02-Febbraio-2025

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
missionari
Padre
Locatelli
le case di don bosco
Ancona
La FORZA
del SORRISO la nostra storia
Il volto di don Bosco
i santi giovani
Pier Giorgio
Frassati
salesiani
Claudia Sini
FEBBRAIO
2025

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Due FIUMI e
una PIANURA
N el 1854, il
più intrepido
dei ragazzi
di don Bosco, Gio-
vanni Cagliero, 16
anni, si ammalò
gravemente e finì in
punto di morte. Don
Bosco entrò affranto
nella cameretta dove
giaceva quel ragazzo,
quando all’improvviso
vide una colomba
bianchissima, che
portava un ramo
d’ulivo, scendere sul
letto dell’ammalato e
lasciargli cadere sulla
fronte pallida il ramo.
Subito dopo intorno
al letto apparve una
moltitudine di
selvaggi di statura gigantesca. Due
di quei giganti dal volto fiero e triste
si curvarono sopra l’infermo, e
trepidanti si misero a bisbigliare: “Se
lui muore, chi verrà in nostro
soccorso?”. Così capì che Cagliero
sarebbe guarito.
Don Bosco rivide i giganti dalla
pelle di bronzo in un altro sogno.
«Mi parve trovarmi in una regione
selvaggia e totalmente sconosciuta»
raccontò. «Vidi turbe di uomini che
la percorrevano. Erano di statura
straordinaria, aspetto feroce. Poi
vidi in lontananza un drappello di
altri missionari che si avvicinavano
ai selvaggi con volto ilare, prece-
duti da una schiera di giovanetti.
Io tremavo pensando: “Vengono
a farsi uccidere”. E mi avvicinai a
loro. Erano chierici e preti. Li fissai
con attenzione, e li riconobbi per
nostri salesiani. Non avrei voluto
lasciarli andare avanti, ed ero lì per
fermarli. Ma i giganti abbassarono
le armi, deposero la loro ferocia, e
accolsero i nostri con ogni segno di
cortesia. E vidi che i nostri missio-
nari avanzavano verso quei selvaggi,
li istruivano, ed essi ascoltavano
volentieri la loro voce. Insegnavano,
ed essi imparavano con premura.
Dopo un po’ i salesiani andarono a
porsi nel centro di quella folla che
li circondò. S’inginocchiarono. I
selvaggi, deposte le armi, piegarono
essi pure le ginocchia. Ed ecco uno
dei salesiani intonare: Lodate Maria,
o lingue fedeli, e quelle turbe, tutte
a una voce, continuarono il canto,
con tanta forza di voce che io mi
svegliai».
I sogni di don Bosco erano partico-
lari: non rimanevano “sogni”, diven-
tavano azione. Si mise a cercare la
regione missionaria del sogno, quella
destinata dalla Provvidenza ai suoi
salesiani. Cercava un particolare: due
fiumi e un deserto. Si procurò dei
libri geografici sull’America del Sud,
e scoprì due fiumi all’imbocco d’una
vasta pianura: erano il Rio Colorado
e il Rio Negro nella Patagonia, in
Argentina.
Non esitò. Scelse dieci salesiani,
mise alla loro testa don Cagliero,
quello stesso che era stato sorvolato
dalla colomba, e l’11 novembre del
1875 la spedizione lasciò l’Italia
per la Repubblica Argentina. Dalla
Basilica di Torino, la “gloria” di
Maria aveva spiccato il volo per il
mondo.
Avevano preso lo slancio. Era nata la
più imponente impresa missionaria
della storia della Chiesa.
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FEBBRAIO 2025

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
missionari
Padre
Locatelli
le case di don bosco
Ancona
La FORZA
del SORRISO la nostra storia
Il volto di don Bosco
i santi giovani
Pier Giorgio
Frassati
salesiani
Claudia Sini
FEBBRAIO
2025
FEBBRAIO 2025
ANNO CXLIX
NUMERO 2
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Ridare il sorriso ai giovani:
questa è la nostra missione
(Foto wavebreakmedia /Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL VICARIO
6 PRIMA LINEA
Maghreb
10 TEMPO DELLO SPIRITO
I vantaggi del sorriso
12 MISSIONARI
Padre Eligio Locatelli
16 FMA
Haus Mornese
20 LE CASE DI DON BOSCO
Ancona
22 POSTER
Strenna 2025
24 EVENTI
26 DON BOSCO NEL MONDO
Jean Paul Muller
30 I SANTI GIOVANI
Pier Giorgio Frassati
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
Come foglie al gelo
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
6
12
30
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile: Bruno Ferrero
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IL MESSAGGIO DEL VICARIO
Don Stefano Martoglio
Servi buoni FEDELI
e CORAGGIOSI
In questo anno Giubilare, in questo mondo
difficile, siamo invitati a metterci in piedi,
ripartire e percorrere in novità di vita il
nostro cammino di uomini e di credenti.
Il profeta Isaia si rivolge a Gerusalemme con
queste parole: «Alzati, rivestiti di luce, perché
viene la tua luce, la gloria del Signore brilla so-
pra di te» (60,1). L’invito del profeta – ad alzar-
si perché viene la luce – appare sorprendente, perché
è gridato all’indomani del duro esilio e delle nume-
rose persecuzioni che il popolo ha sperimentato.
Questo invito, oggi, risuona anche per noi che ce-
lebriamo questo anno Giubilare. In questo mondo
difficile, anche noi siamo invitati a metterci in pie-
di, ripartire e percorrere in novità di vita il nostro
cammino di uomini e di credenti.
Tanto più ora che abbiamo avuto la grazia, sì perché
di grazia si tratta, di celebrare nel ricordo liturgico
la Santità di Giovanni Bosco. Non facciamoci l’a-
bitudine: don Bosco è un grande uomo di Dio, ge-
niale e coraggioso, un infaticabile apostolo perché
discepolo innamorato profondamente del Cristo.
Per noi un padre!
Nella vita avere un padre è importantissimo, nel-
la fede, alla sequela del Cristo, è uguale: avere un
grande padre è un dono inestimabile. Lo senti den-
tro di te e la sua esperienza credente smuove la tua
vita. Se è così per don Bosco, perché non può esser
così anche per me?
Una domanda esistenziale che ci mette in movi-
mento e ci cambia, nello spirito del Giubileo, di-
ventando persone “rinnovate”, “cambiate”. Questo
è il senso profondo della festa di don Bosco che
abbiamo appena celebrato, per tutti noi: imitare
non solo ammirare!
In questo anno Giubilare che stiamo vivendo, con il
tema della Speranza, presenza di Dio, che ci accom-
pagna, don Bosco è un riferimento chiaro e forte!
Parlando della Speranza don Bosco scrive, come ho
ripreso nel testo della Strenna per quest’anno:
«Il salesiano – diceva don Bosco, e parlando del
salesiano parla ad ognuno di noi che leggiamo – è
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pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la
fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti
della gloria di Dio e della salvezza delle anime»; il
sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica
è il pensiero del paradiso come riflesso della buona
coscienza con cui lavora e vive. In ogni nostro uffi-
cio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non di-
mentichiamo mai che Egli tiene minutissimo conto
di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed
è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbon-
dante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo
al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevo-
le, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché
nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del mol-
to; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,21)».
«Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai
che abbiamo un gran premio preparato in cielo». E
quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato
dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta
la Congregazione, sembra suggerire addirittura una
dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi
un senso comunitario del paradiso!
In piedi, Salesiani! Così ci chiede don Bosco.
«Salve, salvando salvati»
Don Bosco è stato uno dei grandi della speran-
za. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo
spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e
dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo
audace di Spirito Santo.
Don Bosco ha saputo tradurre nella sua vita l’ener-
gia della speranza sui due versanti: l’impegno per
la santificazione personale e la missione di salvezza
per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteri-
stica centrale del suo spirito – la santificazione per-
sonale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo
la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando
salvati». Sembra un gioco mnemonico detto così
semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è
profondo e indica come i due versanti della santi-
ficazione personale e della salvezza del prossimo
siano strettamente legati tra loro.
Monsignor Erik Varden afferma: «Qui e ora, la
speranza si manifesta come un barlume. Questo
non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un
contagio benedetto che le permette di diffondersi
di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre
per cancellare la speranza e indurre alla dispera-
zione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi
alla libertà. In una poesia, Péguy descrive la spe-
ranza come la fiamma della lampada del santuario.
Questa fiamma, dice, ‘ha attraversato la profondità
delle notti’. Ci permette di vedere ciò che è ora,
ma anche prevedere ciò che potrebbe essere. Spe-
rare significa scommettere la propria esistenza sulla
possibilità del divenire. È un’arte da praticare assi-
duamente nell’atmosfera fatalista e deterministica
in cui viviamo».
Che Dio ci doni di poter vivere così questo anno
Giubilare!
Che possiamo tutti camminare in questo mese con
questa visione che “brilla nelle tenebre”, con la Spe-
ranza nel cuore che è la presenza di Dio.
Vi raccomando, in questo mese, la preghiera per
la nostra Congregazione Salesiana, che si raduna
in Capitolo Generale, accompagnateci tutti con la
vostra preghiera ed il vostro pensiero, perché pos-
siamo esser fedeli, come Salesiani, a quanto voleva
don Bosco.
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PRIMA LINEA
Andrei Munteanu
MAGHREB
Nel cuore di questa regione, i salesiani hanno recentemente
istituito una nuova entità amministrativa e pastorale: la
Circoscrizione Nord Africa (CNA), dedicata a sant’Agostino
d’Ippona. Questa nuova Visitatoria comprende Tunisia, Marocco
e Algeria, Paesi con profonde radici romane e classiche, e
rappresenta una frontiera missionaria in rapido sviluppo.
I Salesiani
della nuova
Circoscrizione
africana.
D on Domenico Paternò ha voluto ini-
ziare con una riflessione sul Mar Me-
diterraneo: «Il Mediterraneo non è
solo un mare geograficamente molto
conosciuto ma è una vera e propria culla di civiltà
che attorno ad esso sono cresciute nei millenni dando
all’umanità intera contributi di culture, conoscenze,
esperienze umane, sociali, politiche che ancora oggi
sono oggetto di studio e approfondimento.
Tutti i Paesi che sono bagnati da quello che i roma-
ni chiamavano ‘Mare Nostrum’ hanno una storia
ricchissima e sono tutti portatori in vario modo di
ricchezze culturali e naturali importanti.
Inoltre, il Mediterraneo, confine naturale tra Eu-
ropa e Africa, ha una rilevanza geopolitica e strate-
gica non indifferente.
Se dall’Europa attraversiamo il Mediterraneo, giun-
giamo nel Maghreb, regione nordafricana che sta
conoscendo sempre più il carisma di don Bosco. Lo
scorso anno, infatti, è stata ufficialmente creata la
Circoscrizione speciale del Nord Africa (cna), il 28
Agosto, festa di sant’Agostino, a cui è stata dedicata
la circoscrizione, che comprende Marocco, Algeria e
Tunisia. Si tratta di una nuova frontiera missionaria
piena di sfide e di opportunità.
Il Maghreb ha chiare radici romane, classiche, era
denominato ‘Afriquia’, dando così il nome a tut-
to il continente che da qui ha inizio. I figli di don
Bosco che, per inciso, sono presenti in quasi tutti i
Paesi che si affacciano nel Mediterraneo onde per
cui hanno costituito la Regione Mediterranea della
Congregazione, hanno di recente deciso di svilup-
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pare la loro presenza e il loro servizio tra i giovani di
questi Paesi. Il Maghreb non è ‘la parte sbagliata’ del
Mediterraneo, come dicono soggetti male informati,
ma è invece una zona geografica, umana e culturale
che non si finisce mai di scoprire ed apprezzare.
I salesiani sono interessati all’educazione dei tan-
tissimi giovani che affollano questi Paesi: la po-
polazione sotto i 25 anni arriva ad essere quasi il
50% della popolazione totale. Si tratta, quindi, di
Paesi ricchi di speranza e di futuro. Lo scopo dei
salesiani e dei loro collaboratori è di sostenere e di
sviluppare il sogno di questi giovani».
Don Paternò è convinto della “garanzia spirituale”
della nuova missione: «La presenza attuale dei Figli
di Don Bosco vuole concretizzare e attuare il sogno
del Fondatore e far sì che i ‘lupi’ possano diventare
agnelli, non solo pacifici, ma costruttori di pace e
di sviluppo. Ed ecco che, anche se con religioni di-
verse, cristiani gli uni, e musulmani gli altri, tutti
discendenti di Abramo, ci si ritrova a camminare
insieme per il bene dei giovani e delle famiglie che
stanno attorno alle comunità salesiane e con loro».
Questa nuova realtà missionaria non è un semplice
ampliamento geografico, ma un autentico progetto
di speranza, dialogo interculturale e sviluppo gio-
vanile. Come spiega don Domenico Paternò, Supe-
riore della cna, l’obiettivo si radica profondamente
nel carisma di don Bosco: formare “onesti cittadi-
ni” e “buoni credenti”, nel rispetto reciproco e nella
dignità di ogni persona.
Il coraggioso manipolo di salesiani e dei loro col-
laboratori si propone di offrire ai giovani di questi
paesi una formazione solida, opportunità di studio
e di lavoro, accompagnandoli nella costruzione di
un futuro migliore e valorizzando la ricchezza insi-
ta nella loro diversità. L’opera salesiana non si limita
alla sola istruzione: laboratori professionali, oratori,
spazi di aggregazione e momenti di dialogo interre-
ligioso favoriscono la conoscenza reciproca, la digni-
tà, lo spirito di famiglia, la collaborazione e la pace.
L’istituzione della nuova Visitatoria non segna l’i-
nizio della presenza salesiana in queste terre, bensì
ne rafforza lo sviluppo. I salesiani operano infatti
da tempo nel Maghreb.
I salesiani sono
interessati
all’educazione
dei tantissimi
giovani che
affollano
questi Paesi:
la popolazione
sotto i 25
anni arriva ad
essere quasi
il 50% della
popolazione
totale.
Marocco
In Marocco, i salesiani sono presenti dal 1950 a Ke-
nitra, sulla costa atlantica. Qui gestiscono scuole di
vari livelli, un centro di formazione professionale,
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PRIMA LINEA
La maggior
parte delle
persone
è aperta,
desiderosa di
costruire un
futuro solido
e animata da
uno spirito di
collaborazione.
attività sportive, oratori e spazi educativi ispirati al
Sistema Preventivo di don Bosco. La parrocchia di
Cristo Re sostiene la minoranza cristiana, frequen-
tata soprattutto da giovani africani ed europei. Esi-
stono inoltre due case per giovani migranti, una casa
per l’infanzia e percorsi di formazione professionale
dedicati alle donne. Complessivamente, oltre 1500
persone – per la gran parte musulmane – partecipa-
no a queste attività in un ambiente inclusivo, sereno
e di mutuo arricchimento. La comunità salesiana
in Marocco è anch’essa multiculturale, con membri
provenienti da diversi paesi europei e africani, e si
colloca nell’Arcidiocesi di Rabat guidata dal cardi-
nale salesiano Cristóbal López Romero.
Tunisia
In Tunisia, a Tunisi e a Manouba, la presenza sa-
lesiana è in crescita. L’offerta educativa comprende
UNA GRANDE PATRIA
Gli Arabi definiscono come Maghreb («luogo ove tra-
monta il sole», «Occidente») l’ampia distesa dell’Africa
settentrionale ad ovest dell’Egitto. I geografi musul-
mani non sempre si trovano d’accordo sull’esatta deli-
mitazione di quest’area, dato che alcuni ne escludono
parte dell’attuale Libia ed altri vi includono quelli che
per secoli furono stabili possedimenti dell’Islam in
Europa, come la Spagna e la Sicilia. Al di là di queste
divergenze – peraltro non del tutto irrilevanti – pos-
siamo in effetti considerare tutti questi domini occi-
dentali come un insieme storicamente e culturalmente
abbastanza omogeneo.
L’assoluto dominio dell’Islam nell’area maghrebina
resta ancora, per molti versi, un problema storico in-
soluto. Nel volgere di un tempo relativamente breve,
l’Islam si trovò padrone indiscusso di una terra già sal-
damente cristianizzata, che aveva dato i natali a perso-
naggi come Tertulliano, san Cipriano e sant’Agostino.
due scuole primarie, una scuola secondaria, un cen-
tro di formazione professionale in via di sviluppo,
due oratori, la collaborazione con la Chiesa locale
e una parrocchia a Hammamet rivolta in partico-
lare alle comunità italiana ed europea. Vi operano
anche le Figlie di Maria Ausiliatrice, un gruppo di
laici musulmani “Amici di Don Bosco” vicini al ca-
risma salesiano, e numerosi laici impegnati. L’im-
pegno educativo dei salesiani in Tunisia coinvolge
circa 3000 persone, con nuove energie missionarie
provenienti da Italia, Siria, Libano, Spagna, Re-
pubblica Democratica del Congo e Ciad.
Algeria
In Algeria, la presenza salesiana è in fase di defi-
nizione. Non si tratta di un vero esordio: i salesiani
giunsero a Orano già nel 1891, poi ad Algeri, ma
negli anni ’70 le opere furono chiuse per le com-
plesse condizioni politiche del tempo. Oggi, su in-
vito dell’Arcivescovo di Algeri, i salesiani ritornano
per rispondere ai bisogni di una società giovane, in
cerca di formazione e opportunità.
Ciascuno di questi paesi presenta sfide considere-
voli: la lingua, il contesto socioeconomico fragile,
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NGO DUC THUAN JOSEPH, DAL VIETNAM AL NORD AFRICA
Da un’Ispettoria che ha già dato molti missionari alla Con-
gregazione Salesiana, soprattutto in anni recenti, viene il
giovane Ngo Duc Thuan Joseph. Andrà in avanscoperta in
una terra molto diversa dalla sua e con non poche sfide, ma,
come afferma, ogni sua paura si scioglie quando pensa che
“con Dio nulla è impossibile”.
Puoi presentarti?
Mi chiamo Ngo Duc Thuan Joseph, vengo dall’Ispettoria del
Vietnam e in questa 154ª spedizione missionaria sono desti-
nato alla Tunisia, nella nuova Circoscrizione Nord Africa (CNA).
Che cosa ti ha spinto a fare la scelta di diventare mis-
sionario?
Penso che la dimensione missionaria abbia un ruolo importan-
te nella nostra Congregazione perché, se non ci fossero stati i
missionari nel passato, non ci sarebbe la nostra Congregazione
oggi. Diventare missionario è come lanciarsi in un’avventura.
Voglio sfidare me stesso uscendo dalla zona di comfort del mio
Paese e muovermi verso nuove terre, per amore di Cristo e di don
Bosco. Questo mi ha motivato a scegliere di essere missionario.
Sei felice della tua destinazione? Hai qualche timore
o preoccupazione riguardo al luogo o alla cultura?
Sono contento del luogo in cui sono stato mandato perché
credo che sia la volontà di Dio. Al tempo stesso, sono anche
un po’ preoccupato, perché verrò mandato in una regione
dove i cattolici sono una minoranza.
Come hanno reagito famigliari, amici e confratelli
quando hai detto loro della tua vocazione missionaria?
Tutti quanti mi sostengono molto nella mia decisione di
essere missionario. La maggior parte di loro è molto felice
quando gliene parlo. Mia madre, comunque, è piuttosto
preoc­cupata per il mio invio in terra
straniera, perché non vuole che io
viva lontano da casa.
Quali sono i tuoi progetti e i
sogni per la vita missionaria?
Il principale progetto per la mia
vita missionaria è vivere bene
l’essere salesiano e sviluppare il
più possibile le mie capacità. Sono
molto interessato all’animazione 3D
e voglio anche studiare a fondo questa
materia: penso che possa essere di grande uti-
lità per aiutare i giovani.
Hai in mente qualche grande modello di missionario
di cui vuoi seguire lo stile e la vita?
Sì, mi sono ispirato ad alcuni salesiani, soprattutto a quelli
che lavorano in Cina. Come loro, voglio diventare semplice,
umile e laborioso nella mia vita missionaria. Voglio anche
condividere la mia passione, il mio entusiasmo, la mia felicità
e la mia gioia con le persone con cui vivrò.
Qual è il tuo messaggio ai giovani sulla scelta missio-
naria e sulla vocazione?
L’aspetto missionario è un elemento essenziale della voca-
zione cristiano-cattolica. Ovunque tu sia, sei chiamato ad
essere un missionario, e se uno si rende conto di questo e
coltiva questo desiderio allora il seme della vita missionaria
darà i suoi frutti. È giunto il momento di prendere la decisio-
ne di essere missionario. Confido nella guida e nella prov-
videnza di Dio, sono coraggioso e fiducioso perché con Dio
nulla è impossibile.
l’elevata disoccupazione giovanile, la mancanza di
politiche mirate ai giovani e le tensioni politiche e
sociali. Tuttavia, la presenza salesiana mira a con-
solidare un terreno di dialogo, incontro e sviluppo.
Nonostante episodi di intolleranza e radicalismo,
la maggior parte delle persone è aperta, desiderosa
di costruire un futuro solido e animata da uno spi-
rito di collaborazione. Nonostante le difficoltà, la
Circoscrizione Nord Africa ha già vissuto momenti
significativi, come il primo Capitolo Ispettoriale,
utile a tracciare le linee guida e i progetti educati-
vo-pastorali per il futuro. Un futuro che vede già
l’arrivo di due nuovi salesiani: i coadiutori Joseph
Ngo Duc Thuan, dal Vietnam, e Kerwin Valeroso,
dalle Filippine.
La presenza salesiana nel Maghreb rappresenta una
sfida coraggiosa e un rinnovato entusiasmo missio-
nario, con l’obiettivo di raggiungere sempre più
giovani in ogni parte del mondo, restando fedeli al
carisma di don Bosco. Oggi i salesiani nel Magh-
reb offrono un modello di missione moderna: non
imposizione ma proposizione, non proselitismo ma
condivisione, non assistenzialismo ma promozione
integrale della persona.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
I vantaggi del
SORRISO
«Sorridetevi l’un l’altro, sorridete
a vostra moglie, sorridete a vostro
marito, sorridete ai figli, sorridetevi
l’un l’altro (non importa chi sia)
e questo vi aiuterà a crescere
con più amore l’uno per l’altro»
(Madre Teresa).
Durante l’ultima guerra, Antoine de
Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo
Principe, raccontò di essere stato cat-
turato dal nemico e gettato in una cel-
la. Era sicuro, dagli sguardi di disprezzo e dal rude
trattamento che ricevette dai suoi carcerieri, che il
giorno successivo sarebbe stato giustiziato.
«Ero certo che sarei stato ucciso» raccontò. «Ero
nervoso e sconvolto. Cercai nelle tasche qualche
sigaretta che fosse sfuggita alla perquisizione. Ne
trovai una e per via del tremito alle mani riuscii a
malapena a portarmela alle labbra. Ma non avevo
fiammiferi; me li avevano portati via.
Guardai attraverso le sbarre il mio carceriere. Lui
non ricambiò lo sguardo. D’altra parte, non si ri-
cambia lo sguardo con una cosa, un cadavere. Lo
chiamai dicendo: «Hai da accendere, por favor?» Mi
guardò, scrollò le spalle e venne ad accendermi la
sigaretta.
Quando si avvicinò e accese il fiammifero, i suoi
occhi inavvertitamente si incrociarono con i miei.
In quel momento sorrisi. Non so perché. Forse era
nervosismo, forse era perché, quando si sta molto
vicini l’uno all’altro, è difficile non sorridere. Co-
munque, sorrisi.
In quel momento fu come se una scintilla scoccasse
fra i nostri cuori, fra le nostre anime umane. So che
lui non voleva, ma il mio sorriso attraversò le sbar-
re e generò un sorriso anche sulle sue labbra. Mi
accese la sigaretta ma rimase vicino, guardandomi
direttamente negli occhi e sorridendo ancora.
Continuai a sorridergli, ora vedendolo come una
persona e non soltanto un carceriere. E anche il suo
modo di guardarmi sembrò assumere una nuova
dimensione.
«Hai figli?» domandò.
«Sì, qui, qui». Tirai fuori il portafoglio e nervosa-
mente cercai le foto della mia famiglia. Anche lui
tirò fuori le foto dei ninos e cominciò a parlare dei
suoi progetti e delle sue speranze per loro. Gli occhi
mi si riempirono di lacrime. Confessai di temere
di non riuscire più a vedere la mia famiglia, di non
avere più la possibilità di vederli crescere. Anche a
lui vennero le lacrime agli occhi.
Improvvisamente, senza una parola di più, mi aprì la
cella e in silenzio mi condusse fuori. Fuori dalla pri-
gione, tranquillamente e attraverso strade seconda-
rie, fuori dalla città. Lì, al margine della città, mi li-
berò. E senza una parola di più ritornò verso la città.
La mia vita fu salvata da un sorriso».
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2.1 Page 11

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Sorridere ogni giorno è una grande cura: serve a
migliorare l’umore e la salute. Che cosa dice la psi-
cologia sul sorriso? Che il tuo sorriso sia genuino o
meno, può influenzare il tuo corpo e la tua mente
in vari modi positivi, a beneficio della tua salute,
del tuo umore e persino degli stati d’animo delle
persone intorno a te.
1. Sorridere ti aiuta a vivere più a lungo
Uno studio ha scoperto che un sorriso genuino e
intenso è associato a una vita più lunga. Le persone
felici sembrano godere di una salute e di una longe-
vità migliori. La ricerca indica che mantenere uno
stato d’animo felice e positivo può essere una parte
importante di uno stile di vita sano.
2. Sorridere eleva l’umore
Sorridere può anche aiutarti a sentirti felice. La
prossima volta che ti senti giù, prova a sorridere.
C’è una buona probabilità che il tuo umore cambi
in meglio. L’atto fisico di sorridere attiva percorsi
nel cervello che influenzano il tuo stato emotivo, il
che significa che adottando un’espressione facciale
felice, puoi “ingannare” la tua mente facendola en-
trare in uno stato di felicità.
3. Sorridere è contagioso
Quante volte vi è capitato di sentire dire che un
sorriso ha il potere di illuminare la stanza? Anche
se è certamente un bel sentimento, porta con sé un
pizzico di verità.
Probabilmente hai sentito l’espressione “sorridere è
contagioso” e hai subito ricambiato con un sorriso
quando qualcuno ti ha fatto un sorriso.
4. Benefici sociali dell’umorismo
Le nostre relazioni traggono vantaggio in diversi
modi quando ci connettiamo con gli altri attraverso
l’umorismo.
Unisce le persone: una risata condivisa crea un le-
game tra le persone. La maggior parte di noi ri-
corda un momento in cui le risate sono diventate
contagiose e si sono diffuse rapidamente in un
gruppo. Le persone di solito si sentono più vicine
agli altri anche dopo aver riso insieme.
PICCOLI SEGRETI
Allegria, Studio, Pietà. È questo il grande programma, il quale
praticando, tu potrai vivere felice, e fare molto bene all’anima
tua (don Bosco).
Scrivi tre cose che ami di te stesso. Questo aiuta a coltivare
l’autocompassione e l’autostima.
Fai un atto casuale di gentilezza per qualcuno per generare
sentimenti di felicità e appagamento.
Guarda il cielo e apprezza la sua vastità. Questo promuove un
senso di stupore e ti aiuta a connetterti con la natura.
Pratica il perdono. Considera qualcosa a cui ti stai aggrappan-
do da un po’ di tempo, che riguardi un’altra persona o te stesso,
e pratica la compassione e il perdono.
Ripeti tre volte un’affermazione positiva o un mantra, come
«Sono amato» o «Sono forte» per affermare la tua autostima e
promuovere intenzioni positive.
Aggiunge positività alle conversazioni: crea co-
municazioni più positive tra le persone. Solo
condividendo una battuta o raccontando una
barzelletta, l’altra persona è più predisposta a
voler parlare con noi. Durante le conversazioni
difficili o i disaccordi, l’umorismo può aprire la
strada a una discussione migliore, diffondendo
la tensione e rilassando l’altra persona.
Condividere storie divertenti non solo rallegrerà
un amico, un parente o un collega, ma aumen-
terà anche il loro benessere. Probabilmente se ne
andranno di buon umore e più felici di prima.
Tutto si riduce a interagire con le persone in
modo umano.
C’è qualcosa di sacro nell’umorismo. Se riesci a ride-
re di te stesso, allora puoi perdonare te stesso. E se
puoi perdonare te stesso, puoi perdonare gli altri.
Ci aiuta a capire noi stessi e gli altri.
5. Sorridere ti rende attraente
Siamo naturalmente attratti dalle persone che sor-
ridono.
6. Sorridere suggerisce il successo
Le persone che sorridono regolarmente appaiono
più sicure di sé, hanno maggiori probabilità di esse-
re promosse e hanno maggiori probabilità di essere
avvicinate.
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MISSIONARI
Sarah Laporta
Padre Eligio
LOCATELLI
Ha portato Cristo e don Bosco a Timor-Leste.
«Hai mai sentito parlare del mio
pae­se, Timor-Leste?» scrive una
ragazza. «Se non lo conosci an-
cora, lascia che te lo presenti. Uf-
ficialmente è la Repubblica Democratica di Timor-
Leste, la mia isola-nazione comprende circa la metà
dell’isola di Timor, mentre l’altra metà appartiene
all’Indonesia. Si trova a circa 700 chilometri a nord-
ovest di Darwin, in Australia. “Leste” significa “est”
in portoghese, da cui il nostro nome anglicizzato,
Timor-Leste. Nel 1975 abbiamo ottenuto per la pri-
ma volta l’indipendenza, dopo aver sopportato più di
450 anni di colonizzazione portoghese, per poi esse-
re occupati dall’Indonesia per 24 anni, dal 1975 al
1999. Il riconoscimento internazionale della nostra
indipendenza è avvenuto solo nel 2002 (a seguito
di una sanguinosa campagna). Nel Paese si parlano
quattro lingue: le lingue ufficiali sono il tetum e il
portoghese, mentre l’inglese e l’indonesiano rap-
presentano le lingue professionali».
Tutti lo conoscono
Don Locatelli lavora qui da 50 anni. Ogni
giorno, più di mille alunni frequentano la scuo-
la che ha fondato, sia i convittori sia gli studenti
giornalieri. A settantacinque anni continua
il suo lavoro. È un buon conversato-
re, cordiale e determinato. «Fisico
tozzo e sguardo gentile, questo
missionario bergamasco vive a
Timor Est dal 1964. Aveva
27 anni quando arrivò qui.
In questa minuscola nazione del sudest asiatico ha
sperimentato il colonialismo portoghese, l’occupa-
zione indonesiana, la guerra per l’indipendenza, il
decennio vissuto con la costante presenza dei caschi
blu dell’Onu.
Per questo nel Paese oggi è conosciuto e rispetta-
to da tutti, con tanto di passaporto timorese rila-
sciatogli un paio d’anni fa come attestato di stima.
D’altronde, sotto la sua direzione, in quasi 50 anni
i salesiani hanno realizzato un collegio scolastico
che ospita ogni anno più di 200 persone, un orfa-
notrofio femminile che accoglie 120 bambine, due
istituti professionali e 17 scuole disperse per i vil-
laggi rurali di questa nazione poverissima, dove il
tasso di malnutrizione è il più alto al mondo e an-
cora oggi una persona su due è analfabeta», scrive
il giornalista Stefano Vergine che lo ha incontrato.
Da quando padre Eligio Locatelli è arrivato a Ti-
mor nel 1964, ha vissuto in una colonia portoghese,
in una provincia indonesiana e ha visto nascere la
più giovane democrazia del mondo. Il suo lavoro di
missionario salesiano si è concentrato sulla missio-
ne di Fatumaka, nel distretto di Baucau. Lì, da una
capanna di palme, ha costruito quella che un tempo
era la più grande scuola tecnica del Paese.
Durante gli anni più duri dell’occupazione, i tem-
pli furono trasformati in granai e Locatelli battez-
zò centinaia di sfollati in un solo giorno. Appena
sconfitti sulle montagne, furono obbligati per legge
ad aderire a una delle nuove religioni ufficiali. Il
loro credo non era contemplato, era sinonimo di
comunismo e di colpa.
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FEBBRAIO 2025

2.3 Page 13

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«Quando ho finito gli studi di filosofia, ho chiesto
di diventare missionario. Mi è stato subito detto
che sarei andato in Brasile. Più tardi, durante gli
esami, mi dissero che sarei andato in India, ma lì
accettavano solo tecnici e io avevo solo studi di filo-
sofia. Così mi fermai a Goa, che nel ’57 era ancora
una colonia portoghese, in attesa di poter entrare in
India. Rimasi lì per tre anni, facendo esperienza...
Nel 1959, il mio provinciale mi chiese di andare
in Portogallo per continuare la mia formazione. A
Estoril studiai per quattro anni. Poiché nel ’60 l’In-
dia aveva occupato Goa, mi era impossibile tornare
lì, così il provinciale mi chiese di venire a Timor:
“Va bene, andrò a Timor, ma non resterò qui nella
metropoli”».
Quali condizioni ha trovato?
«La gente era povera ma molto calma, pacifica,
con rapporti molto amichevoli con tutti, non c’era
da aver paura di nulla, molta fiducia reciproca, un
clima di solidarietà e amicizia. Povertà assoluta in
termini di comunicazioni, salute..., ma allo stesso
tempo una sorta di “paradiso terrestre”, con una
vita molto semplice e tranquilla. La popolazione
non aveva molte esigenze, si accontentava della vita
quotidiana. Per me è stato facile integrarmi. Qui
a Fatumaka non c’era nulla, solo una capanna di
palme, così abbiamo iniziato a lavorare».
Fatumaca è un paesino di montagna distante 20
chilometri da Baucau. «Durante gli anni dell’oc-
cupazione indonesiana questa era una delle zone
dove si nascondeva l’esercito di liberazione guidato
da Xanana Gusmao. Ogni tanto i suoi soldati ve-
nivano da me di nascosto a recuperare un po’ di
whiskey» ricorda il missionario.
La celebrità di questo prete raggiunse l’apice alla
fine degli anni ’80. Durante una breve tregua tra
l’Indonesia e i partigiani timoresi, il missionario
italiano fu chiamato a celebrare messa di fronte agli
uomini del Falantil, l’esercito che combatteva per
l’indipendenza del Paese. «Fu un gesto di disten-
sione deciso dagli indonesiani. Loro, musulmani,
permettevano ai nemici timoresi, cattolici, di fe-
steggiare la Pasqua con un prete che diceva Mes-
sa. Fui portato in elicottero sulle montagne, in un
punto concordato con il Falantil. In quell’occasione
incontrai per la prima volta Xanana».
Anche grazie all’attività svolta da missionari come
Locatelli durante i 24 anni di occupazione indone-
siana, oggi la Chiesa Cattolica può vantare uno dei
tassi di fedeli più alti al mondo. «Nel 1975, quan-
do da Giacarta arrivò l’ordine di invadere Timor
Est, i fedeli erano circa il 30% della popolazione.
Oggi arriviamo al 98%», dice Locatelli. Più che
nell’opera della Chiesa, però, la causa di questo
aumento esponenziale è da ricercare nell’occupa-
zione stessa: «L’Indonesia obbligò tutti i timoresi
ad avere una carta d’identità e a scegliere una reli-
gione fra quella cattolica, musulmana o buddista.
L’animismo non venne inserito tra le opzioni, e così
la maggioranza dei timoresi optò per il cattolicesi-
mo, la fede portata in questa terra dalle navi porto-
ghesi mezzo secolo fa».
Padre Eligio in
mezzo ai suoi
collaboratori.
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2.4 Page 14

▲torna in alto
MISSIONARI
Cominciando dall’orticultura
«All’inizio è stato un po’ difficile mettere radici.
L’idea era che non bastava costruire la scuola, ma
che dovevamo anche tenere conto dell’ambiente
circostante, affinché la gente sentisse il beneficio
della nostra presenza. Siamo stati subito decisi a
stare con loro nel loro lavoro, soprattutto nell’agri-
coltura; qui non c’è altro.
Abbiamo iniziato subito. È stato il governo porto-
ghese a chiederci di avviare una scuola di agricoltu-
ra. Abbiamo iniziato la costruzione e fino al ’73 ab-
biamo gestito la scuola di agricoltura. Poi abbiamo
cambiato perché abbiamo visto che gli alunni che
venivano alla scuola di agricoltura poi si “rifugia-
vano” negli uffici di Díli. Anche se si abituavano
al lavoro, dopo tre anni di scuola nessuno di loro
tornava nei campi.
Così abbiamo deciso che era necessario iniziare
una scuola tecnica, una scuola di arti e mestieri...
e abbiamo iniziato. La formazione tecnica ha avuto
un impatto maggiore sulle condizioni di vita della
popolazione rispetto alla formazione agricola.
Era l’anno ’71, andai nella metropoli e contattai
un fratello specializzato in queste materie. Venne
e costruì una capanna per iniziare a insegnare i
mestieri del ferro e del legno. Nonostante questo
cambiamento, non abbiamo mai smesso di assistere
la popolazione locale nelle attività agricole.
Abbiamo dato assistenza religiosa ai villaggi di
otto zone. Naturalmente, questo contatto non si
limita alla messa e alle prediche. Ci interessano i
problemi della vita agricola. Lo abbiamo fatto fin
dall’inizio, cominciando dall’orticoltura, che all’e-
poca non era una tecnica conosciuta dalla popo-
«Abbiamo
utilizzato una
produzione
di settanta
o novanta
tonnellate di
mais, non per
venderlo, ma
per utilizzarlo
in questo
programma
di sicurezza
alimentare
nei villaggi
vicini».
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2.5 Page 15

▲torna in alto
lazione. Ora praticamente tutti fanno orticoltura.
Poi abbiamo continuato con le colture del mais e
del riso. Fino all’arrivo dell’Indonesia, nel 1975, la
popolazione seguiva i sistemi tradizionali di colti-
vazione del mais e del riso. Con l’arrivo dell’Indo-
nesia siamo stati costretti ad aumentare l’uso dei
trattori nei lavori tradizionali, perché i bufali sono
stati quasi completamente sterminati dall’esercito».
Le chiese come magazzini
«Nel ’75 la guerra, alla fine dell’anno l’invasione,
all’inizio del ’76 la devastazione. In molti luoghi,
come qui, erano rimaste in piedi solo le chiese. Per
tre anni, fino al ’78, la gente ha resistito nella fore-
sta, sempre inseguita dai militari. Se preparavano
una base in un posto, piantavano, ma c’era un’in-
cursione militare quando il riso stava per maturare
e dovevano abbandonare tutto e andare altrove. Tre
anni così.
È stato allora che le chiese sono state usate come ma-
gazzini, almeno qui. Erano gli unici edifici rimasti
in piedi, costruiti in pietra e calce. Il crs si affidava
a noi per la distribuzione degli aiuti umanitari. Gli
indonesiani, dal canto loro, volevano controllarli da
soli per dirottare, vendere, fare affari...»
Nel 1983 il governo militare indonesiano espresse
la volontà di risolvere pacificamente il problema di
Timor e le attività militari furono sospese con l’idea
di favorire i contatti. Sono stato coinvolto in questa
vicenda per avere un approccio con il popolo».
«Avevamo un programma di scuole rurali. Alcuni
villaggi sono molto lontani dal suko, dove si trova-
no la scuola, il posto di salute, la chiesa... I bambini
devono iniziare il primo anno di istruzione di base
all’età di sette anni, ma è impossibile per loro rag-
giungere il suko a piedi per ore da villaggi remoti.
Nella stagione delle piogge e a quell’età è impossi-
bile. Devono aspettare fino a dieci o undici anni per
potersi muovere. Ma se non iniziano la scuola prima
degli undici anni, sono praticamente tagliati fuori.
Abbiamo avuto l’idea di far sì che i bambini, anche
se sono pochi, possano rimanere nel villaggio e fare
EROI!
Durante le celebrazioni per l’indipendenza, il 20 maggio scorso,
il presidente Ramos Horta ha detto che i padri salesiani per anni
si sono comportati da eroi. Il Vaticano ha conferito le medaglie
d’onore “Pro Ecclesia et Pontifice” a padre Eligio Locatelli. Molti
sacerdoti timoresi hanno scoperto la vocazione nelle opere sale-
siane, come il vescovo emerito premio Nobel per la pace Carlos
Filipe Ximenes Belo e l’attuale vescovo di Díli, monsignor Virgílio
do Carmo da Silva.
A don Eligio Locatelli, il Presidente della Repubblica di Timor Est
ha anche conferito il “Grande Colar com un Ordem de Timor Le-
ste” per il contributo che il missionario salesiano ha dato all’indi-
pendenza e allo sviluppo del paese.
almeno i primi tre anni di istruzione di base. In
questo modo, una volta cresciuti, raggiungono gli
undici anni e possono andare al suko per il quarto e
quinto anno. È un programma che abbiamo svilup-
pato grazie ad aecid e abbiamo sette o otto scuole
che funzionano molto bene».
E per il futuro della missione?
«Stiamo andando avanti. Vivendo giorno per gior-
no».
Una
celebrazione
presieduta
dal cardinale
salesiano
Virgílio Do
Carmo da
Silva. Nel 1975
la percentuale
di cattolici a
Timor-Leste
era inferiore
al 30%; ora è
del 98%.
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2.6 Page 16

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FMA
Emilia Di Massimo
HAUS MORNESE
Un posto non semplicemente
dove far passare il tempo, ma dove
provare gioia per il resto della vita.
Nella periferia
nord di
Salisburgo
(Austria),
suore
salesiane
e giovani
studentesse
convivono in
piena gioia
salesiana.
“La casa non è stata costruita per que-
sto. È un’unità abitativa”, dunque
anche una ricostruzione o un am-
pliamento erano fuori questione.
Seguivano comunque pianificazioni e ricerche, d’al-
tronde suor Gisela era stata trasferita con il compito
di pensare a che cosa si poteva fare con questa casa”.
Le venne subito in mente l’idea di farvi trasferire
delle studentesse, poiché l’impegno verso i giovani è
una pietra miliare della spiritualità delle suore sale-
siane, ma era anche chiaro fin dall’inizio che non era
prevista una residenza studentesca standard.
Tutto unico
L’unica soluzione: una sola casa. È così che nasce e
si sviluppa il concetto di “WG”, ovvero di un ap-
partamento condiviso: “Haus Mornese”, fondata
nel 2017.
Siamo nella periferia nord di Salisburgo, tre Fi-
glie di Maria Ausiliatrice, suor Gisela Porges, suor
Ulrike Weiss e suor Maria Christine Rathgeb, ed
otto studentesse vivono (non abitano) sotto lo stes-
so tetto, davvero insieme, non soltanto una accanto
all’altra. Suor Gisela sta andando al lavoro, mentre
una studentessa è appena tornata dall’università; si
scambiano brevemente delle battute, ci si rende su-
bito conto che tutte si conoscono e ciascuna si sente
a proprio agio, a casa. “Abbiamo un unico ingresso,
una cucina, un soggiorno e una sala da pranzo.
Viviamo sullo stesso piano, porta a porta e parete
a parete. Non viviamo l’una accanto all’altra, ma
l’una con l’altra”, ci fa notare suor Gisela. La real­tà
che sia “tutto unico” emerge visibilmente: il pro-
gramma di pulizia appeso accanto al frigorifero,
ad esempio, è tipico di un appartamento condivi-
so. Sono tipici anche i piatti nella lavastoviglie, le
chiacchierate al tavolo della colazione, l’andirivieni
di persone, le tante biciclette nel giardino e l’ansia
prima di dare gli esami. Le persone si salutano nei
corridoi, chiedono come stanno e parlano di uni-
versità, lavoro e vita quotidiana. L’affiatamento del-
la comunità è particolarmente evidente nella cucina
e nella sala da pranzo, ovviamente condivise. “Se
hai bisogno di qualcuno con cui parlare, vai in cu-
cina. C’è sempre qualcuno!”, concordano le suore.
Suor Maria Christine partecipa volentieri alla vita
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FEBBRAIO 2025

2.7 Page 17

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delle giovani, con loro brinda agli esami superati,
condivide ricette, “ma non sostituiamo la mamma”,
precisa ridendo, “nessuna di noi è iperprotettiva con
le ragazze: ciascuna è personalmente responsabile
del successo della convivenza!” Raramente gli un-
dici residenti sono tutti a casa, le studentesse hanno
orari diversi, le suore lavorano fuori casa, per questo
circa una volta al mese si svolge “la serata della co-
munità”, la quale inizia sempre con un momento di
riflessione nella cappella della casa; dopo cena si sta
semplicemente insieme, oppure si fa una passeggia-
ta, si vede un film.
… per il resto della vita
“Vivere insieme in un appartamento non è insolito
per noi suore, è costitutivo della nostra spiritualità.
Avere in casa giovani donne con idee di vita com-
pletamente diverse è splendido”, afferma suor Ulri-
ke. “Si impara l’una dall’altra”.
Alcune studentesse trascorrono solo un semestre ad
“Haus Mornese”, altre vi restano sino alla laurea.
suor Gisela spiega che prima di entrare nell’appar-
tamento, le ragazze sostengono un colloquio nel
quale, principalmente, si chiede se davvero la ra-
gazza è disposta a condividere la vita con le altre.
Le studentesse non devono essere cattoliche o stu-
diare teologia, possono provenire da qualunque
parte del mondo, per le suore è importante che sia­
no aperte alla spiritualità. “Offriamo alle giovani
una casa” e, poiché la condivisione stessa dona fe-
licità, questa è già un’esperienza nella quale affiora
la religiosità della vita perché tuttavia “anche se uf-
ficialmente non c’è un programma religioso, l’argo-
mento emerge naturalmente in molte conversazio-
ni”. Suor Ulrike aggiunge: “Viviamo la nostra vita
religiosa e abbiamo i nostri momenti di preghiera
quotidiani insieme. È raro che qualcuna delle stu-
dentesse si unisca a noi perché preghiamo alle sei
del mattino, ma la cappella è sempre aperta a tutte
e tante volte vediamo alcune studentesse entrare.”
Sia le suore sia le studentesse sono felici di vivere
l’esperienza comunitaria, concordano che sia sem-
plicemente bellissimo. Le suore affermano di essere
felici che le studentesse siano con loro, fa cambiare
l’atteggiamento nei confronti della vita dando la
possibilità di vedere come vivono le giovani di oggi.
La loro presenza è un grande dono”.
L’esperienza di “Haus Mornese” fa pensare a quan-
to afferma lo scrittore Sergio Bambarén: “Chiunque
ad un certo punto della vita mette su casa. La parte
difficile è costruire una casa del cuore. Un posto
non soltanto per dormire, ma anche per sognare.
Un posto dove crescere una famiglia con amore,
un posto non per trovare riparo dal freddo ma un
angolino tutto nostro da cui ammirare il cambia-
mento delle stagioni; un posto non semplicemente
dove far passare il tempo, ma dove provare gioia per
il resto della vita.” Come ogni giovane vissuta ad
“Haus Mornese”.
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2.8 Page 18

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LE CASE DI DON BOSCO
Giampiero De Nardi
ANCONA
Don Bosco
sul Conero
Da cento anni la gente di Ancona
conosce direttamente o per riflesso
l’entusiasmo educativo di don
Bosco e dei suoi successori.
La presenza salesiana ha preso
volti svariati, adeguati alle necessità
del momento: orfanotrofio, oratorio,
scuola, parrocchia, cinema,
impianti sportivi, libreria, alloggi per
universitari… Cambiano proposte,
attività, strutture, ma rimane la
fedeltà al carisma originario.
Qual è la storia? Come sono arrivati
i salesiani? Come si è sviluppata l’opera?
L’arrivo dei salesiani ad Ancona si deve all’impegno
di monsignor Ragnini (uno dei protagonisti della
storia ottocentesca anconetana). I salesiani non era-
no ancora arrivati e la situazione, anche a causa delle
leggi dello Stato, stava diventando sempre più pe-
sante. Pochi giorni ancora e il famoso Ospizio San
Luigi avrebbe chiuso definitivamente i battenti, pri-
vando la città di un’opera secolare e la chiesa di un
immobile indispensabile per la pastorale giovanile.
Il cardinal Manara corse ai ripari, chiamando il gio-
vane canonico Ragnini a sostenere la causa contro il
Regio Demanio. Ragnini, dotato di grande spirito
battagliero e di intelletto acuto, non diede tregua
allo Stato. Una schermaglia durata cinque anni. Il
risultato fu che si venne ad una transazione. Era il
18 novembre 1896. Due anni dopo l’Ospizio fu au-
torizzato, nella stessa persona di monsignor Ragni-
ni, a reinvestire il prezzo della transazione nell’ac-
quisto di un terreno di proprietà del signor Vivanti,
sito in Viale Carlo Alberto, di mq. 13 656,17, pagato
lire 27 135,69. Il rogito porta la data 15/18 settem-
bre 1898. Ragnini aveva conosciuto direttamente
don Bosco che era stato ad Ancona per due giorni.
Il santo dei giovani fece quel che faceva ovunque:
andò a trovare i giovani. Si fermò principalmente al
palazzo Bonomi, che ospitava l’Istituto Buon Pasto-
re, e in Seminario dove lui stava studiando. Ragnini
rimase folgorato dall’incontro con il Santo, tanto
che si prodigò per far venire i salesiani ad Ancona.
Una volta comprato il terreno, volle che fossero i sa-
lesiani a prendersene cura.
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FEBBRAIO 2025

2.9 Page 19

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La zona era ampiamente popolare. Numerosissimi
erano tuttavia i giovani, che sceglievano un qualche
avventuroso “arrangiarsi” a livello di furtarelli vari,
mercatino più o meno nero... Per i più fortunati e
volenterosi c’era la scuola, o il commercio, o soprat-
tutto la manovalanza più varia e poco retribuita.
La prima pietra dell’Opera Salesiana fu posta in
Ancona il 3 Agosto del 1899 quando la città inizia-
va ad estendersi verso la stazione ferroviaria. Allora
in aperta campagna, ora si trova al centro di uno
dei quartieri più multietnici della città. Il 14 otto-
bre del 1901 è la data fatidica dell’entrata ufficiale
dei salesiani ad Ancona. I primi due rispondono ai
nomi di don Luigi Perino Direttore e don Pio Pa-
niga, appena ventiquattrenne, suo aiutante.
Ad Ancona le attività cominciarono con la realizza-
zione a tempo di record del tradizionalissimo teatri-
no, sostituito poi dalla spaziosa sala cinematografica
che, come annotano le cronache, la munificenza del
cardinal Vico permise di impiantare grazie al dono
dell’apparecchio per la proiezione. Dopo il teatrino
venne la sistemazione dei campi da gioco, anche con
recinzioni “anti-disturbo”, e, in seguito, un grande
salone-giochi, al primo piano che, in perfetta linea
salesiana, serviva anche per le funzioni liturgiche e
per la preghiera, in attesa della fine dei lavori della
grande chiesa della Sacra Famiglia.
I settori dell’opera oggi
Oggi è una parrocchia missionaria in un quartie-
re in cui sono presenti oltre 100 nazioni di prove-
nienza differente. Una parrocchia che vuole essere
centro di integrazione spirituale per tali nazioni.
Se prima essere cattolico significava essere italia-
no, ora essere cattolico assume il suo significato più
proprio cioè universale. In un quartiere dove gli ita-
liani diminuiscono, i battesimi aumentano grazie
alla presenza cattolica straniera.
Un punto di riferimento per la gente del quartiere
che trova nello sportello Caritas, un punto di ascol-
to che li accoglie e li fa sentire a casa e risponde alle
loro esigenze impellenti.
Un oratorio che è una casa accogliente con un cor-
tile aperto a tutti. Un vero laboratorio di integra-
zione. L’esempio è stata l’Estate Ragazzi con 150
presenze provenienti da 40 nazioni e con ben 40
animatori dai 14 ai 25 anni provenienti da 18 na-
zioni differenti e da contesti religiosi molto diversi
(musulmani, ortodossi, evangelici, mormoni e, ov-
viamente, cattolici). Un oratorio che negli anni ha
saputo costruire ed offrire una rete di servizi aperti
al territorio: sport con la pgs, cultura con il cgs e il
cinema, espressione artistica con la danza. Un do-
poscuola aperto al territorio in collaborazione con
i servizi sociali e le scuole del territorio che vuole
essere sostegno e supporto per chi, essendo stra-
niero, nei circuiti scolastici trova evidenti difficoltà,
diventando un fulcro vitale per il quartiere del Pia-
no. L’opera è sempre stata inserita nella rete delle
realtà civili ed ecclesiali della città. La sua presenza
è considerata vitale.
Oggi, l’istituto
salesiano è
una parrocchia
missionaria in
un quartiere
in cui sono
presenti oltre
100 nazioni di
provenienza
differente. Una
parrocchia che
vuole essere
centro di
integrazione
spirituale per
tali nazioni.
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2.10 Page 20

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LE CASE DI DON BOSCO
Cento e cento
sono state le
iniziative, ma
soprattutto
cento e cento i
volti contagiati
dall’entusiasmo
di don Bosco.
Negli anni ha aperto un centro diurno per bambini
ed adolescenti le cui famiglie non riescono a vivere
pienamente la propria genitorialità, per cui hanno
bisogno di un sostegno nell’educazione dei figli.
Un collegio universitario che accoglie tanti ragazzi
di tutta Italia e non solo.
Siamo cappellani della comunità latino americana
e della stazione ferroviaria.
Come sono i giovani che frequentano?
I giovani che frequentano la nostra opera sono se-
gnati dalla povertà. Accanto alla povertà economi-
ca, soffrono di povertà sociali; aumento del “disa-
gio psicologico-relazionale”, di problemi connessi
alla “solitudine” e di forme depressive (che hanno
portato anche a suicidi); accentuarsi delle proble-
matiche familiari, in termini di conflittualità di
coppia, violenza, difficoltà di accudimento di bam-
bini piccoli o di famigliari colpiti dalla disabilità,
conflittualità genitori-figli; rinuncia o rinvio di
cure e assistenza sanitaria. A queste problematiche
si associano difficoltà più specifiche dovute alle
comunità straniere, che riscontriamo localmente:
povertà culturali (i bambini non trovano supporto
scolastico nelle famiglie, spesso sono loro a dover
tradurre dall’italiano ai genitori); la nostalgia per
i paesi di origine; povertà sociali per la difficoltà
di accesso ai servizi e di adeguamento alle regole e
modalità di convivenza; a queste si aggiungono al-
tre forme di povertà più “storiche”, da quella morale
a quella affettiva.
Il rapporto con la città
Da cento anni la gente di Ancona conosce diretta-
mente o per riflesso l’entusiasmo educativo di don
Bosco e dei suoi successori. La presenza salesiana
ha preso volti svariati, adeguati alle necessità del
momento: orfanotrofio, oratorio, scuola, parroc-
chia, cinema, impianti sportivi, libreria, alloggi per
universitari… Cambiano proposte, attività, strut-
ture, ma rimane la fedeltà al carisma originario. La
gente di Ancona, del Piano San Lazzaro ha fatto
subito tandem con i salesiani, collaborando e con-
dividendo la vita di ogni giorno, le occasioni di fe-
sta, i giorni difficili delle guerre, delle alluvioni, dei
terremoti… il tutto a porte e a cuori aperti.
Tanti salesiani hanno lasciato un segno ben visibile
nella città di Ancona, così come Ancona ha offer-
to prestigiose figure di amici e collaboratori, una
schiera numerosa di personalità per uno scambio
continuo. Cento e cento sono state le iniziative, ma
soprattutto cento e cento i volti contagiati dall’en-
tusiasmo di don Bosco.
I punti di forza dell’opera
Una comunità educativa pastorale che ha fatto dei
poveri la scelta preferenziale e che vuole risponde-
re in maniera concreta alle esigenze e bisogni del
territorio.
Il dono più bello della nostra esperienza in questo
quartiere, dove esistono 101 nazioni, una ricchez-
za unica, è la differenza che viviamo come sfida e
come dono. La nostra realtà è un laboratorio inter-
culturale e interreligioso. Ogni giorno cerchiamo di
costruire un modello di integrazione nuovo basato
sulla convivenza pacifica e la crescita integrale. In
oratorio, non vieni identificato per la tua nazione di
appartenenza ma per il fatto di essere persona, con
un mondo da condividere, con ideali e con sogni
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spesso infranti da una società che tende facilmente
ad etichettare e poco a comprendere.
Aver reso la nostra opera una casa accogliente, dove
far crescere tanti giovani senza distinzioni, né pre-
giudizi; un posto che offre uno spazio in cui gio-
care, in cui essere se stessi, che non ti obbliga ad
una fede, ma che te la fa scoprire come proposta
attraverso il mettersi a servizio degli altri più picco-
li scoprendo la gioia di essere portatore di speranza
nel cuore di altri.
Le più belle soddisfazioni
Vedere giovani con un passato difficile e complicato
che si mettono a servizio dei propri coetanei perché
per la prima volta hanno fatto esperienza di essere
amati: è sicuramente la più grande soddisfazione.
I problemi e le difficoltà
Il quartiere sente fortemente l’impatto di un’im-
migrazione concentrata in un territorio così cir-
coscritto. Il quartiere popolare vive una profonda
crisi di identità: gli anconetani progressivamente si
allontanano, lo evitano, o semplicemente lo attra-
versano; mentre i nuovi residenti, privi di luoghi di
integrazione, rimangono per lo più chiusi nei loro
gruppi di appartenenza. La scuola (dopo il terre-
moto è rimasta solo quella elementare) e l’oratorio
rimangono gli unici spazi condivisi di reciprocità,
anche se questi presidi di socialità rischiano di es-
sere sempre più disertati dagli italiani.
Le nazioni di provenienza sono estremamente va-
riegate e le comunità nazionali e linguistiche più
numerose appartengono a culture estremamente
diverse tra loro, anche come appartenenza religiosa
(bengalesi, rumeni, albanesi).
Al disagio derivato dall’immersione in una cultura
altra rispetto a quella di origine che provoca crisi di
identità nelle giovani generazioni e chiusura negli
adulti, si sommano le povertà di ordine materia-
le (carenza di lavoro), educativo e morale. Anche
solo passeggiando per il quartiere si notano ampie
fasce di marginalità che talvolta sconfinano nella
devianza e nella piccola criminalità. I modelli cul-
turali di genere sono di tipo patriarcale e difficil-
mente riescono a mettersi a confronto con i modelli
occidentali. La questione femminile è da affronta-
re con estrema urgenza. Un quartiere “complica-
to” che grida un’esigenza educativa che ci chiama
a rispondere con lo stile e l’intraprendenza di don
Bosco.
A questo si aggiunge le povertà di un quartiere che
non offre luoghi di aggregazione. Va evidenziata la
totale assenza di spazi aggregativi per bambini e
giovani (parchi, giardini, piazze); questi sono co-
stretti a giocare ed incontrarsi nei pochi spazi ri-
tagliati tra una strada e l’altra (viali, aiuole, spazi
adiacenti ai supermercati).
Il sogno per il futuro
Il nostro sogno attuale è quello di aprire una scuola
professionale: il sogno di un Centro di formazione
professionale per dare un futuro lavorativo a tan-
ti giovani che non riescono nei percorsi formativi
classici.
L’obiettivo è sempre lo stesso: fare onesti cittadini
e buoni cristiani; dare un futuro a tanti ragazzi che
diversamente potrebbero cadere in situazioni di de-
grado. Con il nostro piccolo impegno cerchiamo di
trasformare la realtà, rafforzando la nostra presenza
in tutti gli ambienti della nostra opera per render-
la una vera presenza missionaria sia in cortile sia
all’interno della nostra parrocchia.
Una comunità
educativa
pastorale
che ha fatto
dei poveri
la scelta
preferenziale
e che vuole
rispondere
in maniera
concreta alle
esigenze e
bisogni del
territorio.
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EVENTI
Ludovica Maria Zanet
In Slovenia e Slovacchia
100 anni di
SANTITÀ SALESIANA
all’ombra di Maria
Due santuari mariani sono legati alla vocazione di due grandi
santi salesiani: Titus Zeman (slovacco) e Andrej Majcen (sloveno).
Il santuario di
Rakovnik in
Slovenia con il
monumento
a don Bosco.
Don Bosco è stato un grande innamora-
to della Madonna e il “filo” della sua
presenza, forte e discreta, di mamma,
maestra e ausiliatrice, non è mai venuto
meno per ciascuno dei suoi figli. Non deve dunque
meravigliare che anche tanta santità salesiana sia
intessuta di profondissimi legami con Maria: ogni
Servo o Serva di Dio, ogni beato e santo della Fa-
miglia Salesiana intrattiene con lei un legame spe-
ciale, alcune volte totalizzante, come è stato per don
Silvio Galli, sdb, o suor Antonietta Böhm, fma.
L’anno passato è contraddistinto anche da due an-
niversari direttamente connessi ad alcune figure
di santità salesiana: quelli del Santuario di Maria
Ausiliatrice a Lubiana-Rakovnik, consacrato l’8
settembre 1924, e quello dell’arrivo nel 1924 dei
salesiani presso il Santuario mariano nazionale di
Šaštín, in Slovacchia, dedicato all’Addolorata.
Questi eventi incisero in modo determinante su al-
cuni giovani le cui Cause sono oggi seguite dalla
Postulazione: quella del Servo di Dio don Andrej
Majcen (sloveno, missionario in Oriente) e quella
del Beato don Titus Zeman (slovacco, martire
per le vocazioni). Ad unirle, la figura umile e
discretissima del Venerabile don Ignác Stuchlý, le-
gato a entrambi e uomo di collegamento tra territo-
ri diversi – Polonia, Boemia, Moravia, Slovacchia,
Slovenia, Italia – e che fu presente a Rakovnik il
giorno dell’inaugurazione del Santuario, a cui ave-
va contribuito con grandi sforzi.
In particolare, il cammino salesiano del giovane
Andrej Majcen cominciò proprio l’8 settembre di
100 anni fa e a Rakovnik, nei giorni scorsi, i sale-
siani lo hanno ricordato attraverso iniziative diver-
se – soprattutto la Messa Solenne di consacrazione
del nuovo altare, presieduta da parte del vescovo di
Murska Sobota, monsignor Peter Štumpf.
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«Ami Maria?»
Nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1924, a poche ore
dall’inaugurazione del santuario, Andrej Majcen,
fino a poco prima maestro presso i salesiani di
Radna, muoveva i primi passi nella vita salesia-
na. Egli avrebbe iniziato poco dopo il noviziato e
il santuario di Rakovnik sarebbe restato un forte
punto di riferimento nella sua vita: sia al momento
del distacco dalla patria per partire per le missioni,
quando il suo ultimo sguardo fu ancora una vol-
ta tutto per il Santuario e Maria; sia da anziano,
quando vi divenne confessore ricercatissimo, uomo
di Dio stimato anche dal vescovo, che gli mandava
sacerdoti in crisi. Quando un Superiore aveva vo-
luto capire se poter ammettere Andrej al noviziato,
gli aveva semplicemente chiesto se amasse la Ma-
donna: “Ami Maria?”. “Sì”. “Allora puoi entrare in
noviziato”.
Un legame tutto speciale con la Vergine fu anche
quello di Titus Zeman e, quasi in simultanea all’e-
vento a Ljubljana-Rakovnik, in Slovenia, l’8 set-
tembre 2024, alle ore 11, i salesiani della Slovacchia
hanno fatto memoria del centenario del loro arrivo
in Slovacchia con una Messa Solenne nel Santuario
di Šaštín, presieduta dal Nunzio Apostolico nel Pa-
ese, monsignor Nicola Girasoli, alla presenza anche
del Vicario del Rettor Maggiore.
Nella primavera del 1925, quindi a pochi mesi
dall’arrivo dei salesiani in Slovacchia, il picco-
lo Titus, che all’epoca aveva 10 anni, era malato.
Quell’anno avrebbe tanto voluto unirsi ai pellegrini
che si recavano a Šaštín ma, impossibilitato, volle
vivere il pellegrinaggio come “cammino interiore”,
affidandosi a Maria: quando i pellegrini ritorna-
rono, egli chiese al papà di prenderlo in braccio e
portarlo sulla soglia di casa, per partecipare della
benedizione e della grazia del pellegrinaggio. Gli
bastò qualche istante, quindi chiese di essere ripor-
tato in casa. In quel momento, con tanta fede, Titus
ottenne la grazia della guarigione.
Egli infatti “tornò miracolosamente in buona salute
e dopo questa guarigione divenne del tutto immu-
ne a tutte le malattie”. In quel miracolo di Maria
trovò inoltre la sua stessa vocazione salesiana: “la
Madonna mi ha guarito!” sapeva Titus.
“I salesiani abitano nella casa di Maria [a Šaštín],
allora anche io diventerò salesiano” sosteneva, inol-
tre. E quando il Direttore dei salesiani di Šaštín
gli disse: “Tu sei ancora piccolo, non ne abbiamo
di piccoli come te, qui. Fa freddo, il convento è si-
tuato in una palude e ci laviamo ogni giorno con
l’acqua fredda. Quando piangerai e vorrai andare
dalla mamma, che faremo?”, Titus semplicemente
gli rispose: “Che cosa dice? Io so bene che la mam-
ma terrena non ci sarà, ma qui c’è la madre di tutte
le madri – la Santa Vergine Maria Ausiliatrice – e
lei mi farà da madre!”.
All’ombra di Maria e del suo manto sono dunque
fiorite queste vocazioni, ed è significativo come in
entrambi i casi la Vergine abbia donato ai salesia-
ni, non appena essi le abbiano dedicato una chiesa
o abbiano abitato nei pressi di essa, una vocazione
santa direttamente connessa ad altre vocazioni: don
Titus Zeman salverà sotto il comunismo numerosi
chierici salesiani, arrivando poi ad affermare che
se anche uno solo di essi fosse divenuto sacerdote
al posto suo non sarebbe stato invano; don Andrej
Majcen fu maestro dei novizi in Vietnam, gettando
le basi della Congregazione in quelle terre, sino ad
essere chiamato il don Bosco del Vietnam.
Dopo tante
persecuzioni
e sacrifici la
vita cristiana
in Slovacchia
torna
all’antico
splendido
fervore.
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DON BOSCO NEL MONDO
Marco Borraccino
Responsabile Comunicazione Fondazione DON BOSCO NEL MONDO
I GIOVANI CAMBIANO,
noi con loro
Jean Paul Muller, Consigliere
Economo Generale della
Congregazione Salesiana, riflette
con noi su Giubileo e sfide globali,
nuove generazioni e ruolo della
missione salesiana oggi.
La Fondazione DON BOSCO NEL MONDO
ha attraversato una fase di grande
rinnovamento delle attività. Possiamo
riassumere questo percorso in tre parole
chiave?
Vicinanza, Valutazione e Spiritualità.
Vicinanza ai nostri sostenitori, cui è connessa l’i-
dea di integrarli nella nostra missione. Sostenitori
sono non soltanto i donatori, ma anche quanti si
interessano all’opera di don Bosco. Oggi, rispetto a
un po’ di tempo fa, i sostenitori sono più informati
su che cosa facciamo e su come valutiamo ciò che
facciamo.
E questa è la seconda: Valutazione. Qual è l’effetto
del denaro che abbiamo ricevuto e trasferito in un
progetto? Significa indagare non soltanto quan-
ti giovani ricevono formazione, ma anche in che
modo poi cambiano la società da adulti.
La terza è Spiritualità, condivisa tra noi e i nostri
benefattori. A volte vediamo la Chiesa invecchiata,
debole. Invece, laddove noi siamo con tutti que-
sti giovani, abbiamo una Chiesa vivace, vibrante,
e questo ci aiuta anche nella vita spirituale. Ci dà
un’idea della presenza di Dio in questo mondo”.
Un fattore di rigenerazione per
tutte le istituzioni salesiane è la
professionalizzazione degli uffici.
È un indirizzo che proseguirà?
“Sì, senz’altro. Dal 2012 abbiamo installato questi
uffici di sviluppo in quasi tutte le nostre strutture.
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Ciò vuol dire avere più professionalità nella valuta-
zione. Facciamo le cose che ha voluto don Bosco?
Ci sono altri con cui possiamo cooperare? In tutte
le nostre ispettorie, oggi, ci sono due o tre esperti
per analizzare le necessità dei giovani in quella spe-
cifica società.
Un’altra cosa che abbiamo installato e che deve an-
dare avanti è il capacity building: formare quelli
che lavorano con noi e a cui manca l’aggiornamento
quotidiano. I giovani cambiano e occorre capire i
nuovi bisogni e le nuove sfide”.
Pandemia, guerre, crisi economiche.
Quali obiettivi deve porsi la Fondazione
in tempi di crescente emergenza?
“Non c’è un mese dove non abbiamo un’emergenza.
Ma come salesiani il nostro ruolo non è solo aiutare
nell’emergenza, ma anche fare di più per la preven-
zione. Questo significa non aspettare che venga
un’inondazione, ma fare prevenzione già nelle co-
struzioni. E non possiamo farlo da soli: ci servono
esperti.
Dove sono le guerre, la nostra prevenzione comin-
cia a scuola: educare i giovani a riconoscere che cia-
scuno ha diritto di vivere su questa terra, che siamo
tutti uguali, cittadini di questo mondo come dice
papa Francesco.
Infine, dobbiamo portare i problemi là dove la po-
litica decide: a Bruxelles presso l’Ue, a New York
presso l’onu, a Ginevra per i diritti umani”.
anche se attorno c’è povertà, o guerra, c’è più spe-
ranza rispetto ad altri posti dove non c’è Chiesa.
Allora dove la speranza esiste, dobbiamo mostrarla.
In ultimo, essere entusiasti del Vangelo: non avere
paura di parlare del Vangelo e del valore dei nostri
Sacramenti. Un Sacramento è già in sé un segno di
speranza”.
In quest’anno, tra l’altro, si tiene anche il
Capitolo della Congregazione Salesiana.
Quale sarà la prima materia che dovrà
affrontare il nuovo Consiglio Generale?
“Il titolo dato dal nostro Rettor Maggiore al Ca-
pitolo, ‘Appassionati per Gesù Cristo, dedicati ai
giovani’, è per noi una prima chiave di lettura. Ma
c’è anche una seconda interpretazione, inerente la
forza del lavoro fatto dai Salesiani e dai laici per
migliorare la missione a favore dei giovani. E qui
c’è veramente il futuro.
La vita religiosa sta cambiando: in alcuni Paesi,
come qui in Europa, c’è un invecchiamento della
popolazione e quasi nessuna vocazione. Ma nel-
«Dobbiamo
portare i
problemi
là dove la
politica
decide: a
Bruxelles
presso l’Ue,
a New York
presso l’ONU,
a Ginevra per i
diritti umani».
Il 2025 è l’anno del Giubileo della
Speranza. Qual è il messaggio di speranza
della Congregazione Salesiana?
“I nostri missionari sono sempre stati ambasciatori
di speranza, gioia, ed entusiasmo. E le cose che ho
letto fino adesso sul Giubileo sono incentrate sulla
speranza così come la intendeva don Bosco: riguar-
dano i giovani, che hanno la buona volontà e che
non accettano la diseguaglianza, né l’ingiustizia.
Inoltre, se apriamo gli occhi, vediamo già che in
questo mondo dove c’è Chiesa, la vita è diversa;
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DON BOSCO NEL MONDO
Nei Paesi, diciamo, sviluppati, le persone sono viste
dalla tecnologia come consumatori: possono essere
manipolate, in un certo senso, per usarne ancora
di più.
Non è sufficiente soltanto parlare della tecnologia:
dobbiamo fare tutto per istruire e per accompagna-
re i giovani a usare, io direi così, con buon senso la
tecnologia. Perché così la tecnologia può diventare
uno strumento per fare buoni cittadini, aiutare le
persone ad essere oneste ed essere di supporto alle
reti di scambio delle idee per combattere fame e
ingiustizia”.
Oltre naturalmente alle donazioni,
in quale altro modo gli adulti possono
contribuire alla crescita della missione
salesiana nel mondo?
“In Italia vedo una forma di miracolo: tante persone
legate a don Bosco che, nonostante pensioni e salari
«I nostri
missionari
sono
sempre stati
ambasciatori
di speranza,
gioia, ed
entusiasmo».
le opere dove si pratica la pedagogia di don Bo-
sco ci sono sempre più vocazioni, perché i laici si
rendono conto di avere un compito particolare in
questo mondo. Il numero delle opere per i giovani
bisognosi sta aumentando perché negli ultimi anni
il bisogno è diventato ancora più grande. Ma non
possiamo limitarci a copiare il modello pedagogi-
co. Perché i giovani oggi cambiano e noi dobbiamo
aiutarli come sono oggi. Il Capitolo Generale ci
porterà a un grande cambio nelle strutture, neces-
sario a rafforzare il nostro lavoro con i giovani”.
I giovani di questo periodo storico sono
esposti a una rivoluzione tecnologica.
Come Salesiani, in che modo possiamo
prepararci a questa sfida?
“Don Bosco ci chiede di essere sempre alla punta
dello sviluppo: se c’è qualcosa di nuovo nella tecno-
logia, i Salesiani devono conoscerla e capire come
usarla.
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«Se
dovessimo
fare ancora un
passo in più,
potremmo
chiedere che
gli adulti
siano ancora
più salesiani
nel luogo
dove vivono,
nel senso di
fare qualcosa
per i giovani
o essere più
attenti ai loro
bisogni».
bassi, danno sempre qualcosa per aiutare i giova-
ni. Questo io lo porto anche nella mia preghiera di
ringraziamento alla Madonna. Se dovessimo fare
ancora un passo in più, potremmo chiedere che
gli adulti siano ancora più salesiani nel luogo dove
vivono, nel senso di fare qualcosa per i giovani o
essere più attenti ai loro bisogni”.
Don Bosco dice: “Sono operai che lavorano
nella vigna del Signore tutti coloro che in
qualche modo concorrono alla salvezza
delle anime”. Oggi, quali istituzioni
sostengono la missione salesiana?
“Le istituzioni devono essere più, come dire, ‘in-
filtrate’ dal carisma salesiano. In tanti Paesi la-
voriamo bene con il governo: collaboriamo qui in
Italia dove mancano operai e in altri paesi dove
manca la formazione. E sono già molto contento
di questo”.
Una delle grandi questioni che l’attualità
pone alla vocazione sociale del mondo
salesiano è la sostenibilità ambientale.
Siamo pronti a fare la nostra parte
in questa sfida?
“Da tempo siamo attivi su questo fronte: si tratta di
proteggere l’ambiente e anche di contenere i costi.
Non è un’invenzione dei Salesiani, ma del ‘Laudato
sì’ di papa Francesco. Ma c’è un’altra forza enorme:
sono i giovani stessi. I giovani in tutto il mondo
hanno fondato la Don Bosco Green Alliance: mo-
nitorano se noi veramente proteggiamo o rispettia-
mo l’ambiente.
Abbiamo anche installato diversi programmi per
ridurre le emissioni con i governi di Belgio, Fran-
cia, Italia, Germania. In alcuni Paesi, come ad
esempio in Pakistan, utilizziamo già il fotovoltai-
co e il calore della terra in tutte le nostre opere, e
cerchiamo di isolare le mura. In altri Paesi siamo
più lenti perché manca il denaro per fare ciò che
è necessario.
Ma la nostra coscienza è toccata e si muove per fare
di più. Sono soprattutto i giovani a chiederci di
prendere sul serio l’enciclica ‘Laudato sì’”.
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I SANTI GIOVANI
T.B.
Pier Giorgio FRASSATI
Pier Giorgio Frassati sarà proclamato santo
il 3 agosto 2025, cento anni e un mese
dopo la morte, avvenuta il 4 luglio 1925.
È stato riconosciuto il miracolo avvenuto
per sua intercessione, di cui ha beneficiato
nel 2017 un seminarista statunitense,
sacerdote dal giugno 2023.
Un giorno una mendicante aveva bussato
alla porta di casa (a Torino). Aveva un
bimbo scalzo in braccio. Pier Giorgio,
guardando solo un istante il volto di
quella donna, vide che non era una «mendicante
di professione» (a cui il papà aveva proibito di dare
qualunque cosa), ma una mamma disperata. Si cavò
velocemente scarpe e calze, le passò alla donna e
chiuse precipitosamente la porta, prima che papà
o mamma potessero protestare. La prima volta che
fu alla scuola materna, durante la colazione, vide
un bambino che piangeva. Gli altri l’avevano iso-
lato in un angolo perché aveva la faccia coperta di
croste disgustose. Pier Giorgio si avvicinò, gli disse
sorridendo: «Non piangere», e l’aiutò a mangiare
la scodella di pane e latte imboccandolo con il suo
cucchiaio.
Un pomeriggio, vicino al parco del nonno, vide una
giovane suora che raccoglieva dei fiori nella siepe.
Capì al volo che li raccoglieva per la chiesa, corse
all’aiuola delle rose e prese la rosa rossa più bel-
la. Sempre di corsa andò dalla suora e gliela porse:
«Per favore, questa rosa la porti a Gesù per me».
Fin dai primi anni (molto prima che se ne accorgesse
anche Luciana) aveva «visto» a tavola la sorda tensio-
ne tra mamma e papà. Papà (il più famoso giornalista
di Torino) tornava in famiglia alle 12 e alle 19,30 in
punto, per i pasti. Si tratteneva un tempo brevissimo
in compagnia dei figli. La mamma, pittrice di una
certa fama, era quasi sempre fuori casa. Malintesi,
incomprensioni si erano accumulati. Non si volevano
più bene. Stavano insieme soltanto per i figli, per-
ché la gente «non sparlasse». Ma a tavola l’atmosfera
era tesa, e a volte dalla bocca della mamma usciva
qualche frase amara e pungente, e gli occhi di papà
diventavano di ghiaccio. Pier Giorgio vedeva, capiva
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tutto, soffriva dentro. E con Luciana (quando anche
lei capì) decise di fare qualunque sacrificio perché
rimanessero insieme.
Da ragazzini, Pier Giorgio e Luciana furono invi-
diati dai loro compagni. Papà, Alfredo Frassati, era
avvocato, e specialmente proprietario e direttore de
«La Stampa», il giornale più diffuso e autorevole di
Torino. Nel 1913 sarà eletto senatore, e nel 1921
inviato come ambasciatore nella capitale della Ger-
mania. La loro mamma, Adelaide Ametis, aveva
talento per la pittura. I suoi quadri erano ammessi
alla Biennale di Venezia.
Vangelo, i poveri: i tre «luoghi» dove Pier Giorgio
incontrò per tutta la vita Gesù, che divenne la sua
passione più bruciante. Tre «luoghi» che gli furono
rivelati, aperti, dalle mani esili di nonna Lidia.
Le labbra gonfie di pugni
Ma se gli altri ragazzini invidiavano i Frassati per
la bella casa e l’automobile, anche Pier Giorgio e
Luciana sentivano invidia per gli altri ragazzi: più
poveri, ma con un papà e una mamma che si vole-
vano bene. Testimoniò la cuoca Carolina Masoero:
«Non erano certo ragazzi felici... Vivevano sempre
un po’ spaventati».
Quando all’uscita da scuola (avvenne tante volte!)
si sentivano chiamati con irrisione «i figli di papà»,
Pier Giorgio mollava tutto, e faceva a botte con i
pugni e menando lo zainetto. Era svelto e robusto,
picchiava sodo, e non si lamentava di prenderne la
sua parte. Tornava a farsi mettere l’acqua fredda sul-
le labbra gonfie dalla cuoca Carolina, che sospirava:
«Che non se n’accorga la signora, per l’amor di Dio!».
Chi insegnò a Pier Giorgio a vedere Dio nella
bellezza del cielo e nella faccia umiliata dei pove-
ri? Chi aprì per la prima volta insieme con lui le
pagine del Vangelo? L’avvocato Frassati lasciò fare
completamente alla moglie. Adelaide, che di queste
cose non s’intendeva molto, lasciò fare a sua ma-
dre, un’anziana signora di fede purissima, che Pier
Giorgio chiamò sempre «nonna Linda». Fu quindi
sulle ginocchia della nonna che Pier Giorgio sentì
raccontare i primi «fatti» della vita di Gesù, fu dan-
do la mano a lei che entrò per la prima volta a salu-
tarlo nella chiesa, dove la sua presenza era segnala-
ta da una silenziosa lampada rossa. L’Eucaristia, il
«È venuto Gesù, e tu l’hai
mandato via»
Alla prima Comunione non lo preparò soltanto la
nonna, ma anche la maestra Emilia Giuliano e don
Grossi. Quell’incontro con Gesù Eucaristia fu una
cosa seria, molto seria. Non fu l’occasione per inau-
gurare le scarpe nuove o per abbuffarsi di pasticci-
ni. Lo si vide dai fatti.
«Un giorno – lo ricorda Luciana – Pier Giorgio e
papà furono avvicinati da un poveraccio male in
arnese, che tendeva la mano dicendo di avere fame.
Papà disse a Pier Giorgio: “È un ubriaco”, e tirò
avanti. Ma Pier Giorgio si fermò un attimo, e vide
su quella faccia la fame vera, insieme alla tristezza,
e allora si mise a rincorrere il babbo, e a protestare e
a piangere camminandogli accanto. “Ma che hai?”
fece a un tratto il papà seccato. E lui: “È venuto
Gesù, e tu l’hai mandato via”. E la durò così a lun-
go, che ottenne la promessa che papà avrebbe preso
informazioni su quel poveraccio, e se davvero era
misero l’avrebbe aiutato».
In questi verdissimi anni, il taciturno zio Pietro
(l’amministratore del giornale di papà) comunicò a
Pier Giorgio una nuova passione: le scalate. Arran-
carono dapprima sulle colline torinesi, poi la prima
vera escursione in vetta al Mucrone, la montagna
nevosa che Pier Giorgio aveva visto arrampicando-
si sulla sequoia. Seguirono i monti splendidi della
Valle d’Aosta.
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I SANTI GIOVANI
«Fracassati» e i foglietti rosa
Nell’autunno 1913, Pier Giorgio entrò nell’Istituto
Sociale dei gesuiti. Non soffrì nemmeno una giorna-
ta di timidezza. Si scatenò nel chiasso, negli scherzi,
pronto anche a fare a botte se occorreva. Gli amici
lo ribattezzarono «Fracassati». Si prese i suoi castighi
e le sue «ammonizioni scritte» da far firmare a casa
(allora si chiamavano «foglietti rosa»).
Ma questo non gli impediva di essere uno studen-
te tenace, con una volontà testarda. «Ricordo – ha
scritto un suo professore – che quando cominciai ad
averlo come allievo, era lento nel capire e duro come
un montanaro; ma altrettanto tenace». A casa e a
scuola si meritò un nuovo soprannome, «Testa dura».
Come cristiano non rimase un bambino. La sua
amicizia con il Signore divenne più grande, robusta,
impegnata. Dopo essersi consigliato con il suo con-
fessore, decise di fare la Comunione tutti i giorni.
La purezza limpida che brillò sempre nei suoi occhi,
nelle sue parole, nelle sue matte risate, la conquistò
in quel giorno.
Due amarezze, una laurea
e un distintivo
Non era finita, purtroppo, la miseria
portata dalla guerra. La vide nelle fac-
ce disperate e rabbiose degli operai che
iniziarono lo sciopero generale nel 1919,
occuparono le fabbriche nel 1920. Dal
1918 si era iscritto all’Università. Il pa-
dre l’avrebbe voluto avvocato come lui,
per averlo accanto nella direzione del
grande giornale di Torino. Lui invece si
era iscritto a ingegneria al Politecnico:
«Voglio diventare ingegnere minerario,
per vivere gomito a gomito con gli operai
che fanno il lavoro più duro che esista».
Non fu l’unica amarezza che diede a suo
padre in quegli anni. Lui era stato eletto
Senatore, e con il suo giornale sosteneva
le idee dei liberali. Pier Giorgio, invece,
portava all’occhiello della giacca il di-
stintivo con lo scudo e la croce del Partito Popolare
cattolico. Uno dei capi della sinistra di questo giova-
nissimo partito (fondato nel 1919) è Guido Miglioli,
che ha radunato nelle «leghe bianche» i braccianti
poverissimi e sfruttati della bassa padana, e si batte
perché abbiano delle condizioni di vita più umane.
Pier Giorgio sogna di fare la stessa cosa tra gli ope-
rai.
Ma Pier Giorgio sa che i poveri che si ammala-
no e muoiono nelle soffitte non hanno il tempo di
aspettare leggi più giuste. Bisogna soccorrerli ora,
far presto.
Pier Giorgio è uno studente, e con quel padre che ha,
di lire ne vede poche. Eppure riesce ad aiutare mol-
tissimi bisognosi, anche «nei più remoti sobborghi di
Torino: talvolta lo si vedeva tornare a piedi, perché
si era addirittura privato degli ultimi spiccioli per il
tram; e talora senza cappotto, perché non esitava a
toglierselo di dosso, se serviva a un povero».
Luciana, in un libro, ha raccolto oltre cinquecento
testimonianze su questo suo prodigarsi in maniera
silenziosa, umile, senza che nemmeno in famiglia lo
sappiano. Suoi compagni, in questa continua opera
di carità, sono gli amici con cui combina scherzi
clamorosi al Politecnico, amici e amiche con cui
rea­lizza scalate sui monti in rumorosa allegria.
I genitori e la sorella lo vedono uscire prestissimo
al mattino, tornare tardi alla sera. Non sanno delle
sue visite ai poveri, e a volte papà si arrabbia. Una
notte che non rincasa (sta passandola al capezzale
di un malato in una soffitta), il padre sempre più
ansioso telefona alla questura, agli ospedali. Alle
due si sente girare la chiave nella porta, Pier Gior-
gio entra. Papà esplode: «Puoi star fuori di giorno,
di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così
tardi telefona!». Pier Giorgio lo guarda, e sottovoce
risponde: «Babbo, dov’ero io non c’era telefono».
Nelle festose gite in montagna, durante le grigie
giornate di studio, Pier Giorgio ha cominciato a
guardare con più affetto un’amica, Laura Hidalgo.
Se n’è innamorato. Ha fretta di finire gli esami, di
conseguire la laurea, perché la vuole sposare.
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FEBBRAIO 2025

4.3 Page 33

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«Sto male. Malissimo»
29 giugno 1925. Nonna Linda, la cara vecchietta
che è stata la luce della sua infanzia, è alla fine della
sua lunga vita. Pier Giorgio è sconvolto da questo
fatto, ma sta male anche per un’altra ragione. Nei
giorni precedenti ha vegliato dei malati poveri, sen-
za badare (come sempre) se la malattia che avevano
era o non era contagiosa. Nella tarda mattina del
29, la cameriera Mariscia lo trova a letto, e lo sgrida
mezzo per ridere e mezzo sul serio «perché è la pri-
ma volta che lo vedo fare il poltrone». Pier Giorgio
sorride, ma l’acuto mal di schiena non gli passa.
3 luglio. Papà e Luciana sono partiti per Pollone.
Accompagnano la salma della nonna. La mamma
è rimasta, sfinita. A questo punto, Pier Giorgio
non ce la fa più a nascondere il male. Sussurra alla
mamma: «Sto male. Malissismo». Nel pomeriggio
viene il medico Alvazzi. Trova Pier Giorgio già
semi-paralizzato. Con lo sguardo spaventato pro-
nuncia una parola terribile: poliomielite. È la ine-
sorabile «paralisi progressiva», contro la quale in
quegli anni non esiste rimedio.
Pier Giorgio, che suda di continuo, chiama con un
gesto Luciana. Su una busta, che lei gli porge, scri-
ve con fatica le sue ultime parole. Sono per l’amico
Grimaldi che l’accompagna nelle visite ai poveri:
«Ecco le iniezioni di Converso...». Indica alla sorel-
la una scatola di iniezioni e le consegna quella riga,
quasi illeggibile.
Nella stanza vicina, per non farsi sentire, papà pian-
ge disperato. Luciana gli stringe forte la mano, e solo
alle 19, quando si accorge che quella mano è ormai
irrigidita dalla morte, scoppia in un pianto convulso.
La voce si è sparsa in poche ore, chissà come, nei
quartieri più miseri sul tam-tam dei poveri. Davan-
ti alla porta di casa Frassati, nella vicina chiesa del-
la Crocetta, ce ne sono centinaia che pregano, che
bisbigliano davanti a Dio per lui.
«Chi era nostro figlio?»
La sera del 4 luglio la cuoca Ester, sul calendario
di cucina di casa Frassati scrisse 17 parole sgram-
maticate e struggenti: «Ore 7: Irreparabile sventura
Povero S. Pier Giorgio! Era Santo e Dio l’ha voluto
con sé!!».
Quando (molto presto) il Papa dichiarerà «santo»
Pier Giorgio, qualcuno dovrà dirgli che è stato pre-
ceduto da una povera cuoca, su un calendario di
cucina.
“Gesù mi fa
visita ogni
mattina nella
Comunione,
io la restituisco
nel misero
modo che
posso,
visitando
i poveri”.
Il tamtam dei poveri
Davanti agli occhi di Pier Giorgio, che il male sta
inchiodando nella paralisi, c’è il quadro grande e lu-
minoso della Madonna portata in cielo dagli angeli.
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
I VERBI DELL’EDUCAZIONE 13
COMANDARE
Il bambino deve essere guidato, non guidare! Vivere senza
comandi è come giocare a tennis senza rete. La disciplina è
la seconda cosa più importante che i genitori devono ai figli,
dopo l’amore.
Il famoso pediatra americano Benjamin Spock
che, come sappiamo, è stato accusato per le
sue idee pedagogiche troppo lassiste, ad un
certo punto della vita di studioso, ha senti-
to il dovere di dire: “Ci sono dei momenti in cui
il bambino ha bisogno di trovare nei genitori un
atteggiamento severo, deciso, sicuro. Un bambino
che le ha sempre tutte vinte, che può fare qualsiasi
cosa senza che nessuno gli dica: «No, questo non si
fa», un bambino lasciato, insomma, completamente
in balia di se stesso, non avrà mai un senso del limi-
te. Non avrà nessuna sicurezza su ciò che è giusto o
non è giusto fare.
Non avrà nessun riferimento, nessuna guida infe-
riore, perché gli è mancata la prima guida che ogni
bambino ha bisogno di avere: quella dei genitori.
Vivrà senza mai uscire da quel senso di onnipoten-
za infantile che da bambino ne faceva un piccolo
tiranno infelice.
Un bambino ha bisogno di una guida sicura, senza
di essa si sente infelice.
Ed anche i genitori non sono felici. In una famiglia
regna il caos quando i bambini sfuggono di mano,
fanno tutto quello che vogliono. Senza mai essere
contenti.
Il grosso rischio di molti genitori, oggi come
in passato, è quello di confondere la flessibilità
con un’indulgenza assoluta che a volte rasenta
l’indifferenza: ma sì, fa quello che ti pare! Chi non
interviene mai con fermezza, e si lascia tiranneg-
giare, a volte insultare dai figli, ha rinunciato al
principio fondamentale di ogni educazione”.
Adattata, addolcita, negata, rovesciata, esaltata,
invocata, comunque sia, la “disciplina” continua a
far più male ai genitori che ai bambini. La sento-
no, giustamente, come la vera sfida della famiglia
attuale.
Ormai tutti concordano sul fatto che la disciplina
abbia ripreso il suo significato originario. Discipli-
na significa semplicemente insegnamento. I figli
dovrebbero essere perciò semplicemente dei disce-
poli. Nulla a che fare quindi con il capitolo
punizioni e castighi.
La disciplina è la seconda cosa più im-
portante che i geni-
tori devono ai fi-
gli, dopo l’amore.
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FEBBRAIO 2025

4.5 Page 35

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Diciamolo subito: chi vuole educare deve coman-
dare. A prima vista l’affermazione può sembrare
forte, esagerata, autoritaria. In realtà è il bambino
stesso ad attendere i nostri comandi.
Già sappiamo che i bisogni fondamentali del fi-
glio sono tre: bisogno di sazietà (bisogno di cibo),
bisogno d’amore, bisogno di sicurezza. Ebbene, la
sicurezza gli viene dalla nostra fermezza, dal no-
stro comando.
Dunque non gli facciamo nessuna violenza a co-
mandare. E neppure dobbiamo pensare che il co-
mando ci faccia perdere l’applauso e l’affetto del
figlio. La verità sta tutta all’opposto: se lo coman-
diamo, dimostriamo di pensare a lui, di interessarci
di lui, di volergli bene. Lo stesso Benjamin Spock
considerato a torto il grande teorico di una educa-
zione molle e arrendevole diceva: “II bambino ha
bisogno di una guida sicura: si sente infelice se non
la trova nei genitori”. Ma passiamo subito al con-
creto. Dunque, come comandare?
Ecco: perché il comando sia pedagogicamente ac-
cettabile, deve avere cinque doti.
Comando raro
Insistere troppo, comandare in continuazione
(“Non correre; attento a dove metti i piedi; saluta il
signore; non sporcarti; pulisciti il naso...”) oltre ad
irritare il bambino, fa perdere efficacia ai comandi.
CHI COMANDA IN CASA?
Ho domandato ad una bambina: “Chi comanda in casa?” Sta zitta
e mi guarda.
“Su, chi comanda da voi: il babbo o la mamma?”
La bambina mi guarda e non risponde.
“Dunque me lo dici? Dimmi chi è il padrone.” Di nuovo mi guarda,
perplessa.
“Non sai cosa vuol dire comandare?” Sì che lo sa.
“Non sai cosa vuol dire padrone?” Sì che lo sa.
“E allora?” Mi guarda e tace. Mi debbo arrabbiare?
O forse è muta, la poverina.
Ora poi scappa addirittura, di corsa fino in cima al prato.
E da lassù si volta a mostrarmi la lingua e mi grida, ridendo:
“Non comanda nessuno, perché ci vogliamo bene!”.
(Gianni Rodari)
più nulla, si sente disorientato, insicuro. Il bambino
deve capire che comandiamo perché la cosa va fatta
o non fatta in quanto è buona o cattiva in sé, indi-
pendentemente dai nostri quarti di luna.
Comando esigente
Abbiamo appena detto che è bene andare adagio a
dare ordini, ma quando abbiamo stabilito una cosa
perché la riteniamo giusta, guardiamoci bene dal
cedere, anche se il bambino strilla, pesta i piedi, fa
capricci da manuale. Mollare, significa far scattare
nella mente del piccolo la convinzione che con i ca-
pricci può ottenere quel che vuole. Ed allora, addio
educazione!
Comando concorde
Gli ordini dati dai genitori devono essere gli stes-
si di quelli dati dai nonni, dagli zii, dalle zie.
Se non c’è un’unica strategia educativa, non si
combinano che pasticci. Mai come in questo
caso è indovinato il proverbio che dice:
“Troppi comandanti portano la nave in
montagna”.
Comando costante
Il comando non deve dipendere dai nostri
umori. Se al lunedì proibiamo quello che al
martedì concediamo, il figlio non capisce
Comando giustificato
Il comando urlato e liquidato con un: “Qui co-
mando io!”, non costruisce. Per essere buono, il co-
mando deve far comprendere il motivo, la ragione
dell’ordine, in modo che il figlio, gradualmente,
arrivi a capire che ciò che ora fa per comando, lo
dovrà fare sempre per dovere. Solo se è giustificato,
il comando raggiunge il suo scopo. Infatti, qual è
il motivo per cui l’educatore comanda? L’educatore
comanda per non dover più comandare! Si comanda
perché chi ci è affidato impari ad essere buono non
per legge, ma per convinzione. Impari ad esser
buono da solo.
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Come FOGLIE al GELO
A volte basta poco per dare il
via a questa inversione di rotta:
è sufficiente un gesto di fiducia,
un nuovo incontro, una piccola
o grande novità che venga a
illuminare la nostra quotidianità
perché «cambi il cielo sopra di noi»
ma soprattutto perché si diradi
il buio dentro di noi.
Congelati in un presente incerto e senza
prospettive. Strapazzati dal vento im-
pietoso di cambiamenti che ci travol-
gono e ci stravolgono. Aggrappati con
tutte le nostre forze a quelle poche certezze che
Un fiore cade senza far rumore,
senza colpa né dolore,
senza chiedersi perché.
Dal sonno prende forma un'illusione,
che la vita è un'occasione
e domani si offrirà.
Cambia il cielo sopra di noi,
non c'è fretta e poi
al risveglio il buio si spaventerà;
fra le mani una novità,
la mia dignità
come neve bianca al sole splenderà...
Ritorneremo,
bianche foglie al gelo, nude, senza peso;
ritroveremo
chiuso in un cassetto un altro sogno arreso,
senza chiedersi perché
ieri c'era e oggi non c'è...
ancora ci restano, a quei sogni di felicità in cui,
nonostante tutto, continuiamo a credere. Proprio
come «bianche foglie al gelo» che, fragili e insieme
tenaci, sfidano gli ultimi freddi di un irriducibile
inverno.
Appare così, nel momento storico che stiamo viven-
do, la condizione esistenziale di tanti giovani adul-
ti, sempre più in difficoltà nel vivere con pienezza
la propria età, consci dello scorrere inarrestabile del
tempo che – silenziosamente, ma inesorabilmente
– porta via con sé occasioni perse, promesse non
mantenute, aspirazioni rimaste chiuse in qualche
cassetto di cui abbiamo smarrito la chiave. Una
condizione che talvolta viene subita in modo pas-
sivo e rassegnato, come un dato di fatto ineludibile,
fino a perdere di vista il senso stesso del proprio
camminare e la consapevolezza della propria digni-
tà di uomini e donne alla ricerca del proprio posto
nel mondo.
Se è vero, però, che oggi più che mai il futuro ci
sembra gravato da onerose ipoteche e dalla fatica
di scrollarci di dosso quella coltre di paure e preoc-
cupazioni che spesso ci appesantisce e ci sbarra la
strada sulla via verso l’adultità, non dobbiamo di-
menticare che anche il più gelido degli inverni na-
sconde in sé il seme della rinascita. I momenti bui
che inevitabilmente ci capita di affrontare nel no-
stro percorso, con il loro torpore e la loro apparen-
te immobilità, sono i muti custodi di più profonde
inquietudini che, agendo sotterraneamente dentro
di noi, ci sollecitano a resistere, a sperare e ad agire,
innescando in noi un rinnovato dinamismo. Senza
fretta, ciascuno con i propri tempi, arriviamo infat-
ti a comprendere che il domani è sempre gravido
di possibilità, che la vita ci offre infinite occasioni
per ricominciare a camminare e rimetterci in gioco:
tutto sta nel saperle riconoscere, ponendoci in una
prospettiva nuova e cambiando il punto di vista da
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FEBBRAIO 2025

4.7 Page 37

▲torna in alto
cui guardiamo la nostra vita e la realtà che ci cir-
conda.
A volte basta poco per dare il via a questa inversio-
ne di rotta: sono sufficienti un gesto di fiducia, un
nuovo incontro, una piccola o grande novità che
venga a illuminare la nostra quotidianità perché
«cambi il cielo sopra di noi» ma soprattutto perché
si diradi il buio dentro di noi, restituendoci una
leggerezza e una luce interiore che pensavamo di
aver smarrito per sempre. È allora che scopria-
mo di custodire dentro di noi un giacimento di
risorse preziose che non immaginavamo di pos-
sedere, una forza e una resilienza che andavano
solo risvegliate: e come piccole gemme in procin-
to di aprirsi alla vita ritroviamo in noi il coraggio
di fiorire, ancora fragili nel vento e senza difese
mentre aspettiamo che il sole torni a splendere
nelle nostre vite, ma pronte ad accogliere l’arrivo
della primavera e a riprendere il cammino laddove
lo avevamo interrotto.
Perché, in fondo, è in questo che risiede la nostra
dignità: nella capacità di riconoscere, anche nei
momenti di stanchezza e disorientamento, il valore
inesauribile della vita che abbiamo ricevuto in dono
e nella disponibilità a lasciarsi trasfigurare da quei
segni anche minimi di luce che, giungendo talvolta
Leggero come un cambio di stagione,
voglia di ricominciare,
anche poco basterà.
È come se non fosse mai successo,
la bellezza di un inizio
sembra non finire mai.
Cambia il cielo sopra di noi,
non c'è fretta e poi
al risveglio il buio si addormenterà;
fra le mani una novità,
la mia dignità
come neve bianca al sole splenderà...
Ritorneremo,
bianche foglie al gelo, nude, senza peso;
ritroveremo
chiuso in un cassetto un altro sogno arreso,
senza chiedersi perché
ieri c'era e oggi non c'è...
Come foglie arrese,
senza più difese,
nonostante il vento siamo ancora appese!
Gemme ormai dischiuse,
vene d'acqua e luce,
aspettando il sole mentre il cielo tace...
(Francesco Gabbani, Foglie al gelo, 2016)
inaspettati a rischiarare la nostra esistenza, ci invi-
tano a non sprecarla e a non permettere che appas-
sisca prima di aver portato frutto.
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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
La prima dura ma felice
ESPERIENZA Nelle parole
del protagonista
MISSIONARIA don Giovanni
Cagliero.
Se la prima missione per i salesiani appena
sbarcati in Argentina furono gli immigrati
italiani “più indianilizzati degli indios” di
Buenos Aires, che avevano lasciato la fede
“al di qua dell’Atlantico”, qual è stata la loro prima
esperienza missionaria fuori città, nel cosiddetto
campo? Ce la raccontano due lettere inedite di fine
aprile ed inizio maggio 1877 inviate dal protagoni-
sta, don Cagliero, a don Bosco. Si tratta di un’au-
tentica missione condotta con un compagno a Villa
Libertad (provincia di Entre Ríos, a circa 500 km
di distanza da Buenos Aires), in favore di una colo-
nia di un’ottantina di famiglie di contadini appena
arrivati dal nord Italia.
Il viaggio e l’accoglienza
Accolti dalle autorità ebbero la sorte di incontrare
colà tutti i capifamiglia venuti a prendere la razio-
ne di carne, pane e farina, che loro distribuiva il
governo in attesa che potessero vivere del loro rac-
colto. I due missionari passarono il pomeriggio e
la notte riposando in una capanna di fortuna, che
sarebbe servita di giorno come cappella.
Si trattava anzitutto di conoscere il campo di lavoro
apostolico. Scrive don Cagliero a don Bosco: “Al
domani venerdì lasciai Rabagliati a fare il catechi-
smo ad una ventina di ragazzi venuti per la scuola,
a due e fino a tre per cavallo, e di lontano due e tre
leghe [10, 15 km]. Io poi col medico (mantovano)
e persona molto simpatica prendemmo a fare una
visita delle famiglie, per notare quanti ragazzi e ra-
gazze vi erano da mettere alla comunione, quanti
battesimi e quanti matrimoni da fare, in ultimo
quanti da fare la Pasqua negli adulti, oltre ai padri e
madri di famiglia. Impiegammo il venerdì e sabato
per visitare 62 famiglie. Nel primo giorno galop-
pammo per sei ore continue, nel secondo giorno
solo tre ore, per trovarmi stanco e all’estremo fati-
gato e col cavallo mezzo morto. [Le case dei coloni]
si trovavano ad una distanza enorme le une dalle
altre… Calavano le lacrime di consolazione alle
povere madri di famiglia… Mi presentavano tut-
ta la famiglia (stando noi a cavallo per guadagnar
tempo) ed a tutti regalammo una medaglia con una
corona del santo Rosario alla madre. Smontammo
tre volte solo per bere un poco di latte, l’unica bibita
pei morti della sete!”.
La domenica 15 aprile si radunarono solo metà co-
loni “non potendo lasciare abbandonata la loro ca-
panna. Tra questi molte famiglie di indigeni (del
tipo Indio) ed Entreriani; li trovai ignorantissimi in
caso di religione, lasciai loro medaglie e corone, e li
invitai ai SS. Sacramenti, come pure una famiglia
di negri di Africa e vestiti alla adamitica prima del
peccato!!!
Questi non sono venuti e conto di replicare la visita,
tanto più che hanno una bambina da battezzare!
Alle 10 vi fu la S. Messa con predica ed alquanto
comunioni pasquali… La domenica… un giorno
di festa e giubilo universale. Vennero dai confini
remotissimi Signori a fare visita ai missionari…
Era uno spettacolo vedere i prati circostanti pieni
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▲torna in alto
e riboccanti di cavalli, sopra cui montavano inte-
re famiglie, ragazzi di sei ed otto anni, ragazze di
tutte età divenuti cavalieri, non essendo possibile
andare a piedi per le distanze e pei ruscelli e lagune
da traversare!”.
Dieci giorni di missione
Visto che si trattava di amministrare molti sacra-
menti, i missionari programmarono di sostare due
settimane per dar tempo e comodità a tutti di com-
piere i loro doveri religiosi. “Da tutte parti si destò
un movimento grande e per sei mattine vedemmo i
ragazzi accorrere al catechismo, i padri e madri di
famiglia accostarsi ai SS. Sacramenti della Confes-
sione e Comunione”.
Fra i 25 bambini battezzati vi erano sei indigeni.
Fecero la prima comunione anche figli di indige-
ni. Scrive don Cagliero guardando al futuro: “Ho
però visto tra gli indigeni una necessità estrema di
occuparsi di loro. Sono grandi, adulti e già padri
di famiglia e non hanno ancor ricevuto la S. Co-
munione, dopo il battesimo, non hanno più visto
nulla che loro ricordi il Signore!... Ci vogliono mis-
sionari, se no si perdono col resto degli animali del
campo!”
La fatica del missionario
e del colono
Delle due settimane di missione, ci furono dieci
giorni di pioggia, fortunatamente solo notturna ne-
gli ultimi: “Però la fede ed il coraggio non mancò
né ai coloni né ai missionari! Nei primi giorni men-
tre confessava mi pioveva dal tetto di paglia sulla
schiena, ma pensando, che il povero vecchio, per
venire a fare la sua Pasqua, aveva passato il fondo
di una valle con l’acqua fino alla cintura, mi sem-
brò un rinfresco e tirai avanti!... Uno dei due pie-
montesi, Alessandrini per la precisione, annegò per
avere voluto col cavallo transitare una valle piena di
acqua: andava a fare la provvista di viveri pei suoi
compagni di lavoro!”. Conclude il missionario: “La-
sciammo quei coloni in grande costernazione per
causa della nostra partenza: si videro non pochi a
piangere. Loro promisi che i Salesiani li avrebbero
visitati più sovente e non li avrebbero abbandonati”.
L’Argentina, come la conosciamo, è stata fatta
anche dal sudore degli immigrati italiani e se ha
conservato la fede, come è stato detto da un cardi-
nale a proposito di tutta l’America Latina, lo deve
anche al lavoro apostolico dei “figli di don Bosco”
iniziato 150 anni fa, in quel lontano 1875.
L’apoteosi
delle Missioni
salesiane
nella cupola
centrale
della Basilica
di Maria
Ausiliatrice
(affresco di
Giuseppe
Rollini).
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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
Nel mese di febbraio preghiamo per beatificazione e
canonizzazione del Servo di Dio José Vandor.
Il Venerabile José Vech Vandor
nacque il 29 ottobre 1909 a Do-
rog (Ungheria) in una famiglia
di contadini. Il 2 agosto 1927 di-
ventò novizio e il 3 ottobre 1928
emise la prima professione come
salesiano. Dopo l’emissione dei
voti perpetui, lasciò l’Ungheria e
si recò in Italia dove incominciò
gli studi teologici presso il Ponti-
ficio Ateneo Salesiano a Torino-
Crocetta. Ricevette il 5 luglio 1936
l’ordinazione sacerdotale e subito
venne destinato al lavoro apo-
stolico nelle Grandi Antille. Dal
1936 la vita del padre Vandor fu
caratterizzata da continui sposta-
menti. Dal 1954 fino alla fine della
vita visse nella città di Santa Clara
a Cuba. Venne inviato in questa
località con l’incarico di dedicarsi
alla cura pastorale della chiesa
“Nuestra Señora del Carmen” e
alla costruzione del “Colegio de
Artes y Oficios Rosa Pérez Vela-
sio”. Fu «messaggero di verità e
speranza» e operatore di pace. In-
fatti nel 1958, durante la celebre
battaglia di Santa Clara, estrema
appendice militare della rivolu-
zione cubana, il Venerabile mise a
repentaglio la propria vita in qua-
lità di mediatore, per concordare
la tregua. In quei giorni difficili
salvò molte vite. Riconosciuto da
tutta la città come operatore di
pace, sacerdote esemplare, uomo
di profonda unione con Dio, ricer-
catissimo direttore spirituale, si
Ringraziano
Ringrazio sant’Artemide Zatti
per la grazia ricevuta per sua in-
tercessione il 13 novembre 2024
giorno della sua memoria liturgi-
ca. Il 29 ottobre 2024 mi era stata
diagnosticata la “Paresi di Bell”
del VII nervo, con compromissio-
ne dei muscoli facciali.
Il 13 novembre ho partecipato
alla messa nella Basilica di Maria
Ausiliatrice con mia moglie ed
anche una suora Figlia di Maria
Ausiliatrice e abbiamo pregato il
caro sant’Artemide Zatti duran-
te e dopo la messa. Nello stesso
giorno a pranzo mi sono accorto
del miglioramento nella mastica-
zione, nella sensibilità e nella mo-
bilità della palpebra. La sera del
12 la visita oculistica di controllo
confermava ancora “ipofunzione
dei muscoli facciali e ectropion
paralitico”.
A distanza di 20 giorni dalla com-
parsa dei sintomi si è manifestato
un repentino miglioramento che
prefigura una guarigione che
di norma si verifica nel 70% dei
casi nell’arco di 1-3 mesi. Grato a
sant’Artemide Zatti, ritengo do-
veroso darne testimonianza per-
ché la sua figura e il suo carisma
si diffondano e siano di beneficio
a coloro che nella sofferenza si af-
fideranno alla sua intercessione.
(S M.)
rivelò un vero parroco dal cuore ni Bosco. Morì l’8 ottobre 1979. Il
del Buon pastore, con lo stile del 20 gennaio 2017 papa Francesco
sistema preventivo di san Giovan- l’ha dichiarato Venerabile.
Preghiera al Venerabile José Vandor
O Dio, Padre di misericordia,
che fai dei tuoi santi,
immagini vive del tuo amore,
tu hai fatto del padre Vandor un seminatore di pace
e un modello di accettazione della tua volontà,
concedimi per sua intercessione
questa grazia... di cui ho tanto bisogno
e che con profonda fede ti chiedo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 25 novembre 2024, il Santo Padre ha autorizzato il Dicastero delle
Cause dei Santi a promulgare il Decreto riguardante il miracolo
attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, suora
professa della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, nata
a Córteno Golgi (Italia) il 16 febbraio 1883 e morta a Sucúa (Ecua-
dor) il 25 agosto 1969.
Il 28 novembre 2024 è stato consegnato presso il Dicastero delle
Cause dei Santi in Vaticano il volume della Positio super martyrio
dei Servi di Dio Rodolfo Lunkenbein, Sacerdote Professo della
Società di San Francesco di Sales e Simão Bororo, Laico, uccisi in
odio alla fede il 15 luglio 1976.
Martedì 3 dicembre 2024 i Consultori Teologi del Dicastero delle
Cause dei Santi, nel corso del Congresso Peculiare, hanno rispo-
sto affermativamente in merito alla Positio super martyrio dei
Servi di Dio Giovanni Świerc e VIII Compagni, Sacerdoti Professi
della Società di San Francesco di Sales, uccisi in odio alla fede nei
campi di sterminio nazisti negli anni 1941-1942.
Martedì 10 dicembre 2024 nel corso della Sessione Ordinaria dei
Cardinali e Vescovi presso il Dicastero delle Cause dei Santi è stato
espresso parere positivo circa la Positio super martyrio del Ser-
vo Elia Comini, Sacerdote Professo della Società Salesiana di San
Giovanni Bosco (1910-1944), ucciso in odio alla fede nella strage
nazista di Monte Sole il 1° ottobre 1944.
Mercoledì 18 dicembre 2024, il santo padre Francesco ha auto-
rizzato il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto
riguardante: il martirio del Servo di Dio Elia Comini, Sacerdote
professo della Società di San Francesco di Sales; nato il 7 maggio
1910 a Calvenzano di Vergato (Italia, Bologna) e ucciso, in odio alla
fede, a Pioppe di Salvaro (Italia, Bologna) il 1° ottobre 1944.
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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
Giovanni D’Andrea
Don Rodolfo Di Mauro
Morto a Catania il 6 novembre 2024, a 106 anni
Il 6 novembre 2024 all’età di 106
anni a Catania – Salette, è rinato
al cielo don Rodolfo Di Mauro. Era
nato a Militello in Val di Catania il
16 maggio 1918 dal 2 settembre
1938 è salesiano, dal 1947 sacer-
dote. L’obbedienza sempre pronta
e schietta l’ha portato in diverse
case della Sicilia con varie man-
sioni: catechista, consigliere, eco-
nomo, Direttore. Quella di Catania
– Salette, da lui fondata nel 1947,
è quella con un posto speciale nel
suo grande cuore di degno figlio
di don Bosco. La sua figura, di cui
resta una testimonianza indele-
bile di entusiasmo e passione, di
generosità e di spirito di sacrificio
ci porta a considerare noi stessi
nani sulle spalle di “giganti”, quali
sono i tanti confratelli che hanno
arricchito la storia dell’Ispettoria
e dell’intera Congregazione tra
cui il nostro “patriarca”.
“A disposizione!”. Era la sua
consueta affermazione, il suo
intercalare, mettendo la propria
vita a servizio degli altri. Una
traduzione del “vado io” e l’op-
posto del “non tocca a me” di
cui riferivano i primi eredi della
spiritualità di don Bosco. Quan-
do ormai alle soglie dei 100 anni
chiedeva all’Ispettore don Ruta a
che punto erano le obbedienze,
e gli si rispondeva che mancava-
no dei direttori e degli economi,
egli rispondeva immediatamen-
te: “A disposizione” e lo avrebbe
fatto perché aveva teorizzato
questo suo atteggiamento in
questi termini: “Quando l’Ispet-
tore mi chiede una cosa da fare è
perché la posso fare”. Superficia-
lità? Presunzione? No, una fede
immediata e direi “istintiva” di
voler compiere la volontà di Dio,
nonostante tutto e mettendo a
frutto tutte le proprie indubbie
qualità.
L’obbedienza sofferta e pur
sempre dialogata, al di là degli
incidenti di percorso avuti con
qualche ispettore della vita pas-
sata, egli ne parlava con natura-
lezza e tanta schiettezza, finiva
sempre con la convinzione che
andava fatto tutto per amore e
mai per forza. Durante i festeg-
giamenti alla Salette per il suo
compleanno secolare, il sindaco
di Militello Val di Catania rimase
prima perplesso e poi ammirato,
quando invitandolo a prendere
un caffè fuori dell’Opera in un
bar, don Di Mauro chiese un atti-
mo per avvisare il direttore, don
Marcello Mazzeo, o come si dice-
va una volta chiedere il permesso
al Direttore. Questo è stato don
Di Mauro. Egli sapeva guardare
avanti e, dimentico del passato,
avanzava verso il futuro... que-
sto è forse il segreto della sua
lunga vita spesa sulle orme di
don Bosco fino all’ultimo respiro,
fino ad assopirsi nell’ultimo son-
no che apre all’eternità. Il giorno
dei funerali prima di sigillare la
bara il Direttore della Casa, don
Marcello Mazzeo, gli metteva al
collo la croce della Professione
Perpetua. Don Rodolfo ha vissu-
to in maniera esemplare la fedel-
tà a Cristo ed alla Chiesa, è stato
un “Buon Pastore” come quello
raffigurato nella croce della Pro-
fessione Perpetua.
Lo spirito di appartenenza a
don Bosco e alla Congregazio-
ne salesiana lo esprimeva par-
ticolarmente partecipando alle
consultazioni ispettoriali per il
rinnovo del mandato dell’Ispet-
tore, dei Membri del Consiglio e
dei direttori. Amava confrontare e
commentare i suoi suggerimenti
espressi nelle schede con i risul-
tati definitivi ed era soddisfatto
che ne azzeccava un’alta percen-
tuale. Scherzando, gli si diceva
che sarebbe stato più utile con-
sultare prima lui e la sua scheda e
poi provvedere al resto in sede di
Consiglio: ed egli gradiva il tono
familiare e scherzoso, lasciando
intuire forse che le cose potevano
andare in quel modo con grande
risparmio di tempo.
È stato un confratello che inco-
raggiava soprattutto nei mo-
menti più difficili della storia
dell’Ispettoria. Manifestava in
questi momenti tutta la sua fede
in Dio e la fiducia nei confratelli e
in coloro che reggevano l’Ispetto-
ria e le comunità in quel momen-
to. Questi ed altri elementi erano
segni di forte appartenenza al ca-
risma di don Bosco fatto di fedeltà
gioiosa e sacrificata per amore a
Dio e ai giovani, specialmente ai
più poveri.
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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo
DON BOSCO
Parole di 3 lettere: Lee, Leo, Ska, Toi.
Parole di 4 lettere: Gaia, Igor, Onta.
Parole di 5 lettere: Adeso, Edgar,
Elisi, Lemmi, Tupac.
Parole di 6 lettere: Ararat, Bomber,
Cheope, Esigue, Parsec, Peonia, Slalom,
Tonale.
Parole di 7 lettere: Liberto.
Parole di 9 lettere: Anonimato,
Grippaggi, Raramente.
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto in basso,
compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle caselle gialle le
parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero.
? Parole di 10 lettere: Bianconeri,
Dormitorio, Eugenetica, Iterazione,
Norcineria, Vanagloria, Videotapes.
?
La soluzione nel prossimo numero.
Parole di 11 lettere: Reincarnare.
UN MUSEO PER UN SANTO
La storia della vita di un uomo, di un grande santo come san Bosco, che per noi è
Giovanni Bosco o più semplicemente don Bosco, è strettamente legata ai luoghi
in cui visse, soprattutto Valdocco, il quartiere del capoluogo piemontese, e quegli
ambienti dove vi abitò e lavorò per 27 anni, fino al 1888, anno della sua morte. In
quelle stanze, chiamate da tutti XXX, iniziò la sua intensa opera di apostolato
tra la gioventù povera di Torino, e sotto la tettoia Pinardi. E in queste stesse stan-
ze, decenni dopo, è stato allestito un museo, il Museo Casa Don Bosco. Nel 2019
sono iniziati dei lavori di rifacimento dell’area espositiva trasformandola nella più
moderna casa museo del santo, inaugurato l’anno successivo, nel 2020. Il percorso
espositivo è composto dal Piano interrato con cucina, refettorio e cantina realizzata nel 1860-’61 per custodire le botti e il torchio necessari
alla spremitura; dal Piano terra, con la cappella Pinardi; dal Piano primo, dedicato allo sviluppo di Valdocco; dal Piano secondo, con le stanze
del santo ripristinate al loro stato di origine con oggetti ed arredi originali. Questi ultimi sono stati sottoposti a un notevole lavoro di restauro.
Soluzione del numero precedente
Arredi, tessuti, oggetti di pregio artistico e devozionale hanno riacquistato il loro aspetto autentico.
Uno dei posti più suggestivi da visitare nel museo è la Camera di don Bosco. A tutto questo è stata
aggiunta l’esposizione di una collezione di sculture mariane provenienti dai 131 Paesi in cui è pre-
sente la Famiglia Salesiana. Percorrendo quelle sale i visitatori possono conoscere dove sono nati i
salesiani e dove don Bosco e sua Mamma Margherita hanno accolto i primi ragazzi di strada, i primi
orfani. Il museo è provvisto al suo interno di pannelli illustrativi e storici che aiutano a seguire la
cronologia dei fatti salienti della vita del Santo.
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LA BUONANOTTE
B.F.  Disegno di Fabrizio Zubani
Sai perché
Molte ore passarono così. Finalmen-
te arrivò il mattino, il sole cominciò
a splendere. Ho guardato intorno
a me per vedere altre persone. Con
SIAMO
VIVI?
mio orrore, tutto quello che pote-
vo vedere erano cadaveri congelati.
Tutto quello che potevo sentire era il
silenzio della morte. La notte gelida
li aveva uccisi tutti. Erano morti di
E ngel, un ebreo che posse-
deva la più famosa
panetteria della Germa-
al caldo per tutta la notte. Io stesso freddo. Solo due persone sono so-
ero stanco e infreddolito. Le mie dita pravvissute: il vecchio e io. Il vecchio
erano rigide, ma non ho smesso di è sopravvissuto perché l’ho tenuto al
nia, diceva spesso: “Sai perché
massaggiare il corpo di quest’uomo caldo, e io sono sopravvissuto perché
sono vivo oggi?
per riscaldarlo.
l’ho tenuto al caldo».
Ero solo un adolescente quando i
nazisti in Germania uccidevano
senza pietà gli ebrei.
?
I nazisti ci portarono in treno
ad Auschwitz.
Di notte faceva un freddo morta-
le nello scompartimento. Siamo
stati lasciati per molti giorni nei
vagoni senza cibo, senza letti e
quindi senza modo di riscaldarci.
Nevicava ovunque. Il vento freddo
ci gelava le guance ogni secondo.
Eravamo centinaia in quelle notti
fredde e orribili. Niente cibo,
niente acqua, niente riparo. Il
sangue si è congelato nelle nostre
vene.
Accanto a me c’era un anziano
ebreo molto amato nella mia città.
Era tutto tremante e aveva un
aspetto terribile. Ho avvolto le mie
braccia intorno a lui per tenerlo
al caldo. L’ho abbracciato forte
Volete conoscere il segreto per sopravvivere
per dargli un po’ di calore. Gli ho in questo mondo? Quando riscaldate il cuore degli altri,
massaggiato le braccia, le gambe,
il viso, il collo. L’ho implorato di
rimanere vivo. L’ho incoraggiato.
In questo modo ho tenuto l’uomo
allora anche voi sarete riscaldati.
Quando sostieni, rafforzi e ispiri gli altri, allora anche
tu sarai sostenuto, rafforzato e ispirato nella tua vita.
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Taxe-Perçue
Tassa riscossa
PADOVA cmp
“Sognati da Grande”
è un contest rivolto ai ragazzi e alle ragazze
delle scuole salesiane in Italia.
Gli studenti delle scuole salesiane che hanno aderito al contest stanno
partecipando con entusiasmo trasformando i loro sogni in progetti creativi.
I lavori migliori saranno pubblicati su il Bollettino Salesiano, un’occasione unica
per vedere il proprio talento riconosciuto e condiviso con una comunità
che crede nei giovani e nel loro potenziale.
Sognati da grande, sogna in grande come don Bosco!
Via Marsala, 42 - 00185 Roma - tel. +39 06 65612663 - C.F. 97210180580
donbosconelmondo@sdb.org - www.donbosconelmondo.org