Buonanotte don Fabio Attard – Rettor Maggiore
25.03.2025
Cari confratelli,
in questo momento, così intensamente umano, desidero condividere con voi tre riflessioni che nascono da un sentimento di profonda gratitudine e consapevolezza. La dimensione personale, pur reale e toccante, è solo un frammento di una realtà molto più ampia: oggi, il centro non è la mia persona, ma la Congregazione salesiana. È essa il vero soggetto protagonista, che con il gesto compiuto oggi testimonia non solo vitalità, ma anche il desiderio che questa vitalità si protragga nel tempo.
Siamo parte di una dinamica più grande di noi, nella quale uomini e donne vengono chiamati, per un tempo, a servire dove altri seguiranno, assumendo lo stesso mandato. In questa storia profondamente umana, lo Spirito di Dio continua a parlare, a creare, a redimere, a santificare. È una storia abitata dal Dio trinitario che ci interpella, noi salesiani di Don Bosco, affinché restiamo aperti alla sua azione salvifica, che ha in Gesù Cristo il principio e il compimento.
Questa mattina, riflettendo su ciò che poteva accadere — e che poi è accaduto — mi sono chiesto: “Cosa sta dicendo il Signore con tutto questo?”. Ho seguito, come tanti confratelli nel mondo, il cammino di questo Capitolo Generale, riconoscendo un desiderio autentico di ascolto dello Spirito. Fin dall’inizio, le riflessioni di Don Pascual Chávez mi hanno molto aiutato; esse risuonavano profondamente in me, in continuità con quanto mi confidava Don Ángel nel settembre 2023, quando fu annunciato il tema del Capitolo: “Appassionati di Gesù Cristo, dedicati ai giovani, per una fedeltà profetica”.
Ricordo bene quel momento: eravamo nella scuola di accompagnamento con il coadiutore Raymond Callo, impegnato in un lavoro eccezionale della Scuola di Accompagnamento Spirituale Salesiano, e Don Ángel venne a salutare i partecipanti. Colsi l’occasione per ringraziarlo. A mio avviso, quel titolo era — ed è — profondamente azzeccato: riassume ciò che stiamo vivendo, ascoltando, cercando. È interessante osservare come gli ultimi tre Capitoli Generali abbiano affrontato, in modi diversi, la questione dell’identità del Salesiano. Dal 2014 con “Mistici, Profeti e Servi”, passando attraverso il tempo complesso della pandemia, siamo giunti alla riflessione su “Quale salesiano per i giovani di oggi?”
Occorre leggere la scelta del Capitolo Generale non tanto come espressione di una preferenza personale — seppur legittima — ma come adesione a una chiamata condivisa, che interpella ciascuno di noi. Non è tanto rilevante chi viene scelto, quanto il modo con cui tale servizio viene assunto, lo spirito con cui ci si mette a disposizione, il desiderio che anima chi è chiamato. Che si tratti di Fabio o di un altro confratello, la sostanza non cambia: la Congregazione è più grande del suo Rettor Maggiore, pur rimanendo vero che il Rettor Maggiore ha un ruolo significativo.
Don Pascual ha più volte sottolineato come oggi, noi Salesiani, siamo chiamati a vivere il carisma in modo autentico, evitando il rischio delle “fotocopie pastorali”. Papa Francesco ci ricorda che il semplice ripetere ciò che si è sempre fatto non è più sufficiente. Il pericolo più grande, tuttavia, non sta nell’ignorare questa consapevolezza, ma nel restare bloccati a livello teorico. Sapere le cose a livello intellettuale, sociologico, analitico, non equivale a viverle in modo profetico e fedele. E proprio in questa tensione si colloca il mio pensiero per noi, oggi.
Insieme — e dico “insieme” come lo avrebbe detto Don Bosco — siamo chiamati a riscoprire, prima di tutto, una passione per Dio. Senza questa, viene meno anche la passione per l’uomo. E poiché la natura non tollera il vuoto, quando manca la passione per Dio, subentra inevitabilmente l’egoismo. Altro che servitori: diventiamo persone che si servono del proprio ruolo.
Da qui nasce il secondo punto della mia riflessione, collegato alla Parola che ci è stata proclamata: “Siamo gli ultimi chiamati per servire”.
Da anni, ogni sabato sera, nella celebrazione dei Vespri, medito il cantico della Lettera ai Filippesi: il mistero della kenosi, lo svuotamento del Figlio di Dio, che assume la forma di servo per servire, per immedesimarsi, per incarnarsi. Questa mattina, provvidenzialmente, la lettura breve delle Lodi ci riportava a questo stesso mistero, nella festa dell’Annunciazione: non celebriamo uno spettacolo divino che irrompe nella storia, ma contempliamo con umiltà e intelligenza il mistero dell’Incarnazione, che ci coinvolge profondamente, personalmente.
Dio si è fatto carne affinché, nella mia carne, nella mia storia, possa vivere e agire quella stessa forza d’amore. Questo amore ricevuto, oggi, nel cambiamento d’epoca di cui parla Papa Francesco, siamo chiamati a condividerlo. È qui che si gioca il nostro servizio educativo pastorale: in quale direzione ci muoviamo? In senso verticale, come se fossimo benefattori, padroni, provveditori di servizi? O in senso evangelico, come autentici servitori?
Ricordo con gratitudine una frase di Don Viganò in una delle sue lettere: parlava della necessità di unire la carità pastorale all’intelligenza pedagogica. È un binomio che ci guida, una grazia di unità che ci mantiene fedeli alla nostra vocazione salesiana.
In questo momento particolare che il Capitolo sta vivendo, siamo immersi nel cuore stesso del carisma. È bello constatare, anche da chi segue da lontano, quanto il lavoro di comunicazione stia rendendo visibile ciò che qui si sta costruendo qui. È un segno molto positivo. Ora, la vera domanda che ci interpella è: riusciremo a portare tutto questo nelle Ispettorie? Riusciremo a incarnare questa chiamata in un contesto radicalmente nuovo?
Se il tempo è nuovo, non lo è la sete di significato che lo attraversa. Essa è antica, costitutiva dell’uomo. E chi, come noi, ha avuto il dono di conoscere il mondo, sa che oggi i giovani vivono realmente in un “villaggio globale”. Le domande che ho ascoltato in Vietnam sono le stesse che ho colto in Brasile. Le stesse domande, gli stessi interrogativi che ho raccolto lo scorso anno a Madrid, nell’Ispettoria di Santiago il Maggiore, li ho ritrovati pochi mesi fa a Bangalore.
Giovani cristiani, giovani cattolici, ma anche giovani di altre religioni o senza appartenenze religiose, che tuttavia entrano in relazione con noi: riconosciamo che tutti portano nel cuore una sete. La domanda che dobbiamo porci è: siamo in grado di ascoltarla davvero questa domanda? La risposta è sì, soltanto se accettiamo di essere servi. Solo allora potremo cogliere quella sete e per conseguenza creare quelle condizioni — persone, luoghi, proposte — affinché essa sia riconosciuta, accolta, e possibilmente anche dissetata, almeno con “un bicchiere d’acqua” che rompe la sete.
Il cambiamento d’epoca, allora, non è una minaccia, ma una straordinaria opportunità. Durante alcune visite in contesti dove i cristiani sono minoranza — paesi musulmani, buddisti, induisti, agnostici — ho toccato con mano una simpatia straordinaria per Don Bosco. Una simpatia non superficiale o emotiva, ma profonda, intelligente, affettivamente sana. Essa nasce da una ricerca autentica del vero, del bello e del buono.
Ecco la novità del nostro tempo. Avanti, dunque! Non possiamo perdere questa occasione. La misura della nostra passione per Cristo indicherà il grado della nostra dedizione ai giovani. La nostra fedeltà sarà la colonna vertebrale della nostra profezia. Non ci sono altre vie.
Infine, non possiamo dimenticare i nostri fratelli salesiani che oggi vivono in contesti di guerra. Durante l’ultima Visita Ispettoriale che ho fatto, ho avuto il dono di trascorrere del tempo con padre Thomas Uzhunnalil, rimasto per 557 giorni ostaggio. La sua serenità, la sua profondità spirituale, la sua vita di preghiera sono testimonianza viva. Sono persone davanti alle quali occorre inginocchiarsi.
Abbiamo, grazie a Dio, tanti Salesiani come padre Thomas: confratelli che non hanno abbandonato terre segnate dalla violenza e dalla sofferenza. Sono rimasti, a testimoniare che per Gesù Cristo vale la pena essere oggi Don Bosco per i giovani. Come potremmo dimenticare la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, il Libano, il Myanmar, il Sudan, l’Etiopia, la Repubblica Democratica del Congo? Questi fratelli hanno bisogno della nostra vicinanza spirituale. Sono i martiri del nostro tempo, testimoni silenziosi e fedeli della speranza cristiana.
Questa mattina, quando Don Stefano mi ha rivolto la domanda decisiva, tutto è sembrato aprirsi come una storia imprevedibile, quasi un’avventura. Ho scombussolato ogni programma, altro che ordine alle dieci e mezza che avevate preparato! Ma va bene così. Mi sono profondamente commosso, non tanto per la stima personale — che pure mi onora — ma per la fiducia che la Congregazione ha voluto esprimere. Una fiducia che non nasce da un’idea astratta, ma da un cammino condiviso. Lo dico con libertà: non la merito. Ma questa è la nostra Congregazione.
E con questo stesso spirito vogliamo lasciarci accompagnare nei prossimi giorni. Servire significa innanzitutto vivere ciò che si annuncia. Deve essere visibile, credibile. E tutto questo inizia da noi, dal Consiglio Generale. Siamo chiamati ad essere segno di sinodalità, di comunione, di fraternità. Siamo chiamati a essere padri. Siamo lì per servire. Nient’altro.
Oggi, Don Bosco siamo noi. Oggi, Don Bosco ci ripete: coraggio!.
In questi giorni stavo leggendo alcune pagine del secondo volume di Don Pietro Braido, dedicate all’anno 1875 — anno che oggi celebriamo nel centocinquantesimo anniversario delle missioni. Don Bosco, in quel tempo, aveva numerosi fronti aperti: il consolidamento delle Costituzioni, la fondazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, i Cooperatori, le missioni, l’apertura in Francia, le difficoltà con Gastaldi… Eppure andava avanti, e andava avanti.
Questo è Don Bosco. E questo siamo noi oggi.
Vi chiedo una sola cosa: pregate per me. Mi avete affidato un peso. Ne parlavo questa mattina con il mio direttore spirituale. Mi ha detto: “Vai, avanti. Il Signore te lo chiede. Vai.” E io vado, ma vi chiedo: accompagnatemi con la preghiera. Questa non è un’impresa umana.
Pregate anche per coloro che eleggerete nel Consiglio Generale: perché siamo una comunità, perché siamo fratelli, perché possiamo davvero servire gli uni gli altri, ascoltarci, sognare insieme. Entrare in quello spazio sacro dove non servono i sandali, per essere liberi nell’ascolto e pronti a portare avanti il progetto del Capitolo Generale con gioia e ottimismo.
Viva Don Bosco!