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Intervista al Rettor Maggiore, don
Fabio Attard
scritto da Editor BSOL | Giugno 28, 2025
Abbiamo preso un’intervista in esclusiva al Rettor Maggiore dei Salesiani, don
Fabio Attard, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vocazione e del suo
percorso umano e spirituale. La sua vocazione è nata nell’oratorio e si è
consolidata attraverso un percorso formativo ricco che lo ha portato dall’Irlanda
alla Tunisia, da Malta a Roma. Dal 2008 al 2020 è stato Consigliere Generale per
la Pastorale Giovanile, ruolo che ha svolto con una visione multiculturale acquisita
attraverso esperienze in diversi contesti. Il suo messaggio centrale è la santità
come fondamento dell’azione educativa salesiana: “Vorrei vedere una
Congregazione più santa”, afferma, sottolineando che l’efficienza professionale
deve radicarsi nell’identità consacrata.
Qual è la tua storia della vocazione?
Sono nato a Gozo, Malta, il 23 marzo 1959, quinto di sette figli. Al tempo della
mia nascita, mio padre aveva il compito di farmacista in ospedale, mentre mia
madre aveva avviato un piccolo negozio di tessuti e sartoria, che con il tempo è
cresciuto fino a diventare una piccola catena di cinque negozi. Era una donna
molto laboriosa, ma l’attività restava sempre a conduzione familiare.
Ho frequentato le scuole primarie e secondarie locali. Un elemento molto bello e
particolare della mia infanzia è che mio padre era catechista laico presso
l’oratorio, che fino al 1965 era stato diretto dai salesiani. Lui, da giovane, aveva
frequentato quell’oratorio e vi era poi rimasto come unico catechista laico.
Quando io iniziai a frequentarlo, a sei anni, i salesiani avevano appena lasciato
l’opera. Subentrò un giovane sacerdote (che è ancora in vita) che proseguì le
attività dell’oratorio nello stesso spirito salesiano, avendovi lui stesso vissuto da
seminarista.
Si continuava con il catechismo, la benedizione eucaristica quotidiana, il calcio, il
teatro, il coro, le gite, le feste… tutto quello che normalmente si vive in un
oratorio. C’erano tanti bambini e ragazzi, ed io sono cresciuto in quell’ambiente.
In pratica, la mia vita si svolgeva tra la famiglia e l’oratorio. Ero anche
chierichetto nella mia parrocchia. Così, finita la scuola superiore, mi sono

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orientato verso il sacerdozio, perché fin da bambino avevo questo desiderio nel
cuore.
Oggi mi rendo conto di quanto fossi stato influenzato da quel giovane sacerdote,
che guardavo con ammirazione: era sempre presente con noi nel cortile, nelle
attività dell’oratorio. Tuttavia, in quel tempo i salesiani non erano più presenti lì.
Sono così entrato in seminario, dove all’epoca si facevano due anni di
propedeutica come interni. Durante il terzo anno – che corrispondeva al primo
anno di filosofia – conobbi un amico di famiglia di circa 35 anni, una vocazione
adulta, che era entrato come salesiano aspirante (oggi è ancora in vita, ed è
coadiutore). Quando fece questo passo, dentro di me si accese un fuoco. E con
l’aiuto del mio direttore spirituale iniziai un discernimento vocazionale.
Fu un cammino importante ma anche impegnativo: avevo 19 anni, ma quella
guida spirituale mi aiutò a cercare la volontà di Dio, e non semplicemente la mia.
Così, l’ultimo anno – il quarto di filosofia – invece di seguirlo in seminario, lo vissi
come aspirante salesiano, completando i due anni di filosofia richiesti.
In famiglia, l’ambiente era fortemente segnato dalla fede. Partecipavamo ogni
giorno alla Messa, recitavamo il Rosario in casa, eravamo molto uniti. Anche oggi,
benché i nostri genitori siano in Paradiso, manteniamo quella stessa unità tra
fratelli e sorelle.
Un’altra esperienza familiare mi ha segnato profondamente, anche se me ne sono
accorto solo col tempo. Mio fratello, il secondo della famiglia, è morto a 25 anni
per insufficienza renale. Oggi, con i progressi della medicina, sarebbe ancora vivo
grazie alla dialisi e ai trapianti, ma allora non c’erano tante possibilità. Gli sono
stato accanto negli ultimi tre anni della sua vita: condividevamo la stessa stanza e
spesso lo aiutavo di notte. Lui era un giovane sereno, allegro, che ha vissuto la
sua fragilità con una gioia straordinaria.
Avevo 16 anni quando è morto. Sono passati cinquant’anni, ma quando ripenso a
quel tempo a quell’esperienza quotidiana di vicinanza, fatta di piccoli gesti,
riconosco quanto abbia segnato la mia vita.
Sono nato in una famiglia dove c’era fede, senso del lavoro, responsabilità
condivisa. I miei genitori sono per me due esempi straordinari: hanno vissuto con
grande fede e serenità la croce, senza mai far pesare nulla su nessuno, e al tempo
stesso hanno saputo trasmettere la gioia della vita familiare. Posso dire di aver
vissuto un’infanzia molto bella. Non eravamo ricchi, né poveri, ma sempre sobri,

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discreti. Ci hanno insegnato a lavorare, a gestire bene le risorse, a non sprecare,
a vivere con dignità, con eleganza e, soprattutto, con attenzione verso i poveri e
gli ammalati.
Come ha reagito la tua famiglia quando hai preso la decisione di seguire
la vocazione consacrata?
Era arrivato il momento in cui, insieme al mio direttore spirituale, avevamo
chiarito che la mia strada era quella dei salesiani. Dovevo anche comunicarlo ai
miei genitori. Ricordo che era una sera tranquilla, stavamo mangiando insieme,
solo noi tre. A un certo punto dissi: “Voglio dirvi qualcosa: ho fatto il mio
discernimento e ho deciso di entrare tra i salesiani.”
Mio padre fu felicissimo. Mi rispose subito: “Che il Signore ti benedica.”. Mia
madre invece iniziò a piangere, un po’ come fanno tutte le mamme. Mi chiese:
“Allora ti allontani?” Ma mio padre intervenne con dolcezza e fermezza: “Che si
allontani o no, questa è la sua strada.”
Mi benedirono e mi incoraggiarono. Sono momenti che restano impressi per
sempre.
Ricordo in particolare quello che accadde verso la fine della vita dei miei genitori.
Mio padre morì nel 1997, e sei mesi dopo a mia madre hanno scoperto un tumore
inguaribile.
In quel periodo, i superiori mi avevano chiesto di andare come docente
all’Università Pontificia Salesiana (UPS), ma non sapevo che decisione prendere.
Mia madre non stava bene, era ormai prossima alla morte. Parlando con i miei
fratelli, mi dissero: “Tu fai quello che ti chiedono i superiori.”
Mi trovavo a casa e ne parlai con lei: “Mamma, i superiori mi chiedono di andare
a Roma.”
Lei, con la lucidità di una vera madre, mi rispose: “Senti figlio mio, se dipendesse
da me, ti chiederei di restare qui, perché non ho nessun altro e non vorrei pesare
sui tuoi fratelli. Ma…” – e qui disse una frase che mi porto nel cuore – “Tu non sei
mio, tu appartieni a Dio. Fai quello che ti dicono i superiori.”
Quella frase, pronunciata un anno prima della sua morte, per me è un tesoro,
un’eredità preziosa. Mia madre era una donna intelligente, sapiente, perspicace:
sapeva che la malattia l’avrebbe portata alla fine, ma in quel momento seppe
essere libera interiormente. Libera di dire parole che confermavano ancora una
volta il dono che lei stessa aveva fatto a Dio: offrire un figlio alla vita consacrata.

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La reazione della mia famiglia, all’inizio e fino alla fine, è stata sempre segnata da
un profondo rispetto e da un grande sostegno. E anche oggi, i miei fratelli e
sorelle continuano a portare avanti questo spirito.
Qual è stato il tuo percorso formativo dal noviziato fino ad oggi?
È stato un percorso molto ricco e variegato. Ho iniziato il prenoviziato a Malta,
poi ho fatto il noviziato a Dublino, in Irlanda. Un’esperienza davvero bella.
Dopo il noviziato, i miei compagni si sono trasferiti a Maynooth per studiare
filosofia all’università, ma io l’avevo già completata in precedenza. Per questo i
superiori mi hanno chiesto di rimanere ancora al noviziato per un anno, dove ho
insegnato italiano e latino. In seguito, sono tornato a Malta per svolgere due anni
di tirocinio, che sono stati molto belli e arricchenti.
Successivamente, sono stato inviato a Roma per studiare teologia all’Università
Pontificia Salesiana, dove ho trascorso tre anni straordinari. Quegli anni mi hanno
dato una grande apertura mentale. Vivevamo nello studentato con quaranta
confratelli provenienti da venti nazioni diverse: Asia, Europa, America Latina…
anche il corpo docente era internazionale. Era la metà degli anni ’80, circa
vent’anni dopo il Concilio Vaticano II, e si respirava ancora molto entusiasmo:
c’erano vivaci confronti teologici, la teologia della liberazione, l’interesse per il
metodo e la prassi. Quegli studi mi hanno insegnato a leggere la fede non solo
come contenuto intellettuale, ma come una scelta di vita.
Dopo quei tre anni, ho proseguito con altri due di specializzazione in teologia
morale presso l’Accademia Alfonsiana, con i padri redentoristi. Anche lì ho
incontrato figure significative, come il celebre Bernhard Häring, con cui ho
stretto un’amicizia personale e andavo regolarmente ogni mese a dialogare con
lui. Sono stati cinque anni complessivi – tra baccalaureato e licenza – che mi
hanno formato profondamente dal punto di vista teologico.
In seguito, mi sono offerto per le missioni, e i superiori mi hanno inviato in
Tunisia, insieme a un altro salesiano, per ristabilire la presenza salesiana nel
paese. Abbiamo rilevato una scuola gestita da una congregazione femminile che,
non avendo più vocazioni, stava per chiudere. Era una scuola con 700 studenti,
per cui abbiamo dovuto imparare il francese e anche l’arabo. Per prepararci,
abbiamo trascorso alcuni mesi a Lione, in Francia, e poi ci siamo dedicati allo
studio dell’arabo.

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Sono rimasto lì tre anni. È stata un’altra grande esperienza, perché ci siamo
trovati a vivere la fede e il carisma salesiano in un contesto dove non si poteva
parlare esplicitamente di Gesù. Tuttavia, era possibile costruire percorsi educativi
fondati sui valori umani: rispetto, disponibilità, verità. La nostra testimonianza era
silenziosa ma eloquente. In quell’ambiente ho imparato a conoscere e ad amare il
mondo musulmano. Tutti – studenti, docenti e famiglie – erano musulmani, e ci
hanno accolti con grande calore. Ci hanno fatto sentire parte della loro famiglia.
Sono tornato più volte in Tunisia e ho sempre riscontrato lo stesso rispetto e
apprezzamento, al di là della nostra appartenenza religiosa.
Dopo quell’esperienza, sono rientrato a Malta e ho lavorato per cinque anni nel
campo sociale. In particolare, in una casa salesiana che accoglie ragazzi bisognosi
di un accompagnamento educativo più attento, anche in forma residenziale.
Dopo questi otto anni complessivi di pastorale (tra Tunisia e Malta), mi è stata
offerta la possibilità di completare il dottorato. Ho scelto di tornare in Irlanda,
perché il tema era legato alla coscienza secondo il pensiero del cardinale John
Henry Newman, oggi santo. Completato il dottorato, il Rettor Maggiore
dell’epoca, don Juan Edmundo Vecchi – di grata memoria – mi chiese di entrare
come docente di teologia morale all’Università Pontificia Salesiana.
Guardando a tutto il mio cammino, dall’aspirantato fino al dottorato, posso dire
che è stato un insieme di esperienze non solo di contenuti, ma anche di contesti
culturali molto diversi. Ringrazio il Signore e la Congregazione, perché mi hanno
offerto la possibilità di vivere una formazione così varia e ricca.
Allora conosci il maltese perché è la tua lingua madre, l’inglese perché è
la seconda idioma a Malta, il latino perché lo hai insegnato, l’italiano
perché hai studiato in Italia, il francese e l’arabo perché sei stato a
Manouba, in Tunisia… Quante lingue conosci?
Cinque, sei lingue, più o meno. Però, quando mi chiedono delle lingue, io dico
sempre che sono un po’ coincidenze storiche.
A Malta cresciamo già con due idiomi: il maltese e l’inglese, e a scuola si studia
una terza lingua. Ai miei tempi si insegnava anche l’italiano. Poi, io ero
naturalmente portato per le lingue, e scelsi anche il latino. In seguito, andando in
Tunisia, è stato necessario imparare il francese e anche l’arabo.
A Roma, vivendo con tanti studenti di lingua spagnola, l’orecchio si abitua, e

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quando sono stato eletto come Consigliere per la Pastorale Giovanile, ho
approfondito un po’ anche lo spagnolo, che è una lingua molto bella.
Tutte le lingue sono belle. Certo, impararle richiede impegno, studio, esercizio.
C’è chi è più portato, chi meno: fa parte della disposizione personale. Ma non è un
merito, né una colpa. È semplicemente un dono, una predisposizione naturale.
Dal 2008- al 2020 sei stato per due mandati Consigliere Generale della
Pastorale Giovanile. Come ti ha aiutato la tua esperienza in questa
missione?
Quando il Signore ci affida una missione, portiamo con noi tutto il bagaglio di
esperienze che abbiamo accumulato nel tempo.
Avendo vissuto in contesti culturali diversi, non correvo il rischio di vedere tutto
attraverso il filtro di una sola cultura. Sono europeo, vengo dal Mediterraneo, da
un paese che è stato colonia inglese, ma ho avuto la grazia di vivere in comunità
internazionali, multiculturali.
Mi hanno aiutato molto anche gli anni di studio all’UPS. Avevamo professori che
non si limitavano a trasmettere contenuti, ma ci educavano a fare sintesi, a
costruire un metodo. Per esempio, se si studiava storia della Chiesa, si capiva
quanto fosse essenziale per comprendere la patristica. Se si affrontava la teologia
biblica, si imparava a collegarla con la teologia sacramentale, con la morale, con
la storia della spiritualità. Insomma, ci insegnavano a pensare in modo organico.
Questa capacità di sintesi, questa architettura del pensiero, diventa poi parte
della tua formazione personale. Quando fai teologia, impari a individuare punti
fermi e a collegarli. E lo stesso vale per una proposta pastorale, pedagogica o
filosofica. Quando incontri persone con grande spessore, assorbi non solo quello
che dicono, ma anche come lo dicono, e questo forma il tuo stile.
Un altro elemento importante è che, al momento della mia elezione, avevo già
vissuto esperienze in ambienti missionari, dove la religione cattolica era
praticamente assente, e avevo lavorato con persone emarginate e vulnerabili.
Avevo anche maturato una certa esperienza nel mondo universitario, e,
parallelamente, mi ero molto dedicato all’accompagnamento spirituale.
Inoltre, tra il 2005 e il 2008 – proprio dopo l’esperienza all’UPS – l’Arcidiocesi di
Malta mi aveva chiesto di fondare un Istituto di Formazione Pastorale, a seguito
di un Sinodo diocesano che ne aveva riconosciuto la necessità. L’arcivescovo mi

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affidò il compito di avviarlo da zero. La prima cosa che feci fu costruire un’équipe
con sacerdoti, religiosi, laici – uomini e donne. Abbiamo dato vita a un nuovo
metodo formativo, che viene ancora utilizzato oggi. L’istituto continua a
funzionare molto bene, e in qualche modo quell’esperienza ha rappresentato una
preparazione preziosa per il lavoro che ho svolto successivamente nella pastorale
giovanile.
Fin dall’inizio ho sempre creduto nel lavoro di équipe e nella collaborazione con i
laici. La mia prima esperienza come direttore fu proprio in questo stile: un’équipe
educativa stabile, oggi diremmo una CEP (Comunità Educativo-Pastorale), con
incontri sistematici, non occasionali. Ci vedevamo ogni settimana con gli
educatori e i professionisti. E questo approccio, che nel tempo è diventato un
metodo, è rimasto per me un riferimento.
A tutto questo si aggiunge anche l’esperienza accademica: sei anni come docente
all’Università Pontificia Salesiana, dove arrivavano studenti da oltre cento
nazioni, e poi come esaminatore e direttore di tesi di dottorato all’Accademia
Alfonsiana.
Credo che tutto ciò mi abbia preparato a vivere quella responsabilità con lucidità
e visione.
Così, quando la Congregazione, durante il Capitolo Generale del 2008, mi ha
chiesto di assumere questo incarico, portavo già con me una visione ampia,
multiculturale. E questo mi ha aiutato, perché mettere insieme diversità non mi
risultava faticoso: era parte della normalità. Certo, non si trattava semplicemente
di fare una “macedonia” di esperienze: bisognava trovare i fili portanti, dare
coerenza e unità.
Quello che ho potuto vivere come Consigliere Generale non è stato un merito
personale. Credo che qualsiasi salesiano, se avesse avuto le stesse opportunità e il
sostegno della Congregazione, avrebbe potuto vivere esperienze analoghe e dare
il proprio contributo con generosità.
C’è una preghiera, una buonanotte salesiana, un’abitudine che non
manchi mai da fare?
La devozione a Maria. In casa siamo cresciuti con il Rosario quotidiano, recitato
in famiglia. Non era un obbligo, era qualcosa di naturale: lo facevamo prima di
mangiare, perché mangiavamo sempre insieme. Allora era possibile. Oggi forse lo

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è meno, ma allora si viveva così: la famiglia riunita, la preghiera condivisa, la
mensa comune.
All’inizio forse non mi rendevo conto di quanto fosse profonda quella devozione
mariana. Ma col passare degli anni, quando si comincia a distinguere ciò che è
essenziale da ciò che è secondario, ho capito quanto quella presenza materna
abbia accompagnato la mia vita.
La devozione a Maria si esprime in forme diverse: il Rosario quotidiano, quando
possibile; un momento di sosta davanti a un’immagine o a una statua della
Madonna; una preghiera semplice, ma fatta con il cuore. Sono gesti che
accompagnano il cammino di fede.
Naturalmente ci sono alcuni punti fermi: l’Eucaristia quotidiana e la meditazione
quotidiana. Sono pilastri che non si discutono, si vivono. Non solo perché siamo
consacrati, ma perché siamo credenti. E la fede la si vive solo nutrendola.
Quando la nutriamo, cresce in noi. E solo se cresce in noi, possiamo aiutare
perché cresca anche negli altri. Per noi, che siamo educatori, è evidente: se la
nostra fede non si traduce in vita concreta, tutto il resto diventa facciata.
Queste pratiche – la preghiera, la meditazione, la devozione – non sono riservate
ai santi. Sono espressione di onestà. Se ho fatto una scelta di fede, ho anche la
responsabilità di coltivarla. Altrimenti, tutto si riduce a qualcosa di esteriore, di
apparente. E questo, nel tempo, non regge.
Se potessi tornare indietro, faresti le stesse scelte?
Assolutamente sì. Nella mia vita ci sono stati momenti molto difficili, come
succede a tutti. Non voglio passare per la “vittima di turno”. Credo che ogni
persona, per crescere, debba attraversare fasi di oscurità, momenti di
desolazione, di solitudine, di sentirsi tradita o accusata ingiustamente. E io questi
momenti li ho vissuti. Ma ho avuto la grazia di avere accanto un direttore
spirituale.
Quando si vivono certe fatiche accompagnati da qualcuno, si riesce a intuire che
tutto ciò che Dio permette ha un senso, ha uno scopo. E quando si esce da quel
“tunnel”, si scopre di essere una persona diversa, più matura. È come se,
attraverso quella prova, siamo trasformati.
Se fossi rimasto solo, avrei rischiato di prendere decisioni sbagliate, senza

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visione, accecato dalla fatica del momento. Quando si è arrabbiati, quando ci si
sente soli, non è il momento di decidere. È il momento di camminare, di chiedere
aiuto, di farsi accompagnare.
Vivere certi passaggi con l’aiuto di qualcuno è come essere una pasta messa nel
forno: il fuoco la cuoce, la rende matura. Perciò, alla domanda se cambierei
qualcosa, la mia risposta è: no. Perché anche i momenti più difficili, anche quelli
che non capivo, mi hanno aiutato a diventare la persona che sono oggi.
Mi sento una persona perfetta? No. Ma sento di essere in cammino, ogni giorno,
cercando di vivere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio.
E oggi, mentre rilascio questa intervista, posso dire con sincerità che mi sento
felice. Forse non ho ancora compreso pienamente cosa significhi essere Rettor
Maggiore – ci vuole del tempo – ma so che è una missione, non una passeggiata.
Porta con sé le sue difficoltà. Tuttavia, mi sento amato, stimato dai miei
collaboratori e da tutta la Congregazione.
E tutto quello che sono oggi, lo sono grazie a ciò che ho vissuto, anche nei
passaggi più faticosi. Non li cambierei. Mi hanno reso ciò che sono.
Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?
Sì. Se chiudo gli occhi e immagino qualcosa che davvero desidero, vorrei vedere
una Congregazione più santa. Più santa. Più santa.
Mi ha ispirato profondamente la prima lettera di don Pascual Chávez del 2002,
intitolata “Siate santi”. Quella lettera mi ha toccato dentro, mi ha lasciato un
segno.
I progetti sono molti, e tutti validi, ben strutturati, con visioni ampie e profonde.
Ma che valore hanno, se vengono portati avanti da persone che non sono sante?
Possiamo fare un lavoro eccellente, possiamo anche essere apprezzati – e questo,
di per sé, non è negativo –, ma noi non lavoriamo per ottenere successo. Il nostro
punto di partenza è un’identità: siamo persone consacrate.
Ciò che proponiamo ha senso solo se nasce da lì. È chiaro che desideriamo che i
nostri progetti abbiano successo, ma ancora di più desideriamo che portino
grazia, che tocchino le persone nel profondo. Non basta essere efficienti.
Dobbiamo essere efficaci, nel senso più profondo: efficaci nella testimonianza,

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nell’identità, nella fede.
L’efficienza può esistere anche senza alcun riferimento religioso. Possiamo essere
ottimi professionisti, ma non basta. La nostra consacrazione non è un dettaglio: è
il fondamento. Se diventa marginale, se la mettiamo da parte per fare spazio
all’efficienza, allora perdiamo la nostra identità.
E la gente ci osserva. Nelle scuole salesiane, si riconosce che i risultati sono buoni
– ed è un bene. Ma ci riconoscono anche come uomini di Dio? Questa è la
domanda.
Se ci vedono solo come bravi professionisti, allora siamo solo efficienti. Ma la
nostra vita deve nutrirsi di Lui – Via, Verità e Vita – non di ciò che “io penso” o
che “io voglio” o di “quello che mi sembra”.
Quindi, più che parlare di un progetto mio personale, preferisco parlare di un
desiderio profondo: diventare santi. E parlarne in modo concreto, non idealizzato.
Quando don Bosco parlava ai suoi ragazzi di studio, sanità e santità, non si
riferiva a una santità fatta solo di preghiera in cappella. Pensava a una santità
vissuta nella relazione con Dio e alimentata dalla relazione con Dio. La santità
cristiana è il riflesso di questa relazione viva e quotidiana.
Che consigli daresti a un giovane che si interroga sulla vocazione?
Gli direi di scoprire, passo dopo passo, qual è il progetto di Dio per lui.
Il cammino vocazionale non è una domanda che si fa, aspettando poi una risposta
pronta da parte della Chiesa. È un pellegrinaggio. Quando un ragazzo mi dice:
“Non so se farmi salesiano o no”, cerco di allontanarlo da quella formulazione.
Perché non si tratta semplicemente di decidere: “Mi faccio salesiano”. La
vocazione non è un’opzione in relazione a ina “cosa”.
Anche nella mia propria esperienza, quando dissi al mio direttore spirituale:
“Voglio diventare salesiano, devo esserlo”, lui, con molta calma, mi fece riflettere:
“È davvero la volontà di Dio? Oppure è solo un tuo desiderio?”
Ed è giusto che un giovane cerchi ciò che desidera, è una cosa sana. Ma chi
accompagna ha il compito di educare quella ricerca, di trasformarla da
entusiasmo iniziale in cammino di maturazione interiore.
“Vuoi fare del bene? Bene. Allora conosci te stesso, riconosci di essere amato da
Dio.”
È solo a partire da quella relazione profonda con Dio che può emergere la vera

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domanda: “Qual è il progetto di Dio per me?”
Perché ciò che oggi desidero, domani potrebbe non bastarmi più. Se la vocazione
si riduce a ciò che “mi piace”, allora sarà qualcosa di fragile. La vocazione è
invece una voce interiore che interpella, che chiede di entrare in dialogo con Dio,
e di rispondere.
Quando un giovane arriva a questo punto, quando viene accompagnato a scoprire
quello spazio interiore dove abita Dio, allora inizia davvero a camminare.
E per questo, chi accompagna deve essere molto attento, profondo, paziente. Mai
superficiale.
Il Vangelo di Emmaus è un’immagine perfetta: Gesù si avvicina ai due discepoli, li
ascolta anche se sa che stanno parlando con confusione. Poi, dopo averli ascoltati,
comincia a parlare. E loro, alla fine, lo invitano: “Resta con noi, perché si fa sera.”
E lo riconoscono nel gesto di spezzare il pane. Poi si dicono: “Non ardeva forse in
noi il nostro cuore mentre egli parlava lungo la via?”
Oggi molti giovani sono in ricerca. Il nostro compito, come educatori, è non
essere frettolosi. Ma aiutarli, con calma e gradualità, a scoprire la grandezza che
è già nel loro cuore. Perché lì, in quella profondità, incontrano Cristo. Come dice
sant’Agostino: “Tu eri dentro di me, e io fuori. E lì ti cercavo.”
Avresti un messaggio da trasmettere oggi alla Famiglia Salesiana?
È lo stesso messaggio che ho condiviso anche in questi giorni, durante l’incontro
della Consulta della Famiglia Salesiana: La fede. Radicarci sempre di più nella
persona di Cristo.
È da questo radicamento che nasce una conoscenza autentica di don Bosco. I
primi salesiani, quando vollero scrivere un libro sul vero don Bosco, non lo
intitolarono “Don Bosco apostolo dei giovani”, ma “Don Bosco con Dio” – un testo
scritto da don Eugenio Ceria nel 1929.
E questo ci fa riflettere. Perché loro, che lo avevano visto in azione ogni giorno,
non scelsero di sottolineare il don Bosco instancabile, organizzatore, educatore.
No, vollero raccontare il don Bosco profondamente unito a Dio.
Chi lo ha conosciuto bene non si è fermato alle apparenze, ma è andato alla
radice: don Bosco era un uomo immerso in Dio.

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Alla Famiglia Salesiana dico: abbiamo ricevuto un tesoro. Un dono immenso. Ma
ogni dono comporta una responsabilità.
Nel mio discorso finale ho detto: “Non basta amare don Bosco, bisogna
conoscerlo.”
E possiamo conoscerlo davvero solo se siamo persone di fede.
Dobbiamo guardarlo con lo sguardo della fede. Solo così possiamo incontrare il
credente che fu don Bosco, in cui lo Spirito Santo ha agito con forza: con dýnamis,
con cháris, con carisma, con grazia.
Non possiamo limitarci a ripetere certe sue massime o a raccontare i suoi
miracoli. Perché corriamo il rischio di fermarci sulle storielle di Don Bosco, invece
di fermarci sulla storia di Don Bosco, perché Don Bosco è più grande di Don
Bosco.
Questo significa studio, riflessione, profondità. Significa evitare ogni
superficialità.
E allora potremo dire con verità: “Questa è la mia fede, questo è il mio
carisma: radicati in Cristo, sui passi di Don Bosco.”