durante la mia ultima visita alle pre-
senze salesiane tra il popolo Xavante che ho potuto
“toccare con mano” la Provvidenza di Dio e il bene
che continua a essere fatto e che continuiamo a fare
tra tutti noi.
Ho potuto visitare diversi villaggi e città nello Sta-
to del Mato Grosso. Sono stato a San Marcos, al
villaggio di Fatima, a Sangrandouro, e intorno a
questi tre grandi centri ne abbiamo visitati altri, tra
cui il luogo dove è avvenuto il primo insediamen-
to con il popolo Xavante, un popolo che era ferito
dalle malattie e in pericolo di estinzione e che, gra-
zie all’aiuto di quei missionari, alle loro medicine
e a decine di anni di presenza affettuosa in mez-
zo a loro, è stato possibile raggiungere la realtà di
oggi con più di 23 000 membri del popolo Xavante.
Questa è la Provvidenza, l’annuncio del Vangelo e
allo stesso tempo il viaggio con un popolo e la sua
cultura, conservati oggi come mai prima.
Ho avuto l’opportunità di parlare con diverse au-
torità civili. Sono stato grato per tutto ciò che pos-
siamo fare insieme per il bene di questo popolo e
degli altri. E allo stesso tempo mi sono permesso
di ricordare con semplicità ma con onestà e legitti-
mo orgoglio che chi accompagna questo popolo da
130 anni, come ha fatto in questo caso la Chiesa
attraverso i figli e le figlie di don Bosco, è degno di
uno sguardo rispettoso, e di ascoltare la sua parola.
Abbiamo fatto tutto il possibile per unirci alle voci
che chiedono terra per questi coloni. La difesa del-
la loro terra e della fede vissuta con questi popoli
(in questo caso con i Boi-Bororo) è stata la causa
del martirio del salesiano Rodolfo Lukembein e
dell’indiano Simao a Meruri.
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Percorrendo centinaia di chilometri
di strada, sono stato felice di vede-
re tanti cartelli che annunciavano:
“Territorio de Reserva Indígena”
(Territorio di Riserva Indigena). E
ho pensato che questa fosse la mi-
gliore garanzia di pace e prosperità
per questo popolo.
E cosa c’entra quello che sto de-
scrivendo con María Auxiliado-
ra? Semplicemente tutto, perché è
difficile immaginare un secolo di
presenza salesiana (sdb e fma) tra
gli indigeni Xavantes e non aver
trasmesso l’amore per la madre di
nostro Signore, e madre nostra.
L’Ausiliatrice nella giungla
A San Marcos, tutti o quasi gli abitanti del vil-
laggio, insieme ai nostri ospiti, hanno concluso il
giorno del nostro arrivo con una processione e la
recita del santo rosario. L’immagine della Vergine
era illuminata nel cuore della notte in mezzo alla
giungla. Anziani, adulti, giovani e molte madri che
portavano i bambini addormentati in una cesta sul-
le spalle erano in pellegrinaggio. Abbiamo fatto di-
verse soste in diversi quartieri del villaggio. Senza
dubbio la Madre in quel momento, e senza dubbio
in molti altri, stava attraversando il villaggio di San
Marcos e benedicendo i suoi figli e figlie indigeni.
Non posso sapere se don Bosco abbia sognato que-
sta scena della Vergine in mezzo al villaggio degli
Xavante. Ma non c’è dubbio che nel suo cuore c’era
questo desiderio, con questo popolo e con molti al-
tri, sia in Patagonia sia in Amazzonia sia sul fiume
Paraguay...
E quel desiderio e quel sogno missionario si sta
realizzando in Amazzonia da 130 anni. Come ho
scritto nel commento alla Strenna, la dimensio-
ne femminile-materna-mariana è forse una delle
dimensioni più impegnative del sogno di don
Bosco. È Gesù stesso che gli dà una maestra, che
è sua Madre, e che «il suo nome deve chiederlo a
Lei»; Giovannino deve lavorare “con i suoi figli”, e
sarà “Lei” che si occuperà della continuità del so-
gno nella vita, che lo prenderà per mano fino alla
fine dei suoi giorni, fino al momento in cui capirà
veramente tutto.
C’è un’enorme intenzionalità nel voler dire che, nel
carisma salesiano a favore dei ragazzi più poveri,
deprivati e privi di affetti, la dimensione del trattare
con «dolcezza», con mitezza e carità, così come la
dimensione «mariana», sono elementi imprescindibili
per chi vuole vivere questo carisma. Senza Maria
di Nazareth parleremmo di un altro carisma, non
del carisma salesiano, né dei figli e delle figlie di
Don Bosco.
In questa festa di Maria Ausiliatrice, il 24 maggio,
in momenti diversi, Maria Ausiliatrice sarà presen-
te nei cuori dei suoi figli e delle sue figlie in tutto
il mondo, sia a Taiwan e a Timor Est, sia in India,
sia a Nairobi (Kenya), sia a Valdocco, sia in Amaz-
zonia e nel piccolo villaggio di San Marcos, che
non è nulla per il mondo ma è un mondo intero per
questo popolo che ha conosciuto l’Ausiliatrice.
Buon mese di Maria. Buona festa dell’Ausiliatrice a
tutti, da Valdocco al mondo intero.
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NUOVI SALESIANI
Antonio Labanca di Missioni Don Bosco
Qui si fanno ancora
SALESIANI
Oratori, scuole, parrocchie…
i giovani consacrati salesiani
(nella quasi totalità in precedenza
“utenti” di queste strutture)
si formano per essere i futuri
responsabili di quelle opere.
Respirata l’aria del sistema
preventivo e avendolo visto
applicato su di loro, se ne fanno
portatori consapevoli e propositivi.
Ogni struttura umana vive se sa creare in
se stessa i germi della continuità. Don
Bosco se ne rese conto presto, e sotto-
pose ai suoi “animatori” di Valdocco il
progetto di diventare congregazione e di assicurare
così il futuro alle intuizioni del suo metodo educa-
tivo. “Al sogno”, diciamo meglio quest’anno.
Imparare l’arte dello stare insieme, di creare curio-
sità nei ragazzi, di praticare uno sport, ma anche
di scrivere pièce teatrali o spartiti musicali, di saper
usare l’intelligenza per le arti della tipografia, del-
la calzoleria, della meccanica… un bravo salesiano
nel suo percorso formativo mette un suo particolare
assortimento di studi e di esperienze per approdare
al servizio con le buone premesse di successo. C’è
chi è più tagliato per stare a tempo pieno sui campi
di calcio e chi per suonare l’organo in chiesa, chi
per insegnare materie tecniche e chi per scrivere li-
bri e giornali: a costruire la qualità del servizio è il
lungo percorso spirituale che sono invitati a fare i
futuri coadiutori e sacerdoti.
Lezioni in classe e rosari nei cortili, ritiri e settima-
ne di preghiera. Anche in questo caso, il dosaggio
perfetto del tempo da dedicare ai diversi momenti
è misurato sulla persona e contestualmente sulle
comunità in cui viene a trovarsi. Ciò che assicura
che un salesiano sia un buon direttore o un buon
parroco è la preparazione teologica che il seminario
gli assicura, dal momento che le sfide che si troverà
davanti sono sì quelle dell’amministrazione ordina-
ria dei servizi ma anche le domande profonde che
emergono dalle società in cui si troverà immerso.
“Società” al plurale poiché il trasferirsi da un’ope-
ra all’altra, e più ancora dal Paese di origine a una
terra di missione, lo mette a confronto con pensieri
e costumi differenti dentro ai quali deve riuscire a
far emergere la consapevolezza della presenza di un
Dio amorevole.
Dunque, a mano a mano che sale l’asticella della
sfida culturale, deve crescere lo slancio che lo stu-
dio e la ricerca imprimono per superarlo. Da qui
l’importanza degli studentati teologici dove speri-
mentare, con la guida di maestri, la relazione della
vita con la Parola di Dio, delle scienze umane con
la rivelazione dell’Alleanza.
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Dopo che don Bosco si era “appoggiato” alle fa-
coltà teologiche delle Diocesi per garantire que-
sta preparazione, i suoi successori hanno dovuto
e potuto pensare “a case apposite per la formazio-
ne sacerdotale dei salesiani”, come raccomandò il
Capitolo Generale a inizio del xx secolo. Così nel
1904 nacquero in Italia gli studentati teologici di
Foglizzo Canavese (Piemonte) e di San Gregorio
di Catania, in Europa quelli di Grand Bigard (Bel-
gio) e di Campello (Spagna), nelle Americhe quello
di Manga (Uruguay). Don Filippo Rinaldi, Rettor
Maggiore, portò a Torino lo studentato di Fogliz-
zo, scegliendo nel quartiere Crocetta un palazzo
che nel 1923 accolse 119 giovani seminaristi prove-
nienti da diverse ispettorie, il fior fiore dei salesia-
ni di: Argentina, Belgio, Brasile, Cile, Colombia,
Inghilterra, Messico, Polonia, Jugoslavia, Spagna,
Germania, Ungheria e Uruguay. “A Torino vi ho
preparato una reggia” promette.
Le salde radici
A dirigere oggi la “Crocetta” è don Marek A.
Chrzan; ci accoglie mostrando il busto di don Bo-
sco al centro della hall di ingresso. È uno spazio
importante questo, sotto tanti profili: qui è nata la
scuola di teologia che, con il rm don Pietro Rical-
done, acquisì l’autorevolezza per convincere papa
Pio XI a erigerla quale “Pontificia Facoltà teolo-
gica” nel 1931; nel 1940 raggiunse poi lo status di
Ateneo (oggi la sede centrale è a Roma, con il titolo
di “Università Pontificia Salesiana”).
A Torino si sono formate figure importanti della
storia e dell’attualità salesiana: Juan E. Vecchi fu
studente a fianco di centinaia di compagni pro-
venienti da vari angoli del mondo, eletto Rettor
Maggiore nel 1996. Anche don Stefano Martoglio,
vicario dell’attuale rm, è stato studente tra queste
mura. L’elenco che ci fa leggere don Chrzan è fitto
di vescovi e arcivescovi, ci limitiamo qui a citare
quelli che poi sono stati creati cardinali: Raúl Sil-
va Henriquez (Cile), Arturo Rivera y Damas (San
Salvador), Joseph Zen Ze-kiun (Hong Kong), Raf-
faele Farina (Vaticano).
Più dei nomi blasonati tuttavia – ci fa capire il di-
rettore – è importante segnalare l’ampiezza del ser-
vizio che “la Crocetta” sta facendo ancora oggi per
dare valore alla schiera di giovani salesiani che in
tutto il mondo costituiscono il presente e il futuro
della Congregazione.
“Gli ispettori di tutto il mondo lo considerano un
centro formativo di qualità che in più ha il privilegio
di trovarsi nel pieno del clima piemontese”. Ci spie-
ga che per comprendere la storia di don Bosco è ne-
cessario portare a conoscere i luoghi in cui egli visse:
ad esempio per interpretare l’importanza del vino
nell’alimentazione e nella convivialità, si deve per-
“Quest’anno
sono presenti
44 studenti di 20
nazionalità diverse.
Sono scelti dai
rispettivi ispettori
per venire qui
a formarsi”.
È un investimento
anche economico,
considerando
i 3 anni di
permanenza
per completare
il piano degli esami
da sostenere
per raggiungere
il baccalaureato.
Ci sono benefattori
che li sostengono
e vere e proprie
“borse di studio”
come quelle
di Missioni
Don Bosco.
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NUOVI SALESIANI
Il tema
missionario
rimane
come sfondo
dell’opera
della “Crocetta”.
Vengono qui
giovani che
torneranno
nelle loro terre
di origine con
un bagaglio
predisposto
per essere
condiviso nei
seminari locali.
cepire l’idea di che cosa significasse per un Astigia-
no dell’Ottocento proporre anche a dei ragazzi un
buon bicchiere di Barbera. “Io stesso” confida don
Chrzan “ho compreso meglio le ‘Memorie biogra-
fiche’ trovando qui intorno le tracce della normalità
della vita rurale e di quella cittadina che avevo solo
sentito descrivere”. Non è solo questione di preci-
sione storica: è che il Santo dei giovani – espunto
dal contesto in cui si è mosso – non riuscirebbe a
essere raccontato e apprezzato completamente. Sen-
za vedere da vicino le piazze, i cortili, le chiese che
frequentava, molti riferimenti importanti per con-
testualizzare un episodio o una raccomandazione
di don Bosco non possono corrispondere a nessuna
immagine che un ventenne di oggi possa avere pre-
sente, soprattutto se proviene da altri continenti.
L’internazionalità, in continuità con le origini, co-
stituisce il segno distintivo di questa sede di studio.
“Quest’anno sono presenti 44 studenti di 20 na-
zionalità diverse. Sono scelti dai rispettivi ispettori
per venire qui a formarsi”. È un investimento anche
economico, considerando i 3 anni di permanenza
per completare il piano degli esami da sostenere per
raggiungere il baccalaureato. Ci sono benefattori
che li sostengono e vere e proprie “borse di studio”
come quelle di Missioni Don Bosco.
La “Crocetta” è cartina al tornasole che misura l’e-
stensione e la consistenza geografica della presen-
za salesiana, se si escludono gli altri poli formativi
presenti in Nord e Sud America, in Slovenia o in
Australia, attrattivi per le rispettive macroregioni.
Torino e Roma, tuttavia, mantengono la peculiari-
tà di offrire un servizio universale alla congregazio-
ne, il supporto alle ispettorie più recenti non ancora
strutturate in tutti i settori. In definitiva, rimango-
no centri formativi per le situazioni che possiamo
considerare complessivamente “di frontiera”.
Il tema missionario rimane come sfondo dell’opera
della “Crocetta”. Vengono qui giovani che torne-
ranno nelle loro terre di origine con un bagaglio
predisposto per essere condiviso nei seminari lo-
cali; ci sono anche quelli che hanno ricevuto un
mandato missionario in terre di nuova espansione,
o di fresca ricostituzione, della rete salesiana. Il di-
rettore spiega che ormai l’Europa è da considerarsi
terra di missione: “C’è chi proviene dal Guatemala
per andare in Bulgaria; chi dal Burundi e fa parte
dell’ispettoria della Slovacchia con residenza nella
Jacuzia; chi è missionario in centro Italia e proviene
dall’India. Inoltre, c’è chi proviene da nazioni in
guerra fra loro, come i tre arrivati da Bielorussia,
Russia e Ucraina, che sperimentano una coesisten-
za possibile che darà qualche effetto verso i rispet-
tivi popoli”.
Una rete di esperienze
Da buon educatore, don Chrzan osserva che per
alcuni di loro si presentano gli ordinari problemi
di impatto con la società occidentale: “Molti sono
per la prima volta in Europa e trovano il mondo
capovolto sul piano delle possibilità economiche e
dello stile di relazione. I confratelli che hanno già
vissuto tale choc li aiutano a fare i conti con questo.
In questi casi suggeriamo di arrivare nell’estate per
affrontare con più distensione la novità, mentre ini-
ziano a prendere confidenza con la lingua italiana
che è quella usata nell’insegnamento delle diverse
materie”. Dopo 2-3 mesi sono in grado di affronta-
re le lezioni e di prepararsi agli esami.
Da questo deriva un interessante confronto dell’ap-
proccio spirituale a seconda della provenienza. “C’è
sempre un’attenzione all’interculturalità” sottolinea
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il direttore, “certo partiamo dai testi della teologia
canonica, ma poi ognuno è portato a fare una sin-
tesi propria con riferimento alla propria teologia,
africana o asiatica ad esempio. Cerchiamo di capire
le differenze fra noi, e questo porta a un arricchi-
mento reciproco”. Così anche i 14 Italiani attual-
mente presenti risultano molto stimolati a conside-
rare punti di vista differenti e a interrogarsi sulla
inculturazione del Vangelo nel nostro Paese.
Un modo di incontro è dato dalla condivisione del
servizio che a fine settimana 38 studenti rendono
nelle parrocchie, quelle collegate all’Istituto Sa-
lesiano Rebaudengo di Torino e quelle della zona
pastorale della vicina cittadina di Gassino, men-
tre 6 restano nel complesso della “Crocetta” dove
all’oratorio trovano 100 fra ragazzi e ragazze, 160
aderenti allo scautismo e 200 praticanti di diver-
se discipline sportive. Ritrovandosi nel concreto
della relazione con i più giovani, tutti confrontano
gli approcci, imparano le tecniche, perfezionano lo
“slang” dei giovani. Insomma, i 44 sono una risor-
sa preziosa per l’animazione, mentre crescono nella
loro vocazione.
E quando tornano nelle ispettorie di provenienza?
“Certamente si pone la necessità di un riadatta-
mento alle condizioni di vita e ai modelli pasto-
rali di origine” commenta don Chrzan, “ci sono
stili di comunità caratterizzati dalle culture locali,
o comunque vissuti in modo diverso, soprattutto
in Asia e in Africa. Li prepariamo ad affrontare
la fatica di una seconda inculturazione, quella del
rientro”.
Un MESTIERE per il mio FUTURO
In Pakistan molti dei ragazzi che si rivolgono ai Salesiani per la for-
mazione professionale provengono da famiglie numerose e monored-
dito e hanno bisogno di aiuto per accedere a un’istruzione di qualità.
Con il progetto Un mestiere per il mio futuro sono stati raccolti
6 430 000 euro, grazie ai quali 50 studenti del Don Bosco Technical
and Youth Centre di Lahore, tra i 17 e 24 anni, hanno ricevuto una
borsa di studio annuale che ha coperto completamente il costo della
loro formazione, compresi anche l’ospitalità nel convitto, l’abbiglia-
mento e il materiale scolastico. Per altri 6 studenti, invece, è stata
prevista una forte riduzione sulle tasse scolastiche.
La scuola offre vari
corsi professionali, tra
cui quelli per elettrici-
sti, saldatori, idrauli-
ci, fabbri, falegnami e
operatori PC.
Ringraziamo tutti i sostenitori della
Fondazione DON BOSCO NEL MONDO che hanno
preso a cuore il futuro dei ragazzi pakistani.
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1.10 Page 10

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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
MADRI
Sguardo su un capolavoro
della creazione.
S i vive insieme per poco
tempo. Tutto il resto
è ricordo e nostalgia:
«Ah, se c’era la mamma!»
Tutti quegli anni
La nascita di Tommy, un bimbo
bello e sano, fu un avvenimento da
festeggiare. La mamma aveva già
due figlie grandi che frequentava-
no le superiori.
Anzi, man mano che il tempo pas-
sava, sembrava che ogni giorno ci
fosse un motivo per festeggiare il prezioso dono che
era arrivato con la nascita di Tommy. Era un bam-
bino dolce, giudizioso, amava divertirsi ed era un
piacere averlo vicino.
Un giorno, quando Tommy aveva circa cinque
anni, la mamma e lui stavano andando in auto al
centro commerciale. Come succede di solito con i
bambini, all’improvviso Tommy chiese: «Mamma,
quanti anni avevi quando sono nato?».
«Trentasei, Tommy. Perché?» gli chiese la mamma,
cercando di capire che cosa avesse in mente.
«Che peccato!» esclamò Tommy.
«Cosa vuoi dire?» domandò la mamma, alquanto
sorpresa.
Guardandola con uno sguardo pieno d’amore Tom-
my le disse: «Pensa a tutti quegli anni che abbiamo
passato senza conoscerci».
Solo loro hanno la saggezza del cuore
shutterstock.com
«Tu non mi vuoi bene»
Quante volte ve lo siete sentito dire dai vostri figli
in tono accusatore? E quante volte avete resistito
alla tentazione di spiegar loro quanto li amavate?
Un giorno, quando i miei figli saranno abbastanza
grandi da capire la logica che spinge una madre a
comportarsi in un certo modo, glielo dirò.
Ti ho amato abbastanza da chiederti continuamen-
te dove andavi, con chi e a che ora saresti tornato.
Ti ho amato abbastanza da insistere perché ti com-
prassi una bicicletta con i tuoi soldi, anche se noi
potevamo permettercela e tu no.
Ti ho amato abbastanza da star zitta e lasciare che
scoprissi da solo chi era l’amico che ti eri scelto.
Ti ho amato abbastanza da costringerti a restituire
al proprietario del negozio la cioccolata già morsi-
cata e confessare: «L’ho rubata».
Ti ho amato abbastanza da restar lì come un gen-
darme per più di due ore a guardarti pulire la stan-
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2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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za, un lavoro che io avrei potuto fare in un
quarto d’ora.
Ti ho amato abbastanza da dire: «Sì, vai
pure al Luna Park. Non importa se è il
giorno della mamma».
Ti ho amato abbastanza da lasciare che
vedessi la rabbia, la delusione, il disgusto
e le lacrime nei miei occhi.
Ti ho amato abbastanza da non scusarmi
mai con gli altri per le tue mancanze o
cattive maniere.
Ti ho amato abbastanza da ammettere di
aver avuto torto e chiederti scusa.
Ti ho amato abbastanza da ignorare quel-
lo che dicevano o facevano «le altre ma-
dri».
Ti ho amato abbastanza da lasciare che
inciampassi, cadessi, ti facessi male, sba-
gliassi.
Ti ho amato abbastanza da lasciare che
ti prendessi le responsabilità delle tue
azioni, a sei, come a dieci, o a sedici
anni.
Ti ho amato abbastanza da sospettare
che avevi mentito sulla presenza dei ge-
nitori del tuo amico a quella festa,
e lasciar correre... dopo aver sco-
perto che non mi sbagliavo.
Ti ho amato abbastanza da
metterti a terra, lasciarti andare
la mano, non rispondere alle tue
suppliche... perché imparassi a
stare in piedi da solo.
Ti ho amato abbastanza da ac-
cettarti per quello che sei, non per
quello che avrei voluto che fossi.
Ma soprattutto ti ho amato abbastanza
da continuare a dire «No» anche sa-
pendo che mi avresti odiato.
È stata questa la decisione più dif-
ficile.
Una mamma
ANCHE I CAMPIONI HANNO UNA MAMMA
Sarà il nuovo Pelè?
Ha segnato all’Inghilterra il primo goal con la sua nazionale, il Brasile, a 17 anni,
proprio come Pelé. Endrick è il futuro del calcio mondiale, e non l’hanno scoperto
certo gli spettatori di Wembley sabato. Un anno e mezzo fa il Real Madrid, per
bruciare la concorrenza, ha speso 72 milioni di euro. In estate l’attaccante compirà
18 anni (il 21 luglio) e lascerà il Sudamerica per volare in Spagna, dove l’aspetta-
no Ancelotti, Vinicius, Rodrygo e, molto probabilmente, Mbappé. Dal Palmeiras al
Bernabeu, un sogno che si avvera. Prima di lasciare casa, però, Endrick ha deciso di
scrivere una lettera al fratellino Noah, a cui è legatissimo.
I ricordi sono di un’infanzia povera ma, tutto sommato, felice: “Non vivevamo in
un appartamento elegante come adesso. Non avevamo il frigorifero pieno degli
yogurt che ami così tanto.
Vivevamo in un posto chiamato Vila Guaíra e la nostra vita era molto diversa. Ne-
gli anni a venire sentirai tutto della nostra vita dagli altri e diranno che era tutto
dolore e miseria.
Ma la verità è che ho vissuto un’infanzia meravigliosa, grazie a Dio e grazie a tutto
ciò che mamma e papà hanno sacrificato. E grazie al calcio, ovviamente”.
I momenti duri non sono mancati nella vita di Endrick. “Quando crescerai, ascolte-
rai questa storia sulla “conversazione sul divano”. Ne parlano già in Brasile, ma la
maggior parte della gente sbaglia. Dicono che eravamo poveri, che non avevamo
cibo, ma non è vero. Non conoscono la mamma, lo sai?
Dice sempre alla gente: “Sono troppo donna per lasciare che i miei figli re-
stino senza cibo”.
La verità è che quel giorno ho visto papà piangere. Quando avevo 10 anni,
penso che sia stata la prima volta nella mia vita che ho capito che la nostra
situazione era difficile”.
Endrick racconta il trasferimento all’accademia del Palmeiras, a
13 anni, e di sua madre che l’ha voluto seguire a ogni costo.
“Ha lasciato la sua vita a casa per sostenere il mio so-
gno a San Paolo. Il club aveva spazio solo per me,
ma lei ha detto che non potevo andare senza
di lei. Papà è rimasto a lavorare e a mandar-
ci i soldi, e lei si è trasferita da me in una
casetta insieme ad alcuni miei compagni di
squadra. Tutti sotto lo stesso tetto.
Ma quando andavamo ad allenarci, non
aveva nessuno con cui parlare. Non avevamo
la tv o Internet in casa, quindi portava la Bib-
bia al parco e parlava con Dio da sola. Tutto
quello che aveva in quel posto era una sedia.
Ci metteva sopra la borsa e, quando andavamo
a letto, dormiva su un materassino steso per terra. So
che è difficile per te immaginare la mamma che dorme
sul pavimento, ma questa è la verità. Questo è realmen-
te accaduto”.
A.RICARDO shutterstock.com
maggio 2024
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2.2 Page 12

▲torna in alto
L’INVITATO
Lorenzo Cipolla e Cia Parat
Don Francesco Preite
«NON LI LASCIAMO SOLI»
Al raggiungimento della maggior età i ragazzi ospiti delle
comunità per minori si trovano a doversela cavare da soli.
Ma al loro fianco c’è anche l’associazione Salesiani per il sociale,
ispirata a don Bosco, che raduna organizzazioni di promozione
sociale, volontariato, cooperative, enti ecclesiastici, e propone a
questi giovani percorsi di inserimento professionale e lavorativo.
Il presidente don Francesco Preite.
FRANCESCO PREITE
Laureato in Scienze Politiche, ha coordinato diversi progetti socio-educativi territoriali a Foggia, Brindisi, Ca-
serta. Dal 2010 è stato a Bari: Incaricato dell’Oratorio (2010-2021), Coordinatore della Pastorale Giovanile sa-
lesiana in Puglia (2012-2015), Direttore dell’Istituto salesiano Redentore (2015-2021) e Direttore generale del
CNOS-FAP Puglia (2017-2021), operando in un contesto di forte povertà educativa e dando vita ad un modello
innovativo di welfare e sviluppo territoriale attraverso la valorizzazione del protagonismo giovanile, della for-
mazione professionale e dei progetti educativi in collaborazione con ETS, scuole ed Istituzioni del territorio.
Dal 2021 è Presidente nazionale di Salesiani per il sociale, la rete sociale salesiana del Terzo Settore, compren-
dente oltre 100 associazioni ed ETS, ispirate a don Bosco ed al suo sistema educativo preventivo ed impegnate
nella tutela dei minori, nell’inserimento sociale e lavorativo dei giovani, nel servizio civile universale, nell’acco-
glienza ed integrazione dei migranti e nella formazione degli educatori ed animatori sociali. Coordina le opere
ed i servizi sociali salesiani in Italia ed è membro del Comitato di Ascolto di Fondazione con i Bambini, del
Comitato Scientifico Save the Children “Non è un gioco. Indagine sul lavoro minorile in Italia 2023”. È membro
supplente del Consiglio Nazionale Terzo Settore promosso dal Ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro.
Si può autopresentare?
Sono nato a Potenza, 47 anni fa.
Le estati da piccolo le trascorrevo insieme con i miei
genitori, mio fratello Antonio, amici, tra tornei
di calcio sotto casa, il mare e le feste patronali di
due ridenti cittadine al confine tra la Basilicata e la
Campania che si affacciano sulla Valle dell’Ofanto:
Pescopagano e Sant’Andrea di Conza. Qui viveva-
no i miei nonni paterni e materni, forti di quel senso
di famiglia e di tenacia che nemmeno il terremoto
degli anni 80 era riuscito ad abbattere. Appassiona-
to della storia dei briganti lucani per quel senso di
giustizia sociale e di dignità che accompagna e ca-
ratterizza i lucani e la Terra lucana, ho frequentato
il Liceo Scientifico “G. Galilei” di Potenza, vivendo
la vitalità e la spensieratezza degli anni 90 con gli
amici tra sport e scampagnate in bici presso la mon-
tagna Sellata ma anche le ferite della Città come la
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maggio 2024

2.3 Page 13

▲torna in alto
scomparsa di Elisa Claps. A 15 anni fui partico-
larmente colpito dalla Strage mafiosa di Capaci e
Via d’Amelio. Ricordo che con la professoressa di
Italiano al Liceo, ne parlammo insieme ai compa-
gni di classe per diversi giorni. Eravamo adolescenti
scioccati dall’evento ma orgogliosamente ribelli alla
violenza mafiosa e novelli paladini di giustizia.
Com’è nata la sua vocazione?
La mia vocazione nasce in Oratorio. Abitavo a 300
metri dall’Opera Salesiana San Giovanni Bosco di
Potenza, ove ho frequentato l’Oratorio salesiano.
Dopo i cammini di inazione cristiana mi allonta-
nai dall’Oratorio ma tornai più tardi per il calcio.
Infatti giocavo nella pgs don Bosco dell’Oratorio
con grandi soddisfazioni. Durante un allenamento
di calcio, un giovane animatore del tempo, Stefano
Lorusso, mi presentò all’Incaricato dell’Oratorio,
don Pino Ruppi, per propormi come preanimatore
del gruppo preadolescenti. Così iniziai a frequenta-
re l’Oratorio anche con la partecipazione al gruppo
formativo Biennio, i cui animatori erano Giuliana
Luongo (oggi Figlia di Maria Ausiliatrice e direttri-
ce a Reggio Calabria) e Valerio Petrunti, salesiano
Cooperatore di Potenza. Ho scoperto che cosa si-
gnifica il servizio educativo per i più piccoli attra-
verso la formazione per animatori ed animando il
gruppo preadolescenti e coordinando gli animatori
del gruppo giochi durante la “Savio Estate”. L’Ora-
torio è stato il luogo vocazionale: un ambiente bello,
ricco di proposte e di giovani, ben curato ed accom-
pagnato da don Pino Ruppi. L’Oratorio di Potenza
tra gli anni 1990 e 1996 era una fucina di idee, pro-
poste, attività, gruppi, laboratori educativi... che mi
ha coinvolto così tanto da pensare alla scelta voca-
zionale salesiana. La testimonianza del servizio del-
la Comunità educativa di Potenza credo che abbia
giocato un ruolo fondamentale per il discernimento
della scelta vocazionale. La preghiera e la figura di
Gesù Cristo hanno fatto il resto... con il suo mes-
saggio di amore rivoluzionario, di passione fino alla
fine, di speranza oltre ogni sofferenza e morte.
Perché proprio salesiano?
La missione salesiana è troppo affascinante per re-
sisterle. Non potrei essere prete se non prete sale-
siano per la storia di don Bosco ed il carattere edu-
cativo e di attenzione ai giovani più poveri proprio
della missione salesiana. La conferma l’ho ricevuta
più volte durante il tirocinio. A Brindisi, ricordo
che un ragazzo era entrato in Oratorio con un col-
tello a serramanico. Non aveva buone intenzioni.
Lo conoscevo bene, andai a parlagli con calma rac-
contandogli la storia di Michele Magone. Scoppiò
in lacrime e mi consegnò il coltello. Avevano da
poco arrestato suo padre per spaccio. Lo abbracciai
e capii la grandezza della vocazione salesiana.
Qual è la sua soddisfazione più grande?
Dio è stato buono con me, perché mi permette di
vedere cose realizzate che pensavo impossibili. È
stato così con tanti ragazzi che ho incontrato per
strada in grave difficoltà ed ora hanno messo su fa-
miglia e trovato un lavoro. Ed è così ora, perché con
i progetti che sosteniamo con Salesiani per il sociale
riusciamo a strappare ragazzi e ragazze dalla strada
ed a restituire dignità e speranza attraverso la cura
educativa e l’inserimento sociale e lavorativo.
Quali sono le difficoltà del suo lavoro?
Le difficoltà sono diverse su più fronti, ma non
mi spaventano. Certamente tenere insieme l’Ita-
lia salesiana anche nel campo sociale è una bella
Don Francesco
all’oratorio.
maggio 2024
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2.4 Page 14

▲torna in alto
L’INVITATO
impresa. Ma devo dire che le difficoltà aiutano a
comprendere la grandezza della missione salesiana
che presenta diversi approcci alla questione sociale
a seconda dei territori e dei bisogni dei giovani.
«La missione
salesiana
è troppo
affascinante
per resisterle.
Non potrei
essere prete
se non prete
salesiano per
la storia di
don Bosco ed
il carattere
educativo e
di attenzione
ai giovani più
poveri proprio
della missione
salesiana».
Quanti sono i minori che ospitate
nella vostra rete?
“In media, ogni anno accogliamo oltre 1300 ra-
gazzi in difficoltà: circa 300 ragazzi e ragazze nel-
le strutture residenziali, di cui il 25% in procinto
di compiere 18 anni; e circa mille ragazzi e ragazze
in quelle semiresidenziali, stessa percentuale per ‘i
quasi maggiorenni’. Questi numeri fotografano
la situazione attuale, ma sono soggetti a cambia-
mento perché i flussi in entrata e in uscita dalle
strutture sono mutevoli e dipendono da molteplici
fattori non sempre prevedibili. Di questo nume-
ro complessivo, circa un quarto è rappresentato da
minori o neo maggiorenni stranieri non accompa-
gnati”.
Com’è stata la situazione nelle comunità
per minori con il Covid nel post-pandemia?
“Questi ultimi anni sono stati particolarmente dif-
ficili per i più giovani. Noi lavoriamo con e per loro
da decenni, e dalla pandemia in poi abbiamo notato
un aumento del disagio, delle difficoltà che inve-
stono i ragazzi in molti aspetti della loro vita: la-
vorativo, relazionale, psicologico. Oggi più che mai
hanno bisogno che stiamo loro accanto, aiutandoli
a costruire la propria strada”.
Come cambia la condizione dei giovani
nelle comunità per minori quando
diventano maggiorenni?
“I ragazzi che al raggiungimento della maggior età
escono dai sistemi di tutela per minori, in ingle-
se care leavers, devono aggiungere il peso di dover
essere totalmente autonomi alla già difficile situa-
zione che i giovani stanno vivendo in questo perio-
do. Secondo il rapporto Istat sul Benessere equo e
sostenibile, infatti, negli ultimi anni i giovani tra i
14 e i 24 anni hanno visto peggiorare il 43% degli
indicatori considerati. Autonomia per questi ragaz-
zi significa in primo luogo avere un lavoro, che non
è scontato in un Paese in cui la disoccupazione gio-
vanile è al 20,1% (seppur in miglioramento rispetto
al passato) e il fenomeno dei Neet (giovani che non
studiano e non lavorano) registra numeri che sono
tra i più alti in tutta Europa”.
Come rendere autonomi i care leavers?
“Un proverbio africano dice che per educare un
bambino ci vuole un villaggio. Per rendere autono-
mi i care leavers c’è bisogno di una rete fatta di per-
sone, associazioni, istituzioni, imprese che mettano
la persona del giovane più fragile al centro della
loro azione. Abbiamo provato a fare questo con il
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maggio 2024

2.5 Page 15

▲torna in alto
programma nazionale ‘Officine Don Bosco’. L’idea
è quella di accogliere, accompagnare, formare i care
leavers includendoli nelle nostre Comunità educati-
ve pastorali, anche attraverso il supporto psicologi-
co ed educativo, ed accompagnandoli nel percorso
di formazione professionale coinvolgendo le im-
prese del territorio, attraverso l’orientamento al la-
voro, tirocini lavorativi e possibilità di assunzione.
L’inserimento professionale e lavorativo costituisce
uno snodo decisivo nel percorso di inclusione socia-
le e il possibile avvio di un percorso di autonomia
personale dopo l’uscita dal sistema di protezione e
dell’assistenza. L’accompagnamento concreto verso
l’autonomia permette a questi ragazzi di avere un
mestiere in mano che permette loro di trovarsi una
casa, poter pagare un affitto e vivere una vita nor-
male, per guardare al futuro con speranza”.
a breve l’Accademia della ristorazione nel quartiere
Libertà, uno dei più difficili della città dove sono
presenti i Salesiani e prevede l’attivazione di corsi
nell’arte della ristorazione per 50 giovani Neet. A
Vallecrosia, in Liguria, infine, altri 50 giovani sono
coinvolti nei laboratori di formazione promossi dal-
le categorie d’impresa”.
Nei casi in cui non abbiano una casa dove
tornare o andare, sperimentate forme di
co-housing?
“La nostra proposta ‘Officine Don Bosco’ prevede
l’accompagnamento dei neomaggiorenni verso l’au-
tonomia, non solo professionale ed economica ma
anche abitativa. Per questo, nella nostra rete abbia-
mo dieci strutture di housing sociale”.
Ci può illustrare i progetti per
l’inserimento lavorativo e professionale?
“Una delle nostre aree di intervento è proprio l’in-
serimento sociale e lavorativo dei giovani. Lo scor-
so anno, abbiamo attuato quattro progetti con un
investimento di quasi 40mila euro per finanziarli.
Uno è stato l’accordo con Samsung Electronics Ita-
lia per permettere a due giovani di Messina di par-
tecipare a una formazione per ottenere il patentino
f-gas nell’ambito della refrigerazione/condiziona-
mento. A Palermo, il progetto ‘Neet: Nuove energie
educative territoriali’ prevede l’avvio di laboratori
in collaborazione con il centro di formazione pro-
fessionale locale negli ambiti della refrigerazione/
condizionatori e saldatura elettrica. A Bari partirà
Quali sono i servizi di supporto
per i care leavers da implementare?
“Certamente l’accompagnamento educativo ed il
supporto psicologico non si possono interrompere
al compimento del diciottesimo anno ma gradual-
mente. È poi indispensabile accompagnare il gio-
vane nel percorso di formazione e di orientamento
al lavoro, come del resto faceva don Bosco”.
Come sogna il futuro suo
e della Congregazione?
Sogno una Congregazione sempre più al passo con
i tempi e capace di costruire Comunità Educative
Pastorali fatte di salesiani e laici insieme al servizio
dei giovani più poveri.
Una Congregazione attenta alla giustizia sociale
ed alla pace, che non si chiude in se stessa ma che
accetta la sfida di essere in uscita ed in rete con
altre realtà, istituzioni ed associazioni, interessate
al bene dei giovani. Qui sogno il mio futuro.
«Con i progetti
che sosteniamo
con Salesiani
per il sociale
riusciamo
a strappare
ragazzi e
ragazze dalla
strada ed
a restituire
dignità e
speranza
attraverso la
cura educativa
e l’inserimento
sociale e
lavorativo».
maggio 2024
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2.6 Page 16

▲torna in alto
LE CASE DI DON BOSCO
Marco Sanavio
MESTRE
Con vista sul futuro
«Ci siamo sempre occupati della
crescita umana e cristiana dei
nostri studenti e la soddisfazione
più grande è vederli crescere,
progredire e, qualche volta, tornare
per raccontarci con riconoscenza
la loro esperienza di vita e di
realizzazione personale».
«La formazione
che proponiamo
è caratterizzata
da profondità
culturale,
ricchezza di
esperienze
pratiche di
laboratorio
e forte
collegamento
con realtà
territoriali».
Immersa nel verde della zona “Gazzera” la
Casa salesiana di Mestre ha avuto negli ultimi
quattro anni un’importante evoluzione che ha
portato al passaggio da tre a una sola comuni-
tà che coordina e gestisce cinque settori principa-
li: la Scuola di formazione professionale (indirizzo
grafico, meccanico ed elettrico), l’Istituto tecnico
tecnologico (indirizzo grafico-comunicazione e
meccatronico) l’Istituto universitario salesiano di
Venezia iusve, aggregato all’ups (Pedagogia, Psi-
cologia, Comunicazione ed educazione, oltre a nu-
merosi diplomi/master e corsi di alta formazione),
l’Istituto superiore internazionale salesiano di ricer-
ca educativa (isre) e l’ospitalità. L’Opera di Sale-
siani Don Bosco Mestre ha al suo interno anche la
Formazione continua superiore e un Istituto tecni-
co superiore Digital academy con indirizzi mecca-
tronico e digital, gestito in collaborazione con due
fondazioni. «Il complesso percorso evolutivo che
ha visto trasformarsi la nostra Casa – spiega don
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maggio 2024

2.7 Page 17

▲torna in alto
Silvio Zanchetta, direttore di Salesiani Don Bosco
Mestre – è stato reso possibile dalla disponibilità di
personale e collaboratori e ha consentito di offrire
risorse potenziate e servizi migliori per gli studenti.
La presenza di tanti giovani nelle nostre strutture
ci offre l’occasione di sperimentare una presenza
ecclesiale di frontiera che, attraverso l’opera di un
nucleo animatore composto da credenti e collabo-
ratori appassionati che impostano la formazione in
modo coerente con il Vangelo, rende chiara testi-
monianza rimanendo disponibile all’accoglienza di
tutti, qualsiasi sia il loro grado di appartenenza alla
comunità cristiana».
L’ISSM
Un percorso pastorale, quello proposto da Salesiani
Don Bosco Mestre, che necessita di ampi spazi di
relazione, come il rinnovato giardino che unisce il
polo universitario con gli istituti superiori offrendo
occasioni di studio e incontro immerse nel verde e
un padiglione coperto, ecosostenibile e tecnologica-
mente avanzato. «In questi anni abbiamo rinnovato
molti ambienti della Casa per tornare a vivere in-
sieme ai giovani la nostra vita religiosa e i momenti
quotidiani – riferisce don Filippo Spinazzè, anima-
tore pastorale della scuola secondaria – dedicandoci
alla formazione ma, soprattutto, alla relazione che
diventa occasione di crescita umana e spirituale.
Cerchiamo di intessere legami umani che abbiano
una tonalità vocazionale, per fare in modo che sem-
pre più giovani possano respirare il carisma salesiano
anche nella sua dimensione laicale. Nel nostro ac-
compagnare i giovani ci aiuta anche la preziosa rete
pastorale che abbiamo tessuto sul territorio».
Un’azione costante che va a beneficio dei 298 stu-
denti dell’Istituto tecnico tecnologico (issm.it), dei
433 della Scuola di formazione professionale, segui-
ti complessivamente da una settantina di docenti,
e dei 92 allievi del nuovo Istituto tecnico superiore
sostenuto insieme ad altri partner ma che fa riferi-
mento logistico alla Casa di Salesiani Don Bosco
Mestre. «Grazie al nostro impegno e ai rapporti
GRAZIANO CERVESATO E STORIA
Graziano Cervesato, salesiano di 80 anni di cui 60 trascorsi a ser-
vizio dei giovani dell’Istituto San Marco di Venezia, è la memo-
ria storica delle evoluzioni e trasformazioni che hanno portato
alla costruzione dell’imponente sede di Salesiani Don Bo-
sco Mestre. Insignito del prestigioso premio “Amico del
San Marco” nel 2024, racconta la sua presenza sin dal
primo giorno dell’apertura del centro “Arti e mestieri”,
con due allievi, nell’Isola veneziana di San Giorgio nel
1964: «era la “gabbia d’oro”, bellissima con l’affaccio
sul bacino di San Marco ma difficilmente raggiungibi-
le. Ci siamo spostati sia perché la struttura necessitava di una ristrut-
turazione troppo impegnativa, sia perché la Venezia centro storico
non aveva più giovani». Al posto del San Giorgio, nell’isola, è iniziata
la presenza dell’Istituto superiore internazionale salesiano di ricerca
educativa che ha proposto corsi per docenti, seguiti da don Walter
Cusinato, la matrice dalla quale si è poi sviluppato l’Istituto univer-
sitario iusve.
Graziano Cervesato ricorda bene il cognome della segretaria del
sindaco che gli suggerì di progettare la presenza dei salesiani in
terraferma: Barolo, un riferimento che lui ha subito collegato alla
marchesa che aiutò e sostenne il santo di Valdocco. «Mi sono sempre
ispirato all’opera di don Bosco anche nello stile delle relazioni umane
– prosegue Cervesato – abbiamo iniziato a costruire nel 1988 e nel
giugno del ’90, grazie alla preziosa opera del salesiano don Marti-
no Ganassin, siamo entrati nella nuova struttura con la formazione
professionale e nel ’92 abbiamo aperto l’Istituto tecnico. Ci siamo
sempre occupati della crescita umana e cristiana dei nostri studenti e
la soddisfazione più grande è vederli crescere, progredire e, qualche
volta, tornare per raccontarci con riconoscenza la loro esperienza di
vita e di realizzazione personale».
maggio 2024
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2.8 Page 18

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LE CASE DI DON BOSCO
L’offerta
formativa dello
iusve (iusve.it),
nelle due sedi di
Mestre e Verona,
ha attratto
nel corso
degli anni un
numero sempre
crescente di
studenti, sino
a giungere agli
attuali 2600
iscritti, seguiti
da 256 docenti,
distribuiti nelle
due sedi di
Venezia Mestre
e Verona.
costanti con aziende, istituzioni e con la Regione
Veneto – spiega Alberto Grillai, direttore della
Scuola di formazione professionale – i nostri due
percorsi scolastici possono contare su dotazioni
tecnologiche all’avanguardia, intere classi fornite
di tablet, stampanti 3D, dispositivi per la stampa
digitale di ultima generazione, laboratori tecnica-
mente avanzati». Un apparato tecnico, tra l’altro,
che ha consentito di non trovare impreparati do-
centi e studenti di fronte alla sfida pandemica della
didattica a distanza. «Ci sono progetti comuni che
ci consentono di connettere la scuola secondaria con
l’Istituto universitario – riferisce Claudia Cellini,
preside dell’Istituto tecnico tecnologico – come il
CASA DON BOSCO
L’esperienza di “Casa Don Bosco”, inserita all’interno
delle strutture gestite da Salesiani Don Bosco Mestre,
risponde al desiderio di rendere protagonisti i giovani,
offrendo un contributo personale alle attività pastorali
che vengono proposte nella scuola e condividendo la
progettazione e la realizzazione di alcune iniziative.
Hanno aderito all’esperienza una decina di giovani della
scuola secondaria e dell’Istituto universitario, che han-
no scelto di camminare insieme per un anno, aiutando-
si a vicenda nel crescere in alcune dimensioni di vita: la
condivisione fraterna a contatto con la comunità sale-
siana; il servizio verso i più giovani rendendosi dispo-
nibili ad alcuni lavori legati alla pastorale; il cammino
di crescita umana e spirituale, vivendo con la comunità
salesiana alcuni momenti di formazione e preghiera.
«La presenza di questi giovani dentro la nostra comu-
nità è preziosa e profetica – spiega don Aldo Castenet-
to, responsabile del progetto “Casa Don Bosco” – da un
lato smuove la nostra comunità salesiana dalle sue abi-
tudini e risveglia in tutti i confratelli la gioia dello stare
in mezzo ai giovani anche nei momenti più informali,
dall’altro ci aiuta a prendere coscienza che molte atti-
vità pastorali della scuola sarebbero impossibili senza
il loro contributo. I fronti pastorali da presidiare sono
sempre più vasti e le forze in campo si sono ridotte ne-
gli anni. Il protagonismo di questi giovani non è solo di
facciata ma si è rivelato molto concreto: senza di loro,
infatti, non saremmo riusciti a mettere in atto alcune
iniziative».
percorso didattico “We&Here”, mirato a rilevare
bisogni e stimolare la cittadinanza attiva dei giova-
ni, realizzato in co-design con iusve e con il Dipar-
timento di Informatica dell’Università di Torino».
Lo IUSVE
L’offerta formativa dello iusve (iusve.it), nelle due
sedi di Mestre e Verona, ha attratto nel corso de-
gli anni un numero sempre crescente di studenti,
sino a giungere agli attuali 2600 iscritti, seguiti da
256 docenti, distribuiti nelle due sedi di Venezia
Mestre e Verona. Il campus veneziano è inscrit-
to all’interno della Casa di Salesiani Don Bosco
Mestre, mentre quello di Verona occupa una zona
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2.9 Page 19

▲torna in alto
ISRE
Sempre nell’ambito della sede di Salesiani Don Bosco
Mestre si trovano anche gli uffici dell’Istituto salesiano
internazionale di ricerca educativa (isre.it). «La nostra
mission – riferisce la presidente, Michela Possamai –
consiste nel promuovere attività di studio, ricerca e
documentazione, orientamento e sperimentazione di
interventi educativi e formativi, per contribuire alla
crescita culturale del territorio e al sostegno della so-
lidarietà sociale secondo i valori cristiani». Un impegno
reso concreto dall’attività di formazione e dissemina-
zione messa in opera quotidianamente da sei dipen-
denti, in costante relazione con agenzie formative e
aziende del territorio. Ente precursore dello IUSVE, oggi
l’ISRE si trova a sostenere progetti consistenti di ricerca
educativa, inclusione, inserimento nel mondo lavorati-
vo con particolare attenzione al mondo dei giovani e a
quanti si occupano della loro formazione.
molto suggestiva in riva all’Adige, all’interno della
Casa salesiana che ospita l’Istituto Don Bosco. «La
formazione che proponiamo – riferisce don Nico-
la Giacopini, direttore iusve – è caratterizzata da
profondità culturale, ricchezza di esperienze pra-
tiche di laboratorio e forte collegamento con real-
tà territoriali. Il tutto innervato dai valori propri
del paradigma dell’Ecologia integrale che aiuta a
considerare lo studio non solo come preparazione
all’inserimento nel mondo del lavoro ma anche
come un mandato per dare il proprio contributo
alla costruzione di una società più giusta, inclusiva
e sostenibile». Le tre Aree universitarie presidiate
sono: Comunicazione ed educazione, Pedagogia
e Psicologia, nell’ambito delle quali vengono rila-
sciati titoli di baccalaureato e licenza dall’Univer-
sità Pontificia Salesiana di Roma, cui lo iusve è
aggregato. L’offerta è completata da alcuni corsi di
diploma (Food and wine, Counselling educativo,
Criminologia, Comunicazione per le imprese e no
profit) e di alta formazione (Il pedagogista a scuo-
la, Digital communication, reputation and brand
management, Psicologia dello sport) che registrano
sempre un grande interesse grazie alla loro diretta
connessione con aziende o istituzioni. Lo iusve,
sin dalla sua nascita, ha attivato progetti di ricerca
e collaborazioni che gli hanno consentito spesso la
partecipazione a convegni ed eventi internazionali,
tra i quali vale la pena ricordare la partecipazione,
nel gennaio 2022, di sedici studenti e tre docenti a
Expo 2020 di Dubai nell’ambito della Global Goals
Week in partnership con la Rete delle università
per lo sviluppo sostenibile della quale lo iusve è
parte attiva. Il paradigma formativo scaturito dal
progetto triennale “Ecologia integrale e nuovi stili
di vita” è alla base anche del neonato Osservatorio
iusve “Giovani e futuro” che monitorerà il ruolo
delle coorti giovani, da sempre al centro del cari-
sma salesiano, nell’ambito degli attuali processi di
transizione ecologica e sociale.
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2.10 Page 20

▲torna in alto
NEL CUORE DEI SALESIANI
Ángel Miranda
Da QUI al MONDO
La gloria di Maria Ausiliatrice
L a tradizione di questo nome risale al 1571, quando l’intera cristianità fu salvata da Maria Au-
siliatrice, quando i cattolici di tutta Europa si misero sotto il suo manto recitando il rosario.
Nel 1573 papa Pio V istituì una festa come ringraziamento per la vittoria decisiva della cri-
stianità contro la minaccia turca. Il 12 settembre, festa del Santo Nome di Maria, Vienna fu
finalmente liberata per intercessione di Maria Ausiliatrice. Tutta l’Europa si era unita all’Imperatore
gridando “Maria, Aiuto!” e recitando il Santo Rosario.
Nel 1809, gli eserciti di Napoleone entrarono in Vaticano e arrestarono Pio VII. Il Santo Padre
promise a Dio che, se fosse stato restituito alla Sede romana, avrebbe istituito una festa speciale in onore di Maria.
I rovesci militari costrinsero Napoleone a liberare il Papa e il 24 maggio 1814 Pio VII tornò in trionfo a Roma e de-
cretò che la festa di Maria Ausiliatrice fosse celebrata il 24 maggio.
Maria Ausiliatrice, Patrona dell’AUSTRALIA
La Chiesa nascente in Australia aveva un motivo speciale per rivolgersi a Maria. Nei primi tempi del cristianesi-
mo non venivano inviati sacerdoti nella colonia ed era consentita la Messa solo una volta all’anno. La fede era
mantenuta viva, in gran parte, dalla recita del rosario.
Alcuni degli irlandesi esiliati in Australia erano prigionieri di guerra. Avevano combattuto per l’indipendenza,
nella ribellione irlandese del 1798, mentre altri erano coloni, che cercavano di sopravvivere alla carestia e ai
successivi anni di penuria nella lontana Irlanda che avevano lasciato. In queste circostanze l’Australia cattolica
rimase fedele a Maria, essendo la prima nazione a sceglierla come patrona principale, con il titolo di Aiuto dei
Cristiani.
La St Mary’s Metropolitan Cathedral è la chiesa cattedrale dell’arcidiocesi di Sydney. È dedicata a Maria
Ausiliatrice, patrona dell’Australia ed è quindi anche il Santuario nazionale cattolico dell’Australia con il titolo e
la dignità di basilica minore, concessi da papa Pio XI nel 1930. L’Australia divenne così il primo Paese ad avere
Maria Ausiliatrice come patrona e una cattedrale con lo stesso titolo.
Maria protettrice della CINA
In Cina, Donglu e Sheshan sono le due immagini e i due santuari della Madonna più amati dai cattolici.
La storia di Nostra Signora di Sheshan, la prima basilica mariana dell’Asia orientale, inizia nel 1863. I gesuiti
francesi acquistarono la collina di Sheshan e, il 1° marzo 1868, il vescovo di Shanghai consacrò la cappella e
benedisse l’immagine di Maria Ausiliatrice, ispirata alla Madonna della Vittoria di Parigi.
Nel settembre 1870, la sanguinosa rivolta dell’esercito Tai Ping raggiunse Shanghai, mettendo in grave pericolo
la comunità cattolica. Padre Gu Zhensheng, SJ, promise di costruire, in ringraziamento per la protezione di Maria,
una chiesa mariana sulla collina di Sheshan, che fu inaugurata il 24 maggio 1871. Nel 1924, il delegato pontificio
Celso Costantini convocò il primo Sinodo cinese a Shanghai, dichiarando Maria Aiuto dei cattolici cinesi. Un dipinto
di Maria con bambino presiede il santuario, meta del più importante pellegrinaggio cattolico in Cina.
Sebbene nel 2008 i pellegrinaggi a entrambi i santuari siano stati vietati, la gente cerca di eludere la legge e
molti si recano a Maria Ausiliatrice.
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Maria Ausiliatrice a Goiânia - BRASILE
Un gioiello della Chiesa Cattedrale di Goiania, in Brasile, è l’immagine di Nostra Signora
Ausiliatrice, Patrona dell’Arcidiocesi e della città. I parrocchiani la chiamavano “Imma-
gine del miracolo”, perché, in una processione per le strade del quartiere, l’immagine
fu portata senza ancorarla alla piattaforma e se ne accorsero solo una volta giunta in
chiesa quando, di fronte alla minaccia di crollo, fu sorretta dai passanti.
L’immagine fu collocata sull’altare preparato nella Piazza Civica, dove il 5 luglio 1942 fu
celebrata la Santa Messa per l’inaugurazione ufficiale della città, presieduta dall’arcive-
scovo di Cuiabá.
María Auxiliadora
Patrona dell’agricoltura ARGENTINA
Il 27 ottobre 1949, su iniziativa degli agricoltori della zona di Rosario, il Potere Esecutivo
Nazionale, allora retto dal generale Juan Domingo Perón, firmò un decreto che “dichiarava
María Auxiliadora de los Cristianos patrona dell’agricoltura argentina”. Nel decreto viene
dato un riconoscimento dettagliato alla Congregazione salesiana per il suo importante
contributo all’agricoltura argentina con la creazione di scuole agricole in tutto il Paese:
la Scuola Agrotecnica Salesiana di Misiones, l’Istituto Agrario e Zootecnico di Uribelarrea
a Buenos Aires, la Scuola Agrotecnica di Cordoba, la Scuola di Enologia di Mendoza, ora
università, e diverse scuole agricole in Patagonia.
Questa devozione a María Auxiliadora come patrona dell’agricoltura argentina si diffuse
presto in tutto il Paese, con immagini intronizzate in diversi luoghi strategici della provin-
cia, come l’edicola in cima al Cerrillo Barboza, nel centro della Valle del Tulum. Un altro pun-
to importante è la diga di livellamento da cui viene distribuita l’acqua per l’irrigazione a San
Juan, dove gli agricoltori hanno eretto un’edicola alla Patrona dell’Agricoltura argentina.
Patrona dello stato AMAZZONICO
e Regina dell’ORINOCO
Il 5 febbraio 1932, Pio XI creò la Prefettura Apostolica dell’Alto Orinoco, affidata ai mis-
sionari salesiani che promossero la presenza della Vergine Maria, Aiuto dei Cristiani in
queste terre di grazia, a partire dal loro arrivo a Puerto Ayacucho l’11 settembre 1933.
Così, negli anni 1935-1937, nel quartiere Humboldt nacque la prima chiesa cattolica
in onore della Vergine Maria Ausiliatrice. Il 2 aprile 1940 arrivarono anche le prime
missionarie, le Figlie di Maria Ausiliatrice, e il 14 febbraio 1954 monsignor Segundo
García benedisse la Cattedrale di Maria Ausiliatrice.
Il 20 maggio 1980, il Consiglio Municipale del Territorio Federale di Amazonas, presie-
duto dal consigliere Fernando Girón Tovar, decretò il 24 maggio come giorno di giubilo
e dichiarò María Auxiliadora patrona di Puerto Ayacucho.
Il 18 maggio 2011, il governatore Liborio Guarulla ha riaffermato questo decreto,
rendendola patrona dello Stato di Amazonas e del magnifico fiume Orinoco. È l’ospite
protettivo e la guida permanente in ogni casa delle famiglie amazzoniche.
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NEL CUORE DEI SALESIANI
Maria Ausiliatrice in SLOVENIA
Nel 1800 il parroco di Mošnje, padre Urban Ažbe, ordinò di ampliare la chiesa di San Vito con una piccola
cappella in onore di Maria Ausiliatrice e nel 1814 il pittore Leopold Layer di Kranj dipinse la cappella e l’imma-
gine della Madonna. Nel 1863, dopo diverse guarigioni miracolose, il pellegrinaggio a Brezje divenne molto
popolare, tanto che la chiesa era troppo piccola per accogliere tutti i pellegrini. Nel 1900 fu quindi costruita
e consacrata la chiesa attuale e nel 1907 il vescovo Anton Bonaventura Jeglič incoronò l’immagine di Maria
Ausiliatrice.
Nel 1935 il quadro sacro lasciò Brezje per la prima volta. In seguito, durante la grande tragedia della guerra
mondiale 1941-1947, fu custodito al sicuro a Trsat (Croazia) e nella cattedrale di Lubiana.
Nel 2000 la Conferenza diocesana slovena ha dichiarato la Basilica di Brezje Santuario nazionale della Ma-
donna e nel 2007 è stato celebrato il solenne centenario dell’incoronazione e dell’inaugurazione dello spazio
esterno per la Santa Messa.
Il santuario nazionale negli STATI UNITI
Montagne e colline sono sempre state considerate luoghi di incontro con Dio. Lo è anche Holy Hill,
il sito di un santuario cattolico nel centro-nord degli Stati Uniti dedicato alla Beata Vergine Maria, che
riceve circa 300 000 visitatori all’anno. Una tradizione, non generalmente accettata, attribuisce la scoperta
della collina a padre Jacques Marquette con Louis Jolliet nel 1673. Sembra più probabile che siano stati i Gesuiti
i primi sacerdoti cattolici a mettere piede sulla collina. Il primo abitante bianco della collina fu un eremita, François
Soubrio. Un vecchio diario francese e una mappa del 1676 mostravano una montagna a forma di cono nel Wisconsin.
Lì, intorno al 1679, pose un altare di pietra, eresse una croce e dedicò la collina a Maria. Il nome “Holy Hill” fu dato per la
prima volta alla collina dai coloni irlandesi della zona. Il 24 maggio 1863, padre George Strickner vi dedicò una cappella
di tronchi come primo Santuario di Maria Ausiliatrice. Nell’inverno del 1879, don Raess propose all’arcivescovo di costrui­
re un santuario mariano. La grande affluenza di pellegrini portò all’arrivo dalla Baviera di un gruppo di Carmelitane
Scalze che presero possesso del santuario il 26 giugno 1906. L’edificio, completato nel 1920, ha subito successive trasfor-
mazioni. Già il 22 agosto 1926 fu posta la prima pietra dell’attuale chiesa, che fu completata e consacrata nel 1931.
Maria Ausiliatrice della città di Parañaque (FILIPPINE)
La devozione a Maria Ausiliatrice è iniziata nelle Filippine con la nomina, quasi 30 anni prima dell’arrivo dei Sale-
siani nel Paese, dell’arcivescovo salesiano William Piani a Delegato Apostolico per le Filippine.
Poco dopo la sua nomina, l’arcivescovo Piani arrivò nelle Filippine il 29 novembre 1922, portando con sé la statua
di Maria Ausiliatrice come dono del beato Filippo Rinaldi, allora Rettor Maggiore dei Salesiani Don Bosco.
In seguito, la sua perseveranza nel propagare questa devozione suscitò la sensibilità di molti vescovi che la scelsero
come Protettrice Secondaria delle rispettive diocesi.
L’immagine fu dapprima collocata nella Casa della Delegazione Apostolica di Malate, a Manila, e poi, con l’appoggio
dell’allora Arcivescovo di Manila, monsignor Michael O’Doherty, fu intronizzata in una delle cappelle della Cattedrale
di Manila. Da allora, con l’aiuto del segretario salesiano della nunziatura, la devozione a Maria Ausiliatrice divenne
nota e popolare non solo nella capitale ma anche in altre parti del Paese. Nel 1942, durante l’occupazione giappone-
se, la statua fu posta sotto la protezione e la custodia del Santuario di Nostra Signora di Loreto a Sampaloc, che non
fu risparmiato dalla distruzione in una Manila sottoposta a infiniti bombardamenti, soprattutto durante la Battaglia
di Liberazione. Fu allora che, secondo la tradizione orale, alcune anziane donne trovarono un’immagine sul retro del
tempio devastato. Riconoscendo che si trattava dell’immagine di Maria Ausiliatrice, un gruppo di 21 donne iniziò a
offrirle fiori e candele e a prendersi cura di lei fino a quando fu creata l’Associazione Maria Ausiliatrice.
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Aiuto “Pokrova” per i cristiani in UCRAINA
Il clero ucraino che si oppone alla guerra nel proprio Paese è apparso sui media tenendo con cura un’immagine della Ver-
gine Maria, con le mani tese che sollevano i lembi di un mantello. È l’immagine di una particolare icona religiosa nota
come “Pokrova”, in cui il velo di Maria, una “pokrova” o “copertura” in ucraino, è un segno di protezione. Per i cristiani
ortodossi ucraini, l’immagine della “Pokrova” rappresenta una lunga storia di ricerca dell’aiuto di Maria nei momenti
difficili. Secondo la tradizione ortodossa, Maria apparve miracolosamente in una chiesa di Costantinopoli, l’odierna Istanbul,
quando questa era attaccata dai barbari all’inizio del X secolo. Si racconta che Maria pregò sull’altare della chiesa, stese il suo velo sulla
comunità e gli invasori si ritirarono. Circa un secolo dopo, nel 1037, Yaroslav il Saggio, Gran Principe di Kiev, dedicò l’Ucraina a Maria,
che ancora oggi è conosciuta come “Regina dell’Ucraina”. Altre icone di Maria hanno un significato speciale per i cristiani ucraini, tra cui
quella nota come “Oranta” o “Grande Panagia”, un mosaico della Cattedrale di Kiev dell’XI secolo, uno dei punti di riferimento spirituali
più famosi della città. Con le braccia tese verso l’alto, questa icona di Maria è nota anche come “Muro Immobile” o “Indistruttibile”.
Molti ucraini di Kiev credono che finché l’icona resterà in piedi, resteranno in piedi anche Kiev e l’Ucraina.
L’Ausiliatrice a Mênontin-Cotonou - BENIN
Una comunità cristiana e una chiesa sono il frutto del “Progetto Africa” lanciato da don Viganò e dell’iniziativa
dei laici in un quartiere nella primissima fase dell’evangelizzazione.
La notte del 24 dicembre 1983, quando i tam-tam di alcuni vicini del quartiere Tofins della capitale Cotonou
annunciavano la vigilia di Natale, qualcosa spinse due donne coraggiose, Euphrasie Gangbazo e Honorine
Djedje, a creare un gruppo di preghiera, seme di una grande comunità cristiana. L’anno successivo, il 4
giugno, il parroco salesiano di Sant’Antonio di Padova a Zogbo benedisse la prima pietra di una futura
cappella dedicata a Maria Ausiliatrice che, il 24 maggio 1986, divenne una realtà, frutto della Provvidenza,
aiutata dalla generosità e dal dinamismo di molti e dall’azione degli SDB. In seguito, l’impegno della comunità
cristiana, già numerosa, con il generoso sostegno finanziario dell’arcivescovo Adimou, è culminato nella crea-
zione della grande parrocchia di Maria Ausiliatrice il 12 ottobre 2000, dopo un lungo cammino di gioie e dolori,
successi e fallimenti, in cui non è mai mancato il suo sostegno come madre e Ausiliatrice.
La Basilica di María Auxiliadora di LIMA
Situata nel quartiere di Breña, è una delle icone architettoniche più rappresentative
del paesaggio urbano della capitale peruviana. Il suo architetto, il sacerdote salesiano Erne-
sto Vespignani, l’ha progettata a tre navate che, insieme al presbiterio, coprono una superficie
di 2000 metri quadrati e una cripta che occupa altri 500 metri quadrati.
Padre Pane, SDB, ha coordinato e amministrato i lavori, contando sulla grande generosità dei benefattori e dei
devoti di Maria. Nell’ambito della commemorazione del Centenario dell’Indipendenza del Perù, fu benedetta il 29
luglio 1921. Negli anni successivi, la Basilica di Maria Ausiliatrice fu decorata con notevoli pezzi di arte religiosa europea
e nazionale: le 14 tele dei Misteri del Rosario, l’immagine di Maria Ausiliatrice, realizzata nei laboratori di Sarriá nel 1921, la
grande statua nella parte anteriore, le vetrate che alludono alle Opere di Misericordia ecc. Una memoria storica dei peruvia-
ni è legata al terremoto del 24 maggio 1940 quando, nel bel mezzo della messa pontificale, nonostante la folla presente e il
panico causato dalle crepe nelle volte, non ci furono vittime o feriti. Un fatto riconosciuto come miracoloso, segno evidente
della protezione di Maria Ausiliatrice. L’imponente ricchezza ornamentale di questa chiesa e la miracolosa protezione di cui
ha goduto hanno fatto sì che le venisse concesso il titolo di basilica minore da papa san Giovanni XXIII il 25 marzo 1962.
In occasione della celebrazione del bicentenario della nascita di don Bosco e del centenario della chiesa, sono stati
eseguiti lavori di consolidamento strutturale e di restauro artistico. La massiccia partecipazione dei membri della Famiglia
Salesiana del Perù, a sostegno di questi lavori, ha dimostrato il ruolo di primo piano che la Basilica di Maria Ausiliatrice ha
svolto e continua a svolgere tra i figli di don Bosco nella patria di Santa Rosa da Lima.
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INIZIATIVE
Amici di Jangany
Miracolo a JANGANY
Fragilità e straordinarie imprese
in un villaggio del Sud Madagascar.
Madagascar
La situazione umana delle persone che vivono in
Madagascar, stanti le responsabilità umane, pone
riflessioni anche alla teologia, facendosi strada, an-
che qui, il silenzio di Dio: oltre 27 milioni di abitan-
ti, di cui oltre l’80% sotto la soglia di povertà (meno
di 2 dollari al giorno); una fame che colpisce il 42%
dei bambini sotto i 5 anni; l’accesso a fonti di acqua
potabile disponibile a neppure metà della popola-
zione; e solo l’11% ha accesso a impianti igienici
adeguati. Madagascar, uno dei paesi più poveri del
mondo, le cui notizie sono offerte dai media in ra-
rissimi desolati servizi.
In questo contesto, negli ultimi cinque anni, l’aggra-
vante dei cambiamenti climatici ha colpito il cosid-
detto Grand Sud del Madagascar, uno dei luoghi più
colpiti del pianeta: ben oltre un milione di persone
alla fame, ben oltre diecimila nello stadio classificato
catastrofico, lo stadio più grave di insicurezza alimen-
tare – prossimi alla morte – secondo i cinque stadi
stabiliti dall’Integrated Food Security Phase Clas-
sification (ipc). Anni senza pioggia hanno genera-
to processi di desertificazione; secondo le Nazioni
Unite la siccità che assale il Paese è la peggiore degli
ultimi quarant’anni. Nel sud la gente mangia foglie
di cactus per sfamarsi, qualcuno riesce a «cucinare
le foglie per ricavare un po’ d’acqua – spiegava con
amarezza ancora nel 2021 il salesiano padre Jean-
Chrys. – Vengono mangiati scarti di pelle di anima-
le… e c’è una grande corruzione, oltre allo scettici-
smo del Governo sul fatto che esista realmente una
carestia»; la fragilità delle istituzioni si riverbera in
tutto il paese lasciando insicurezza e deriva.
Numerosi cicloni e inondazioni, anni di grave sic-
cità, terremoti ed epidemie non hanno, infine, aiu-
tato il paese. Madagascar: una periferia geografica
ed esistenziale di Evangelii Gaudium, su cui papa
Francesco non cessa di attirare la nostra attenzione.
Jangany, il percorso di una brousse
Jangany (diocesi di Ihosy) è una savana, posta
sull’altopiano dell’Horombè nel nord di questo
Sud. Per arrivarci la strada accidentata è tremenda;
ti fermi un momento quando la luce ormai è scesa
e ti senti nel nulla, come sospeso avvolto dall’aria,
tocchi nel profondo quanta poca cosa è l’uomo;
guardi la luna che è la stessa che si vede in occiden-
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te e pensi alla diversità di opportunità che hai e non
per merito. Più avanti il rumore dell’acqua sopra il
ponte che ha preso il nome di Ponte Progresso, per-
ché ha fatto uscire il villaggio dall’isolamento: il
rumore dell’acqua è forte ma ricordi l’appello del
2006 quando andavano a raccogliere l’acqua nelle
pozzanghere per una devastante siccità.
Nel 1989 questo villaggio contava 400 abitanti e 400
maiali selvatici. Quando il missionario vincenziano
padre Tonino Cogoni – responsabile della Missione
e fondatore della scuola Sainte Marie di Jangany – vi
si recò vincendo dubbi e perplessità del vescovo loca-
le, comprese subito che il punto di partenza dell’e-
mancipazione umana non poteva che essere la scuola.
L’evangelizzazione, che pone l’uomo al centro dell’a-
more di Dio, non poteva prescindere dalla dignità
delle persone, e per questo, prima della costruzione
di una chiesa (poi realizzata nel 2019, 30 anni dopo,
orgoglio di tutto il villaggio), vi furono le aule sco-
lastiche e due strutture sanitarie donate al Comune.
Racconta padre Tonino: «Era impressionante vedere
lo stato selvatico e primitivo in cui la gente viveva:
non esistevano scuole e dominava l’analfabetismo;
l’unico strumento di lavoro era una piccola vanga che
serviva per tutti gli usi; l’aratro era sconosciuto. Mi
sembrava di vedere le immagini dell’età della pietra».
Il percorso di crescita di Jangany (letteralmente l’uo-
mo che sta in piedi) è passato attraverso l’istruzione
– di conoscenza, competenza ed educazione umana,
come recita il motto della scuola; da un analfabeti-
smo totale, proprio dell’etnia bara, una delle più mi-
sere del paese, più di 3000 bambini e ragazzi sono
stati toccati dall’istruzione; nel 2017 i genitori, non
potendo pagare il sostegno alla continuazione dello
studio, hanno chiesto un Liceo letterario e scientifi-
co; gli abitanti del villaggio – che non sapevano nep-
pure dell’esistenza dell’acqua nel sottosuolo – hanno
realizzato 43 pozzi profondi 10/15 m; l’acqua potabi-
le – sostituendosi all’acqua delle risaie appena bollita
– ha garantito salute e un innalzamento dell’attesa di
vita da 37 a 45 anni; l’educazione sanitaria e un di-
spensario medico, poi riconosciuto anche dallo Stato,
hanno migliorato il livello di salute, insieme all’in-
troduzione di nuove alimentazioni. Se attraversi il
mercato grande del giovedì, sei inondato dalle voci e
la vivacità della gente che giunge anche da villaggi e
cittadine vicine: vi trovi riso, legumi, verdure diverse,
frutti… in luogo della sola manioca. Molte case sono
costruite in mattoni cotti – grazie a un qualificato
apprendimento edilizio – e hanno resistito a ripetuti
cicloni; strade e ponti, che collegano alla route natio-
nal verso Tulear e verso Ihosy, insieme a una para-
bola satellitare, hanno tolto Jangany dall’isolamento
di trasporti e comunicazioni. Nel 2016 un impianto
fotovoltaico di 64 kwh ha offerto corrente elettrica,
per la scuola, il dispensario medico, lo studio serale,
la sicurezza delle strade del villaggio, l’alimentazione
elettrica delle pompe per attingere acqua dai pozzi,
un po’ di sviluppo in aiuto a qualche piccolo punto di
ristorazione, un paio di falegnami e artigiani.
Jangany è diventato un modello di cambiamento.
La gente che giunge da fuori afferma «beata Jan-
gany che ha messo testa nuova», e gli abitanti ri-
spondono «è la scuola che ha fatto la città».
Jangany
è diventato
un modello di
cambiamento.
La gente che
giunge da
fuori afferma
«beata
Jangany che
ha messo
testa nuova»,
e gli abitanti
rispondono
«è la scuola
che ha fatto
la città».
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INIZIATIVE
La scuola – motore di un cambiamento di mentalità
di persone che hanno imparato a resistere a siccità,
carestie, cicloni, passaggio di cavallette – conta oggi
50 insegnanti ben selezionati e 1000 studenti, dalle
materne, primaria, secondaria, al liceo; di questi, 800
sono in situazione di povertà, e di questi 100, giunti
dalla savana più lontana, sono ospitati nel convitto.
Oltre alla scuola, nella Cité des Etudes, il più gran-
de quartiere di Jangany, vi sono anche aule dislocate
nella savana. Si trova a Jangany la prima scuola di
informatica del Sud (potenziata quest’anno con altri
70 computer), una biblioteca cartacea di centinaia di
testi offre possibilità culturali tutte da sviluppare.
Quasi 10 000 gli abitanti che risiedono oggi in un
luogo passato dalla preistoria, per così dire, al me-
dioevo. È la scuola che ha fatto queste meraviglie.
Siccità e COVID
La mancanza di piogge da quattro anni ha se-
riamente minacciato questo percorso di crescita.
Senza acqua potabile non si va da nessuna parte.
Alcuni forages realizzati nei quartieri del villaggio
nel 2012 e altri nel Centro di Formazione Rurale
del marzo 2022 e nel centro delle strutture scola-
stiche e del dispensario, hanno garantito non solo
la sopravvivenza ma anche la speranza, a fronte del
prosciugamento totale dei 43 pozzi.
Il villaggio è stato anzi in grado di ospitare fami-
glie fuggite alla fame dal più profondo Grand Sud,
offrendo loro un pezzo di terra ove costruire una
capanna, l’istruzione scolastica e la possibilità di col-
tivare qualcosa.
Accanto a nuovi forages alla profondità di 60 me-
tri, i cui punti di perforazione sono stati individuati
con l’aiuto di geologi e del Dipartimento Scienze
della Terra dell’Università di Torino, saranno rea-
lizzati punti di distribuzione dell’acqua con pompe
alimentate dall’energia fotovoltaica. Anche la cei,
grazie all’8×1000, ha significativamente partecipa-
to a questi progetti di cooperazione internazionale.
Oltre alla siccità il percorso è stato ostacolato anche
dal covid: nell’impossibilità di diagnosi e mancan-
za di vaccini il villaggio si è in ogni caso trovato in
una situazione di isolamento commerciale imposto
da leggi statali e dalla chiusura scolastica.
Il problema della formazione
professionale
A fronte della presenza di un Liceo e di un Cen-
tro di formazione rurale, cui segue la ripresa di una
Scuola di economia domestica, ci si chiede perché
a Jangany non sia presente una scuola professionale.
Effettivamente siamo ancora in una fase prematu-
ra: la presenza di insegnanti competenti prevede un
costo alto per lo stipendio, non vi è disponibilità di
macchinari, mentre speriamo, nel prossimo anno, vi
sia la disponibilità dell’energia elettrica necessaria.
Per questo motivo Amici di Jangany odv aveva
pensato di aiutare con borse di studio invitando a
studiare presso centri salesiani molto preparati su
queste materie. Si era cercato di vincere la resisten-
za delle famiglie a lasciare studiare i figli fuori dal
villaggio, a Tulear e ad Antananarivo. Il salesiano
padre Erminio De Santis, responsabile della scuola
professionale di Ivato (Antananarivo), nel 2019 aveva
accolto padre Tonino e si erano individuati due alun-
ni per cominciare, pronti a ricevere due posti offerti
dai salesiani, ma il covid ha impedito il progetto e
i genitori non hanno più acconsentito alla loro par-
tenza. Oggi quattro studenti stanno frequentando la
scuola universitaria di padre Pedro con orientamenti
infermieristico, tecnico e di formazione didattica.
Il problema centrale della formazione rimane quel-
lo che quando un giovane acquisisce competenza
fuori, nelle città, ha poi resistenza a tornare alla
vita più difficile della brousse. Per questo motivo la
strada che sarà da intraprendere dovrà privilegiare
quella della formazione locale.
Jangany insegna
In questa situazione di fragilità e speranza siamo
colpiti dalla gioiosità dei malgasci: ha qualcosa
di sorprendente. Chi vede la povertà in cui vivo-
no e le difficoltà tra le quali si muovono è portato
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a pensare che si tratti di una popolazione triste e
angosciata, invece i loro visi sono sempre pronti al
sorriso e comunicano gioia. Il loro animo semplice
coglie con spontaneità gli aspetti gioiosi che sono
presenti anche nelle povere cose di cui è fatta la
loro vita. Basta un niente per radunare le persone e
coinvolgere bambini e adulti nei canti corali e nei
movimenti di danza. Si direbbe che questa gioia
semplice sia la ricchezza di questi poveri. Viene da
desiderare che il sorriso dei bambini si trasformi in
un gioioso avvenire per il Madagascar.
I momenti di festa domenicale o speciali, come
l’anniversario dei 25 anni di scuola, la festa annuale
della scuola pubblica e privata, la festa della donna,
feste religiose come Cristo Re, il rito del Fama-
dihana per l’ingresso del defunto nel regno degli
antenati… sono momenti di straordinaria parteci-
pazione collettiva. Tanto nella nostra società occi-
dentale domina la percezione di sé come individuo
quanto a Jangany percepisci il senso di appartenenza
a un popolo.
Un terzo elemento di riflessione, diremmo inter-
culturale, riguarda il senso di accettazione delle
cose; non la chiamiamo rassegnazione per non in-
cludervi un atteggiamento di passività (se oggi un
ciclone abbatte le case queste vengono ricostrui­
te da subito, un tempo la rassegnazione portava
a guardare il danno). L’accettazione del limite è un
insegnamento non scontato: se oggi a tavola non
c’è nulla da mangiare, mangeremo domani. Come
dice il proverbio malgascio esemplificando «Misy
runy, miàra-misùtru; misy vèntiny, miàra mitsàku.
Beviamo insieme se c’è del brodo, mastichiamo
insieme se c’è della carne».
Non ultima differenza è la collocazione di sé nel tem-
po. Nella lingua bara non esistono espressioni come
sbrigati! fai in fretta, mentre sovente sentiamo
espressioni come mora mora, cioè fai con calma, vai
tranquillo. Il tempo non è considerato dal punto di
vista del profitto, ma delle relazioni. Il tempo non
fugge e siamo noi che ne determiniamo la veloci-
tà, e la morte è vissuta come la fine della parte di
vita/tempo che ci era stata assegnata. Gli incontri,
i discorsi e le presentazioni a noi sembrano inutili e
interminabili, mentre hanno una fondamentale im-
portanza perché dilatano nel tempo l’importanza
della relazione: l’ascolto dell’altro spesso più effica-
ce nella presa di decisione se confrontato con il non
ascolto di molte nostre riunioni.
Contatti amici.jangany@gmail.com
Info
https://jangany.tumblr.com
La mancanza
di piogge da
quattro anni
ha seriamente
minacciato
questo
percorso
di crescita.
Senza acqua
potabile
non si va
da nessuna
parte.
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I PRIMI SALESIANI
T.B.
Giuseppe BUZZETTI
Il coadiutore caro a don Bosco
che non voleva farsi salesiano.
Suo fratello Carlo è stato
il capomastro della Basilica
di Maria Ausiliatrice.
In alto: La
famiglia
Buzzetti al
completo.
Giuseppe è
il terzo da
sinistra in
piedi. Sotto:
L’incontro di
Giuseppe con
don Bosco.
Un pomeriggio festivo del dicem-
bre 1841, i due fratelli Carlo e
Giovanni Buzzetti si trovavano nella
chiesa torinese di San Francesco, e du-
rante la predica sonnecchiavano sui gradini della
balaustrata di un altare laterale. Don Bosco, che
passava di là, li avvicinò, scosse Carlo e gli chiese
sommessamente: «Perché dormite?»
«Perché non capiamo un accidente della predica...»
rispose l’interrogato con uno sbadiglio. «Quel pre-
dicatore non parla per noi...» dichiarò Giovanni
con una smorfia.
«Venite con me!» concluse il giovane prete. E li
accompagnò verso l’attigua sacrestia, dove li sot-
topose a un amorevole interrogatorio, per meglio
conoscere le loro condizioni.
Erano due dei tanti ragazzi che accorrevano a To-
rino per fare da manovali ai muratori in attesa di
miglior fortuna. Con una decina di amici forma-
rono il primo gruppetto dei ragazzi di don Bosco
che continuarono ad incontrarsi per un piacevole
“catechismo” nell’oratorio (cioè nella cappella) di
sant’Omobono, attigua alla sacrestia.
L’anno dopo, ai due fratelli Buzzetti si unì l’undi-
cenne Giuseppe.
L’anima dell’Oratorio
Ebbe la sorte di incontrare presto don Bosco dal
quale rimase talmente affascinato, che interveniva
assiduo alle sue radunanze festive durante il perio-
do dell’Oratorio ambulante. Continuò così fino al
1847, quando, invitato dal Santo, intraprese con tre
compagni gli studi per diventare prete; ma la Prov-
videnza dispose altrimenti.
La Congregazione era nata. Don Bosco ne provò
una grande gioia. Ma credo che in quel giorno una
ruga di malinconia gli rimase in fondo all’anima:
tra i diciassette che avevano accettato non c’era il
suo carissimo Giuseppe Buzzetti.
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3.9 Page 29

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Maneggiando una pistola (per difendere gli og-
getti esposti nella prima lotteria) aveva subito un
incidente grave: avevano dovuto amputargli il dito
indice della mano sinistra. Questo, a quel tempo,
era considerato un impedimento serio a diventare
sacerdote. L’incidente, «unito all’umiltà» osserva
don Lemoyne, aveva persuaso Buzzetti a rinuncia-
re all’abito chiericale.
Ma dedicava ogni ora della sua giornata al «suo»
don Bosco e all’oratorio. Teneva la manutenzione
della casa – elenca don Lemoyne –, assisteva in
refettorio, apparecchiava le tavole, provvedeva alle
pulizie, faceva scuola di catechismo, teneva l’am-
ministrazione e provvedeva alla spedizione del-
le Letture Cattoliche. Diresse anche la scuola di
canto fino al 1860, quando la cedette a Giovanni
Cagliero. «Con la sua mente perspicace e l’attivi-
tà pronta era l’anima di tutte le lotterie, andava in
cerca di lavoro per i laboratori, ordinava il pane e
provvedeva alle compere».
Sentiva l’oratorio come carne della sua carne.
Quando era crollato l’edificio quasi terminato,
aveva esaminato con pignoleria le fatture. Aveva
trovato ordinazioni di materiale scadente, e aveva
investito l’impresario con parole pesanti. Don Bo-
sco stesso aveva dovuto calmarlo: «Dobbiamo avere
pazienza. Vedrai che il Signore ci aiuterà».
«Sì, sì, ci aiuterà! Ma intanto lei veglia, lavora gior-
no e notte per avere qualche centinaio di lire, e
questi qui gliene rubano migliaia in un momento.
Bisognerebbe dar loro una lezione decisa».
«Lasciamo andare. Se la meritano, gliela darà il Si-
gnore».
Buzzetti (continua Lemoyne da cui abbiamo preso
il dialogo) faceva la guardia a don Bosco, accom-
pagnandolo quando si temeva qualche pericolo, gli
andava incontro alla sera. La sua figura vigorosa, la
foltissima barba rossa tolsero a parecchi malinten-
zionati la voglia di attaccare il prete di Valdocco.
I suoi fratelli muratori (Carlo era diventato un otti-
mo capomastro) parecchie volte gli dissero: «Se non
ti vuoi far prete, cosa ci stai a fare all’oratorio? Se
morisse don Bosco, senza nessun mestiere in mano,
come te la caveresti?»
E lui: «Don Bosco mi ha garantito che anche dopo
la sua morte, per me ci sarà sempre un pezzo di
pane. Per me va bene così».
Eppure questo giovane uomo (nel 1859 aveva 27
anni) che avrebbe dato per don Bosco la vita, non se
la sentiva di fare i voti, di diventare salesiano.
II primo «laico» ammesso nella Società Salesiana
fu Giuseppe Rossi. Il «capitolo della Società Sa-
lesiana» si riunì per decidere la sua ammissione il
2 febbraio 1860. Con Rossi, la parola «coadiutore»
fece la sua apparizione nel vocabolario della Con-
gregazione, con il significato di «salesiano laico».
La crisi di Giuseppe Buzzetti
Il 14 maggio 1862 segnò una nuova tappa nel con-
solidamento della Società Salesiana. Riuniti nella
solita stanzetta di don Bosco, i «confratelli», ri-
spondendo all’invito di don Bosco, «promisero a
Dio di osservare le Regole facendo voto di povertà,
di castità e di obbedienza per tre anni». Erano ven-
tidue, non compreso il fondatore.
Don Bosco, al termine, disse: «Mentre voi facevate
a me questi voti, io li facevo pure a questo Croci-
I fratelli
Buzzetti
erano arrivati
a Torino
nella grande
immigrazione
dei piccoli
muratorini,
lustrascarpe,
selciaioli e
spazzacamini.
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I PRIMI SALESIANI
Con una
decina di amici
formarono
il primo
gruppetto
dei ragazzi di
don Bosco che
continuarono
ad incontrarsi
per un
piacevole
“catechismo”
nell’oratorio
(cioè nella
cappella) di
sant’Omobono,
attigua alla
sacrestia.
fisso per tutta la mia vita, offrendomi in sacrificio
al Signore».
Nel gruppo dei ventidue facevano parte altri due lai-
ci, tra loro molto diversi. Il primo, Giuseppe Gaia,
sarebbe stato per molti anni cuoco all’oratorio. Il
secondo, Federico Oreglia di S. Stefano, apparte-
neva all’aristocrazia torinese. Don Bosco l’aveva
conquistato durante un corso di Esercizi Spirituali,
facendogli chiudere un periodo di «vita avventurosa
e galante». Per nove anni avrebbe reso molti servizi
all’oratorio, poi sarebbe entrato tra i Gesuiti.
Una tentazione facile, negli anni che seguirono e
che videro altri laici aderire alla Congregazione,
era quella di considerare i non sacerdoti e chierici
come «servitori» della casa, o almeno come «cate-
goria di second’ordine».
Nacque probabilmente in questo contesto la «crisi»
di Giuseppe Buzzetti. È narrata nel volume quinto
delle Memorie Biografiche, da cui condensiamo.
Egli intuiva che l’antica vita patriarcale di famiglia
sarebbe stata modificata dai regolamenti; vedeva a
poco a poco passare in mano dei chierici la direzio-
ne della casa, le incombenze che prima erano affi-
date a lui. Malinconia e scoraggiamento lo decisero
a partire. Si trovò un posto in Torino e andò a con-
gedarsi da don Bosco. Con la solita schiettezza gli
disse che ormai stava diventando l’ultima ruota del
carro, che doveva obbedire a quelli che aveva visto
arrivare bambini, a cui aveva insegnato a soffiarsi
il naso. Manifestò la sua grande tristezza nel dover
partire da quella casa che aveva visto venir su dai
giorni della tettoia.
Don Bosco non gli disse: «Mi lasci solo. Come farò
senza di te?». Non compianse se stesso. Pensò a lui, al
suo amico più caro: «Hai già trovato un posto? Ti da-
ranno una paga buona? Non hai denaro, e certamen-
te te ne occorrerà per le prime spese». Aprì i cassetti
della scrivania: «Tu li conosci meglio di me questi
cassetti. Prendi tutto quello che ti occorre, e se non
basta dimmi ciò di cui hai bisogno e te lo procurerò.
Non voglio, Giuseppe, che debba patire qualche pri-
vazione per me». Poi lo guardò con quell’amore che
solo lui aveva per i suoi ragazzi: «Ci siamo sempre
voluti bene. E spero che non mi dimenticherai mai».
Allora Buzzetti scoppiò a piangere.
Pianse a lungo, e disse: «No, non vo-
glio lasciare don Bosco. Resterò sem-
pre con lei».
Il «coadiutore»
che don Bosco
portava nel cuore
Fu forse questo avvenimento che sti-
molò don Bosco a definire meglio la
figura del salesiano laico, del «coadiu-
tore» nella Congregazione Salesiana.
31 marzo 1876. In una «buona notte»
riservata agli artigiani, indicò in che
cosa consisteva la vocazione del sale-
siano laico: «Notate che tra i soci della
Congregazione non c’è distinzione al-
cuna; sono trattati tutti alla stessa ma-
niera, artigiani, chierici e preti; noi ci
consideriamo tutti come fratelli».
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Fidatissimo, umile,
sempre presente nei momenti
difficili e delicati, sentiva
l’oratorio come la sua famiglia,
carne viva della sua vita.
Molti altri «coadiutori» facevano ormai parte del-
la Società Salesiana con mansioni svariatissime:
Pelazza e Gambino erano direttori di laborato-
ri; Marcello Rossi era portinaio; Nasi infermiere;
Giuseppe Rossi amministratore; Enria factotum;
Falco e Ruffato cuochi. Ma tutti «coadiuvavano il
sacerdote» con responsabilità apostoliche: insegna-
vano catechismo, erano assistenti e educatori.
La «tentazione», di cui parlavamo poco sopra, tor-
nò negli ultimi anni della vita di don Bosco. Nel
terzo «Capitolo Generale» della Congregazione,
tenuto nel 1883, qualcuno disse: «Bisogna tenere
bassi i coadiutori, formare per essi una categoria
distinta».
Don Bosco reagì con vivacità: «No, no, no. I con-
fratelli coadiutori sono come tutti gli altri». E par-
lando nello stesso anno ai Salesiani laici affermava
con forza: «Voi non dovete essere chi lavora diret-
tamente o fatica, ma bensì chi dirige. Voi dovete
essere come padroni sugli altri operai, non come
servi... Questa è l’idea del coadiutore salesiano. Io
ho tanto bisogno di avere molti che mi vengano ad
aiutare in questo modo! Sono perciò contento che
abbiate abiti adatti e puliti; che abbiate letti e celle
convenienti, perché non dovete essere servi ma pa-
droni, non sudditi ma superiori».
Pietro Braido, studioso del problema, afferma: «La
figura del coadiutore (nella mente di don Bosco)
non sorse di colpo come una creazione tutta nuova
e originale, ma emerse gradualmente, tra oscilla-
zioni e incertezze».
Noi osiamo affermare che forse la «figura ideale»
del coadiutore che don Bosco portò in cuore per
tanti anni fu quella di Giuseppe Buzzetti: fidatissi-
mo, umile, sempre presente nei momenti difficili e
delicati, che sentiva l’oratorio come la sua famiglia,
carne viva della sua vita, che si sentiva realizzato
perché la «sua famiglia» si realizzava, che non capi-
va molto di cose giuridiche ma ad ogni costo «vole-
va stare con don Bosco».
Eppure quest’uomo, che avrebbe dato per don Bo-
sco la vita e che ne amava d’intenso amore l’opera,
non si stimava degno di essere salesiano.
Finalmente nel 1877 si decise a far la domanda di
venire ascritto alla Società, a cui apparteneva già
con lo spirito, se non di nome. Don Bosco stesso
volle proporre la sua domanda al Consiglio Supe-
riore, che accolse a pieni voti il più antico dei fre-
quentatori dell’oratorio viventi.
Nulla veramente egli ebbe da mutare nella sua ma-
niera di vivere. Da quasi quarant’anni l’Oratorio
era tutto il suo mondo, la vita dell’oratorio tutta la
sua vita e la Congregazione Salesiana il suo ideale
quaggiù. Dopo la morte di don Bosco visse ancora
tre anni e mezzo; ma si sarebbe detto che la sua
missione su questa terra era finita. Aggravatisi no-
tevolmente gli incomodi della salute, accettò con
piacere di andare a Lanzo. Passava lassù i suoi gior-
ni in preghiera.
Una tranquillità perfetta regnava nel suo spirito,
una calma inalterabile lo accompagnò sul letto del
dolore fino all’ultimo giorno, il 13 luglio 1892.
Ebbe la sorte
di incontrare
presto don
Bosco dal
quale rimase
talmente
affascinato
da decidere di
non lasciarlo
mai più.
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FMA
Emilia Di Massimo
Come buoni CASTORI
L’esperienza di Kunchada
Ogni pezzo di legno che veniva
usato per formare la diga era
l’impegno e la determinazione di
ciascun componente del gruppo.
“Sfoglio l’album delle foto e mi accorgo
che è trascorso davvero tanto tempo
da quando ho vissuto l’esperienza del
volontariato; osservo con attenzione i
dettagli e provo una certa nostalgia ma è maggiore
la gioia di aver fatto un’esperienza: aver dato gra-
tuitamente, una realtà che non sono in grado di vi-
vere ogni giorno. Aver svolto il volontariato è stata
una fantastica esperienza per la mia vita”.
Kunchada Lertwitthayawiwat, una giovane
thailandese, appartenente al gruppo di volon-
tariato “Salesian Sisters Youth Volunteers”,
noto anche come ssyv, desidera condividere la
sua storia rivolgendosi soprattutto ai suoi coe-
tanei, ai quali vuole narrare la sua esperienza
dando voce alle fotografie. Le chiediamo
come sia venuta a conoscenza della realtà
di cui oggi fa parte e ci dice che “tutto è
iniziato dall’invito fattomi da una suora
quando frequentavo la scuola delle Figlie
di Maria Ausiliatrice: ‘Vuoi venire a diver-
tirti un po’ con noi?’”.
i vari momenti dell’esperienza sono i singolari di-
vertimenti ai quali la suora mi ha invitato a parteci-
pare: un’opportunità di costruire uno sbarramento
naturale imparando a conoscere la natura mediante
il contatto delle proprie mani”. Kunchada prose-
gue così il suo racconto: “vedere i volti sorridenti
di persone diverse unite per un unico scopo è stato
meraviglioso. Ogni pezzo di legno che veniva usato
per formare la diga era l’impegno e la determina-
zione di ciascun componente del gruppo. Il legno
non proveniva tutto dallo stesso albero ma serviva
a comporre una sola realtà, proprio come la straor­
dinaria relazione che si è creata tra noi. Sento tanta
riconoscenza per la possibilità che mi è stata rega-
lata, in particolare per la conoscenza reciproca, ar-
ricchente in quanto non eravamo tutte della stessa
età”.
Un buon legno
Inizialmente non ho capito bene che tipo di
proposta fosse né che cosa significasse ma
ho pensato che in fondo non avrei avuto
nulla da perdere. Le foto che mostrano
“… aiuterò un pettirosso…”
Chiediamo a Kunchada qual è il ricordo più bel-
lo che ha e ci dice che è quello delle suore e delle
giovani che, sedute per terra, pranzano insieme,
aggiunge che ciò è “la semplicità che non conosce
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4.3 Page 33

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discriminazione, è la concretizzazione dello spirito
di famiglia dove le relazioni, anche tra le diverse
generazioni, sono vissute con parole e gesti carichi
di umanità”. Guardando ancora le foto, prosegue
dicendo che “sono state eseguite anche altre varie
attività a beneficio degli abitanti che, attuate come
se fossero un divertimento, hanno fatto crescere
ciascuno”. Kunchada afferma che è maturata in lei
la ferma convinzione che quando si fa del bene il
risultato è sempre positivo se si fa con il cuore, in-
dipendentemente dalla quantità dell’azione. Quan-
do si compie qualcosa per gli altri occorre che sia
piacevole, che si svolga con il cuore ed anche se co-
sta fatica, ed alle volte ci si può anche scoraggiare,
quasi senza che ci si accorga si diventa persone alle
quali risulta piacevole fare qualcosa di buono per la
società. In generale ai giovani piace che il bene si
realizzi con allegria, come se fosse un divertimen-
to. Sono molto contenta di far parte delle giovani
che si sono dedicate a favore degli altri e sento una
grande riconoscenza per la suora che mi ha invita-
ta, per la spiritualità giovanile salesiana che mi ha
formata fino ad oggi”.
Completiamo la significativa condivisione di
Kunchada chiedendo a suor Mallika Dansom,
educatrice, di darci alcune informazioni relative
all’esperienza: “I membri del volontariato ssyv,
Thidanukroh School, hanno partecipato al pro-
getto “Salva l’ecologia” insieme ad un gruppo di
“donne impegnate nel progresso” della provincia di
Songkhla allo scopo di costruire insieme una diga
per avere così un piccolo serbatoio d’acqua per gli
animali selvatici, in particolare durante la stagio-
ne della siccità. Nella medesima occasione, si sono
unite per piantare 1000 alberi nelle vicinanze, in
quanto la foresta è stata distrutta quasi interamen-
te, fatto che ha causato un minore accumulo di ac-
qua nelle valli.
L’esperienza è rimasta impressa nel cuore di chi l’ha
vissuta ed ha permesso loro di sentirsi consapevol-
mente collaboratrici nell’impegno di “restituire la
natura alla natura” devastata, direttamente e non,
dagli uomini. Il gruppo ssyv ha un motto: “Servire
con gioia comunque, non importa come”.
La testimonianza ascoltata fa pensare ad una poesia
di Emily Dickinson, “Se io potrò impedire a un
cuore di spezzarsi… Se allevierò il dolore di una
vita, o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel
nido, non avrò vissuto invano”.
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 6
Portare GIOIA
«Genitori, vi ordino: siate felici!» (T. Berry Brazelton)
Guai a togliere la gioia dall’educazione.
Dopo il gusto del latte, il bambino deve
subito provare il gusto della vita. Uno
dei più intelligenti ed originali studiosi
del secolo scorso, Teilhard de Chardin, è arrivato a
dire che “la gioia di vivere è la più grande poten-
za cosmica”. Il notissimo pedagogista statunitense
T. Berry Brazelton è giunto, addirittura, a coman-
dare: “Genitori, vi ordino: siate felici!”. “Siate felici”
perché la gioia è educativa per natura sua. La gioia
ci migliora sempre, mentre la tristezza ci peggiora
sempre. Baden Powell, il fondatore dello scoutismo,
notava che “un sorriso fa fare il doppio di strada di
un brontolio”, ed aggiungeva: “fino a qualche tem-
po fa ho creduto nella verità del detto ‘un bastone
ed un sorriso possono superare qualunque difficol-
tà’, ma poi la mia ulteriore esperienza mi ha rivelato
che, in genere, si può lasciare a casa il bastone”.
D’altronde già Platone (427-347 a.C.) diceva: “Non
costringete i ragazzi ad imparare con la violenza e la
severità, ma guidateli per mezzo di ciò che li diver-
te”. Oggi vi sono psicologi e medici che propongo-
no la Risoterapia: la cura dei mali grazie alla risata.
Perché non propagandare anche la “risopedagogia”?
Dunque, genitori, ridete! L’educazione non deve es-
sere un lavoro forzato. Proponiamo tre sole piste,
quelle che ci sembrano più urgenti e necessarie oggi.
«Ridi, papà! Sei a casa»
Un padre di tre bambini, molto impegnato nel la-
voro, quasi non aveva tempo per i figli.
«E la coscienza mi rimordeva: hai troppo poco
tempo per i tuoi ragazzi, mi dicevo». Raccontava
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agli amici. Così si era preso del tempo una volta
alla settimana.
«Tornavo a casa prima per dedicarmi totalmente a
loro. E che è successo?».
Ha fatto una pausa. «Il caos più totale! Facevano il
diavolo a quattro, finché non sono andato in bestia
e ho urlato: “Adesso basta! La prossima settimana
rimango al lavoro!”».
Al che Leonardo, il maggiore, ha risposto: «Grazie
a Dio! Tu rompi solo le scatole, papà!».
Era rimasto di stucco, senza parole, impotente. Più
tardi, però, aveva discusso la situazione con i figli.
E Daniele, il mezzano, gli aveva aperto gli occhi.
«Papà, quando stai con noi, con la testa sei ancora
al lavoro. Hai un’aria così severa, non ci vedi nem-
meno, non ridi mai. Rimani sempre il capo!».
E quando il padre gli aveva domandato che cosa
avrebbe dovuto cambiare, Daniele gli aveva risposto
di getto: «Ridi, papà. Fai lo scemo, qualche volta!».
E, insieme, avevano elaborato una strategia.
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4.5 Page 35

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Adesso quando lui sta con loro, per prima cosa 4. “Non ho tempo”. “Lasciami in pace”: ditemelo
ognuno racconta una barzelletta. Questo allegge- pochissime volte.
risce l’atmosfera: «Ridere insieme rilassa, allenta la 5. Quando arriva il circo, andiamo tutti insieme a
tensione!» e si ripercuote sull’intera vita familiare.
goderci lo spettacolo.
Quando se ne sta immerso nei suoi pensieri, ancora 6. E lasciatemi giocare! Bimbo che non gioca, gioia
preso dal lavoro, uno dei figli gli dice: «Ridi, papà! ne ha poca.
Sei a casa!».
7. Non mandatemi a letto: accompagnatemi.
«Gli studi dimostrano che nel fenomeno del “con- 8. La mia felicità non sta nei fornelli, né nella
tagio emotivo” assorbiamo emozioni – positive o macchina lunga di qui a là: la mia felicità sta in
negative che siano – dagli altri. Prendersi il tempo un abbraccio, in un po’ di attenzione.
per essere sciocchi significa potersi reciprocamen- 9. Fatevi la lista delle cose fastidiose che vi sie-
te “attaccare” l’allegria e chi è allegro ha il trenta te inflitti nell’ultimo mese e di cui ora ridete.
per cento circa di possibilità in più di essere felice» Dunque era da saggi tarantolarvi così tanto?
(Una mamma).
10. Di tanto in tanto fatemi una sorpresa. Le bel-
Un decalogo
le sorprese funzionano sempre: a me piacciono
come la neve che cade dal cielo!
Liberiamoci dalle nostre catene mentali che incate- Ecco le richieste del nostro bambino. Richieste im-
nano i figli e ci rendono insopportabile la vita. Per- possibili, inattuabili? No, affatto!
ché farci del male da soli? Educare è già difficile di Per far felice un bambino non è necessario posse-
per sé, perché complicarlo ancor più?
dere una laurea, avere competenze particolari: ba-
Impariamo il decalogo della gioia dettato dal figlio. sta un po’ di impegno. Impegno che ci ripagherà
I genitori non trovano mai il tempo per leggere a come nessun altro.
lungo. Non hanno tutti i torti.
Un bambino felice si ammala di meno, è meno ca-
Perciò abbiamo cercato di concentrare in un deca- priccioso, sfrutta meglio l’intelligenza, è più socie-
logo le tante cose che si potrebbero dire sul dovere vole, è più ottimista, parte con la marcia giusta per
di regalare la gioia ai nostri bambini, È il decalogo la vita, è destinato a vivere più a lungo. Che cosa si
che uno di essi ha preparato per voi. Leggiamolo al può pretendere di più? La risata del bambino è la
rallentatore.
melodia più dolce del mondo!
1. Non giratevi a rimpiangere i mulini bianchi; a Far felice un bambino eleva l’uomo: lo fa grande. Un
rimpiangere i tempi in cui gli alberi servivano a padre ed una madre che fanno felice il loro figlio
fare gli zoccoli, i tempi in cui il cinema era
mettono la “G” maiuscola al loro essere
muto e la televisione non c’era. Chi guarda
“genitori”.
troppe volte il passato, muore in anticipo,
e non lascia godere la vita a chi è appena
approdato sulla terra.
2. Potete veder nero solo quando è buio! Con
il pessimismo non si va da nessuna par-
te. Non vi è mai stato un pessimista
che abbia fatto un buon lavoro per l’u-
manità.
3. “Ti voglio bene”. “Sei straordinario!”: di-
temelo spesso.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Il mio posto
nel MONDO
«Perché si torna sempre dove si è stati bene /
e i posti sono semplicemente persone...».
«I lle terrarum mihi praeter omnis angulus
ridet» (Quell’angolo di terra più degli
altri mi sorride). Così scrive Orazio
nelle “Odi”, alludendo al potere dei
luoghi di renderci felici, di dare ristoro alla nostra
anima, di farci sentire a casa. Ognuno di noi ha,
infatti, uno o anche più “luoghi del cuore”: po-
sti indissolubilmente legati ai ricordi spensierati
dell’infanzia, mete di viaggi e vacanze che ci han-
no cambiato per sempre la vita, permettendoci di
conoscere una parte di noi che neppure pensavamo
di possedere, città che ci hanno ammaliato con i
loro colori e profumi o che ci hanno accolto nel loro
grembo ospitale in momenti difficili di peregrina-
Nessun posto è casa mia,
ho pensato andando via;
soffrirò nei primi giorni ma
so che mi ci abituerò.
Ti cercherò nei primi giorni,
poi mi abituerò,
perché si torna sempre dove si è stati bene
e i posti sono semplicemente persone...
Partenze improvvise, automobili, asfalto,
le ombre di una notte in provincia,
il coraggio di chi lascia tutto alle spalle
e poi ricomincia.
Non era la vita che stavamo aspettando,
ma va bene lo stesso:
è l’amore che rende sempre tutto pazzesco...
zione e di cambiamento, paradisi naturali o piccoli
angoli di mondo, nascosti allo sguardo dei più, in
cui abbiamo sperimentato un’intima comunione
con il Tutto. Luoghi, in altre parole, in cui siamo
stati bene e in cui aneliamo, alla prima occasione
utile, di poter ritornare.
In una società sempre più nomade e fluida come
quella che caratterizza la presente fase storica,
il rapporto con i luoghi e, più in generale, con la
dimensione “fisica” e concreta dello spazio appa-
re, tuttavia, alquanto problematico. Spesso siamo
portati a vivere i luoghi del nostro quotidiano in
maniera superficiale, attraversando distrattamente
non solo lo spazio che ci circonda, ma anche le co-
munità, le culture, le identità plurali che in quello
spazio si sono sedimentate nel corso del tempo e
che contribuiscono a dargli un’“anima” e a confe-
rirgli significato. E, certo, questa difficoltà di ra-
dicamento che ci porta a “non sentirci veramente
a casa in nessun posto” non può trovare una qual-
che forma di compensazione, sia pure parziale ed
illusoria, nella dimensione rarefatta e immateriale
dello spazio virtuale, nel quale possiamo tutt’al più
trovare una via di fuga da una realtà spesso avver-
tita come anonima e indifferente ai nostri desideri,
ma che non è in alcun modo in grado di restituirci
un autentico senso di appartenenza.
Ciò è vero, indubbiamente, per le nuove genera-
zioni, che forse più di altre faticano a costruire un
rapporto cordiale con i luoghi del proprio vissuto
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4.7 Page 37

▲torna in alto
e tendono a rinchiudersi nel guscio impenetrabile
della propria interiorità o a rifuggire da qualsiasi
identificazione troppo rigida con un ambiente in
cui, il più delle volte, non si riconoscono. Ma sem-
bra riguardare in misura non minore anche i giova-
ni adulti, più ancorati alle proprie “radici” rispetto
agli adolescenti nati e cresciuti all’ombra della glo-
balizzazione, ma proprio per questo portati a vivere
con maggiore sofferenza una condizione di inevi-
tabile nomadismo dovuta a esigenze lavorative, a
ragioni affettive o, più semplicemente, all’inesausta
ricerca del proprio “posto nel mondo”.
Un’accresciuta mobilità che non rappresenta di per
sé qualcosa di negativo, soprattutto quando è frutto
del desiderio di mettersi in discussione, di confron-
tarsi con un contesto differente, di conoscere nuove
culture e territori, ma che può diventare causa di
“sradicamento” e di nostalgia per la distanza che ci
separa dai luoghi che amiamo.
Se da un lato, infatti, siamo sempre più abituati
a periodici trasferimenti e cambi di scenario che
ci sollecitano a maturare forti capacità di adatta-
mento e una resilienza indispensabile per poter
davvero diventare “cittadini del mondo”, dall’altro
lato abbiamo bisogno di riconoscere dei luoghi con
cui costruire un legame privilegiato, radicato nella
memoria o intessuto di futuro, in cui ritrovare noi
Nessun posto è casa mia,
l’ho capito, sì, andando via.
È sempre dura i primi tempi ma
so che mi ritroverò.
Avrò sempre occhi stanchi e mancherai,
poi mi abituerò,
perché si torna sempre dove si è stati bene
e i posti sono semplicemente persone...
Voglia di tornare, luci basse, stazioni,
anche se non ci sarà nessuno ad aspettarti,
la bellezza di chi, nonostante tutto, sa perdonarti.
Non era la vita che stavamo aspettando,
ma va bene lo stesso:
è l’amore che rende sempre tutto perfetto!
È l’amore che passa, si ferma un momento,
saluta e va via.
È l’amore che rende i tuoi silenzi casa mia...
(Chiara Galiazzo, Nessun posto è casa mia, 2017)
stessi o dove gettare le fondamenta di un rinnovato
progetto di vita.
Dei luoghi che non necessariamente sono traccia-
bili con precisione sulla carta geografica, che non
per forza coincidono con un posto determinato, ma
che talvolta si identificano piuttosto con dei “ter-
ritori del cuore”, in cui a contare davvero e a con-
ferire significato al nostro esserci non sono tanto il
paesaggio, le strade, le piazze o gli edifici, quanto
l’amore che vi abbiamo seminato e le relazioni che
siamo stati capaci di coltivare.
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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Un piatto di MINESTRA e
un paio di SCARPE al futuro
PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Il recente ritrovamento di
una lettera inedita di don Bosco
a sua Eccellenza il ministro
Francesco Crispi (1818-1901)
ci dà l’opportunità di ricordare ai
nostri lettori i rapporti di stima che
intercorsero fra di loro, nonostante
il loro essere politicamente molto
lontani, per non dire agli antipodi.
F rancesco Crispi fu uno degli organizza-
tori della Rivoluzione siciliana del 1848,
sostenitore e partecipe della spedizione
garibaldina dei Mille, mazziniano conver-
titosi agli ideali monarchici, anticlericale, massone
e ostile allo Stato pontificio. Dopo l’unità d’Italia
fu presidente del Consiglio dal 1887 al 1891 e dal
1893 al 1896. In entrambi i periodi assunse pure la
responsabilità di ministro dell’Interno. La disfatta
di Adua in Abissinia del 1896 segnò la fine della
sua carriera politica.
Cavour e non aver ottenuto l’incarico di segretario
comunale in un paese, conobbe la povertà se non la
miseria. A dire di un articolo del giornale La Li-
bertà di Friburgo, se ne sarebbe accorto don Bo-
sco che, incontrandolo nel corso di una passeggiata
con i ragazzi in città, lo avrebbe invitato a pranzo
a Valdocco. Sovente, lungo un mese e mezzo suc-
cessivo, avrebbe mangiato alla mensa di don Bo-
sco. Viveva di fatto non lontano da Valdocco, in
una stanzetta presso la Consolata, dove don Bosco
talora gli avrebbe fatto portare del cibo, del denaro
e anche un paio di scarpe nuove dal capocalzola-
io. In qualche sua visita domenicale a Valdocco,
il Crispi si sarebbe pure confessato da don Bosco,
che certamente non avrà mancato di presentargli i
suoi progetti per l’educazione della gioventù. Del
resto negli stessi anni a Valdocco teneva analoghi
discorsi con un altro laicissimo protagonista del
Risorgimento, il piemontese Urbano Rattazzi, più
volte Presidente del Consiglio dei ministri, che a
Urbano
Rattazzi,
come
Francesco
Crispi, fu
Presidente
del Consiglio
dei Ministri e
amico di don
Bosco.
Un posto a mensa con don Bosco
A Torino il siciliano Francesco Crispi visse da esule
dal settembre 1849 al marzo 1853, allorché, arre-
stato, fu esiliato a Malta, allora colonia britannica.
Nei quattro anni trascorsi a Torino, anche per aver
rifiutato di collaborare con un giornale di orienta-
mento moderato come il Risorgimento, fondato da
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Valdocco aveva addirittura fatto ricoverare un irre-
quieto nipote e la cui moglie, Madame de Solms,
scrittrice e nobile francese con cittadinanza inglese
e italiana, dopo un solenne ricevimento a Valdocco,
avrebbe definito Valdocco la più grande meraviglia
del secolo.
Dal 1853 al 1878 non risulta ci siano stati ulteriori
rapporti fra don Bosco e il Crispi, benché dal 1861 al
1865 quest’ultimo fosse membro del parlamento na-
zionale con sede a Torino. Ma all’epoca, grazie alla
sua professione di avvocato, aveva ormai decisamen-
te migliorato le proprie condizioni economiche, che
per altro non sempre furono floride negli anni suc-
cessivi anche per questioni di indole matrimoniale.
Per quanti beneficavano le opere salesiane, don
Bosco era solito rivolgersi alle autorità per ottenere
loro delle onorificenze. Così il 2 febbraio 1878 da
Roma avanzò la richiesta all’onorevole Francesco
Crispi di una decorazione cavalleresca per il dottor
Giovanni Battista Albertotti, che dal 1872 prestava
gratuitamente la sua assistenza medica all’Orato-
rio. La domanda ebbe favorevole accoglienza, ma la
deliberazione rimase senza effetto per la caduta del
Ministero il 7 marzo.
Il conclave del 1878
In occasione del conclave indetto per il 19 febbraio
1878 a seguito della morte di papa Pio IX, don Bosco
ebbe modo di incontrare nuovamente il Crispi nelle
vesti di ministro dell’Interno. Chiamato in causa,
il ministro gli assicurò che non aveva difficoltà a
garantire che l’imminente assise avrebbe trovato a
Roma ordine, sicurezza e soprattutto incondiziona-
ta libertà. Altro che pensare ad un conclave all’este-
ro! Nel colloquio don Bosco gli parlò pure della si-
tuazione della gioventù soprattutto immigrata nella
nuova capitale in cerca di fortuna, degli inevitabili
problemi che ne derivavano e delle più appropriate
soluzioni assistenziali ed educative. Colse l’oppor-
tunità per inserire pure il discorso circa la possibilità
di trovare a Roma un complesso edilizio per l’im-
pianto di un’opera giovanile salesiana.
Una concessione post mortem
La sera stessa della morte di don Bosco, il 31 gen-
naio 1888, il Capitolo Superiore Salesiano “promet-
te al Signore che se la Madonna ci fa la grazia di
poter seppellire don Bosco sotto la chiesa di Maria
Ausiliatrice o almeno nella nostra casa di Valsalice,
avrebbe di quest’anno o almeno al più presto pos-
sibile incominciati i lavori per la decorazione della
sua chiesa”. Avanzata la richiesta formale alle auto-
rità cittadine, fu respinta. In città erano proibite le
sepolture. Si ricorse allora al Procuratore salesiano
di Roma, don Cesare Cagliero e al parroco del Sa-
cro Cuore, don Antonio Notario, perché facessero
pressioni sul Presidente del Consiglio dei ministri e
ministro degli Interni Francesco Crispi. Venne im-
mediatamente concessa, come richiesto, la tumu-
lazione fuori città, nella casa salesiana sulla collina
di Valsalice.
La fama internazionale di don Bosco e forse anche il
debito di riconoscenza del Crispi fecero la loro par-
te. Il ministro raccomandò solo che, dati i tempi di
forte anticlericalismo, il trasporto della salma non as-
sumesse carattere di una dimostrazione clericale. Fu
così che il 4 febbraio 1888 un mesto corteo accom-
pagnò silenziosamente la salma di don Bosco alla
tomba già preparata a Valsalice. Dalla collina sarebbe
ritornata in trionfo a Valdocco, fra due impressionan-
ti ali di folla, il 9 giugno 1929, dopo la sua elevazione
agli altari del 2 giugno precedente. Il famosissimo
canto Giù dai colli, ancor oggi cantato in cento lingue
sotto tutti i cieli, fu composto nell’occasione.
Il traporto
a Valsalice
della salma
di don Bosco.
La bella
tomba
era stata
costruita da
Carlo Buzzetti
a sue spese.
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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di maggio preghiamo per la beatificazione
del Venerabile Vincenzo Cimatti, salesiano.
Vero romagnolo di Faenza, dove
nacque il 15 luglio 1879, proviene
da una famiglia di santi: dei tre
figli superstiti, lui è venerabile;
la sorella, suor Maria Raffaella,
della Congregazione delle Suore
Ospedaliere della Misericordia,
è stata beatificata il 12 maggio
1996; Luigi, Salesiano coadiutore
e missionario in America Latina,
morì in concetto di santità.
A 3 anni il piccolo Vincenzo è già
orfano di padre. Pochi giorni dopo
è portato dalla mamma nella chie-
sa parrocchiale dove predica don
Bosco: “Vincenzino, guarda, guar-
da don Bosco!” e lo tiene sopra la
testa di tutti. Salesiano a 17 anni,
prete a 24, Vincenzo accumula
titoli di studio: diploma di com-
posizione presso il Conservatorio
di Parma, laurea in agraria, in filo-
sofia e pedagogia a Torino. Per 20
anni è insegante e brillantissimo
compositore nel collegio di Val-
salice. Natale 1925: il Rettor Mag-
giore don Rinaldi lo manda come
capogruppo a fondare la missione
e l’opera salesiana in Giappone. Vi
lavorerà 40 anni. Conquista il cuore
dei giapponesi con la sua finezza,
con il suo talento artistico: dirige
concerti con strepitoso successo e
più ancora con la sua bontà. Va ai
più poveri, ai bimbi, ai vecchi, ai
malati. Apre orfanotrofi, oratori,
scuole professionali. Mette in pie-
di a Tokyo un’editrice. Nel 1935 la
missione di Miyazaki-Oita viene
eretta in Prefettura Apostolica e
don Cimatti diventa il primo su-
periore con il titolo di Monsignore.
“Ma perché volete avvelenarmi il
sangue? – scrive subito a Torino
– Lasciatemi lavorare tranquillo e
senza fronzoli. Lo immaginate don
Bosco con i fiocchi e le frange?”. E
agli amici d’Italia che gli hanno
inviato il corredo da Monsignore
spedisce indietro tutto: “Vendete
e mandatemi i soldi per i miei po-
veri”. Diventa poi Ispettore. Dopo
la terribile prova della guerra, ri-
costruisce con un coraggio raddop-
piato. E poi si ritira per fare posto ai
giovani. Morì a 86 anni il 6 ottobre
1965. Aveva detto: “Vorrei morire
qui per diventare terra giappone-
se”. È stato dichiarato venerabile il
21 dicembre 1991.
Preghiera
O Gesù, mite ed umile di cuore,
che mediante il tuo fedele servo,
il Venerabile Vincenzo Cimatti,
hai voluto manifestarci la bontà del Padre celeste,
concedici a sua imitazione una santa allegria,
fedeltà nell’esecuzione del nostro dovere
e un’attiva unione fra noi e con te
nella carità e nella preghiera.
Ti supplichiamo, per l’intercessione della tua Santissima Madre Maria
Ausiliatrice,
di affrettare la glorificazione del tuo servo fedele
e di concederci, per sua intercessione,
la grazia che ti chiediamo...
Amen.
Ringraziano
Un paio di anni fa avevo richiesto
l’abitino perché avevo letto che
san Domenico Savio aiutava
le mamme e desidero ringrazia-
re per la grazia fatta a me per il
dono della maternità, che dopo
una gravidanza non portata a
termine siamo riusciti ad avere
una bellissima bambina di nome
Fanny Maria. Grazie.
(Anna e Massimo)
Desidero segnalare l’intercessione
di suor Eusebia Palomino, per
onorare una promessa fatta. Dopo
un periodo stressante sul lavoro,
vittima di mobbing per discri-
minazione personale successivo
a un cambio nella direzione, ero
disoccupata, nel baratro. Un po-
meriggio ho incontrato una suora
salesiana, che conosco da molto
tempo. Mi ha visto preoccupata
e mi sono confidata con lei, ha
compreso la mia disperazione e
mi ha suggerito di rivolgermi con
il cuore a suor Eusebia Palomino.
Mi disse, sono certa che ti aiuterà.
Così ho fatto e il giorno successivo
sono stata contattata per un lavo-
ro che mi piace molto e ho iniziato
a lavorare, anche se a tempo de-
terminato.
(Paola)
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 14 marzo 2024 il Sommo Pontefice ha autorizzato il mede-
simo Dicastero a promulgare il Decreto riguardante il
miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo
di Dio Camillo Costa de Beauregard, Sacerdote diocesa-
no; nato a Chambéry (Francia) il 17 febbraio 1841 e ivi morto
il 25 marzo 1910. Il miracolo, avvenuto nel 1910, riguarda il
bambino René Jacquemond, guarito da «cheratocongiuntivite
intensa con smerigliatura della cornea, forte iniezione periche-
ratica, arrossamento e iniezione delle congiuntiva, fotofobia e
lacrimazione dell’occhio destro per trauma violento da agente
vegetale-bardana» (1910).
Il 15 marzo 2024 a Lahore (Pakistan) è stata chiusa l’Inchie-
sta diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione
di Akash Bashir (1994-2015), Laico, exallievo di don Bosco,
ucciso in odio alla fede. È la prima Causa di Beatificazione del
Pakistan.
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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Marina Lo Munno
Don Domenico Ricca (Mecu)
Morto a Torino il 2 marzo 2024, a 77 anni.
Storico cappellano del carcere minorile torinese
“Ferrante Aporti”.
«Cosa dire del nostro caro confra­
tello don Mecu? È difficile perché
non si può ridurre la vita di una
persona a poche righe. Ma scelgo
un aspetto tra i tanti. Il nostro pa-
dre don Bosco aveva conosciuto la
dura realtà del carcere accanto al
suo maestro e guida spirituale san
Giuseppe Cafasso e ha vissuto per
dire al Signore che avrebbe fatto
tutto il possibile per evitare che i
ragazzi arrivassero in carcere. Così
don Bosco ha fondato il primo ora-
torio a Valdocco e di lì è partito tut-
to. Oggi noi diciamo addio a un fi-
glio di don Bosco, il nostro caro don
Mecu, che ha speso tutta la sua
vita di salesiano per accompagna-
re i giovani finiti al “Ferrante” dove
don Bosco e tutti noi non avremmo
mai voluto entrassero. Don Mecu
ha amato veramente i giovani,
soprattutto quelli più fragili, lo ha
fatto per amore del Signore Gesù e
con un cuore che imitava quello di
don Bosco». Sono parole del Rettor
Maggiore dei salesiani, cardina-
le Ángel Fernández Artime che,
appena appresa la notizia della
morte, sabato 2 marzo a 77 anni,
di don Domenico Ricca (per tutti
Mecu) ha scritto un ricordo dello
storico cappellano del “Ferrante”.
Sacerdote dal 1975, cappellano al
“Ferrante” dal 1979 per oltre 40
anni, don Mecu – ha sottolineato
don Leonardo Mancini, Ispettore
dei salesiani del Piemonte e della
Valle d’Aosta che ha presieduto la
Messa funebre nella Basilica gre-
mita di fedeli – «è stato un punto
di riferimento a Torino e non solo
per tutti coloro che si occupano di
disagio giovanile».
Come don Ricca, che ha lasciato
questa terra dopo una malattia
che lo ha colpito poco dopo il ter-
mine del suo ministero di oltre 40
anni come cappellano dell’Istituto
penale minorile. Il salesiano, “don
Mecu” per tutti i suoi ragazzi, ha
avuto numerosi compiti e incarichi,
in giro per tutta l’Italia e non solo.
Ma il fulcro della sua vita è stato
tutto per i giovani reclusi, cercando
di essere come don Bosco voleva
i suoi salesiani: preti da oratorio,
preti da cortile. Per questo scelse
di intitolare il libro intervista sulla
sua esperienza di salesiano al car-
cere minorile torinese – i cui pro-
venti dei diritti d’autore sono stati
devoluti interamente per borse di
studio e lavoro per i ragazzi ristret-
ti – “Il cortile dietro le sbarre: il mio
oratorio al Ferrante Aporti” (Marina
Lomunno, Elledici).
Perché è lo stile del sacerdote da
oratorio quello con cui don Mecu
stava al “Ferrante”, e come aveva
imparato da giovane prete a stare
in cortile, informalmente a chiac-
chierare con i ragazzi, così stava
anche quando i giovani ristretti si
erano macchiati di reati gravi.
Don Ricca aveva appreso la lezione
da don Bosco. “In ogni giovane, an-
che il più disgraziato, c’è un punto
accessibile al bene e dovere primo
dell’educatore è di cercare questo
punto, questa corda sensibile del
cuore e di trarne profitto” asseriva
don Bosco. E le sue parole sono la
sintesi della vita di don Ricca, de-
dicata al riscatto dei ragazzi nati
nella “culla sbagliata” come era
solito dire.
Don Ricca, prete di frontiera, ami-
co di don Ciotti, fu tra i fondatori
prima della cooperativa sociale
Valdocco, dell’associazione “Aporti
Aperte”, dei Salesiani per il Socia-
le e del Comitato piemontese del
Forum del Terzo Settore; fu Presi-
dente dell’associazione “Amici di
Don Bosco” per le adozioni inter-
nazionali; fu Delegato per le Acli e
fu molto altro ancora. A Torino era
punto di riferimento per chi si oc-
cupa di disagio minorile, così come
lo era per i ragazzi ristretti, che
accompagnava anche dopo il fine
pena, e anche per tutto il persona-
le del “Ferrante”: agenti, operatori,
educatori, direzione, volontari che
ogni domenica animavano la Mes-
sa nella cappellina che lui stesso
aveva riaperto collocando una
statua di don Bosco, grazie ad una
donazione di amici.
E, proprio in occasione dell’Anno
della Misericordia indetto da papa
Francesco, fu grazie all’invito di
don Ricca che l’allora arcivescovo,
monsignor Cesare Nosiglia, aprì
una Porta Santa anche nella cap-
pella del “Ferrante”, nell’intento
di far sentire i ragazzi reclusi par-
te viva della comunità cristiana. E
a quella celebrazione, come alle
Messe domenicali presiedute da
don Ricca, parteciparono tutti i
giovani ristretti, la maggioranza
ortodossi e musulmani.
In una recente intervista per “La
Voce e il Tempo” chiesi a don Ricca
come oggi don Bosco accosterebbe
i “giovani pericolanti”. Ecco la sua
risposta: «Don Bosco tornerebbe in
prigione, tornerebbe alla Genera-
la... si inventerebbe l’uso dei social.
Creerebbe gruppi su Whatsapp e
Instagram! È la lezione di don Mi-
lani: le forme sono del tempo, ma
quello che ci ha lasciato è la voglia
di rischiare, di chiedere di più, di
non sedersi. Don Bosco mandereb-
be in carcere i suoi preti e chierici
più ardimentosi, giovani, li soster-
rebbe anche nelle loro intemperan-
ze. Ma soprattutto sarebbe padre,
amico e fratello dei ragazzi reclusi
e ripeterebbe anche oggi il suo mo-
nito «Amateli i ragazzi. Si otterrà di
più con uno sguardo di carità, con
una parola di incoraggiamento che
con molti rimproveri» perché «tutti
i giovani hanno i loro giorni perico-
losi, e voi anche li avete. Guai se non
ci studieremo di aiutarli a passarli in
fretta e senza rimprovero».
Don Mecu è stato seppellito a Mel-
lea di Fossano dove era nato il 31
agosto 1946. Lascia una sorella
suora di San Giuseppe e tre fratelli.
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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Ior, Pro.
Parole di 4 lettere: Cher, Step,
Twin.
Parole di 5 lettere: Aruba, Infra,
Luzòn, Niger, Vitti, Zaini.
Parole di 6 lettere: Alcool, Escort,
Iniqua, Miceti, Olanda, Ontano,
Solidi, Tronfi.
Parole di 7 lettere: Accatto.
Parole di 8 lettere: Neozoico.
Parole di 9 lettere: Cartolaio,
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso,
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le
? Velocista.
Parole di 10 lettere: Arboricolo,
Coalizione, Iettatrici, Luciferino.
?
parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 11 lettere: Callistenia,
La soluzione nel prossimo numero.
Esobiologia, Giustiziere.
OPPORTUNITÀ A CHI NON NE HA
Dal 1891 i salesiani sono presenti in Africa e da allora è in continua crescita il numero delle
comunità e dell’impegno di laici e religiosi per lo sviluppo di quei Paesi. Nel 2021 sono
state istituite 3 nuove Ispettorie nella regione Africa-Madagascar e i salesiani sono attual-
mente presenti in ben 42 dei 54 Stati africani riconosciuti.
Sono aree e contesti per lo più molto complessi e diversi fra loro. In tutti questi paesi la
XXX e Professionale rappresenta una delle principali linee di intervento per lo svilup-
po delle Nazioni africane. Delle circa 180 comunità che i salesiani hanno oggi in Africa,
96 sono impegnate prevalentemente o almeno in parte nell’inserimento dei giovani nel
mondo del lavoro sia sviluppando le competenze necessarie e sia creando l’offerta di lavoro.
Si va da interventi di semplice introduzione e accompagnamento all’inserimento lavorativo, all’offerta di percorsi di alta preparazione di
livello pre-universitario o universitario, da piccoli Centri di Formazione Professionale a grandi strutture scolastico-formative con centinaia di
dipendenti. In questi percorsi sono coinvolti annualmente circa 25 000 allievi.
Soluzione del numero precedente
Quando sono arrivati, i salesiani hanno subito investito il proprio impegno nella formazione degli
studenti con un impatto significativo sulle possibilità di cercare e trovare lavoro. Oggi, per i giovani
normalmente ci sono più possibilità e le scuole primarie e secondarie sono accessibili. La scuola se-
condaria ha molti sbocchi, dai percorsi tecnici a quelli che conducono all’università. Però ci sono Paesi
molto sviluppati e altri Paesi decisamente arretrati. Ad esempio, Kenia e Uganda sono Paesi con un
certo sviluppo, mentre il Sudan e il Sud Sudan non hanno praticamente niente; in certi Paesi non c’è
lavoro e in altri non solo c’è un lavoro, ma c’è lavoro anche per altri.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
«Potrò dargli un PUGNO»
U n uomo di 26 anni fu
condannato a dieci anni di
prigione per tentato
lividi, atteggiamento remissivo e
spaventato, vestiti «non consoni» e,
nell’ultimo periodo, i suoi occhi che
Segnali confermati anche dalla zia,
a cui il piccolo aveva detto: «Devo
mangiare tanti spinaci, così divente-
omicidio. L’uomo da tempo colpiva si chiudevano all’improvviso: «Si
rò più forte di lui e potrò dargli un
il suo bambino con raffiche di
addormentava di continuo».
pugno».
pugni, legandogli le mani dietro la
schiena. Un giorno, l’aveva quasi
ucciso, solo perché aveva bevuto un
sorso d’acqua senza il suo permes-
so. Davanti al giudice l’uomo aveva
ammesso: «L’ho colpito diverse
volte, poi lui è andato in camera
sua. Voleva di nuovo vomitare, non
?
stava più in piedi. Gli avrò dato
altri 5 o 6 colpi. Ho perso la
pazienza perché pensavo lo facesse
per dispetto».
«Era un bimbo come “annichili-
to”, scrisse l’esperta dell’ospedale:
«Emergeva il suo importante dolo-
re ma anche il suo non lamentarsi
mai, né dei tubi, né delle manovre
dei sanitari».
C’erano tutti i segni che qualcosa
di terribile gli fosse accaduto: «È
un bimbo molto spaventato che
chiede sempre scusa – annotava
la psicologa – nonostante il dolore
e il pianto, non si lamenta, non
tenta di allontanare ciò che gli crea
dolore o frustrazione, nemmeno
Gesù, voltatosi verso di loro, disse:
quando uno dei tubicini dell’os-
sigeno scivola dandogli noia, non
dice nemmeno che ha fastidio».
L’impressione di «un bambino
abbandonato a se stesso» era stata
«Figlie di Gerusalemme, non piangete per me,
ma piangete per voi stesse e per i vostri figli.
Perché se fanno questo al legno verde,
che cosa sarà fatto al secco?»
anche testimoniata, a posteriori,
(Vangelo di Luca 23:27-31)
dalle maestre che avevano notato
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