Esercizi Spirituali CG29 - Mistica della Missione

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ESERCIZI SPIRITUALI 2025

Capitolo Generale XXIX

LA MISTICA DELLA MISSIONE SALESIANA



Dopo la riflessione di ieri sulla prospettiva fondamentale della vita cristiana, cioè la fede nell’amore di Dio manifestato in Cristo, che abbiamo contemplato come l’elemento strutturale della dimensione mistica nella nostra esistenza cristiana, oggi iniziamo a riflettere su questa prospettiva entro l’ambito specifico della nostra vita religiosa salesiana.


Il primo articolo delle Costituzioni SDB dice: “Con senso di umile gratitudine crediamo che la Società di San Francesco di Sales è nata non da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio. Per contribuire alla salvezza della gioventù, ‘questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana società’, lo Spirito Santo suscitò con l’intervento materno di Maria, San Giovanni Bosco. Formò in lui un cuore di padre e di maestro, capace di una dedizione totale: ‘Ho promesso a Dio che fin l’ultimo respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani’. Per prolungare nel tempo la sua missione lo guidò nel dar vita a varie forze apostoliche, prima fra tutte la nostra Società …”

(C. 1).


Riconosciamo in questo fondamentale testo costituzionale, innanzitutto l’iniziativa di Dio; inoltre la finalità della nostra missione: essere segno ed espressione dell’Amore preveniente di Dio (cfr. anche CG XXII – XXIII); poi i destinatari preferenziali di detta missione; finalmente, il metodo per compierla: il sistema preventivo. Tutto ciò, visto in modo globale, ma anche in ognuno di questi elementi, richiama la dimensione mistica della missione, senza ignorare l’innegabile ascesi che essa implica.


Questo primo articolo è seguito immediatamente da altri due articoli molto importanti. L’articolo 2 sottolinea il primato della missione nella nostra vita: “Noi, salesiani di Don Bosco (SDB) formiamo una comunità di battezzati che, docili alla voce dello Spirito, intendono realizzare in una specifica forma di vita religiosa il progetto apostolico del Fondatore: essere nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani, specialmente ai più poveri.” (C 2) L’articolo 3 inoltre esprime lo stretto legame tra la missione apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli evangelici - “elementi inseparabili della nostra consacrazione, vissuti in un unico movimento di carità verso Dio e verso i fratelli” -; esso conclude dicendo: “La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto, specifica il compito che abbiamo nella Chiesa e determina il posto che occupiamo tra le famiglie religiose.”


1.- Dio vuole avere bisogno di noi


Vorrei cominciare con questo aspetto, che a mio avviso precede gli altri, anche se forse non è il più importante, proprio perché abitualmente lo presupponiamo. In fondo ciò significa che Dio, il Dio eterno ed onnipotente, vuole avere bisogno di noi per portare avanti il suo Progetto di salvezza. Chi siamo noi, per essere veramente utili a Dio, anzi necessari? Questa semplice costatazione dovrebbe riempire il nostro cuore di una immensa gioia, e anche, perché no? di un legittimo orgoglio.

Mi sembra che questo sia il senso più profondo del da mihi animas menzionato nell’articolo 4 delle Costituzioni, che è il nucleo della “mistica della nostra missione”, come lo è, d’altra parte, il “cetera tolle”, il nucleo della nostra ascesi salesiana.


Citando un famoso sogno di Don Bosco, approfondivo il senso di questa frase biblica (Gen 14, 21), la cui esegesi qui non ci interessa, affermando: “Il motto di Don Bosco è la sintesi della mistica e dell’ascesi salesiana, come viene indicato nel sogno dei dieci diamanti. Qui vengono incrociate due prospettive complementari: quella della faccia visibile del salesiano, che manifesta la sua audacia, il suo valore, la fede, la speranza, la carità come consegna totale alla missione; e quella del suo cuore nascosto di consacrato, costituita dalle convinzioni profonde che lo portano a seguire Gesù nel suo stile di vita obbediente, povero e casto”. In qualche maniera, dunque, possiamo dire che il da mihi animas costituisce la mistica della nostra vita e della nostra missione; e che il cetera tolle, l’ascesi che essa implica necessariamente.


Inoltre, dal punto di vista formale, il “da mihi animas” è una preghiera. Proprio perché è preghiera, fa comprendere che la missione non coincide semplicemente con iniziative educative, pastorali o di promozione sociale. La missione è dono di Dio, che vuol invitarci a collaborare con Lui; più ancora: così come senza di Lui non possiamo fare niente (cf. Gv 15, 5), così oserei affermare: senza di noi, Lui non vuole poter fare niente.

Ancora: è una preghiera di petizione: “dammi! ...” Chiediamo al Signore che ci dia i giovani e le giovani per salvarli. Siamo consapevoli di quel che rischiamo chiedendo a Dio le anime? Siamo coscienti della tremenda responsabilità che implica il nostro motto? Chiediamo a Dio nientemeno di affidarci “la porzione più delicata e preziosa dell’umana società: la gioventù!” Siamo all’altezza di questa domanda? Facciamo un esempio: siamo capaci di chiedere a una persona di affidarci tutti i suoi gioielli, perché ci sentiamo sicuri di poterne avere cura? È soltanto una pallida immagine del rischio che implica la nostra Missione, quando chiediamo a Dio la fiducia di affidarci i giovani, perché ci sentiamo sicuri di non fallire.


Ci sono molti altri testi delle nostre Costituzioni che presuppongono questa convinzione, anche se non viene esplicitata. Cerchiamo di approfondire adesso il contenuto di questa collaborazione con Dio.


2.- Da mihi animas!


Quest’espressione, in senso letterale, può dar motivo a malintesi. Infatti, non rispecchia forse una dicotomia, come se volessimo soltanto “salvare l’anima” e non tutta la realtà della persona? Questa obiezione, teoricamente, può essere valida; ma alla luce del lavoro degli SDB e anche delle FMA lungo la storia e la geografia del Carisma Salesiano, è smentita dal lavoro realizzato, sempre cercando il bene della persona integrale e di tutte le persone, specialmente i giovani e le ragazze, in particolare i più bisognosi. Non penso che ci sia stata nessuna comunità salesiana che abbia lavorato soltanto per la salvezza delle anime, dimenticando la promozione integrale dei nostri destinatari: in questo senso, possiamo dire che l’espressione “da mihi animas” intende designare la persona nella sua totalità.


Ma veramente, non significa nulla di più la parola “anima”? Mi sembra che significhi qualcos’altro; altrimenti, invece di rispondere alla domanda, la staremmo evadendo. Se soltanto significasse la promozione della persona nella sua integralità, non saremmo diversi da tante altre istituzioni che lavorano nella stessa direzione. Come avevo scritto in una delle mie prime lettere e come ha detto anche Papa Francesco, diventeremo soltanto una ONG.


La risposta la troviamo nell’articolo 5 delle nostre Costituzioni, anche se alle volte può passare inavvertita. Leggiamo: “Da Don Bosco trae origine un vasto movimento di persone che, in vari modi, operano per la salvezza delle gioventù”. La parola “animas”, più che designare una parte della persona, indica piuttosto la prospettiva secondo cui lavoriamo, o la finalità ultima della nostra missione educativa ed evangelizzatrice. In molti altri testi delle Costituzioni troviamo questa convinzione. Tale parola implica il dono della ‘predilezione’ per i giovani e ci impegna a farci per loro, alla scuola di Maria, segno e mediazione della carità di Cristo Buon Pastore, attraverso un progetto cristiano di educazione integrale nello stile del Sistema Preventivo. Soltanto quando lavoriamo per la salvezza della gioventù, il nostro lavoro diventa esperienza di Dio e assume una dimensione mistica. Don Bosco, in uno dei pochi testi dove “apre il suo cuore” ed esprime la sua esperienza spirituale, afferma: ‘Quando mi sono dato a questa parte del sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita. Così sia”.


Non è inutile ricordare che la salvezza non significa arrivare con difficoltà e con il minimo in paradiso. In questo senso, l’ideale del nostro lavoro educativo ed evangelizzatore è la santità; anzi, la divinizzazione dei nostri ragazzi, la “misura alta” di cui parla san Giovanni Paolo II in Novo Millenio Ineunte (nn. 30-31) come mèta e programma di tutta l’azione della Chiesa.


Questo mi sembra molto chiaro e indiscutibile nell’esperienza di Don Bosco e di tutti i Salesiani delle origini. I ragazzi che accoglievano non provenivano, in nessun senso, da ambienti “privilegiati”. L’educazione salesiana parte da una convinzione: tutti siamo chiamati alla santità, che è la pienezza dell’amore a Dio e al prossimo; e dobbiamo avere il coraggio di offrire questo ideale anche agli adolescenti e ai giovani, che possono fare un cammino spirituale analogo a quello dei santi adulti. Questo cammino, orientato dalla guida spirituale, conduce all’assunzione oblativa e gioiosa di sé nel quotidiano, e trova i suoi momenti di forza nella preghiera, nei Sacramenti e nella devozione mariana; si esprime nell’attenzione caritativa verso il prossimo, in un vissuto allegro e dinamico: “noi facciamo consistere la santità nel essere sempre lieti”.



3.- Segni e portatori dell’Amore preveniente/preventivo di Dio (C 2)


Approfondendo la nostra Missione, troviamo tre parole fondamentali, che potrebbero sembrare sinonimi: espressione - manifestazione – esperienza; quest’ultima parola, che ha molteplici significati, qui mi sembra si debba intendere come essere percepito/compreso).


All’esperienza umana della realtà dell’amore possiamo applicare, in maniera analoga, le parole di Giovanni: “L’amore (in quanto tale), nessuno lo ha mai visto” (Gv 1, 18). Perciò, l’amore tende a manifestarsi; questo non soltanto perché se non si manifesta non è percepito, ma soprattutto per il bene che rappresenta per la persona amata (e proprio perché l’amiamo, vogliamo per essa tutto il bene possibile); inoltre, perché non può darsi una risposta di amore se questo non si percepisce.


Questo approccio ci porta a una fenomenologia dell’amore che molte volte viene dimenticata o almeno alla quale non diamo importanza: si tratta di collocarci non tanto dalla prospettiva dell’amare (voce attiva), ma, come dicevamo prima, in quella dell’essere/sentirci amati (voce passiva). Questo malinteso si fa presente anche nella vita cristiana, proprio perché molte volte questa è vissuta più come un amare Dio, piuttosto che come essere amati da Lui. Fin d’adesso possiamo affermare il punto centrale della nostra riflessione: Dio ama tutti gli esseri umani e ama ognuno come se fosse l’unico; il problema è che non tutti lo sappiamo. In particolare, per la nostra sensibilità carismatica, soffriamo per tante ragazze e ragazzi che non si sentono amati da Dio, principalmente a causa della situazione strutturale in cui vivono, come “poveri, abbandonati e in pericolo”. Se la “qualifica” è socioeconomica, la prospettiva è teologica: la loro salvezza è in pericolo. Non è veramente affascinante poter dire a un/a giovane: Rallegrati, Dio ti ama!? In certo senso, questo è l’aspetto tipico della mistica del nostro Carisma.

Riprendendo questa prospettiva, cioè l’esperienza “passiva” di essere/sentirci amati, dice nientemeno che Jean-Paul Sartre: “Questo è il nucleo della gioia dell’amore: noi ci sentiamo giustificati di esistere”. Al riguardo Josef Pieper commenta: “È evidente quindi che non ci basta esistere semplicemente: ciò che per noi è importante, al di là di questo semplice fatto, è la conferma esplicita: “È buono che tu esista, com’è meraviglioso che tu ci sia! (…) Noi diciamo: una persona ‘fiorisce’, ‘sboccia’, quando le succede di essere amata; soltanto allora essa diviene completamente se stessa, incomincia per lei una ‘nuova vita’”.


Tutti noi, penso, abbiamo vissuto questa esperienza con i ragazzi e le ragazze nel nostro lavoro educativo e pastorale; e ciò costituisce una delle gioie più profonde e autentiche. Detto altrimenti: mentre non ci sentiamo amati da nessuno, ‘sentiamo vergogna’ di essere in questo mondo, come se fossimo in una festa alla quale non siamo stati invitati; ma, appena una persona ci ama, come diceva Sartre, “sentiamo giustificata la nostra esistenza”; e nell’esperienza pedagogica, il cambiamento (anche esterno) diventa molte volte straordinario.


Se vogliamo approfondire la fenomenologia dell’amore, è necessario riprendere la differenza tra espressione e manifestazione. L’espressione sgorga immediatamente dall’amore stesso, e pertanto, è più legata a chi ama; la manifestazione, invece, riguarda soprattutto chi riceve l’amore, adattandosi a lui, e precisa e “spiega” l’espressione, essendo più legata alla parola.


Possiamo fare un piccolo schema su questa dinamica dell’amore:


realtà - espressione - manifestazione - ricezione - risposta.


Tutto questo ha nel nostro Carisma, e proprio nella realizzazione della nostra Missione, una straordinaria applicazione, come ben possiamo immaginare.


Se vogliamo riferire tutto ciò alla nostra fede, possiamo dire che tutto quello che Dio ha creato, cominciando da noi stessi e dalla vita che Lui ci dà, e tutto quello che troviamo attorno a noi, questo mondo meraviglioso, tutto è espressione indubitabile ed eloquente del suo Amore verso di noi. Tuttavia, la domanda decisiva è: veramente possiamo comprendere la Creazione, la nostra vita, la nostra storia, come espressione dell’Amore di Dio?


Ritornando all’esperienza umana, quante volte diventa difficile percepire un atteggiamento dell’altro come espressione del suo amore, se manca la manifestazione (in primo luogo, come dicevamo prima, attraverso la parola) che permetta di stabilire questo rapporto dinamico!


Oserei dire che la Creazione e la Storia (intesa come storia universale, ma anche come la mia storia, quella di ogni uomo nel mondo) sono soltanto un’espressione che non ci parla dell’Amore di Dio, ma in ogni caso, della sua Onnipotenza e della sua Sapienza infinita…


Per questo, - e insisto - “in chiave salesiana” ciò ha per il nostro Carisma una grande rilevanza: Dio non si è accontentato di amarci, ma ha voluto manifestarci il suo Amore non “dandoci cose”, ma donandoci Se stesso nel suo Figlio, Gesù Cristo.


Dunque, il nostro Dio Trino, Amore perfetto, non si è accontentato con l’amarci, e neanche con l’espressione del suo Amore; il “non basta amare” possiamo applicarlo teologicamente, in primo luogo, a Dio stesso; Egli ci ha manifestato questo Amore infinito diventando Uno di noi, Gesù. Esagerando un po’, direi che, quando il Padre invia il suo Figlio nel mondo come espressione suprema del suo Amore, per opera dello Spirito Santo, gli da questa consegna: Studia di farti amare!


Tutto questo può trovarsi con nitidezza, anche se con parole completamente diverse, nella famosa “Lettera da Roma” di Don Bosco, del 10 maggio 1884. Gli ex-allievi dei primi tempi di Valdocco non accusano i salesiani del Valdocco di quel tempo di mancanza di amore, e neanche dell’assenza dell’espressione di questo amore educativo-pastorale; Don Bosco stesso li difende fortemente: “Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumino i loro anni giovanili per coloro che ad essi affidò la Divina Provvidenza?” “Vedo, conosco, ma manca il meglio: che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati”.


In tutto questo sta la centralità del Sistema Preventivo, secondo cui noi assomigliamo a un Dio che non ha aspettato il nostro amore, ma che ci “ha amati per primo” (1 Gv 4, 19). In fondo, questo sistema ha le sue radici in Dio stesso: il carattere preveniente/preventivo del suo Amore possiamo sintetizzarlo in una meravigliosa parola (anche se troppe volte minimizzata, e persino malintesa): GRAZIA. In questo senso, possiamo comprendere il titolo che nel vangelo di Luca viene dato a Maria, la giovane di Nazareth: “piena di Grazia” (κεχαριτωμενη) come Chi ha ricevuto in pienezza questo amore di Dio Trino. In Maria Immacolata Ausiliatrice, è stato detto in maniera molto bella, troviamo “il frutto più perfetto del Sistema preveniente/preventivo di Dio”.


A modo di conclusione:

La missione, partecipazione della missione di Cristo che ci ha chiamati e inviati, è stata ritenuta sempre come un elemento d’identità della vita consacrata ed è sempre comunitaria. “Chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-15). Anzi, agli occhi del mondo la missione è ciò che rende la vita religiosa rilevante ed efficace.

Occorre però distinguere bene tra missione e fini specifici della vita religiosa. La missione non consiste nel fare cose, anche se abbaglianti, ma essenzialmente nell’essere segni dell’amore di Dio nel mondo. I fini specifici invece s’identificano con l’azione pastorale, di educazione o di promozione umana che i religiosi svolgono nei diversi campi della vita umana. Non s’identifica dunque l’essere con il fare, e il fare deve essere espressione e conseguenza dell’essere.

In effetti la missione altro non è che l’espressione storica dell’amore salvifico di Dio concretizzata nell’invio del Figlio, nell’invio che Gesù fa del suo Spirito, nell’invio dello Spirito Santo agli apostoli. La consapevolezza d’essere inviati ci mette in guardia contro la tentazione di voler impadronirci della missione, dei suoi contenuti, dei suoi metodi, dei destinatari specifici, e di disporre di essa invece di essere noi disponibili per essa.

Appunto perché annunciamo un Altro e offriamo la sua salvezza, non possiamo annunciare noi stessi e i nostri progetti. Il nostro compito è di rendere presente la salvezza di Dio, l’essere suoi testimoni. Questa missione coinvolge tutta la nostra esistenza e ci libera dal rischio non immaginario del funzionalismo, dell’attivismo e del prometeismo.

Il vangelo di Giovanni esprime in modo incomparabile l’amore di Dio nella missione del Figlio quando, a seguito dell’incontro di Nicodemo con Gesù, questi afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Il vangelo di Marco da parte sua conclude il brano della disputa degli apostoli sul problema dell’autorità con la chiave di lettura che Gesù dà della sua esistenza umana: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

Questa è la missione di Gesù e anche quella della vita consacrata salesiana a favore dei giovani, specialmente i più poveri, abbandonati e a rischio. Questo è il vangelo e questa la buona notizia che siamo chiamati a proclamare ed incarnare per riempire di speranza il mondo.


È evidente che, nella misura in cui possiamo vivere la nostra Missione salesiana, non soltanto faremo sì che si sentano felici le nostre ragazze e i nostri ragazzi, ma che anche noi viviamo in maniera piena questa mistica della Missione, e possiamo diventare in pienezza, come i nostri Santi Fondatori e tanti santi e sante nella nostra Famiglia, santi e felici.


Per la vostra lettura, riflessione, preghiera e revisione di vita, vi offro questo testo di don Egidio Viganò:


Missione giovanile


Un'altra componente del nostro carisma è la missione giovanile, ossia la nostra partecipazione alla missione della Chiesa per la salvezza del mondo.
Don Bosco diceva: «Mi basta sapere che siete giovani per amarvi».
La nostra alleanza con Dio e lo spirito salesiano sono vissuti nella prassi della missione giovanile; il cuore del Salesiano è fatto in tal modo che sente in sé una specie di passione interiore, una inclinazione, un gusto, una gioia, un entusiasmo, una capacità di sacrificio che lo sospingono continuamente tra i giovani. Don Albera l'ha definito magnificamente in una delle sue ultime circolari dell'anno 1920 con l'espressione «il dono della predilezione verso i giovani».


La missione, prima di avere un posto dove operare, dei destinatari a cui servire, è anzitutto un atteggiamento interiore per cui quello spirito, quell'alleanza con Dio di cui abbiamo parlato, si incarnano in noi come una santa passione.


Si tratta di un «dono» dello Spirito Santo e non solo di una inclinazione naturale!
Ascoltate che cosa dice don Albera: «Non basta sentire per loro una certa qual naturale attrazione, ma bisogna veramente prediligerli. Questa predilezione, al suo stato iniziale, è un dono di Dio, è la stessa vocazione salesiana, ma spetta alla nostra intelligenza e al nostro cuore svilupparla e perfezionarla». Una simile predilezione porta a dedicarsi pienamente ai giovani, quasi senza avere tempo per occuparsi di altre cose.
In una intervista a Torino alcuni mesi fa, Messori mi ha chiesto: «Che cosa fate voi nel Cile con Pinochet o in Polonia con Gierek? Non alzate la voce, non fate valere i diritti dell'uomo?».

La prima cosa che facciamo - mi è sfuggito subito - è di amare tanto i giovani da evitare di essere allontanati da loro: per poterli educare, per costruire con loro la capacità di amare e di difendere i diritti dell'uomo. Che cosa ci guadagniamo a fare un bel discorso a pistolotti1 che appare sui giornali, se poi ci facciamo cacciare via? Se verrà il momento in cui ciò sarà necessario lo si farà anche; però spesso è abbastanza facile fare della profezia a buon mercato, lasciando poi i giovani alla deriva. Dobbiamo cercare di fare tutto il possibile realisticamente, in concreto, per salvare la gioventù. E per questo agiamo come don Bosco: non possiamo avere professori senza titoli? Prenderemo titoli. Bisogna andare all'Università? Andremo all'Università. L'Università è anticlericale? Non importa, manderemo i migliori. Si perderà qualcuno? Pazienza (E. Viganò, Non secondo la carne ma nello Spirito, pro manoscritto, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1978, 95-96).


1 pistolòtto s. m. [der. di epistola, pìstola]. – 1. scherz. Lettera o, più frequentemente, discorso d’esortazione morale o di rimprovero: m’ha fatto un p. che non finiva più. Più genericam., discorso retorico o brano retorico di un discorso: p. finale. 2. Nel linguaggio teatrale, il pezzo declamatorio che provoca l’applauso a scena aperta.