Recensioni
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QUINZIO Sergio, Domande sulla santità. Don Bosco, Cafasso, Cottolengo. Torino, Edizioni
Gruppo Abele 1976, 89 p.
Si può supporre che S. Quinzio voglia in qualche modo fare « storia »; poiché
informazioni e valutazioni sembrano collocarsi prevalentemente su tale piano. Ma i « filtri »
adottati — la decennale esperienza « educativa » vissuta tra i salesiani ad Alassio e, ancor più,
il tipo di « theologia crucis » cui aderisce — rendono difficile un discorso che riguardi
semplicemente la storia e non soprattutto la teologia.
Si può essere d'accordo con Quinzio, quando afferma (ma il suo avvertimento arriva
piuttosto in ritardo): «Credo che un'interpretazione diretta, frontale, dei cosiddetti "santi sociali
piemontesi" dell'Ottocento, che insista sulle loro benemerenze, sulle loro intuizioni
precorritrici, sui preziosi frutti della loro opera, ci porti su una strada sbagliata » (p. 86). Ma chi
segue ancora questa via?
Si può anche condividere quanto scrive due pagine più avanti: « I santi del secolo scorso,
che abbiamo ricordato, non hanno inciso che minimamente sul grande corso della storia
successiva: le scuole professionali, gli artigianelli, appartengono alla patetica storia
paleocapitalistica. Il loro drammatico senso dell'incombere del peccato, la loro esigenza di
rigore morale, non hanno avuto seguito, neppure nella Chiesa, dove la riflessione teologica e la
prassi si sono sviluppate in una direzione che li avrebbe fatti inorridire » (p. 88).
Ma bisognerebbe riflettere se sia soltanto questo il messaggio che essi hanno trasmesso,
più con la vita vissuta che con le formule libresche, più tramite la viva esperienza personale e
istituzionale che mediante detti e scritti (per questi, però, converrebbe non attribuire a Don
Bosco quanto è di autori contemporanei, forse nemmeno a lui noti: cf. per esempio Istruzioni
semplici che possono servire di metodo di vita cristiana, citato e commentato a p. 38). « Santi
della carità » (meglio che « santi sociali ») essi hanno trovato d'istinto vie più vere e
comprensibili che non formule lette, scritte o dette, per incontrarsi con i «poveri»: giovani,
malati, carcerati. Non hanno proposto riforme di struttura (è uno dei loro limiti?), non hanno
saputo far concorrenza a Marx con « manifesti » socio-politici: hanno dato semplicemente tutto
ciò di cui erano capaci e hanno lanciato « con le opere » un messaggio di carità, virtualmente
carico di qualsiasi legittimo sviluppo; se uno tenta di penetrarne lo « spirito » raggiunge la
certezza che non avrebbero « inorridito » né del Vaticano II, né delle più avanzate e corrette
teologie della sessualità e della « liberazione ». Del resto, nella complessa esperienza umana e
cristiana da loro concretamente vissuta non è fattore essenziale né l'ossessione del « peccato
innominabile » né il conformismo dinanzi alla Sacra Real Maestà (non è neppure lecito
mitizzare « la precoce e pietosa vecchiaia di don Bosco »; i due estremi di una storiografia
favolistica: il giovane saltimbanco dei Becchi e di Chieri, il crocifisso vegliardo al tramonto).
A conclusione, però, vanno raccolte due affermazioni, preziose e fondamentali, che
offrono altrettanti criteri « storici » per rispondere con più sicura fedeltà alle domande sulla
santità di Don Bosco, Cafasso, Cottolengo: 1) « in Don Bosco, in Cafasso, in Cottolengo, e in
altri simili a loro, l'azione precede la riflessione e non le lascia troppi spazi. Sono uomini che
fanno, che si prodigano pungolati da un istinto, che non è semplicemente deducibile dalle loro
concezioni, dalla loro teologia, la quale anzi, qualche volta, sembra addirittura contraddirli » (p.
26). 2) « Credo poi che, a nostra volta, ci si debba guardare dall'assolutizzare il nostro punto di
vista.