La testimoniana salesiana in un mondo multiculturale

LA TESTIMONIANZA SALESIANA IN UN MONDO MULTICULTURALE.

Sfide e opportunità.



  1. Verso una nuova geografia della presenza ecclesiale.

Parlando alla curia romana nel 2019 Papa Francesco evidenziava “che stiamo vivendo non semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca … (Ove) i cambiamenti … trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e vivere la fede e la scienza.”

Siamo cioè di fronte a trasformazioni che richiedono la disponibilità, come dice il Papa “di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomonè1 … (nella consapevolezza che) Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia … Da ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede.”

Bisogna infatti avere occhi ben aperti per cogliere l’effettiva estensione e profondità delle trasformazioni in atto nella Chiesa, le quali sono ovviamente connesse a quel più ampio insieme di processi che vanno sotto il nome di globalizzazione. Siamo infatti in una realtà nella quale non è più il localismo e l’autosufficienza l’orizzonte nel quale si dispiega l’esistenza della maggior parte delle persone, ma piuttosto è un contesto sociale nel quale i confini divengono sempre porosi, le distanze si accorciano, gli scambi aumentano, i legami di interdipendenza si fanno più stretti e le diverse visioni del mondo che le culture sintetizzano si trovano di fatto obbligate ad interagire.

Un interessante punto di vista dal quale cogliere le dinamiche che stanno dando un volto nuovo alle modalità di presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo è osservarne la sua geografia ovvero la sua presenza nelle diverse aree culturali del mondo.

Pur mantenendo la consapevolezza teologica che il Vangelo sia annunciato a tutte le genti, di fatto fino al 1500, dopo lo scisma con l’Oriente, la cattolicità venne a coincidere con i territori di quella che ordinariamente si denomina come Europa occidentale. La Riforma da questo spazio amputò buona parte della Germania, la Scandinavia, poi l'Inghilterra. Tra la fine del cinquecento e la metà dell'ottocento l'universalità della Chiesa cattolica coincise di fatto con Spagna, Portogallo e le rispettive colonie in America Latina, Francia, Paesi Bassi, parte della Germania, Impero austriaco e Italia. Chiesa ed Europa combaciavano non solo territorialmente, ma anche per quanto riguardava il personale ecclesiastico, i percorsi della riflessione teologica, gli interscambi a livello di cultura sociale. Nella seconda metà dell'ottocento assistiamo proprio in Europa ad una forte ripresa dello slancio missionario, di fatto intrecciato con l'espansionismo coloniale. Fu in seguito a questo impulso ad uscire dai confini “storici” della cattolicità che si maturò “per la prima volta una visione estesa a livello planetario di un progetto missionario fino alle estremità del mondo, progetto avviato alla fine del secolo XVI con la scoperta delle Americhe”2. Prende così avvio un processo che nell’arco di cento anni modificherà profondamente il volto della Chiesa cattolica.

Se all’inizio del novecento3 il 73% dei cattolici viveva tra Europa e Nord America attualmente vi si trova solo il 27%4, il vuol dire che nell’arco di un secolo è cambiata radicalmente (e sta tuttora cambiando) la distribuzione geografica dei battezzati5 ; infatti la quota dei cattolici africani era lo 0,7% (poco meno di due milioni) ora sono il 20% del totale (oltre duecentosettanta milioni); in Asia vi risiedeva il 5% dei battezzati adesso vi abita il 12%; in America Latina vi si trovava il 22% ora vi risiede il 42% dei cattolici. Nel mentre si delinea una cattolicità che non è mai stata così davvero “universale” si alimentano due processi tra loro profondamente diversi, e per alcuni aspetti antitetici. Da un lato ci sono Europa e Nord America che attraversano una fase che vedono diminuire il peso della loro porzione nel totale dei battezzati e parallelamente ridursi in modo drastico il numero di coloro che chiedono di impegnarsi nel presbiterato diocesano o nella vita religiosa, maschile o femminile. Nello stesso tempo in altri continenti (Africa e Asia, in primo luogo) c’è un dinamismo di crescita sia per quanto riguarda i battezzati anche per un incremento delle conversioni sia in termini di nuove vocazioni.

Siamo davvero davanti a un cambiamento d’epoca nella vita ecclesiale ove si avviano nuovi e molteplici processi per cui è difficile delineare quale potrà essere l’assetto istituzionale della Chiesa tra 20 o 30 anni.

Settant’anni fa si poteva sensatamente dire che il “centro” della Chiesa era in Europa dove non solo si trovava la maggioranza dei battezzati, ma vi risiedeva la gran parte del personale ecclesiastico. I seminari europei accoglievano vocazioni in numero sufficiente a garantire oltre che il ricambio generazionale “interno”, anche un forte impegno di evangelizzazione in altre parti del mondo. Allora si poteva parlare di radici cristiane dell’Europa e, altrettanto sensatamente, di radici europee della Chiesa, un legame che ora si va rapidamente allentando, pur permanendo ancora una certa prevalenza europea per quanto riguarda il personale ecclesiastico. Primato fragile a motivo dei molti anziani e pochi giovani. Il continente che per quasi duemila è stato lo spazio centrale per la cristianità, con realtà che hanno dato alla Chiesa testimonianze di santità, pensatori e scuole teologiche, innovatori creativi ed audaci, ricevendone idee e modelli organizzativi ora è incerto, religiosamente sempre più debole, sempre meno capace di attrarre, di proporre.

Nello stesso tempo non si scorge una società o un’area geografica che possa essere individuata come un nuovo “centro” della cattolicità. Vi sono paesi indubbia­mente vivaci per capacità di annuncio ed aggregazione di nuovi credenti, altri lo sono per dinamismo vocazionale, alcuni a motivo della riflessione teologica, eppure in nessun caso (almeno per ora) si può dire: ecco questo è “centro”, è il luogo dove la gran parte converge e dal quale vengono progetti, orientamenti, idee aventi corso anche al di fuori dell’ambito locale in quanto riconosciuti come esemplari. Forse l’ultima effettiva esperienza di questo tipo riamane l’assise del Vaticano II. Può anche darsi che in un mondo avvolto nella rete della comunicazione istantanea, nello scenario della globalizzazione sia improprio cercare un centro perché simultaneamente se ne hanno molti, in una realtà “poli-centrica” ogni nodo della rete può ,per un certo tempo e per un periodo, divenire centrale.



  1. Verso una comprensione multiculturale del carisma salesiano.

Il cambiamento delineato interessa e sta trasformando anche la geografia della presenza salesiana (Tab.1)6.

Tab. 1 Distribuzione dei salesiani professi, temporanei e perpetui, per area continentale. Valori %

Continente

Anno

1971

1991

2023

Africa

1,0

2,2

14,4

America

29,4

26,6

19,2

Asia

9,9

16,9

32,8

Europa

60,7

54,3

33,7



Nell’arco di 50 anni la Congregazione salesiana sta sperimentando sia il declino del suo radicamento in Europa e in particolare in Italia7 e nello stesso tempo una vivace crescita, anche vocazionale, in Asia e Africa8. Il diradarsi di nuove vocazioni, come accade in Europa, non sembra comportare nell’immediato una crisi nelle strutture di presenza (comunità e opere) anche se mantenerle comporta una crescente fatica. Infatti le migliorate condizioni materiali hanno concorso ad allungare d’alcuni anni la durata media dell’esistenza e quindi le minori vocazioni sono state compensate, nell’immediato, da un prolungamento della vita. Ovviamente pur vivendo di più non per questo si diventa anche più giovani e in ogni caso prima o dopo giungerà il tempo di dover fare i conti con il fatto che non vi sono più le risorse umane poter dare continuità a quella geografia della presenza salesiana che si è venuta a delineare dai tempi di don Bosco fino alla seconda metà del novecento. Ciò risulta evidente se osserviamo le notevoli differenze nella distribuzione dei religiosi a livello di area continentale (Tab. 2)

Tab. 2 Distribuzione dei salesiani professi, temporanei e perpetui, per età ed area continentale

Continente

Età

20-40

41-70

71 e +

Totale

Età media

Africa

65

31

4

100

39

Am. Cono Sud

28

42

30

100

56

Interamerica

25

46

29

100

58

Asia Est

35

50

15

100

50

Asia Sud

48

44

8

100

45

Mediterranea

12

35

53

100

68

Europa Centro/Nord

17

56

27

100

60

Roma Curia G./UPS

5

79

16

100

61



Si va un 65% di giovani nelle ispettorie africane che hanno una età media di 39 anni, ad un 53% degli anziani nell’area mediterranea ove l’età media è di 68 anni. Siamo in un quadro congregazionale attraversato da tensioni opposte. Le ispettorie europee che nel loro insieme hanno ancora una buona numerosità con 4394 religiosi professi, devono fare i conti con un crescente invecchiamento ed un insufficiente ricambio generazionale. Qui si tratta di governare una fase di declino dove la parola d’ordine è “ridimen­sionare” ponendo attenzione affinché non si innestino processi di disgregazione istituzionale. Intendendo con ciò il rischio di una diffusa demotivazione (“non c’è più nulla da fare”, “lasciateci morire in pace”, “per noi non c’è futuro”) che ove non fosse ade­gua­tamente governata accentuerebbe le tendenze al disimpegno, al ripiegamento su se stessi, indebolendo ulteriormente la vitalità dell’azione e della testimonianza salesiana. L’invecchiamento non è una colpa, ma con il passare del tempo inevitabilmente diminuiscono le forze fisiche e l’energia psichica. Non tenerne conto, questa si può essere una colpa. Tempi, ritmi, tipologia di lavoro vanno ripensati, riducendoli o modificandoli a seconda delle condizioni personali. Inoltre di suo l’anziano ha una visione “ breve” del futuro e, generalmente, fa più fatica ad accettare i cambiamenti, in particolare quelli che pongono in discussione le sue conoscenze, il proprio stile di vita e ad impegnarsi in nuovi progetti. Il suo sguardo è più rivolto al passato che al futuro, in lui e ancora vivo un mondo ormai scomparso e quindi è maggiormente esposto al rimpianto. La sua utopia, il suo sogno, sta in quel che ha vissuto (spesso idealizzato), forse per l’ovvia ragione che quello fu il tempo della giovinezza, dei sogni, delle speranze. Sono tutte linee di possibile tensione con le nuove generazioni, che sono sempre più minoranza, rendendo difficile il dialogo interno e depotenziando eventuali progetti di innovazione. Ne viene una sorta di paralisi: a parole si auspicano cambiamenti, si delineano nuovi scenari di impegno apostolico, di fatto si sta fermi in quanto non ci sono le risorse umane. In tale contesto più che pensare a mutamenti, assai ardui da realizzare, ci si potrebbe concentrare più efficacemente sulla valorizzazione di quelle risorse ancora presenti curando la qualità della testimonianza. Anche se costituita per la gran parte da persone anziane una comunità religiosa può continuare ad essere presenza significativa su quelle che oggi sono le frontiere sguarnite della carità: i bisogni giovanili che le istituzioni fingono di non vedere, le povertà di cui nessuno si fa carico. Non si tratta di fare nuove opere, ma molto più semplicemente di rendersi accoglienti, ospitali, restando seminatori di speranza, capaci di generare vita.

Profondamente diversa è invece la situazione in Africa, Asia e, in parte, America Latina. Qui la presenza di nuove vocazioni, che vanno accolte e formate, delinea una fase di crescita da accompagnare anzitutto per quanto riguarda la formazione e poi la progettazione di modalità di presenza che certamente il carisma delinea, ma poi vanno operativamente realizzate tenendo conto del contesto sociale e culturale nel quale esse prendono corpo. Questo equilibrio tra identità carismatica e attenzione alla specificità culturale non è facile da raggiungere, ma nella misura in cui la Congregazione salesiana si fa multiculturale è un tema che non può essere eluso.

La cultura è quel modo di vedere la realtà e comportarsi in essa che caratterizza l’identità di ogni società e di conseguenza quella di ogni individuo che in essa nasce e cresce. Anche se poi nel tempo l’identità culturale appresa viene reinterpretata dalla soggettività individuale, essa rimane, nei suoi tratti essenziali, come nucleo profondo della personalità. Fino a che le persone rimangono nell’ambito della cultura di origine, o si muovono nel contesto di culture affini, le differenze possono essere ricondotte a modalità diverse di interpretare una “partitura” condivisa. I problemi sorgono e si fanno più acuti quando l’incontro è tra culture diverse o tra individui educati in culture differenti. Il problema è antico quanto la storia dell’umanità e trova plastica rappresentazione nel racconto biblico della torre di Babele.

Nella misura in cui la Congregazione salesiana sta mutando la struttura della sua presenza territoriale con un ridimensionamento e declino in area europea e una parallela crescita ed espansione in Africa e Asia, il tema delle differenze culturali si pone e ancor più si porrà in futuro.

Fino a che il modello di riferimento e di governo fu per gli Istituti religiosi quello europeo, diventare consacrato significò farsi culturalmente europei. Le differenze, in particolare quelle religiose, vennero accantonate in quanto ritenute non compatibili con la tradizione cattolica. C’era un unico modo di essere cristiani (o salesiani) indipendentemente dall’area culturale dalla quale si proveniva o nella quale si operava.

Certo la comunione fondata sull’unità di fede facilita il dialogo, l’accettazione delle diversità culturali, creando un ambiente sostanzialmente disponibile all’accoglienza. Tuttavia poiché le differenze riguardano anche la sensibilità religiosa, il modo di intendere e di esprimere l’esperienza spirituale non sarà sempre agevole trovare un punto d’equilibrio.

Il carisma come don Bosco lo viene a realizzare è profondamente debitore sia alla sensibilità spirituale nella quale egli cresce sia al contesto sociale, piemontese prima ancora che italiano, nel quale egli opera. Mano a mano che l’istituto cresce e, negli ultimi decenni, mette radici in aree culturalmente diverse da quella europea si fa esperienza di come indirizzi unitari vengano poi a rifrangersi in una pluralità di interpretazioni e di prassi attuative. In alcuni casi, come per la testimonianza della povertà o le modalità nell'esercizio del servizio dell'autorità, le differenze culturali emergono negli stili di vita, nel modo di attuare il ruolo, nelle relazioni con l’ambiente sociale. Dare spazio alle culture significherà arrivare ad una comprensione plurale del carisma e di conseguenza ad esperienze di vita spirituale plurime. Gli occhi con i quali si guarda al carisma di don Bosco (e lo si testimonia) non possono che essere (anche) quelli della cultura di appartenenza e dei contesti sociali nei quali ci si trova ad agire. Leggere il carisma con occhi nuovi rivela come in esso vi siano profondità e intuizioni che rimangono da scoprire.

L’apertura ad una comprensione multiculturale del carisma salesiano ha certo specificità sue proprie, ma è anche partecipazione a quella istanza di sinodalità che il magistero di Papa Francesco individua come un punto di equilibrio tra autonomia delle diverse realtà locali (e culturali) e l’istanza di universalità nella comunione. L’obiettivo verso cui tendere è quello di una cattolicità plurale nella quale le diverse culture concorrono con uguale dignità a comporre una nuova unità di fede.

Il passaggio ad una prassi relazionale basata sul rispetto delle diversità culturali ha come suo presupposto la capacità e la volontà di dialogare, di confrontarsi, di accettare il rischio di una certa mescolanza, di una certa perdita della propria purezza “culturale”. È una condizione che già qua e là sperimentiamo nelle nostre comunità e ci accorgiamo quanta potenziale ricchezza di sollecitudini, stimoli, opportunità essa porta con sé. Nello stesso tempo ci rendiamo conto di come tutto ciò renda più complesso lo stare insieme: aumentano, infatti, i rischi dell’incomprensione, possono improvvisa­mente riaffiorare memorie legate a vicende storiche d’oppressione e dominio. La diffi­den­za può soffocare sul nascere il confronto. Proprio perché alle spalle abbiano una storia fatta più di scontri che d’incontri e dialogo, sappiano quanto la strada intrapresa sia fragile ed esposta a molteplici possibilità di fallimento. Eppure intuiamo un valore profondamente evangelico nell’accettare senza paura l’incontro con chi è diverso da me/noi per sensibilità spirituale, visione del mondo, stile di vita. C’è un annuncio da porgere, una testimonianza da ascoltare, una pace da costruire insieme, un impegno per la giustizia ed il rispetto del creato da condividere, non possiamo lasciare che i semina­tori d’inimicizia e paura ci rubino la gioia di contemplare nella molteplicità delle culture il rifrangersi dello Spirito, fiamma che tutto illumina e rinnova. In società che corrono il rischio di trasformare l’immigrazione, il passaggio, l’incontro in fattore di conflitto e lacerazione, la vita religiosa può contribuire a definire una diversa geografia dello spirito: dallo scontro di civiltà alla cooperazione, che è come passare da Babele alla Pentecoste.



  1. La difficile perseveranza.

Al tema perseveranza e abbandono la Congregazione salesiana dedica da tempo una peculiare attenzione confermata nella recente ricerca di Mario Bay: un lavoro assai dettagliato sia per la documentazione offerta che nella riflessione che l’accompagna. Nell’affrontare l’argomento è utile ricordare quanto scriveva d. Giovenale Dho nella sua analisi degli abbandoni intervenuti negli anni 1972-1976, egli richiamava l’attenzione sul fatto che ogni abbandono ha “una storia che parte dalla famiglia e dalla prima educazione e che ha radici nella prima formazione salesiana, nell’ambiente socioculturale e religioso, nelle situazioni particolari della comunità salesiana e nelle crisi che agitano la società e la Chiesa … Spesso è forte la tentazione di voler individuare … le cause principali … ricorrendo molto spesso … a schemi interpretativi preconcetti e semplicistici … penso che non sia possibile questa induzione, se non in modo molto generico e con molta cautela… (è da considerare infatti) la complessità dei collegamenti dei vari motivi senza che ci sia spesso possibile stabilire un ordine di causalità tra gli stessi …. Il rinunciare alla pretesa di individuare le vere cause radicali della crisi di abbandono … non toglie che possiamo raggiungere un certo grado di comprensione del fenomeno e che possiamo individuare alcune linee di intervento.”9

Non dovremmo mai dimenticare che un Istituto religioso non è, se non parzialmente, assimilabile ad una struttura organizzativa volta al raggiungimento di un fine condiviso. Esso è anzitutto un luogo dove si vive la personale relazione con il Signore Gesù seguendo quella peculiare ispirazione di testimonianza evangelica contenuta del carisma di fondazione. Una relazione forte e intensa che ordinariamente dura “per sempre” ovvero per tutta la vita, ed è quello che si realizza nella maggior parte dei religiosi, ma in alcuni casi invece si interrompe dopo un certo periodo. Leggere questo evento di “abbandono” come un fallimento, personale o dell’istituto, non mi pare sempre corretto. Anzitutto per il fatto che per quanto i dati siano analitici, vi è sempre un “oltre” che sfugge all’analisi ovvero l’intimità spirituale della persona, il suo rapporto con Dio, la sua libertà.

Il fatto che “nei molti casi in cui è prevista una domanda scritta, una richiesta formale ai superiori, al Papa, al Rettor Maggiore, nella quasi totalità dei casi si nota un profondo e autentico, non solo formale, ringraziamento dei richiedenti per tante cose e tanto bene che hanno ricevuto”10 dice di una positività dell’esperienza fatta che leggerla come un “ fallimento “ sarebbe un negare l’evidenza del bene che essa contiene. È vero che (finora) nella tradizione spirituale della vita consacrata si pensa ad essa unicamente come ad un impegno assunto per sempre, ma forse si potrebbe pensare come ad una esperienza che magari all’inizio la si avvia con l’intenzione che rimanga definitiva, ma che poi nel suo realizzarsi si rivela essere invece temporanea, limitata ad una fase della propria vita. Una temporaneità che però è feconda di bene in quanto orienta a crescere nella relazione con Il Signore e nella testimonianza della carità. Mi pare che una tale lettura non sia del tutto estranea all’agire di Don Bosco il quale “ dava la benedizione a quelli che da lui si congedavano, affinché continuassero sulla via della virtù e riuscissero a far del bene alle anime … anche dopo l’uscita dall’Oratorio … egli non cessava di amare gli ingrati, invitandoli a far visita all’Oratorio, e all’occasione continuare ad essere il loro benefattore.”11

Nel valutare la significatività degli abbandoni dobbiamo tener presente che essi hanno livelli di significatività differenti.

Il noviziato è un tempo specificamente dedicato al discernimento della vocazione e dovrebbe avere la più alta incidenza di abbandoni. Pur mancando un dato puntuale si può stimare che essi si collochino intorno al 15-20%.

Con la professione temporanea vi dovrebbe essere, e in linea generale c’è, una maggior stabilizzazione con una più elevata perseveranza. Nel periodo 2016-2023 rispetto all’insieme dei professi temporanei la quota di coloro che lasciano si colloca attorno al 5-6% (Tab. 3)



Tab. 3 Percentuale di professi temporanei che lasciano rispetto al totale dei prof. temporanei.


2016

2017

2018

2019

2020

2021

2022

2023

% di abbandoni

6,7

4,8

5,7

6,8

5,8

5,6

6,1

6,1



Con la professione perpetua il religioso assume di fronte alla Chiesa un impegno definitivo, egli dichiara di voler “per sempre” seguire il Signore secondo quella tradizione di santità che ha in Don Bosco il suo punto di riferimento ed ispirazione. Di fronte alla definitività di un impegno liberamente assunto ogni abbandono apre interrogativi vuoi su mancanze o carenze nella conduzione del processo formativo e nell’inserimento comunitario vuoi sulle incoerenze, contraddizioni, ma anche incapacità e fragilità delle persone.

Se l'abbandono prima della professione perpetua è per taluni aspetti una opzione da mettere in conto a motivo del fatto che la progressività negli impegni spirituali e giuridici che si vanno assumendo comporta possibilità di ripensamento e messa in discussione di orientamenti che ancora si vanno definendo e precisando in tutte le loro molteplici implicazioni, il lasciare "dopo" si configura come sintomo di una difficoltà da interpretare.

Tab. 4 Percentuale di professi perpetui che lasciano rispetto al totale dei prof. perpetui.


2018

2019

2020

2021

2022

2023

% di abbandoni

0,89

0,90

0,87

0,78

0,5

0,78



L’incidenza degli abbandoni (Tab.3) tra i professi perpetui nel periodo 2018-2023 oscilla tra il 0,5 e il 0,9%. Sostanzialmente in linea con le dinamiche degli altri Istituti12 . Valori decisamente inferiori a quelli che si registravano all’inizio degli anni 70 del secolo scorso quando, nell’immediato postconcilio, gli abbandoni incidevano sempre con riferimento a salesiani sacerdoti di voti perpetui con valori che oscillavano tra lo 0,93% e 1,39%13 .

Se il numero degli abbandoni è nel suo insieme piuttosto limitato, diverso è invece il quadro si guardiamo all’età in cui essi avvengono (Tab. 4).

Tab. 4 Età di abbandono della Congregazione salesiana. Periodo 2016-2021. Valori %.


Età all’uscita dall’Istituto

Totale

Fino 25

26-35

36-45

46-55

56-65

66 e più

Prof. temp.

7,3

80,0

11,7

0,5

0,5

---

100,0

Prof. perp.

---

5,7

27,4

36,0

19,6

11,2

100,0

Un primo elemento che si coglie è la dinamica profondamente diversa tra professi temporanei e perpetui. I primi hanno il punto di crisi tra i 26 e 35 anni e per la gran parte nei primi anni dopo la professione (Tab. 5), più lenta e dilazionata nel tempo è invece la crisi a livello di professi perpetui.

Tab. 5 Anni di professione nella Cong. Salesiana al momento dell’abbandono/uscita. 2016-2021


Anni di professione

Fino 4

5-9

10-14

15-19

20 e più

Totale

Prof. temp.

66,9

33,1

---

---

---

100,0

Prof. perp.

---

26,5

34,5

17,7

21,2

100,0



Come età la maggior parte degli abbandoni si colloca tra i trenta e quaranta anni, dopo una decina di anni di professione. Ciò fa ipotizzare un andamento progressivo, e silente, nella maturazione del distacco e della disaffezione dal carisma della Congregazione. Il processo che porta alla crisi matura nel tempo giorno dopo giorno a piccoli passi. C’è un tempo nel quale si continua a fare esperienza di vita religiosa, ma ciò anziché rinsaldare le motivazioni porta ad un crescente disamoramento (e disincanto). Molteplici le possibili ragioni di tale distacco, difficile anche per la stessa persona individuare un momento iniziale. Non sempre infatti l’intreccio di aspettative e motivazioni sottese all’interesse vocazionale emergono con chiarezza alla consapevolezza di colui che si avvicina alla vita religiosa e forse sfuggono anche nella fase del discernimento iniziale. Accanto a ragioni che facile esplicitare (ricerca di Dio; desiderio di impegno in un servizio ecclesiale; dedizione verso l’educazione dei giovani; ecc.) ve ne possono essere altre che restano sotto traccia magari per il semplice motivo che sono legate all’immagine di sé e alle aspettative soggettive di realizzazione che la persona coltiva o riceve dall’ambiente sociale nel quale vive.

Gli anni della formazione dovrebbero aiutare alla chiarificazione e far si che il desiderio, l’intuizione spesso indefinita di una vocazione divenga consapevolezza di una chiamata capace di trasformare la soggettività attraverso la consapevole e libera assunzione di uno stile di vita, di obblighi e valori che delineano una identità nuova (quella del salesiano, appunto) con un conseguente modo di comprendere, interpretare e collocarsi nella realtà.

Tutto ciò è possibile nella misura in cui la persona si rende disponibile all’azione formativa. Non basta infatti che vengano date (dai formatori) istruzioni, informazioni, indicazioni operative se esse non sono accolte e fatte proprie dalla persona (formando). Il processo di discernimento e l’accompagnamento alla vita consacrata, secondo lo stile salesiano, produce effetti duraturi e cambiamenti reali solo se la persona è disposta a mettersi in discussione e ad attivare processi di cambiamento.

La centralità della questione vocazionale sia come intuizione spirituale che in termini di assunzione di una peculiare stile di vita trova puntuale riscontro nelle principali motivazioni di abbandono, in particolare a livello di professi temporanei. Al momento di lasciare il 48,7% ne indica la ragione nella progressiva perdita del senso della vocazione e per un altro 21,6% è presa d’atto che fin dall’inizio non c’era una reale chiamata vocazionale. Poi tra le ragioni ricorrenti c’è la costellazione delle difficoltà ad assumere uno stile di vita coerente con le esigenze di una consacrazione religiosa e sono anzitutto tensioni e disagi nelle relazioni comunitarie (28,7%), rapporto problematico con l’autorità per quanto riguarda l’obbedienza (16,7%) e osservanza del celibato (20%), in un contesto caratterizzato dal venir meno della tensione spirituale (27%).

Un po’ diverso è il quadro motivazionale per quanto riguarda gli abbandoni dei professi perpetui. In primo luogo emerge la difficoltà ad osservare il celibato (44,2%), seguito da un insieme di tensioni riguardanti gli impegni connessi alla vita religiosa (27,4%) e più specificamente le relazioni comunitarie (22,1%) e il rapporto di obbedienza (23%), anche qui con sullo sfondo l’affievolirsi della tensione spirituale (19,5%).

Nel caso dei passaggi al ministero pastorale in diocesi il quadro motivazionale si polarizza tra desiderio di vivere l’identità presbiterale senza i vincoli della vita religiosa (53,1%) e il disagio per la vita comunitaria (45,4%) insieme al distacco dall’ identità e missione salesiana (32,1%).

In sintesi a monte degli abbandoni si possono individuare tre aree di problematicità: una insufficiente consapevolezza dell’impegni che la scelta vocazionale comporta (e questo in particolare tra novizi e professi di voti temporanei), tensioni nella vita comunitaria, difficoltà a vivere secondo quello stile di vita che proprio della consacrazione religiosa salesiana.

Il fatto che per la quasi totalità dei casi il distacco avvenga in un clima di serenità e rispetto per scelte maturate nel tempo non toglie che dal punto di vista relazionale ci sia sofferenza e disagio nel perdere confratelli con i quali si è pregato condividendo aspirazioni, impegni pastorali, aspetti più o meno intensi di vita personale. Dispiacere reso più acuto quando se ne va un confratello ricco di doti, di capacità. Disagio che si fa più acuto quando si tiene conto che la gran parte (69%) di coloro che se ne vanno ha una età compresa tra i 26 e 55 anni, quindi persone ancora valide, per cui le loro decisione non passa inosservata: lascia il segno, talvolta una ferita aperta, magari innesta recriminazioni, atteggiamenti di sfiducia, sentimenti delusione che a loro volta appesantiscono le relazioni interpersonali. Dobbiamo però anche considerare che ogni istituzione, da sempre, conosce la realtà del distacco, dell'abbandono. Talvolta sono proprio le persone più generose nel darsi all'impegno pastorale a non prestare sufficiente attenzione ad alimentare quelle motivazioni, anzitutto spirituali, senza le quali riesce arduo affrontare impegni che si protraggono per un lungo arco temporale.

Forse a monte in diversi casi c’è una diversa comprensione di ciò che significa impegnarsi “per sempre” in una vocazione di consacrazione ecclesiale. Dal punto di vista dell’Istituto, e più ampiamente nella tradizione ecclesiale, “per sempre” significa per tutta la vita in maniera incondizionata, e potremmo aggiungere nella gioia e nel dolore, nel successo e nel fallimento, nella giovinezza e nella vecchiaia. In una cultura incentrata sul primato del soggetto o dell’Io, come è quella dominante in Occidente ma con ampia diffusione su scala mondiale, il “per sempre” ha spesso una inespressa riserva ossia: dico “si” in base all’esperienza che ho fatto e alla consapevolezza raggiunta e “adesso” mi sento di impegnarmi “per sempre” (e spero che tale rimanga), ma se poi dovessero avvenire eventi oggi del tutto imprevedibili allora potrebbe accadere di dover (o voler) rimettere in discussione il “per sempre”. Se un tempo il “per sempre” stava rocciosamente all’inizio e fondava le scelte successive, oggi sempre più frequentemente si spera, si confida, ci si augura la definitività di una certa scelta (lavoro, matrimonio, voti religiosi, ecc.) ma solo alla fine si potrà veramente dire se lo è stata per davvero oppure se nel fluire delle interazioni, delle esperienze, dei cambiamenti quella opzione iniziale abbia perso di forza. Certo quanto ci si inserisce in un nuovo ambiente o si intrecciano nuove relazioni o si inizia una esperienza spirituale forte come quella di chiedere di entrare in un Istituto religioso l’aspettativa della persona è che possa essere “per sempre”. All’inizio è bello pensare che sia così, ma sarà il corso degli eventi a dire se poi le cose andranno davvero nel modo auspicato. Pertanto è con crescente difficoltà che si accettano scelte le quali non abbiano una opzione di reversibilità o che non presentino una qualche alternativa di uscita. Quindi non è che oggi sia impossibile assumere (o non vi siano) decisioni definitive e incondizionate, ma è che ciò non può più essere dato per scontato, ovvio, in quanto da tutti o dalla gran parte condiviso e ritenuto un valore apprezzato. D’altra parte non è che nella reversibilità delle scelte si specchi solo la cultura del narcisismo, dell’effimero, dell’attimo fuggente, ma c’è anche l’esperienza di essere dentro una realtà sociale attraversata da veloci e molteplici cambiamenti, un vortice di trasformazioni che rendono la vita quotidiana cangiante, instabile, provvisoria dove di definitivo sembra esserci solo il cambiamento. Se la definitività non può più essere data per scontata in tutti coloro che si avvicinano alla vita salesiana ciò significa che le persone andranno formate ad apprezzarla in modo che essi abbiano le risorse culturali e spirituali per reggere di fronte alle crisi alle quali saranno sottoposti, prima o dopo, gli orientamenti assunti in modo incondizionato.

Vi è però anche un altro elemento che nella realtà odierna cambia la percezione del “per sempre” ed è quello della crescita negli anni di vita. A partire dalla metà del novecento l’impatto del progresso scientifico sulle cure mediche, il miglioramento nelle condizioni e negli stili di vita ha ridotto in tutto il mondo, seppur con intensità differente nei vari continenti, la mortalità infantile e accresciuto le speranze di vita. Se da un lato l’aumento nella durata media della vita e la concomitante diminuzione delle nascite ha portato, principalmente in Europa, a una crescita della popolazione anziana dall’altro ha cambiato il modo di pensare e progettare la propria esistenza, anche all’interno degli Istituti religiosi.

Se fino al novecento la soglia di durata della vita, superati i rischi di morte durante l’infanzia, si collocava intorno ai sessant’anni, dei quali gli ultimi erano considerati vecchiaia, i trenta/quaranta anni di vita religiosa costituivano una limite “alto” non facile da raggiungere, oggi anche ipotizzando una entrata intorno ai trenta anni, sono traguardi facilmente raggiungibili e così si delinea una esperienza generalizzata di vita religiosa “lunga” come mai vi è stato in passato. Il più esteso arco temporale dell’esistenza e la molteplicità delle esperienze che in essa si vivono rende evidente che solo in pochi casi le motivazioni iniziali sottese alla decisione di avvicinarsi ad un Istituto possono durare 40-50 anni. E’ necessario confermarle e ri-esprimerle e solo attraverso tale processo di rielaborazione esse potranno sostenere il religioso nella perseveranza di un impegno lungo e duraturo. Immerso in un mondo dove tutto cambia e si modificano profondamente sensibilità culturali, modalità di presenza ecclesiale non è ragionevole pensare che solo la motivazione religiosa e spirituale possa permanere con la stessa formulazione e comprensione del suo primo inizio.

L’abbandono è pertanto l’esito possibile (o probabile) di una situazione nella quale si attiva una fase di “crisi”14 che mette in discussione quanto, fino a quel momento, è stato fatto e l’identità assunta ed è questa una fase quanto mai aperta a risultati diversi. C’è sempre un tempo di discernimento nel quale le opzioni rimangono plurime e aperte ad esiti diversi. È questo il passaggio più delicato, ma anche quello di più difficile individuazione. Talora la stessa persona vive un disagio generico, che spesso fatica a focalizzare, verso ciò che sta facendo e avverte un bisogno di discontinuità, la quale può sfociare in un distacco dell’istituto oppure anche in una riformulazione delle motivazioni vocazionali e delle modalità di presenza della Congregazione o cristallizzarsi in uno stato di “separato in casa”. E’ quest’ultima la condizione di coloro che maturano un certo distacco spirituale e/o psicologico rispetto alla scelta vocazionale, ma poi per circostanze varie (difficoltà al reinserimento, età, inerzia delle abitudini, ecc.) preferiscono restare nell’ambito della istituzione. Il loro disagio e spesso le incoerenze e le contraddizioni comportamentali che ne derivano finiscono con l’essere fattori che deprimono la vitalità degli ambienti nei quali si opera, un freno (se non un ostacolo) alla forza della testimonianza, quando non indeboliscono la convinzione e motivazione dei confratelli.

Quando si dice che l’abbandono non è né l’unico né il necessario esito di una crisi vocazionale si richiama l’attenzione su quei religiosi che pur affrontando nel corso delle propria vita seri momenti di crisi vocazionale e avendo magari pensato seriamente ad andarsene hanno poi deciso di rimanere. Sarebbe interessante comprendere meglio i processi che permettono di superare la tensione senza giungere alla rottura.



  1. Prevenire gli abbandoni: ipotesi per una strategia di lunga durata.

In una istituzione di 13727 religiosi quale è la Congregazione salesiana è logico aspettarsi che ogni anno vi siano persone che lasciano. Una dinamica ove ad una limitata “quantità” si accompagna una più elevata “qualità” (pastorale, di formazione intellettuale, di capacità operative) di quanti abbandonano. Quando poi questo accade in aree come l’Europa ed il Nord America già segnate da poche vocazioni allora l’effetto degli abbandoni si fa sentire con maggiore intensità e problematicità.

Generalmente nel momento in cui la persona esplicita la decisone di andarsene è molto difficile che essa ritorni sui suoi passi. Ordinariamente la rottura interiore, psicologica e spirituale, è già avvenuta resta solo la manifestazione e la definizione giuridica del distacco.

Più interessante anche al fine di un contenimento degli abbandoni è lavorare in termini di prevenzione, individuando quell’area “grigia” dello scontento quando la persona non si sente del tutto, pienamente appartenente e nello stesso tempo non ha individuato nell’andarsene l’unica opzione possibile e percorribile per dare risposta alle difficoltà che avverte e vive.

È una disaffezione che si alimenta di tante piccole insoddisfazioni nelle relazioni interpersonali, nella pastorale, nella missione dell’istituto che finiscono con l’indebolire l’identificazione con il carisma e affievoliscono le motivazioni sottese alla vocazione. Un processo che toglie energia all’impegno nella vita comunitaria e progressivamente spinge ai margini, ed innesta una dinamica nella quale si incominciano a valutare i “costi” dell’andarsene (cercare un lavoro, ridefinire la rete delle proprie relazioni, distacco dalla scelta di vita sulla quale si sono investite diverse energie e risorse, ecc.) confrontandoli con i “benefici” (recupero della propria autonomia, percezione di una maggior libertà anche spirituale, abbandono di relazioni interpersonali ormai prive di significato, ecc.).

Per impostare un lavoro di prevenzione è importante allora lavorare su due livelli:

  • rafforzare nella persona le motivazioni spirituali e carismatiche, in particolare per quanto riguarda il senso della perseveranza;

  • migliorare il clima delle relazioni fraterne nelle comunità.

Ogni analisi sulle dinamiche delle motivazioni vocazionali deve tener conto dei fattori che nel vissuto quotidiano influenzano l’azione della persona.

  • Anzitutto la difficoltà a scegliere.

La scelta può essere percepita non come un “guadagno”, il raggiungimento di un obiettivo spirituale o materiale che ritengo positivo e vantaggioso per me, oppure essere vissuta come una “perdita”: nel momento in cui scelgo “perdo” le altre opportunità. Questo vale in particolare nella realtà dell’Occidente ove la persona ha ordinariamente davanti molteplici opzioni esistenziali.

  • Vi sono ampie e diffuse resistenze a percepire la positività di una scelta che sia “per sempre”, ossia impegnarsi senza riserva in una prospettiva di definitività e irrevocabilità. Ciò che si rifiuta è il “per sempre” incondizionato, come si è detto.

  • Quindi il “perseverare” e la perseveranza non sono più dei dati di fatto, condizioni pacificamente accettate, ma devono diventare un obiettivo formativo da perseguire con una specifica azione educativa. Perseverare è possibile solo se si dà la motivazione per la quale si rimane nella decisione anche quando questa non è più fonte di immediata gratificazione. Perseverare significa andare nella direzione opposta a chi dice che ogni relazione nasce, cresce e poi muore ed una volta che ha dato tutto quello che poteva dare allora se ne apre un’altra. In una realtà dove tutto è mobile è obiettivamente difficile fondare la stabilità, ma non per questo impossibile. Anche la stabilità ha i suoi indubbi vantaggi. La capacità di permanere incondizionatamente in un rapporto “rassicura” la persona in quanto riduce il rischio di essere abbandonati, isolati, esposti senza protezione alle avversità dell’esistenza. Tuttavia nel contesto vocazionale è molto più efficace fondare la perseveranza su ragioni spirituali. Sono esse infatti che possono poi orientare le decisioni operative. Il cristiano persevera in quelle scelte nelle quali esprime l’accoglienza della presenza di Dio nella propria vita in quanto così facendo “imita” l’agire di Dio. La perseveranza umana è imitazione della perseveranza di Dio nelle sue promesse e della testimonianza che ne ha dato Gesù.

  • La perseveranza non è sinonimo di fissità e non è impossibile viverla pienamente anche in un mondo attraversato da un costante susseguirsi di cambiamenti. Ciò è realizzabile nella misura in cui la persona (e le istituzioni ecclesiali) hanno la capacità e l’attenzione a saper ripensare, rimodulare, rifondare le motivazioni iniziali sapendo trovare i modi e i linguaggi per riproporne la vitalità anche nel mutare delle sensibilità culturali e dei contesti relazionali.

Questo dinamismo trova nella formazione permanente la sua forma e modalità espressiva. Essa non è un semplice aggiornare quanto si è ricevuto negli anni iniziali, ma è un accompagnare i processi di rinnovamento delle motivazioni spirituali e umane della scelta religiosa. Formazione permanente è, da questo punto di vista, confronto con il vissuto, con l’esperienza quotidiana, in tutti i suoi vari aspetti incluse le contraddizioni e difficoltà che si incontrano nella testimonianza cristiana. Se le motivazioni iniziali non vengono riconfermate e approfondite nel tempo si depotenziano, rendendo difficile contrastare quella perdita di senso che è il conteso ove poi cresce il distacco e la disaffezione verso gli impegni assunti.

Legata alla tematica motivazionale vi è quella della vita spirituale. Proprio perché si riconosce come centrale la necessità di mantenere vive le ragioni della consacrazione, ne consegue l’importanza della preghiera personale, di una buona pratica sacramentale, della fedeltà ad una dignitosa preghiera comunitaria. L’insidia che indebolisce l’attenzione spirituale, sia individuale che comunitaria, viene da un eccessivo carico di lavoro e dalla ripetitività abitudinaria che finisce col rendere banale e frettolosa sia l’azione pastorale che la pratica liturgica. Senza un perseverante e condiviso confronto con una visione di fede della realtà gli eventi (personali e comunitari) vengono osservati e interpretati unicamente in una prospettiva empirica o efficentista, al più - quando va bene - psicologica.

Come si è già ricordato la prevenzione degli abbandoni parte dalla consapevolezza che oggi non è più possibile e ragionevole dare per scontato che le persone comprendano e riconoscano come valori da perseguire la stabilità e la perseveranza nelle scelte di vita. E’ necessario pertanto che fin dalla formazione si operi per rendere consapevoli che la visione cristiana della vita delinea atteggiamenti e comportamenti che sono alternativi rispetto alle sensibilità prevalenti nella società. Da un tempo nel quale la visione cristiana della vita orientava l’insieme della vita sociale si giunge ad un presente nel quale il pluralismo delle scelte etiche e morali rende la proposta cristiana una fra le molteplici. L’appartenenza ecclesiale è propria di una minoranza e non sempre è facile accettare di non essere più maggioranza senza per questo cadere in chiusure settarie ossia in un rapporto conflittuale con le altre parti della società. L’immagine evangelica di una Chiesa minoranza è quella del lievito ossia una realtà capace di influenzare e orientare pur restando in una condizione di minorità. Si tratta infatti da un lato di impegnarsi a conoscere bene la realtà nella quale si opera e poi avere proposte che siano effettivamente capaci di delineare una alternativa di valori, di stili di vita, di comportamenti. E’ dentro questa prospettiva che collocherei l’accoglienza ed il discernimento vocazionale: aiutare a comprendere le ragioni della differenza cristiana rispetto alla cultura prevalente.

In conclusione un cenno sull’elaborazione del “lutto” per l’abbandono. Un lutto che è anzitutto quello della persona che se ne va. Ordinariamente non è una scelta facile: significa ammettere di aver sbagliato, di non un aver ben valutato le difficoltà, c’è la fatica di lasciare un contesto ormai ben conosciuto per iniziare una nuova, e talvolta incerta, fase nella propria vita. Si tratta di accompagnare la persona attestando fiducia, stima, riconoscenza per quanto fatto e testimoniato, aiutandola a leggere e riconoscere e custodire quanto di positivo ha vissuto durante gli anni di permanenza nell’Istituto . Non è facile perché talvolta la persona che se ne va lascia dietro di sé rapporti difficili, situazioni problematiche.

Un lutto lo è anche per la comunità la quale si vede impoverita nelle sue risorse umane. È un lutto più difficile da elaborare anche perché deprime lo slancio pastorale e la vitalità comunitaria. Sarebbe importante che il processo di separazione potesse essere condiviso, se ne accogliessero insieme le ragioni, si arrivasse a comprendere che effettivamente è la scelta migliore per la persona. Non è però facile.

Tuttavia nella misura in cui l’abbandono è un’esperienza di morte esso può essere vissuto anche come un tempo di speranza, di resurrezione che si augura possa divenire tale per la persona ma anche per la comunità e l’Istituto facendo tesoro degli insegnamenti che ogni abbandono in se custodisce.

Giovanni Dalpiaz

gdp947@gmail.com







1 E’ importante il richiamo a questa capacità di perseverare nella crescita ovvero tollerare e saper attendere perché il cambiamento non avviene senza tensioni, contrasti, sofferenze.

2 J. Gadille, J.F. Zorn, “Le missioni cristiane in Africa, Asia, Australia e Oceania”, in J. Gadille, J.M. Mayeur (a cura di), Liberalismo, industrializzazione, espansione europea (1830-1914), Roma, Borla, 2003, p.877.

3 D.B. Barret, T.M. Johnsons, World Christian Trends, Pasadena. William Carey Library, 2001, pp.319-333.

4 Annuarium Statisticum Ecclesiae. 2022, Roma, Vaticana, 2024, p. 43.

5 Sull’uso di “misurare” l’espansione, o la contrazione, della Chiesa osservando il numero dei battezzati va precisato che la questione non è, primariamente, teologica, ma di ordine pratico. Il numero dei battezzati indica solo l’insieme di coloro che hanno una relazione teologicamente significativa, senza da ciò dedurre alcunché sulla loro effettiva partecipazione alla vita ecclesiale. Dal punto di vista sociologico potremmo dire che i battezzati costituiscono l’espansione teorica massima della Chiesa cattolica in un dato momento storico in rapporto alla popolazione presente su di un determinato territorio

6 Qui come in tutti gli altri passaggi quantitativi della relazione, salvo esplicita indicazione diversa, i dati sono desunti da M. Bay, Separazione dalla Società di San Francesco di Sales. Relazione sugli abbandoni dei soci nel periodo 2026-2021, Roma, Pro Manuscripto,2022 ed aggiornamenti successivi.



7 Nel 1971 il 26% dei salesiani era italiano, per poi scendere al 20% nel 1991 e assestarsi, per ora, al 10% nel 2023.

8 In Africa si ha 1 salesiano in formazione (novizio o professo temporaneo) per 1 salesiano professo perpetuo; in Asia il rapporto è di 1 salesiano in formazione per 3 salesiani professi perpetui.

9 G. Dho, La riduzione allo stato laicale di sacerdoti nella Congregazione Salesiana (1972-1976), Roma, Ed. SDB, 1977, p. 57.

10 M. Bay, op. cit., p. 85.

11 M. Bay, op. cit, p. 1

12 E’ difficile fare paragoni puntuali vuoi per il fatto che gli Istituti non hanno la stessa modalità di computare gli abbandoni vuoi per la mancanza di una informazione regolare e sistematica per tutti gli Istituti. Indicativamente un indizio lo si può cogliere nell’Annuarium Statisticum Ecclesiae che per il 2022 da un incidenza degli abbandoni per tutti i sacerdoti professi di voti perpetui degli Istituti maschili pari allo 0,33% , mentre per lo stesso anno tra i sacerdoti professi perpetui dei salesiani è stata del 0,39%. A titolo sempre indicativo di una tendenza, tra i francescani nel periodo 2010-2015 gli abbandoni tra i sacerdoti è stata tra lo 0,25 e lo 0,30.

13 G. Dho, op. cit., p. 14-15.

14 Il termine “crisi”, dal greco krisis, indica il momento in cui si fa un discernimento vagliando e scegliendo tra varie possibilità, il tempo in cui un evento evolve in una direzione o in un’altra. Nel contesto medico è il momento in cui la malattia volge o verso la guarigione o verso la morte, in quello giuridico è la scelta, il giudizio.

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