Esercizi Spirituali CG29 - Mistica della vita fraterna

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ESERCIZI SPIRITUALI 2025

Capitolo Generale XXIX

LA MISTICA DELLA COMUNIONE FRATERNA



Introduzione


Il fatto di “passare in rassegna” i diversi aspetti della nostra vita consacrata salesiana dalla prospettiva mistica ha un presupposto di base: che tutta la nostra vita, ed in essa ogni dimensione, ha (o almeno: può avere) questo carattere, che è chiamato a riempire il nostro cuore di gioia e felicità.


Ma, come abbiamo detto molte volte prima, non si tratta di un semplice “plus” quantitativo: viverlo con più o meno gioia; meno ancora, come se dipendesse dal nostro carattere o temperamento innato (che non possiamo ignorare, senz’altro). Piuttosto vogliamo accentuare l’elemento fondamentale, qualitativo, che troviamo alla base di questo invito a vivere in chiave mistica la nostra esistenza intera, come espressione della “grazia dell’unità” e che presuppone, indubbiamente, la nostra identità carismatica (cioè: la vocazione).


1.- La vita comunitaria e la comunione fraterna, riflesso dell’Amore Trinitario


Cercando di riflettere sulla nostra vita di comunità, conviene fin dall’inizio chiarire un possibile malinteso. Tradizionalmente, era classica la distinzione tra consacrazione e missione, che in qualche occasione portava a separazioni e a polarizzazioni inadeguate. Dobbiamo superare questa dicotomia dal di dentro, proprio perché la missione non s’identifica con le attività e opere educative, evangelizzatrici o pastorali. Tutto questo è espressione concreta, che nasce dalle profonde necessità dei nostri destinatari, anzitutto i giovani più poveri ed abbandonati, di ciò che costituisce la Missione nella sua essenza più profonda: essere segni ed espressione dell’amore preveniente/preventivo di Dio. In questo senso la Missione è totalizzante e quindi non può escludere nessun aspetto della nostra vita e azione.


Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che tale Missione è cristiana: dunque, nasce dall’identità stessa del nostro Dio, che è Amore perché è Comunità Trinitaria: Padre, Figlio e Spirito Santo. Da questo possiamo affermare che non c’è missione se non c’è comunità: dunque, non c’è spazio per queste separazioni o polarizzazioni entro il Carisma.


Abbiamo visto nelle riflessioni precedenti che proprio questo Dio-Amore Trinitario, della cui immagine siamo stati creati e nella cui Famiglia, che è la Chiesa (e specificamente in quanto consacrati) siamo chiamati a vivere, costituisce il nostro Modello fondamentale; e la nostra unica meta è diventare ogni volta più simili, attraverso l’amore, a questo Dio Trinitario. Questa è la base della mistica della vita comunitaria, ricordando la preghiera di Gesù al Padre nell’Ultima Cena: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che Tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21).


Prima di essere una costruzione umana, la comunità religiosa è un dono dello Spirito. Infatti, è dall'amore di Dio diffuso nei cuori per mezzo dello Spirito che la comunità religiosa trae origine e da esso viene costruita come una vera famiglia radunata nel nome del Signore.

Non si può comprendere quindi la comunità religiosa senza partire dal suo essere dono dall'Alto, dal suo mistero, dal suo radicarsi nel cuore stesso della Trinità santa e santificante, che la vuole parte del mistero della Chiesa, per la vita del mondo. (La Vita Fraterna in Comunità, n. 8)


Nelle Costituzioni, il primo articolo che parla della nostra vita fraterna, colloca questo fondamento trinitario: “Vivere e lavorare insieme è per noi salesiani una esigenza fondamentale e una via sicura per realizzare la nostra vocazione. Per questo ci raduniamo in comunità, nelle quali ci amiamo fino a condividere tutto in spirito di famiglia e costruiamo la comunione delle persone. Nella comunità si riflette il mistero della Trinità.” (C 49).


Questa convinzione trinitaria, che nasce dalla nostra fede, deve verificarsi come frutto del nostro impegno, includendo l’ascesi, anche qui indispensabile: nella comunità “troviamo una risposta alle aspirazioni profonde del cuore e diventiamo per i giovani segni di amore e di unità.”


Non dobbiamo dimenticare il background antropologico che, dalla fede, rende possibile tutto questo: “Creando l'essere umano a propria immagine e somiglianza, Dio lo ha creato per la comunione. Il Dio creatore che si è rivelato come Amore, Trinità, Comunione, ha chiamato l'uomo a entrare in intimo rapporto con Lui e alla comunione interpersonale, cioè alla fraternità universale. Questa è la più alta vocazione dell'uomo: entrare in comunione con Dio e con gli altri uomini suoi fratelli” (VFC, 9).


Nella vita comunitaria fraterna, diventa realtà quello che fin dal primo giorno meditavamo: prima di imparare ad amare, siamo e ci sentiamo amati.


Cristo dà alla persona due fondamentali certezze: di essere stata infinitamente amata e di poter amare senza limiti. Nulla come la croce di Cristo può dare in modo pieno e definitivo queste certezze e la libertà che ne deriva. Grazie ad esse la persona consacrata si libera progressivamente dal bisogno di mettersi al centro di tutto e di possedere l'altro, e dalla paura di donarsi ai fratelli; impara piuttosto ad amare come Cristo l'ha amata, con quell'amore che ora è effuso nel suo cuore e la rende capace di dimenticarsi e di donarsi come ha fatto il suo Signore.

In forza di quest'amore nasce la comunità come un insieme di persone libere e liberate dalla croce di Cristo (VFC, 22).


Lo stesso documento della Chiesa presenta in maniera breve, ma molto illuminante, la mistica e l’ascesi della vita comunitaria:


La comunione è un dono offerto che richiede anche una risposta, un paziente tirocinio e un combattimento, per superare lo spontaneismo e la mutevolezza dei desideri. L’altissimo ideale comunitario comporta necessariamente la conversione da ogni atteggiamento che ostacolerebbe la comunione.

La comunità senza mistica non ha anima, ma senza ascesi non ha corpo. Si richiede "sinergia" tra il dono di Dio e l'impegno personale per costruire una comunione incarnata, per dare cioè carne e concretezza alla grazia e al dono della comunione fraterna (ibidem).


Se vogliamo esprimerlo in un semplice schema, sarebbe così:


mistica: comunione

vita di comunità:

ascesi: vita comune


Senza dubbio, ogni Famiglia religiosa vive la vita fraterna a modo suo, nel suo stile secondo il Carisma. Per noi, c’è un’espressione che manifesta questo stile con una straordinaria ricchezza umana e cristiana: lo spirito di famiglia.


“Don Bosco voleva che nei suoi ambienti ciascuno si sentisse a ‘casa sua’. La casa salesiana diventa una famiglia quando l’affetto è ricambiato e tutti, confratelli e giovani, si sentono accolti e responsabili del bene comune. In clima di mutua confidenza e di quotidiano perdono si prova il bisogno e la gioia di condividere tutto e i rapporti vengono regolati non tanto dal ricorso alle leggi, quanto dal movimento del cuore e della fede” (C 16).


Mi piacerebbe accentuare l’ultimo paragrafo, che sottolinea la dimensione vocazionale di questo spirito di famiglia: “Tale testimonianza suscita nei giovani il desiderio di conoscere e seguire la vocazione salesiana”. Ricordiamo anche ciò che dice l’articolo 50: “Dio ci chiama a vivere in comunità, affidandoci dei fratelli da amare” (e io mi permetterei aggiungere: e dai quali essere amati).


Tutto questo è intimamente unito agli atteggiamenti di amore, gioia e unità, che si trovano ampiamente nella sezione delle Costituzioni sulla vita fraterna. Senza dubbio, questa mistica dà senso a tutta la dimensione ascetica della vita in comune: “La comunità accoglie il confratello con cuore aperto, lo accetta com’è e ne favorisce la maturazione. Gli offre la possibilità di esplicare le sue doti di natura e di grazia. Provvede a ciò che occorre e lo sostiene nei momenti di difficoltà, di dubbio, di fatica, di malattia… Il confratello s’impegna a costruire la comunità in cui vive e la ama, anche se imperfetta: sa di trovare in essa la presenza di Cristo” (C 52).


2.- La comunione fraterna, “spazio teologale” dei Consigli Evangelici


Ci sono molti altri testi, che insistono su questi elementi fondamentali. Ma credo che sia necessario riprendere ed esplicitare un tema molto importante, che apposta è rimasto ieri soltanto menzionato. SE il fondamento ultimo dei Consigli Evangelici è la Vita Trinitaria di Dio, la conseguenza è: né la castità, né la povertà, né l’obbedienza possono essere vissute soltanto in maniera individuale: questo porterebbe inevitabilmente a un ascetismo negativo, vicino ad un certo “masochismo cristiano”. Soltanto nella prospettiva comunitaria (senza negare quella personale!) trovano il loro senso più pieno, e in particolare, permettono di sviluppare con gioia il loro carattere mistico.


Il documento della Chiesa che stiamo citando tocca esplicitamente questo tema, e vorrei proporre almeno qualche brano. Dobbiamo notare che questo documento, anche se sottolinea l’aspetto comunitario dei Consigli Evangelici, non fa riferimento alla sua dimensione, anzi alla sua radice trinitaria. Questa si troverà, per la prima volta, due anni dopo nell’esortazione apostolica Vita Consecrata.


La professione religiosa è espressione del dono di sé a Dio e alla Chiesa, ma di un dono vissuto nella comunità di una famiglia religiosa. Il religioso non è solo un "chiamato" con una sua vocazione individuale, ma è un "convocato", un chiamato assieme ad altri con i quali "condivide" l'esistenza quotidiana.

C'è una convergenza di "sì" a Dio, che unisce i vari consacrati in una stessa comunità di vita. Consacrati assieme, uniti nello stesso "sì", uniti nello Spirito Santo, i religiosi scoprono ogni giorno che la loro sequela di Cristo "obbediente, povero e casto" è vissuta nella fraternità, come i discepoli che seguivano Gesù nel suo ministero. Uniti a Cristo e quindi chiamati ad essere uniti tra di loro. Uniti nella missione di opporsi profeticamente all'idolatria del potere, dell'avere, del piacere.

E così l'obbedienza lega e unisce le diverse volontà in una stessa comunità fraterna dotata di una missione specifica da compiere nella Chiesa. (…)


La povertà: la condivisione dei beni - anche di quelli spirituali - è stata fin dall'inizio la base della comunione fraterna. La povertà dei singoli che comporta uno stile di vita semplice e austero, non solo libera dalle preoccupazioni inerenti ai beni personali, ma ha sempre arricchito la comunità, che poteva così porsi più efficacemente al servizio di Dio e dei poveri (…). Una comunità di "poveri" è in grado di essere solidale con i poveri e manifestare quale sia il cuore dell'evangelizzazione, perché presenta concretamente la forza trasformante delle beatitudini.


Nella dimensione comunitaria la castità consacrata, che implica anche una gran purità di mente, di cuore e di corpo, esprime una gran libertà per amare Dio e tutto ciò che è suo, con amore indiviso e perciò una totale disponibilità di amare e servire tutti gli uomini rendendo presente l'amore di Cristo. Questo amore non egoistico né esclusivo, non possessivo né schiavo della passione, ma universale e disinteressato, libero e liberante, tanto necessario per la missione, viene coltivato e cresce attraverso la vita fraterna. (…) (VFC, 44).


E così il documento conclude questa sezione: “Tale dimensione comunitaria dei voti ha bisogno di continua cura e di approfondimento, cura e approfondimento tipici della formazione permanente” (ibidem), - io aggiungerei - proprio perché si tratta di una dimensione relativamente nuova, perché nasce da una coscienza e convinzione di fede trinitaria.


Le Costituzioni presentano questa prospettiva comunitaria della propria identità carismatica, cioè lo spirito di famiglia, e ne dedicano alcuni articoli per sottolinearla.


Riguardo all’obbedienza, stabilendo un rapporto non sempre facile con la realtà dell’autorità, l’articolo 66 dice: “Nella comunità e in vista della missione, tutti obbediamo, pur con compiti diversi. Nell’ascolto della Parola di Dio e nella celebrazione dell’Eucaristia esprimiamo e rinnoviamo la nostra comune dedizione al divino volere”.


Più avanti lo stesso articolo sottolinea un aspetto importante e relativamente nuovo che deriva dal carattere comunitario dell’obbedienza: il discernimento comunitario: “Nelle cose di rilievo cerchiamo insieme la volontà del Signore in fraterno e paziente dialogo e con vivo senso di corresponsabilità. Il superiore esercita la sua autorità ascoltando i confratelli, stimolando la partecipazione di tutti e promuovendo l’unione delle volontà nella fede e nella carità. Egli conclude il momento della ricerca comune prendendo le opportune decisioni, che normalmente emergeranno dalla convergenza delle vedute”.


Su questo tema, il documento ecclesiale del 2008, Servizio dell’Autorità e l’Obbedienza, presenta una sezione molto interessante e pratica, nel n. 20, f. Non è indifferente ricordare che questo documento si presenta nel contesto dell’amore come la radice più importante dell’obbedienza e dell’autorità: Il tuo volto cercherò, o Signore; questo dev’essere, in fondo, l’obbedienza cristiana (e religiosa). Se non è così, non è autentica.


Finalmente, Vita Consecrata sottolinea anche il carattere comunitario dell’obbedienza: “La vita fraterna è il luogo privilegiato per discernere e accogliere il volere di Dio e camminare insieme in unione di mente e di cuore. L’obbedienza, vivificata dalla carità, unifica i membri di un Istituto nella medesima testimonianza e nella medesima missione, pur nella diversità dei doni e nel rispetto delle singole individualità” (VC 92).


Riguardo alla povertà, ci sono diversi articoli che fanno allusione alla dimensione comunitaria. In particolare, prendendo come modello la primitiva comunità cristiana, leggiamo: “Sull’esempio dei primi cristiani mettiamo in comune i beni materiali: i frutti del nostro lavoro, i doni che riceviamo e quanto percepiamo da pensioni, sussidi e assicurazioni. Offriamo anche i nostri talenti e le nostre energie ed esperienze. Nella comunità, il bene di ciascuno e bene di tutti. Condividiamo fraternamente ciò che abbiamo con le comunità dell’ispettoria e siamo solidali con le necessità dell’intera Congregazione, della Chiesa e del mondo.” (C 76).


Finalmente, riguardo alla castità, troviamo lo straordinario articolo 83: “La castità consacrata, ‘segno e stimolo della carità’ libera e potenzia la nostra capacità di farsi tutto a tutti. Sviluppa in noi il senso cristiano dei rapporti personali, favorisce vere amicizie e contribuisce a fare della comunità una famiglia. A sua volta, il clima fraterno della comunità ci aiuta a vivere nella gioia il celibato per il Regno e a superare, sostenuti dalla comprensione e dall’affetto, i momenti difficili”.


Se analizziamo più nel dettaglio questo bellissimo articolo, scopriamo un doppio movimento, indicato dall'espressione: “a sua volta": da un lato, la castità consacrata edifica la comunità e ancora di più, la comunione; e, d'altro canto, la comunità sostiene la castità di ciascuno, permettendogli di viverla con gioia e fecondità.



4.- Conclusione.


Vorrei finire con due testi, uno della Chiesa e un altro delle Costituzioni, che continuano a insistere nella dimensione mistica della vita comunitaria centrata nel suo carattere trinitario, e in conseguenza, come espressione di amore.


La vita fraterna, in virtù della quale le persone consacrate si sforzano di vivere in Cristo con ‘un cuore solo e un’anima sola’ (At 4, 32), si propone come eloquente confessione trinitaria. Essa confessa il Padre, che vuole fare di tutti gli uomini una sola famiglia; confessa il Figlio incarnato, che raccoglie i redenti nell’unità, indicando la via con il suo esempio, la sua preghiera, le sue parole e soprattutto con la sua morte, sorgente di riconciliazione per gli uomini divisi e dispersi; confessa lo Spirito Santo quale principio di unità nella Chiesa, dove Egli non cessa di suscitare famiglie spirituali e comunità fraterne” (VC 21).


Finalmente, nell’articolo 62 troviamo una straordinaria convergenza di elementi decisivi per la nostra vita salesiana, che evoca ciò che anni dopo dirà VC a riguardo del nostro vissuto personale e comunitario dei Consigli Evangelici come “terapia spirituale”:


“La pratica dei consigli, vissuta nello spirito delle beatitudini, rende più convincente il nostro annuncio del Vangelo. In un mondo tentato dall’ateismo e dall’idolatria del piacere, del possesso e del potere, il nostro modo di vivere testimonia, specialmente ai giovani, che Dio esiste e il suo amore può colmare una vita; e che il bisogno di amare, la spinta a possedere e la libertà a decidere della propria esistenza acquistano il loro senso supremo in Cristo salvatore”.


Difatti, quando il Rettor Maggiore enuncia il primo nucleo del tema capitolare lo mette sotto il titolo


  • Animazione e cura della vita vera di ciascun salesiano


e nel declinarlo specifica il contenuto:

  • Come credenti conquistati da Dio fissiamo il nostro sguardo nella vita consacrata salesiana incentrata in Gesù Cristo.

  • Prendendosi cura sempre della Vocazione, propria e altrui,

  • Fedeli a Dio, insieme, come comunità, nel vivere una vocazione comune, una fraternità che sia autentica, evangelica e affascinante.

  • Accompagnando di modo pieno le diverse tappe della propria vita e quella dei confratelli; prendendosi così cura della formazione iniziale e continua.

  • Con l’impegno a vivere la fraternità evangelica nelle nostre comunità religiose e nell’apertura a coloro che soffrono esperienze di esclusione nel nostro mondo.


Si tratta di cinque incisi che hanno a che vedere con il tema della Comunità e dunque della Vita fraterna: in comunità fraterne, che è di fatto una delle cause di abbandoni, non solo per l’individualismo ma anche per la mancanza di quegli elementi che fanno della comunità lo spazio privilegiato di maturazione e realizzazione umana e anche di efficacia evangelica e vocazionale.


A modo di appendice, ma – a mio avviso – molto importante, lascio per la vostra lettura alcune altre considerazioni.



Appendice

Lo sguardo e l’esame della vita interna della comunità religiosa oggi non è semplice. Sono molti gli aspetti che vanno messi a fuoco e risolti con criteri di fede, ma anche in maniera praticabile: il servizio dell'autorità, la corresponsabilità e partecipazione, i rapporti interpersonali, la relazione vita-lavoro o comunità religiosa - gestione dell’opera, l'equilibrio tra progetto comunitario e carisma personale, l'ambito della privacy, la comunicazione tra le generazioni. Non è facile affrontarli tutti perché richiedono approfondimenti differenziati. D’altra parte, le forme di gestirle con maturità coinvolgono le varie persone per cui a volte sono indicati processi di riflessione del “gruppo” piuttosto che consigli a singoli. Richiedono atteggiamenti e sforzi per cui chi ha, sa o può di più supplisce a volte limiti inevitabili di altri: è lo sforzo dell'amore che si adegua, accompagna, è paziente, offre possibilità, attende il momento personale favorevole, orienta. Mentre le conoscenze o gli approcci umani ci vogliono, non tutto si può risolvere con una soluzione tecnica. La professione di amore fraterno è alla base di tutto.


Alcuni cambiamenti hanno certamente modificato la vita della comunità e lo faranno nel futuro.

In primo luogo, la composizione: diminuisce il numero di confratelli per comunità e in alcuni casi si è al limite. Anche se in numero esiguo, essi appartengono a diverse generazioni, anzi a volte è preponderante la presenza di persone piuttosto attempate. Ciò, ovviamente, non è male, soprattutto se viene vissuto, in modo positivo, come possibilità di maggiore personalizzazione e responsabilità per quanto riguarda il numero ridotto; come la testimonianza di una generazione che consegna l’esperienza di vita vissuta secondo il carisma, nel caso della presenza preponderante degli anziani. Certamente però questa composizione richiede nuova capacità di rapporti ed atteggiamenti particolari.


Un secondo cambiamento riguarda il rapporto tra comunità e opera apostolica. Ormai non si ha più la responsabilità esclusiva dell’opera e non vi è più il coinvolgimento di tutti i componenti della comunità religiosa nell’opera; sempre più spesso ci sono alcuni o molti coinvolti e altri che sono già a riposo. Si sente la sproporzione tra personale religioso e dimensione dell’opera. Questa era stata costruita quando si disponeva di molti confratelli; poi, un po’ alla volta, il numero si è ridotto e ora si va giungendo al limite. C’è, di conseguenza, abbondante interscambio tra religiosi, ancora attivi, e laici che ricoprono responsabilità nelle opere.


Un terzo cambiamento è il maggior inserimento della comunità nella dinamica di Chiesa e un più stretto rapporto con l’ambiente, con il territorio. La vita consacrata viene vista non come un “ritirarsi”, ma come un inserirsi con un contributo e per una missione. Di conseguenza c'è un moltiplicarsi di relazioni e interscambi con l’esterno. Il tempo per la comunità è minore ed essa è meno raccolta e protetta, più toccata dalla complessità della vita, dagli stimoli del contesto.


Tuttavia, il cambiamento più importante che ha avuto luogo riguarda il passaggio dalla insistenza sulla vita in comune a quella della vita fraterna in comunità. Ciò vuol dire maggior considerazione della persona singola nella sua originalità, maggior spazio perché possa esprimersi, ricerca della qualità dei rapporti, partecipazione attiva alla vita del gruppo.

Penso che i due termini rendano immediatamente l’idea e se ne distingua quindi la diversa portata. Vita in comune vuol dire fare le stesse cose allo stesso tempo (radunarsi, pregare, mangiare, lavorare, ecc.). Per la vita comune era importante il “tutti insieme”. Vita fraterna in comunità vuol dire badare di più all’unione delle persone, alla fraternità dei rapporti, all’aiuto e appoggio vicendevole, alla convergenza degli intenti e condivisione del progetto. Ciò corrisponde alle temperie culturali ed alla nuova consapevolezza delle persone che richiede riconoscimento, valorizzazione e ruolo attivo. È ovvio che quando parliamo della profezia del lavorare insieme non pensiamo a semplicemente ‘lavorare insieme’, ma alla profezia di testimoniare comunione di intenti e condivisione del progetto educativo pastorale.


Ciò scaturisce da una visione di fede: infatti trova la sua ragione profonda nel mistero trinitario, ha origine nella chiamata a seguire Cristo, è espressione - segno della realtà della Chiesa. La nostra comunione è espressione della comunione trinitaria: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”. (Gv 15:9) E pure la nostra missione è partecipazione della missione trinitaria: “Come il Padre ha inviato, anche io invio voi”. (Gv 20:21)


Oltre alla visione di fede, che va sempre approfondita, il voler formare una vera famiglia tra adulti ha bisogno di una nuova forma di concepire e realizzare i rapporti personali: trovare le basi su cui impostarli, le forme di rinnovarli prima che si logorino definitivamente, di renderli soddisfacenti per i singoli. L’art. 51 delle Costituzioni dice: “In clima di fraterna amicizia ci comunichiamo gioie e dolori e condividiamo corresponsabilmente esperienze e progetti apostolici”.


Credo dunque che due temi da curare siano urgenti nella vita fraterna: quello dei rapporti e quello della comunicazione. Sono come grandi dinamiche di comunità che raccolgono attorno a sé altre, certamente importanti, come la corresponsabilità, la progettazione, il discernimento e simili, ma che vengono agevolate e rese possibili dalle prime.


O altro testo alternativo

La comunità: la profezia della comunione


In una società dove regna l’individualismo, in una cultura dove prevale l’egoismo, in famiglie dove è sempre più comune la solitudine, è naturale che la persona cerchi la comunicazione con altri. Oggi questa viene da una parte agevolata e favorita dai mezzi di comunicazione; basterebbe pensare all’uso del telefonino e a tutti gli altri campi di comunicazione come youtube, facebook, twitter, instagram, tik-tok…. Ma, da altra parte, essa è ostacolata dalla virtualità. Pur restando fermo che questa favorisce il poter entrare in contatto con tantissime persone, in qualsiasi parte del mondo, in contemporaneità, essa non assicura la comunione. Questa è frutto del legame personale, del rapporto reale con altri che chiedono accoglienza, rispetto alla propria personalità, accettazione dei limiti altrui e propri, impegno a condividere e convivere, elementi tutti che sono fondamento di qualsiasi autentica comunità ed esperienza familiare.

La comunità è per i religiosi innanzitutto una opzione frutto della loro vocazione, nel senso che non è concepibile la vita religiosa senza la comunione concretizzata nella vita comune. Per i religiosi, e in modo speciale per noi salesiani, ci sono ragioni di fondo per questa scelta: l’esigenza della fraternità nasce dal fatto di essere figli dello stesso Padre, membra del Corpo di Cristo; la vita religiosa crea un’autentica famiglia costituita da persone che condividono una stessa fede e progetto di vita; infine, da salesiani siamo chiamati a creare e vivere uno spirito di famiglia come lo voleva don Bosco.

Come in altri campi della vita religiosa anche qui possiamo trovare dei rischi, come quelli di impostare uno stile di rapporti meramente funzionali o gerarchici o falsamente democratici. I nostri invece devono essere rapporti fraterni ed amichevoli, che ci portano ad amarci fino a condividere tutto. Un tale criterio ci fa vedere che la comunità è ben capita e vissuta quando tende alla comunione. La sola comunità senza comunione, con tutto ciò che questa comporta di accoglienza, apprezzamento e stima, aiuto vicendevole ed amore, si riduce ad un gruppo dove si giustappongono le persone. Ma, d’altra parte, la comunione senza comunità è una forma narcisistica di vivere la vita e, di conseguenza, una contraddizione, perché è una forma subdola d’individualismo.

Oggi i religiosi devono fare uno sforzo grande e condiviso per creare comunità religiose dove lo spessore spirituale, la qualità umana e l’impegno apostolico di ciascuno dei membri fa sì che la vita sia davvero buona, bella e felice. Allo stesso modo che non ci si sposa per soffrire ma per essere felici, così non si entra in comunità per tollerare confratelli ma per amarli ed essere amati. In altre parole, senza qualità umana e spiritualità non c’è fraternità.

In più, e ciò visto dalla prospettiva della missione della vita religiosa, da soli non si può essere segni del Dio amore, che nella sua realtà più profonda è Trinità, Comunità di persone che si partecipano e donano vicendevolmente. Dunque, la missione stessa richiede la comunità. Senza essa può esserci attività, gestione di opere, ma non missione.

Inoltre, in un momento in cui la presenza dei laici nelle Congregazioni è sempre più maggioritaria, e non solo come impiegati o collaboratori bensì come corresponsabili e addirittura come dirigenti di istituzioni religiose, a maggior ragione le comunità devono spiccare per la loro vita di comunione, in modo che questa si diffonda a modo di cerchi eccentrici nei gruppi dei corresponsabili e collaboratori e in quelli delle persone vicine alle presenze ed opere dei religiosi.

Ancora un altro tratto non indifferente della vita religiosa oggi è da evidenziare: quello della multiculturalità delle comunità, in una società sempre più pluriculturale. La testimonianza di comunità costituite da persone di età, origine, lingua, cultura, formazione e tradizioni diverse ed unite dalla fede, dalla speranza e dalla carità è un vero tesoro, tanto più che la tentazione della xenofobia si fa sentire sempre più fortemente. La comunità religiosa, inoltre, è un grande contributo che offriamo a questo mondo diviso dalla ingiustizia sociale, dai conflitti interetnici, e da certi modelli sociali, culturali ed economici che stanno distruggendo la solidarietà ed ipotecando per sempre la fraternità. Dio è comunità. Dio è amore. Ecco la buona novella! Ecco quanto siamo chiamati ad offrire per l’umanizzazione del mondo.