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FONTI
DAL PIEMONTE ALLA VALLE D’AOSTA,
DA ROMA A BUENOS AIRES.
La clandestinità del quadrumviro Cesare Maria De Vecchi
di Val Cismon in una memoria di don Francesco Làconi
Francesco Motto
I. INTRODUZIONE
“Dissi a lui (e la sua bontà mi permise di dirglielo in piemontese) che aveva
fatto la parte di padre, che era stato con noi in questa circostanza un vero padre. E
sono lieto di ripetergli oggi le stesse parole. Ci ha circondati di tanta bontà, ci ha
aperto tante vie, è stato tanto buono in tutte le circostanze con noi che non sapremo
mai come pagargli il nostro debito di riconoscenza1.
Il Rettor maggiore dei salesiani, don Pietro Ricaldone, non poté non essersi ri-
cordato di queste sue parole rivolte pubblicamente l’8 aprile 1934 al conte Cesare
Maria De Vecchi di Val Cismon – noto quadrumviro della marcia su Roma e primo
ambasciatore del regno d’Italia presso la Santa Sede – allorquando all’inizio di
ottobre di nove anni dopo i figli del conte si precipitarono a Torino-Valdocco per
chiedergli urgente protezione per il padre ricercato dalla polizia di Torino.
Don Ricaldone gliela concesse, in Piemonte, a Roma, in Argentina, per ben sei
anni, anche se invano si cercherebbe nelle cronache delle singole case salesiane il
nome di De Vecchi. Tale silenzio è più che comprensibile, perché il personaggio, ri-
cercato per opposti motivi dai partigiani e dai nazifascisti, alla fine di settembre 1943
aveva dovuto entrare in clandestinità. Sarebbe stato oltremodo pericoloso per lui, non
meno che per i suoi protettori, registrare quella ospitalità o anche annotare qualche
particolare che potesse alludere alla medesima.
Oggi però che il recupero di alcune fonti coeve2 e di numerose testimonianze
orali di protagonisti3 viene a confermare e completare un dettagliatissimo resoconto
1 Dal discorso di ringraziamento tenuto da don Ricaldone a Torino-Rebaudengo in oc-
casione delle celebrazioni torinesi della canonizzazione di don Bosco (8 aprile 1934): Il cor-
sivo è del redattore.
2 Conservate nella sezione dell’ASC aperto alla consultazione e che verranno regolar-
mente citate.
3 Oltre una decina, fra salesiani, FMA e laici tutti viventi, ad eccezione di don Giacomo
Lorenzini (1909-2001) e di don Mario Grussu (1912-1996), un coprotagonista, quest’ultimo,
che verrà più volte citato.

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310 Francesco Motto
della prima fase di tale protezione4, ci è possibile effettuare un’ampia e sicura rico-
struzione della pericolosissima operazione, nota finora soltanto in estrema sintesi e
con notevoli imprecisioni anche nella più recente pubblicistica5. Analoghe impreci-
sioni sono tuttora diffuse nella vulgata salesiana, figlia più del sentito dire che di
quanto effettivamente accaduto.
Il nome di De Vecchi era stato appena accennato da parte nostra nell’ambito del-
l’opera di soccorso prestata indistintamente a chiunque fosse in pericolo dai salesiani di
Roma nel periodo dell’occupazione tedesca e nel periodo immediatamente successivo6.
Ci sembra ora giunto il momento di completare la cronaca di tale “avventura”
cogliendo anche l’occasione del 50° della morte di don Ricaldone, il cui intervento
ebbe a proteggere molte altre vite, non solo il De Vecchi, anche se questi rimane forse
il “salvataggio” più famoso.
Ovviamente non è obiettivo di un’edizione come la presente entrare nel merito
dell’intreccio fra classe dirigente politica nazionale, mondo vaticano e salesiani, a pro-
posito della protezione da questi ultimi accordata a personalità compromesse con l’or-
dine del giorno Grandi (Grandi, Federzoni, Rossoni, De Vecchi, ecc.) nel delicato pe-
riodo immediatamente successivo al 25 luglio 1943, così come per altro a perseguitati,
partigiani, renitenti alla leva, ricercati politici, ebrei, antifascisti ecc. La ricerca su tale
notevole coinvolgimento salesiano è solo ai primi passi e qualunque giudizio dovrà ne-
cessariamente collocarsi nell’ampio quadro dell’analogo intervento di altri istituti reli-
giosi, di altre istituzioni ecclesiastiche e della stessa Santa Sede.
In attesa di conferme, rimane valido quanto si è già affermato: l’offerta di spazi di
asilo e di aiuto per persone a rischio di cattura e di condanna da parte di un potere poli-
tico e giudiziario per lo più giudicato con severità, e talora illegittimo, si inserisce nella
scelta di fondo fatta dai salesiani (e da altri) con l’avvallo tacito della Santa Sede7: quel-
la di rispondere in tal modo agli imperativi dei tempi e agli obblighi della carità cristia-
na. Se poi a tali ragioni umanitarie e cristiane si aggiungono ragioni di frequentazione di-
retta delle persone e delle loro famiglie, come, ad esempio nel caso di De Vecchi e di Fe-
derzoni, per i salesiani, le zone d’ombra da chiarire si riducono di molto.
4 Edito al termine di questa introduzione. Ci sembra inutile ribadire qui i ben noti limiti
della memorialistica di guerra, che del resto abbiamo già evidenziati altrove: v. nota 6.
5 Così ad es. Cesare Maria DE VECCHI DI VAL CISMON, Il quadrumviro scomodo. Il vero
Mussolini nelle memorie del più monarchico dei fascisti, a cura di Luigi Romersa. Milano,
Mursia editore 1983, pp. 269-273; P. STELLA, La canonizzazione di don Bosco fra fascismo e
universalismo, in F. Traniello (a cura di), Don Bosco nella storia popolare. Torino, SEI 1987,
pp. 376-378.
6 Semplici cenni al caso in questione si possono reperire in due nostri studi apparsi su
“Ricerche Storiche Salesiane” numero 24 (1994), numero 35 (1999) e successivamente raccolti
nel volume: F. MOTTO, “Non abbiamo fatto che il nostro dovere”. Salesiani di Roma e del La-
zio durante l’occupazione tedesca (1943-1944). Roma, LAS 2000, p. 70, n. 258 e p. 148, n. 8.
7 Al riguardo la non esistenza di alcunché di scritto da parte della Santa Sede non si-
gnifica di per sé inesistenza assoluta di tale volontà di protezione; potrebbe invece essere stata
saggia decisione di non produrre prove inoppugnabili di un’attività clandestina. Il fatto però
che tale volontà non sia mai stata apertamente espressa può facilmente portare, per l’ambito
ebraico, alle conclusioni cui arriva, utilizzando anche ricerche di chi scrive, Susan ZUCCOTTI,
Il Vaticano e l’olocausto in Italia. Milano, Bruno Mondadori 2001.

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 311
I protagonisti
La figura del conte Cesare de Vecchi di Val Cismon non è certo sconosciuta alla
storiografia relativa alla prima metà del secolo XX ed in particolare al ventennio fa-
scista 8. Nato a Casale Monferrato (Alessandria) nel 1884, con giovanili aspirazioni
poetiche e pittoriche, religiosissimo, monarchico convinto, combattente della prima
guerra mondiale, organizzatore del movimento fascista in Piemonte, deputato dal
1921, fu uno dei Quadrumviri della marcia su Roma (1922). Sottosegretario per l’As-
sistenza militare e le pensioni dal novembre 1922, passò poi al ministero delle Fi-
nanze l’anno successivo (1923), finché il 21 ottobre 1923 fu nominato Governatore
della Somalia e diresse colà occupazioni di alcuni sultanati. Senatore del regno dal
21 marzo 1924, fu insignito del titolo di conte di Val Cismon il 3 agosto 1925.
Ministro di Stato nel gennaio 1928, il 7 giugno 1929 – a seguito dell’accordo
Stato-Chiesa sancito dalla ratifica dei Patti Lateranensi – fu nominato da Mussolini
primo ambasciatore presso la Santa Sede, carica che occupò fino al gennaio 1935 al-
lorché divenne ministro dell’educazione nazionale. A poco più di un anno di distanza,
nel 1936, fatto Governatore del Dodecanneso, come tale ebbe il comando superiore
delle forze dell’Egeo al momento dell’attacco alla Grecia durante la II guerra mon-
diale. Chiesto ed ottenuto l’esonero da tale ruolo, il 25 luglio, come membro del Gran
Consiglio del Fascismo, votò l’ordine del giorno Grandi, firmando così la sua con-
danna a morte, che gli verrà comminata, in contumacia, dal tribunale speciale al pro-
cesso di Verona il 10 gennaio 1944.
L’indomani della caduta del fascismo partì per la Toscana per costituire la 215
Divisione Costiera, appartenente al IX corpo d’Armata, con sede del comando a
Massa Marittima. Già generale di brigata, cavaliere dell’ordine militare di Malta, in-
signito di tre medaglie di argento, due di bronzo, una croce di guerra al valor militare
e un’altra di bronzo al valor civile, dall’8 all’11 settembre tenne militarmente testa ai
Tedeschi; ricevuto però l’ordine di sciogliere i reparti, lo fece immediatamente e il
13 settembre partì per la propria villa di Revigliasco di Moncalieri (Torino), dove
poté giungere, sia pure al prezzo di vari fermi e successive liberazioni da parte delle
forze tedesche, che lo tenevano sotto controllo.
Alla fine di settembre, avuto sentore che poteva in qualche modo cadere perico-
losamente nelle mani o dei Tedeschi che in quel momento detenevano il potere nel
nord Italia, o dei fascisti, che lo giudicavano un traditore, o dei “partigiani” che logi-
camente non stavano dalla sua parte, su consiglio dei familiari, pensò bene di entrare
in clandestinità e a ciò provvidero i salesiani nascondendolo per sei anni in varie loro
case come si è accennato, prima in Piemonte, poi a Roma, indi in Argentina.
In favore del De Vecchi, “tutto vecchio Piemonte, tutto monarchia, tutto Re e
Patria” – come lo definì lo storico fascista Gioacchino Volpe – intervenne diretta-
mente il Rettor Maggiore dei salesiani, don Pietro Ricaldone (1870-1950), il quale,
pur non nutrendo dubbi sui gravissimi rischi cui sottoponeva direttamente alcuni sale-
8 Cf ad. es. la bibliografia essenziale sul ventennio fascista edita in M. INNOCENTI,
I Gerarchi del fascismo. Storia del ventennio attraverso gli uomini del Duce. Milano, Mursia
editore 1992, pp. 177-178.

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312 Francesco Motto
siani, per non dire l’intera congregazione, con il concedere tale ospitalità, non volle
venir meno al debito di riconoscenza che aveva verso il conte. Questi, oltre ai rap-
porti di buon vicinato con i salesiani nel periodo della sua presenza e attività politica
a Torino, nella sua permanenza a Roma, e soprattutto nel suo ruolo di ambasciatore
del Regno presso la Sede, era entrato in notevole dimestichezza col procuratore sale-
siano di Roma, don Francesco Tomasetti. In particolare il conte si era acquisito forti
meriti presso i salesiani in occasione delle celebrazioni, sia religiose che civili, della
canonizzazione di don Bosco9. A Roma il 2 aprile 1934 aveva personalmente tenuto
il solenne discorso commemorativo nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio, alla
presenza del duce. Durante poi il biennio in cui era stato ministro dell’Educazione na-
zionale (1935-1936) non aveva mancato di aiutare le scuole salesiane, in Italia e all’e-
stero, a superare momenti difficili. Sia i salesiani che don Ricaldone in prima persona
conservavano rapporti di grande amicizia con tutta la famiglia: la signora Onorina, i
figli Giorgio, Marisa, Pia e rispettive famiglie10.
Rettor Maggiore a parte, il protagonista salesiano vero e proprio del salvataggio
del conte De Vecchi, colui che corse maggiori rischi e si sobbarcò ai maggiori disagi
fisici e psicologici a tal fine, fu don Francesco Làconi (1912-1983). Nuorese di na-
scita, a 14 anni era entrato nell’aspirantato missionario di Penango (Asti). Fatti il no-
viziato e gli studi filosofici in Inghilterra, dopo il tirocinio pratico esercitato in Pale-
stina, compì gli studi teologici a Roma, concludendoli con la licenza in teologia al-
l’Università Gregoriana e quella in Sacra Scrittura al pontificio Istituto Biblico. Nello
stesso tempo ottenne la laurea in lingue e letterature straniere all’Istituto Orientale
Universitario di Napoli. Sacerdote dal 1939, non potendo a fine studi rientrare in Pa-
lestina per motivi di guerra, venne inviato come “catechista” e professore di Sacra
Scrittura allo studentato teologico internazionale di Bollengo, nel circondario di
Ivrea, provincia di Torino. Vi rimase due anni, esattamente gli anni della sua azione
in favore del conte De Vecchi.
Stretto collaboratore di don Làconi in tale azione, soprattutto nella avventurosa fu-
ga per la Valle d’Aosta nel gennaio 1945, fu il conterraneo e collega di insegnamento
don Mario Grussu, che purtroppo non lasciò appunti (o per lo meno non siamo riusciti
a trovarli). La sua testimonianza però è stata raccolta da noi in diversi momenti – su car-
ta e su cassetta – due anni prima del suo decesso, avvenuto il 6 aprile 1996, a 83 anni.
Una movimentata latitanza in Italia: 1943-1946
Prima tappa: Montalenghe (ottobre - 17 novembre 1943)
Il primo rifugio messo da don Ricaldone a disposizione del conte appena fug-
gito da casa, ai primi di ottobre 194311, fu la casa salesiana di Montalenghe, paesino a
9 Cf P. STELLA, La canonizzazione di don Bosco..., pp. 371-376.
10 L’ASC conserva vari documenti relativi a tali rapporti. La cerimonia religiosa
del matrimonio della secondogenita del conte (16 settembre 1939), presieduta dal cardinale
arcivescovo di Torino, fu solennizzata dal canto di chierici salesiani.
11 Cf ASC B 0710401 Lett. Làconi-Savaré, 27 giugno 1970; cf inoltre documento

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 313
una trentina di km. da Torino, nel circondario di Ivrea. All’epoca era un aspirantato
missionario per salesiani laici, ma da qualche tempo accoglieva pure allievi e profes-
sori della Facoltà di Filosofia e dell’Istituto di Pedagogia di Torino-Rebaudengo sfol-
lati a seguito dei bombardamenti della città.
Nella casa salesiana il De Vecchi rimase nascosto oltre un mese. Ovviamente
fece vita ritiratissima, lasciando la “camera del conte” che occupava dentro il castello
solo per passeggiare lungo i viali del parco. Colà don Ricaldone lo incontrò il 12 ot-
tobre 1943, in occasione dell’atto accademico di apertura dell’anno scolastico, del-
l’insediamento ufficiale del nuovo Decano di filosofia (oltre che direttore dell’intera
comunità) nella persona di don Nazareno Camilleri (1906-1973) e di una sua confe-
renza ai chierici.12 Lo rivide quasi certamente il giorno successivo, sulla strada di ri-
torno dalla cerimonia della vestizione dei novizi a Morzano (Vercelli)13.
Il centinaio di salesiani della casa erano informati di tale “speciale” presenza,
ma, salvo il direttore e pochi altri, non ne conoscevano l’esatta identità, anzi era stato
fatto l’espresso invito di non parlarne né fra loro né con altri14. A quanto risulta però
il segreto in qualche modo trapelò ed i salesiani, pur incontrandolo molto saltuaria-
mente, non ebbero eccessiva difficoltà a riconoscerlo come la persona raffigurata a
pieno busto sul numero del “Bollettino Salesiano” pubblicato in occasione delle cele-
brazioni torinesi per la canonizzazione di don Bosco15.
Venne immediatamente informato don Ricaldone, il quale decise di allontanarlo
subito dalla casa16. Pensò ad un non lontano centro salesiano internazionale di studi,
Bollengo. A tal proposito, vista la disponibilità di un neoprofessore, don Francesco
Làconi, convocato a tal proposito a Torino ai primi di novembre17, col consenso una-
nime dei membri del Consiglio in sede, comunicò l’idea al conte o il 13 novembre,
allorché si recò a Montalenghe per accogliere il rinnovo dei voti temporanei del chie-
rico Gianotti 18, oppure due giorni dopo, in occasione di un suo nuovo ritorno19.
Di certo è che il 17 novembre don Làconi si recò a Montalenghe e conferì col
Direttore. Non dovette dare troppo nell’occhio al personale della casa, dato che alla
comunità aveva appena predicato il triduo di inizio anno scolastico (28-30 ottobre
pubblicato. L’ordine di arresto fu stilato il 6 ottobre 1943.
12 ASC B 100 Ricaldone, taccuini; ASC F 854 Montalenghe, Cronaca.
13 Ib.
14 Tale è il ricordo unanime di don Giacomo Lorenzini, don Mario Simoncelli, don
Antonio Papes, don Mario Viglietti e don Saverio Gianotti, interpellati dallo scrivente. Corse
anche voce che si trattasse di un non meglio precisato membro di casa Savoia.
15 Ebbero luogo l’8 aprile: cf BS giugno-luglio 1934, nn. 6-7 p. 202; cf nota 1.
16 Val la pena qui ricordare che la casa salesiana di Montalenghe, dopo l’8 settembre
1943 e fino alla liberazione, diede ospitalità un po’ a tutti: partigiani, tedeschi, repubblichini.
ASC F 657 Montalenghe.
17 La fonte principale del racconto da questo momento fino al trasferimento a Castelnuo-
vo nel gennaio 1945 è l’ampia memoria del protagonista, che pubblichiamo. Pertanto qui si darà
solo una sintesi degli avvenimenti, con l’indicazione di altre fonti scritte o orali consultate.
18 Cf scheda personale in Segreteria Generale Salesiana e testimonianza del medesimo
Gianotti. La cronaca della casa non sembra esatta quando colloca tale professione l’8 no-
vembre; ASC F 760 Montalenghe, Cronaca.
19 Ib.

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314 Francesco Motto
1943) e il 31 ottobre aveva tenuto l’omelia per la festa di Cristo Re. In tali occasioni
aveva avuto altresì l’opportunità di incontrare il conte, di discutere con lui della situa-
zione politica in Italia e dei suoi possibili sviluppi.
Presi gli opportuni accordi, la mattina seguente20 partirono per la nuova destina-
zione. Per percorrere i 25 Km. che separavano Montalenghe da Bollengo si servirono
di un calesse guidato dal salesiano laico Silvio Cornelio Moser (1901-1979), il quale
dubbioso che il suo passeggero, ormai privo di baffi, ma rivestito di abiti sacerdotali,
fosse realmente prete, ebbe tempo e modo di intavolare un’animata conversazione
con lui a proposito della prima guerra mondiale. Se ancora aveva avuto dubbi sull’i-
dentità del suo ospite, tali dubbi vennero fugati rapidamente dalla perfetta conoscenza
degli avvenimenti della grande guerra da parte del conte. I tre viaggiatori raggiunsero
la casa di Bollengo, sia pure correndo più di un rischio di essere fermati e identificati
lungo il tragitto.
Seconda tappa: Bollengo (18 novembre 1943 - 5 gennaio 1945)
A Bollengo li aspettavano il direttore, don Antonio Maniero (1890-1963) e il
prefetto, don Ignazio Bonvicino (1892-1980), gli unici due salesiani ufficialmente
informati dell’esatta identità dell’ospite. Per tutti gli altri, sacerdoti e chierici – oltre
un centinaio di persone, italiani e stranieri – il conte avrebbe dovuto essere un sacer-
dote ammalato e bisognoso di riposo, un certo don Antonio Porta, originario di Abba-
santa (Oristano), sfollato dalla Sardegna 21.
Onde tenerlo lontano il più possibile da contatti, evidentemente giudicati co-
munque pericolosi, gli fu assegnata la cameretta di isolamento dell’infermeria, molto
appartata, dotata di servizi igienici. A sua disposizione, per ogni necessità, rimase
l’infermiere salesiano. Don Ricaldone veniva informato periodicamente su eventuali
sviluppi della situazione da don Làconi stesso che, recandosi a Torino o attraverso
l’amico don Emilio Vico, residente a Valdocco 22, poteva anche incontrarsi con i fami-
liari del conte, preavvertiti del suo arrivo.
Ma ancora una volta il segreto non dovette durare a lungo. Nel breve volgere di
15 giorni si sparsero voci che don Làconi aveva nascosto un generale a Bollengo; lo
20 Così si legge nalla cronaca della casa: ASC F 854 Montalenghe.
21 La precisa informazione è di don Grussu, sardo d’origine, così come don Làconi,
i quali in questo modo avrebbero potuto meglio giustificare la loro conoscenza. La Sardegna
era anche il luogo di caccia preferito dal conte De Vecchi, che era in rapporti d’amicizia
col parroco di Mandas (Cagliari). Nella sua relazione don Làconi invece scrive semplicemente
che lo avrebbe fatto conoscere come prete siciliano [sardo ?].
22 Don Emilio Vico (1911-1965): nativo di Ancona, aveva fatto il noviziato salesiano e
tutto il periodo dei voti temporanei in Argentina; rientrò in Italia nel 1937 per gli studi teolo-
gici, che concluse con gli ordini sacri ricevuti dal 1939 al 1940. Durante la guerra fu in Torino
cappellano militare, della Polizia e delle officine Fiat, e in tale ruolo poté aiutare il futuro
Rettor Maggiore, don Luigi Ricceri a lasciare le prigioni tedesche nel novembre 1944. Dopo la
guerra tornò poi in Argentina dove fu direttore di varie case e anche maestro dei novizi. Uomo
portato alle pubbliche relazioni, molto legato alle autorità, in Argentina ebbe modo di contat-
tare epistolarmente il conte De Vecchi una volta che questi, sotto falso nome, si fu rifugiato
in quella terra. Il 17 dicembre 1947 scrivendo a don Ricaldone si congratulò “per l’esito felice
del sig. Bueno” [alias De Vecchi]: ASC C 473 Vico.

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 315
si sussurrava anche a Revigliasco e non fu sufficiente a spegnere tali voci la notizia,
fatta diffondere da radio Londra, che il conte si era posto al sicuro in Svizzera. Invero
questo paese fu solo il “miraggio” per la primavera o l’estate da parte del conte e di
don Làconi, data la decisa opposizione di don Ricaldone, che preferì chiedere l’ap-
poggio del vescovo di Biella. Detto, fatto, ma senza risultato.
Intanto il 10 gennaio 1944 il tribunale speciale di Verona condannò a morte i
“congiurati del 25 luglio 1943” fra cui il De Vecchi. Cinque di loro furono immedia-
tamente fucilati. Per ogni evenienza, tramite un amico di don Làconi, don Giuseppe
Péaquin, parroco di Challand St. Anselme (Aosta)23 ai primi di febbraio 1944 il conte
ebbe a sua disposizione una carta di identità ovviamente falsificata.
Passava il tempo e il conte diventava sempre più irrequieto nel timore di essere
scoperto, stante la presenza nella casa salesiana di truppe tedesche e repubblicane24.
La lettura della storia della Chiesa e dei Papi, lo scrivere poesie, l’interessarsi alla
storia di don Bosco, la recita dell’intero rosario con cui occupava il tanto tempo a di-
sposizione non riuscivano a tranquillizzarlo. Don Làconi allora lo invitò a scrivere le
sue memorie, mentre non mancava di dedicargli il poco tempo libero dagli impegni
scolastici e ministeriali, in casa e fuori casa25, per raccogliere le confidenze della sua
vita, dei suoi trascorsi fascisti fini alla seduta del Gran Consiglio. Ogni mattina il
23 Parroco di Challand St. Anselme fu un preciso punto di riferimento per molti ricercati,
ebrei compresi: cf Roberto NICCO, La Resistenza in Valle d’Aosta. Aosta, Musumeci Editore
1995, p. 30. Il Péaquin si era rifugiato “in Valtournenche dopo che era stato pestato a sangue
dai nazisti nella casa parrocchiale”. Aveva fatto da cappellano, col nome di don Trombetta, alla
banda Marmore di partigiani di quella valle: ib., pp. 96-97. Di lui si accenna anche a proposito
di una rapina ad Emarese da parte di gruppi di sbandati, che uccisero un vicino che si era ac-
corto della rapina in corso: ib., 301. Così pure si accenna alla sua presenza ad un processo
sommario, intentato da partigiani, contro quattro sedicenti partigiani responsabili di furti e ra-
pine, conclusosi con la condanna a morte di due degli stessi: ib., p. 304. Circa il giudizio su di
lui da parte di don Làconi, si veda la nota al documento pubblicato.
24 A onor del vero e per completezza si deve però aggiungere che la casa salesiana di
Bollengo diede la sua cooperazione alla liberazione nazionale con l’offrire ospitalità per più
mesi nei locali della casa rustica al capo dell’ufficio informazione della VII Divisione d’assalto
Garibaldina e della Divisione G. L. Pietro Ferreira; col dare ricovero a varie riprese ad amma-
lati e feriti, comandanti e commissari di brigata (76a, 112°, 75°) per periodi di otto e quindici
giorni, fornendo loro anche vitto e medicine; con l’alloggiare più volte di notte la missione in-
glese guidata dai cap. Pat, Beurs e maggiore Robert; col prodigandosi dei sacerdoti – special-
mente don Làconi e don Da Rold – nell’assistenza religiosa ai partigiani, con l’esporsi a lunghi
viaggi attraverso la serra e le montagne, e con mantenere per mezzo loro in collegamento con
le famiglie dei partigiani i movimenti del fondo valle, nascondendo nell’istituto a più riprese
giovani del paese ricercati dalle autorità fasciste e naziste: cf ASC F 674 Bollengo. L’ASC alla
stessa posizione conserva copia sia dell’attestato di benemerenza rilasciato il 1° giugno 1945
per don Ignazio Bonvicino dal comandante “Monti” (Felice Mautino) della VII Divisione
“Giustizia e Libertà”, “Pietro Ferreira”, Comando del Piemonte, Corpo Volontari della Libertà
sia di una lettera di ringraziamento al direttore dell’Istituto da parte di “Alfa” (Gastaldo An-
tonio) del CLN Alta Italia, Corpo Volontari della Libertà, VII Divisione d’assalto Garibal-
dina,Walter Fillak “Martin”, servizio informazioni, in data 17 maggio 1945.
25 Ai primi di febbraio don Làconi andò a Challand St. Anselme; a fine febbraio e nel
periodo pasquale a Courmayeur. Il 25 marzo scrisse a don Ricaldone che era stato assente al-
cuni giorni da Bollengo per essere andato a predicare in Valle d’Aosta: ASC C 127 Francesco
Làconi. Aggiungeva: “Speravo ancora di poter venire a trovarLa, ma ho tutti i giorni occupati”.

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316 Francesco Motto
conte gli serviva la messa e faceva la comunione. Si confessava da lui regolarmente.
Allorché nel maggio avanzato si diffusero voci circa la presenza del conte a
capo dei partigiani nel Cuneese, il De Vecchi coltivò l’idea di trasferirvisi. In avan-
scoperta andò il 29 maggio don Làconi, ma fatto un sopralluogo fino a Mondovì,
tornò convinto che la zona non fosse una soluzione conveniente.
In piena estate, assieme a don Grussu su invito del vescovo di Aosta, don Là-
coni lasciò Bollengo per recarsi a Challand St. Anselme per sostituire don Péaquin26,
costretto a darsi alla macchia con gruppi di partigiani della Valle. Anche i due sale-
siani non ebbero vita facile e comunque poterono nell’occasione collaborare con le
Figlie di Maria Ausiliatrice per mettere in salvo un militare olandese, fratello di un
sacerdote salesiano di Bollengo, don Guglielmo Remmen. Per evitare il peggio do-
vettero poi fuggire quasi all’improvviso attraverso le montagne. Camminando anche
di notte, raggiunsero la casa di Bollengo27.
Qui, ad inizio dell’anno scolastico 1944-1945 don Làconi con particolari strata-
gemmi riuscì a mantenere la situazione in un delicato equilibrio, finché in novembre
e dicembre alcuni spiacevoli episodi lo costrinsero ad uscire dall’indecisione.
In occasione del compleanno del conte, sulla torta preparata dalle FMA in suo
onore, comparve in bella evidenza il giorno, mese, anno di nascita (14 novembre
1884): fu un gioco da ragazzi per i chierici salesiani verificare tali dati sull’enciclo-
pedia italiana Treccani [vol XII, p. 701 nella ristampa del 1949] e sul dizionario del
salesiano Augusto Brunacci 28. Un mese dopo, fecero la stessa scoperta le FMA,
avendo la guardarobiera, sr Giuseppina Vogliotti29, trovato casualmente il nome di De
Vecchi sulla chiusura della tasca interna del pastrano, dimenticato di togliere al mo-
mento della consegna dei vestiti pesanti del conte. Vi si aggiunga che a quel punto
quasi tutto il personale femminile del paese che lavorava in casa era ormai convinto
che il prete esaurito o sospeso a divinis non fosse tale 30. Don Ricaldone però, messo
immediatamente al corrente dei fatti da don Làconi appena rientrato da due sue uscite
per ministero in Valle d’Aosta31, suggerì di pazientare ancora.
La situazione precipitò ai primi di gennaio 1945.
Il periodo delle vacanze natalizie era quello dell’ammissione e dell’amministra-
zione degli ordini sacri ai chierici. In tali frangenti in comunità facilmente potevano
nascere tensioni, irritazioni e malumori per qualche sospensione temporanea di tali
ordini ai chierici. Quell’anno poi il clima comunitario non pare fosse dei migliori.
Anzitutto a giudizio di alcuni superiori, ed in particolare di don Làconi e di don
26 Conferma di tale presenza è data dal registro delle S. Messe celebrate da sacerdoti
di passaggio a (Castel) Verrès, gentilmente messoci a disposizione dal padre Attilio Cont,
in data 23 agosto 2000: l’8 agosto 1944 si legge il nome di don Grussu, e il 9 agosto quello
di don Làconi, entrambi provenienti da Bollengo.
27 In ASC F 760 Bollengo, Cronaca, 6 settembre 1944, si legge che dopo un mese di
assenza per ministero ritornarono don Làconi e don Grussu.
28 La “tradizione” salesiana e i ricordi dei salesiani interpellati sono equamente suddivisi
fra i due testi.
29 Nata nel 1911, vive tuttora e conferma a chi scrive quanto riferito a suo tempo a don
Làconi.
30 Me lo conferma don Mario Sanità, all’epoca studente a Bollengo.
31 Dal 2 al 10 dicembre prima e poi per Natale.

1.9 Page 9

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 317
Enrico Da Rold32, il direttore tollerava troppi disordini (fumo, poca serietà scolastica,
atteggiamenti oltranzisti [“fascisti”] dei chierici di qualche ispettoria...); inoltre
qualche screzio o dissidio fra il direttore e altri docenti, in particolare col catechista
don Làconi 33 era noto anche ai chierici, per questo nel momento in cui qualcuno di
loro venne sospeso dagli ordini, dovette probabilmente “ricattare” i superiori minac-
ciando di rivelare il “segreto di don Porta”.
Appena lo venne a sapere don Làconi, si precipitò a Torino per ragguagliare
don Ricaldone e il consiglio Superiore. Essendo in pieno inverno bisognava trovare
un rifugio d’emergenza in pianura. Se ne ipotizzarono due.
Il primo: Penango Monferrato, in provincia di Asti, una casa salesiana con
poche decine di aspiranti missionari. Don Ricaldone vi mandò subito don Tommaso
Demaria, il quale a marce forzate, per vie secondarie, con il concreto aiuto di don
Giuseppe Molas (1901-1984) della casa presso i Becchi di Castelnuovo don Bosco,
riuscì a raggiungere la località, accordarsi col direttore, don Giuseppe Zavattaro
(1901-1986), e tornare immediatamente il giorno dopo34. Ma l’idea non ebbe seguito.
La seconda ipotesi fu il non lontano castello di Sandigliano, al di là della Serra,
nel circondario di Biella. La contessa Fanny Vialardi era al momento provvisoria-
mente ospitata al noviziato delle suore di Ivrea a Burolo, a 5 km. dalla città35. Don
Làconi il 2 gennaio la contattò ed ella si mise gentilmente a sua disposizione per faci-
litargli il sopralluogo del castello. Viaggio pericolosissimo quello di don Làconi, che
a stento riuscì fortunosamente a sfuggire alla cattura da parte di Tedeschi prima e di
partigiani dopo36. Ritornato a Bollengo la notte, deciso a non utilizzare il castello per
nascondervi il conte37, ebbe l’ulteriore sgradita sorpresa di sapere che lo stesso conte,
32 Nato nel 1914, sacerdote nel 1940, nel biennio 1943-1945 fu insegnante di storia ec-
clesiastica e patrologia a Bollengo. Ebbe contrasti con don Maniero tanto da riferire successi-
vamente a don Ziggiotti un’espressione dello stesso De Vecchi: “Povero Figliuolo, in che mani
è capitato”: ASC B 950 lett. Da Rold - Ziggiotti, 30 settembre 1953.
33 Don Làconi cercò di giustificare il suo atteggiamento precisando i fatti in una lunghis-
sima lettera dattiloscritta a don Ricaldone il 13 dicembre 1944: cf ASC C 127. Gli rispose
immediatamente il Rettor Maggiore, con parole di consolazione tali che il 17 dicembre don
Làconi lo ringraziò di vivo cuore. In quest’ultima missiva aggiungeva gli auguri di Natale suoi
e di don Porta.
34 La testimonianza rilasciata dallo stesso don Demaria (1908-1996) a don Francesco
Rastello, con ogni probabilità verbalmente, è riportata in F. RASTELLO, Don Pietro Ricaldone...,
pp. 405-406. Il Rastello colloca l’episodio genericamente nel 1944; più probabilmente po-
trebbe essere ad inizio 1945. Comunque sempre in periodo invernale. Sul taccuino di don Ri-
caldone, in data 27 gennaio 1945, si legge: “Comunico con Don Vico per affare Don Demaria”:
ASC B 100 Ricaldone, taccuini. Circa l’azione in tempo di guerra del salesiano don Giuseppe
Molas, si veda F. MOTTO, Storia di un proclama. Milano, 25 aprile 1945: Appuntamento dai
Salesiani. Roma, LAS 1995, Appendice I, pp. 127-134.
35 Cf documento pubblicato con rispettive note.
36 Nel documento don Làconi si dilunga su tale avventura a lieto fine.
37 Di tale tentativo si trova traccia nel “Libro degli Ospiti” del Torrione, nel quale
per altro si legge che il conte Carlo Vialardi non gli aveva “perdonato il tentativo di nascon-
dere al Torrione per amore cristiano il quadrumviro”. Nello stesso “libro” si accenna anche ad
una successiva visita al castello di don Làconi, latore d’una lettera da Roma, presenti sua
altezza reale Lydia di Pistoia, la baronessa Sofia de Lustrac e i coniugi Vialardi. La visita
e soprattutto la sua motivazione non tornarono loro particolarmente gradite. Si coglie qui l’oc-

1.10 Page 10

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318 Francesco Motto
ben informato dei rischi che con Làconi avrebbe corso quel giorno, vistone il ritardo,
aveva confessato la propria identità ad almeno quattro docenti dello studentato, fra
cui don Grussu.
Don Làconi ripartì il mattino successivo per riferire a don Ricaldone. A Torino
si convenne che l’unica via d’uscita dall’insostenibile situazione fosse la Valle
d’Aosta, ed esattamente Challand St. Anselme. Lo avrebbe accompagnato nella mis-
sione il giovane collega don Mario Grussu.
Il giorno dopo, 5 gennaio, vigilia dell’Epifania, celebrata la santa Messa, fatta la
reciproca confessione fra i due sacerdoti, confessatosi pure da don Làconi il conte, il
terzetto si avventurò giù per la collina38.
Terza tappa: Valle d’Aosta (5 - 18 gennaio 1945)
Evitando di sostare a Ivrea, proseguirono a piedi per altri cinque chilometri fino
a Borgofranco, dove, correndo gravi rischi, poterono trovare un posto su un treno
merci, che li portò per mezzogiorno a (Castel) Verrès (110 km.), accolti con grande
fraternità nella parrocchia tenuta dai Canonici Lateranensi39. Nel primo pomeriggio
don Làconi salì a Challand St. Anselme (9 km.) onde preavvisare don Péaquin del-
l’arrivo il giorno seguente dei suoi due compagni.
La mattina dell’Epifania, celebrata la messa da parte di don Grussu – don Porta
evitò di celebrare ma i Canonici non nutrirono alcun sospetto in quanto avvisati che il
sacerdote aveva dovuto necessariamente rompere il digiuno dalla mezzanotte per as-
sumere delle indispensabili medicine40 – i due partirono e raggiunsero Challand St.
Anselme. Ebbero però l’amara sorpresa di sapere che c’era stato in paese chi aveva
chiesto a don Làconi se avesse portato con sé il generale cui avevano fatto la carta di
identità.
Due giorni dopo, 8 gennaio, don Làconi per cercare un rifugio più sicuro scese
ad Aosta (40 km) dal vescovo mons. Imberbi, ma il presule non ne volle sapere.
Don Làconi approfittò della venuta in città per incontrare la direttrice delle FMA,
casione per ringraziare il conte Tommaso Vialardi di Sandigliano per averci concesso la con-
sultazione del dattiloscritto di famiglia e per averci fornito ulteriori conferme della cronaca di
don Làconi.
38 Accusato successivamente presso don Ricaldone di essere stato troppo precipitoso nel
voler partire in quell’inizio gennaio, don Làconi in una lunghissima lettera autografa al Rettor
maggiore il 28 agosto 1845 si difese affermando che la partenza, anziché precipitosa, fu tempe-
stiva e provvidenziale, dal momento che, appena tornato a casa, seppe “che la cosa era risaputa
anche in paese, dove, come fece notare lo stesso sig. Ispettore, si sapeva troppo degli affari
dello studentato, non escluse le sospensioni”: ASC C 127 Làconi.
39 Il curato era il bolognese don Carlo Boschi, uomo zelante, che più volte intervenne
per la liberazione dei prigionieri: cf ad es. R. NICCO, Resistenza in Valle d’Aosta..., p. 130.
40 La testimonianza orale è dello stesso don Grussu, il cui nome si legge effettivamente
sul registro delle Messe celebrate quel giorno. Il nome di don Grussu risulta anche il 24 gen-
naio, segno dunque che era ritornato in paese dopo che il conte si era messo al sicuro a Castel-
nuovo Don Bosco. Invece la cronaca di Bollengo (ASC F 760) il 6 febbraio annuncia che
è rientrato don Làconi, assente da tempo. Così pure il 14 febbraio si legge che parte lo stesso
Làconi col Direttore (don Maniero); il primo rientra il 18 febbraio. Il 22 aprile partiranno
invece i soldati tedeschi.

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 319
sr. Andreina Beretta 41, che venne accompagnata da sr. Domenica Grassiano 42. Alla
direttrice affidò alcune urgenti “commissioni” per il Rettor Maggiore.
A Challand St. Anselme la situazione non era delle migliori anche perché in
casa del parroco c’erano altre persone, fra le quali quattro donne43. Consultatisi fra
loro, i tre decisero di trasferirsi dall’altra parte del versante, presso il parroco di Ema-
rese che si era dichiarato disposto ad accoglierli. Partirono il giorno seguente e per il
cinquattottenne conte la salita al crinale innevato (1600 m.) fu un vero calvario.
Ma anche la situazione ad Emarese non parve adatta al bisogno. Il conte in
meno di una settimana fu preda di una crisi di scoraggiamento; la Valle d’Aosta, con
i passi bloccati dai tedeschi che li avevano ripresi dai partigiani, sembrava non of-
frisse più sicurezza alcuna; in parrocchia erano nascosti uno o due ebrei; in paese si
chiacchierava molto, né mancava una perpetua loquace44.
Decisero allora che don Grussu rientrasse a Torino per parlare con don Rical-
done. Viaggio quanto mai avventuroso pure questo, iniziato con la slitta, proseguito
col treno e continuato poi a piedi da Verrès e da un certo punto in poi continuato tutto
e solo a piedi, a causa di un ponte ferroviario bombardato45. Né meno pericoloso il ri-
torno. La decisione fu comunque di spostarsi altrove, ma non in Svizzera, dato che la
stagione non permetteva al conte di affrontare un disagevole viaggio su per i monti.
Di passaggio a Ivrea e a Torino (18 gennaio 1945)
I tre sacerdoti rientrarono in incognito a Bollengo giovedì 18 gennaio46. L’indo-
mani mattina scesero, superarono Ivrea e sempre a piedi percorsero l’altra quindicina
di chilometri che li separava da Castellamonte. Qui presero il treno che li portò per
sera a Torino-Porta Susa, da dove, camminando in mezzo alla strada per non destare
sospetti 47, arrivarono all’Oratorio di Valdocco. Li attendevano don Ricaldone e il fi-
glio del conte, Giorgio. L’indomani fra tutti si decise di nascondere il conte nella casa
degli aspiranti a Castelnuovo don Bosco, sotto la responsabilità del direttore don
Pietro Stella (1892-1982).
41 Vedi documento pubblicato con relative note.
42 Nata nel 1912. Si trovava sfollata ad Aosta, supplente della IV elementare. Sr Gras-
siano ricorda a chi scrive che il fuggitivo rimase due giorni da loro ad Aosta, poi il cappellano
dell’orfanotrofio dei bambini accettò di nasconderlo per qualche giorno.
43 Le rammenta don Grussu: una signora originaria del suo paese, una anziana signora
friulana, una donna di servizio e una bambina.
44 Nella succitata lettera del 28 agosto 1945 don Làconi scrisse che ad Emarese il conte
stava male e si giustificava col Rettor maggiore dicendo di non aver potuto riferirgli verbal-
mente questo particolare a causa della propria spossatezza. Per dare un’idea delle fatiche
di quella trasferta di gennaio in Valle d’Aosta affermava che il collega don Grussu aveva fatto
a piedi in pochi giorni circa 300 km a piedi, spesso sotto la pioggia.
45 Testimonianza orale dello stesso don Grussu.
46 Lo afferma don Grussu, anche se il documento di don Làconi scrive 19. Dovrebbe
trattarsi di un errore, tant’è che poco dopo afferma che il 19 arrivò a Torino dove ebbe un ani-
mato colloquio con don Ricaldone.
47 Interessante notazione, ribaditaci da don Grussu.

2.2 Page 12

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320 Francesco Motto
Quarta tappa: Castelnuovo Don Bosco (gennaio 1945 - dicembre 1946)48
Nell’Istituto di Castelnuovo Don Bosco il conte De Vecchi rimase quasi due
anni, considerato come un “canonico” molto malato, impossibilitato a celebrare.
Aveva la sua stanza nella palazzina cosiddetta del card. Cagliero, dietro la proprietà
dei salesiani. Passava le sue giornate passeggiando in giardino, leggendo, scrivendo
– come confidò personalmente a don Rosso – le sue memorie, disegnando sceno-
grafie per il teatrino dei salesiani, dipingendo quadri e stendardi per le “Compagnie”
della settantina di ragazzi aspiranti dell’Istituto e di una ventina di esterni, di cui uno
o due di famiglie ebree. Sempre e solo il giovedì, per superare i momenti di
sconforto, scendeva in paese a passeggiare, accompagnato da don Vittorio Savio
(1887-1963), edotto sulla situazione. Per vari mesi, fino all’estate, don Stanislao Pe-
traitis (1912-1995) celebrò per lui ogni giorno la santa Messa; dall’autunno in poi a
celebrare quotidianamente fu don Ottavio Rosso, che sempre al suo entrare in casa lo
trovava in ginocchio a pregare. Solo il figlio, ufficiale dell’esercito, veniva in inco-
gnito a trovarlo, in particolare per portargli documenti relativi agli anni di servizio
come Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede. La famiglia comunque era sempre
in contatto con don Ricaldone 49.
Nell’Istituto nessuno lo identificò con sicurezza, ma ad un certo momento si
ebbe la chiara sensazione che fosse stato individuato e che in paese si vociferasse
sulla sua presenza presso i salesiani. Un “famiglio”, Luigi, confidò a don Rosso la
cosa; questi informò subito il conte e il direttore. Intanto voci sempre più insistenti
nella casa salesiana, in paese ed anche su giornali locali che davano il conte come
presente nel Monferrato, costrinsero don Ricaldone ad un immediato trasferimento.
Si decise allora di far espatriare il conte in incognito, soprattutto dopo che a Roma il
processo contro di lui si era concluso con la condanna a cinque anni di carcere (per
altro interamente amnistiata). Su un’auto privata, con il figlio in divisa militare,
in compagnia di don Emilio Vico, proprio il giorno in cui si celebrava la festa patro-
nale di S. Andrea, patrono di Castelnuovo, si trasferì, passando per la casa salesiana
di Genova-Sampierdarena, a Roma e precisamente alla casa salesiana di San Tarcisio,
nel circondario delle catacombe di San Callisto, sulla via Appia Antica50.
Quinta Tappa: Roma (dicembre 1946 - giugno 1947)
A S. Tarcisio lo accolse il direttore don Virginio Battezzati 51 (1888-1978)
che già conosceva il conte dal tempo del suo direttorato presso la casa dei Becchi di
48 La maggior parte delle informazioni raccolte in tale paragrafo sono date dal testimone
don Ottavio Rosso, all’epoca “catechista” dell’Istituto missionario Don Bosco di Castelnuovo
Don Bosco.
49 Cf lett. del 14 agosto 1946, in cui il conte Giorgio dal paese di Revigliasco chiede a
don Ricaldone un appuntamento “per motivi di famiglia”: ASC B 0760219 Ricaldone.
50 L’attenzione di don Ricaldone giunse ad offrirgli per il lungo viaggio la coperta di
lana blu scuro da lui usata nei viaggi automobilistici.
51 Secondo la lettera di don Battezzati a don Rastello in data 2 agosto 1971 il conte giunse
a Roma il 22 o 23 dicembre 1946 e vi rimase fino al 24 giugno successivo: ASC B 804. Ma forse
la data di arrivo non è esatta, così come quella della partenza, che, fra l’altro, risulta aggiunta da
un’altra penna.

2.3 Page 13

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 321
Castelnuovo (1933-1939), dove il conte veniva sovente a pregare da solo, con i fami-
gliari o con qualche militare. La loro amicizia si era rafforzata in occasione dei fe-
steggiamenti per la canonizzazione di don Bosco.
Al conte venne dato l’appartamentino riservato all’ispettore e a sua disposizione
fu messo il salesiano laico Felice Fontanella. Aveva bisogno di tutto, essendo arrivato
sprovvisto di qualunque cosa. Vestiva sempre in talare e avrebbe dovuto restare a
S. Tarcisio, secondo don Ricaldone, una quindicina di giorni, in attesa della conclu-
sione delle “pratiche per l’espatrio”, che si stavano conducendo col capo della Com-
missione Alleata di Controllo, ammiraglio Stone, che settimanalmente raggiungeva
l’America Latina.
Don Grussu, che all’epoca era stato trasferito al S. Cuore di via Marsala a
Roma, presso la stazione Termini, ma teneva corsi ai chierici presso la casa di S. Cal-
listo, attigua a quella di S. Tarcisio, si rese conto della presenza del De Vecchi, ap-
pena, sia pure casualmente, incontrò don Vico sui viali delle stessa tenuta delle cata-
combe. Gli fu facile rintracciare il conte nella sua stanza, abbracciarlo, con grande
meraviglia di don Battezzati all’oscuro di tutti i precedenti.
Ma il tempo passava, senza che le suddette pratiche giungessero in porto. Don
Battezzati e i parenti del conte residenti a Roma52 lo andavano spesso a trovare nella
sua stanzetta, per consolarlo nei momenti di sconforto e rallegrarsi quando spuntava
la speranza di una prossima partenza. Ogni giorno assisteva alla S. Messa e faceva la
comunione. Si confessava regolarmente ogni quindici giorni in camera sua.
Mentre tutti i confratelli, preavvisati dal direttore, cercavano di evitare anche di
parlare al “monsignore”, onde evitare di tradire in qualunque modo il segreto tanto rac-
comandato da Torino, un sacerdote brasiliano, padre Ney53, già studente-ospite al S.
Cuore di via Marsala, e al momento accolto gratuitamente a S. Tarcisio in cambio di
qualche servizio di guida alle Catacombe – parlava cinque lingue –, ben presto venne
a sapere tutto e chiese al direttore il permesso di adoperarsi per far espatriare il conte
in sud America. Con l’accordo dei famigliari del conte, glielo permise. Ci riuscì nel gi-
ro di poco tempo, ovviamente previo esborso di una forte somma per il passaporto, per
il biglietto aereo e per facilitare l’imbarco aeroportuale, somma che con molta proba-
bilità dovette essere offerta dalla marchesa Gavotti, la cui figlia, Ippolita, era andata in
sposa al conte Giorgio. I De Vecchi infatti avevano tutti i beni di famiglia sottoseque-
stro.
Giunse il sospirato giorno della partenza, ed esattamente il 15 giugno. Il giorno pre-
cedente il conte era stato accompagnato alla casa salesiana di via Marsala S. Cuore, dove
52 Testimonianza scritta di don Battezzati (ASC B 102) e orale di don Grussu e della
nuora del conte, contessa Ippolita Gavotti. Un appunto sul promemoria del procuratore sale-
siano don Francesco Tomasetti ricorda che avrebbe dovuto comunicare a don Stanislao
Petraitis che il figlio del conte De Vecchi, Giorgio, trovandosi a Cesano per ragioni di servizio,
ogni sabato sera e domenica sarebbe stato a Roma: ASC B 4940532.
53 Non meglio identificato. Successivamente si recò in Francia, lasciando infine il sacer-
dozio. Va qui ricordato che don Battezzati era stato in Brasile per 17 anni e che nella stessa
comunità salesiana risiedeva un altro sacerdote salesiano brasiliano, don Antonio Barbosa
(1911-1993), futuro arcivescovo di Campo Grande, che il 17 febbraio 1947 lasciava la casa,
dopo essere rimasto a Roma due anni per studi di diritto.

2.4 Page 14

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322 Francesco Motto
aveva lasciato la veste talare a don Grussu e si era messo in abiti civili. Con un passapor-
to intestato ad un certo Valeriano Bueno, commerciante paraguaiano [?] si avviò a Ciam-
pino, dove un ritardo di tre ore della partenza dell’aereo normale di linea della compagnia
Pan Air do Brasil, dovuto al ritardato arrivo a Roma dell’aereo proveniente da Lisbona, ten-
ne in ansia tutti i suoi familiari fino alla telefonata liberatoria dell’avvenuta partenza54.
Clandestino in Argentina (16 giugno 1947-1949)55
Giunse in Argentina martedì 17 giugno e fu accolto fraternamente nella casa
salesiana Pio IX di Buenos Aires (Calle Adolfo Berro: oggi Calle Don Bosco), grazie
anche a don Giuseppe Clemente Silva (1888-1970) che già lo conosceva56. Qualche
disguido non mancò: il bagaglio del conte venne smarrito; don Vico, che il conte pen-
sava di incontrare, era invece lontano, in Patagonia: il “sibillino” telegramma del suo
arrivo non era stato ben decifrato 57. Il direttore, don Emilio Cantarutti, lo alloggiò
prima in una cameretta del collegio Pio IX, nella zona detta “La Tebaida” (attuale
zona della libreria). Poi, partito il mese seguente l’ispettore don Giuseppe Reyneri per
partecipare in Italia al XVI Capitolo Generale, lo pose nella sua camera, cosicché l’i-
spettore al suo ritorno il 15 dicembre successivo dovette alloggiare altrove, sull’altro
lato della calle Adolfo Berro. Per qualche tempo il conte fu anche ospite del collegio
di S. Francesco di Sales, accanto al collegio Pio IX.
Dopo aver inviato immediatamente a don Ricaldone una prima rapida informa-
zione sul suo arrivo e sull’accoglienza ricevuta, il mese successivo si dilungava sui
particolari: “Qui non si è fatto e non si farà mai nulla né d’avventato né che le possa
dispiacere. Ella potrà avere anche altre notizie dagli ispettori che stanno arrivando [...].
La situazione locale non presenta nulla di complesso. È anzi assai semplice: una linea
precisamente di riserbo, come del resto per vari motivi anche di indole economica. La
sistemazione definitiva si è mostrata piuttosto complessa compiendo il suo molto ge-
neroso interessamento, ma La prego ricredere che la cosa sta ottimamente nelle mani
del Padre Silva, senza il cui consiglio io stesso non ho mai fatto e non faccio”58.
Il conte prendeva la colazione con i salesiani e parlava volentieri con loro, spe-
cialmente con don Silvestrel, suo confidente, che ne ricorda l’italiano fiorito. Ebbe
54 Testimonianza orale di don Grussu.
55 Le notizie di questo paragrafo sono dovute soprattutto a testimonianze scritte inviate
al redattore di queste note da don Humberto Baratta (1915-1999) da Buenos Aires in data 25
marzo 1995 e 24 maggio 1995 e da don Mario Selvestrel da Caleta Oliva in data 24 giugno
1994. Conferme orali sono poi venute dai salesiani argentini: il Rettor Maggiore don Juan
Edmundo Vecchi, l’ispettore don Juan Cantini, il professore don Luis Gallo e il salesiano laico,
Marino Francioni.
56 Non è facile sapere come; molto probabilmente lo aveva incontrato nel 1947, nel
corso delle sue due visite alla comunità di S. Tarcisio (13 e 17 febbraio), in occasione del suo
viaggio in Europa come inviato speciale, ministro plenipotenziario, rappresentante del governo
argentino per promuovere l’immigrazione, specialmente dalla Spagna e dalla Francia.
57 ASC B 0760220 Lett. Valeriano Bueno - Ricaldone, Buenos Aires, 20 giugno 1947
ed. in F. RASTELLO, Don Pietro Ricaldone..., p. 406.
58 ASC B 0760221 Lett. Bueno - Ricaldone, 23 luglio 1947.

2.5 Page 15

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 323
rapporti di amicizia pure con don Luigi Pedemonte, all’epoca direttore dell’ospizio
per orfani di Buenos Aires e pro tempore anche della casa di Bernal, in sostituzione di
don Filippo Salvetti, eletto delegato al Capitolo Generale. Don Humberto Baratta ri-
corda di averlo incontrato almeno due volte. La sua presenza restava molto riservata,
per precisa disposizione dell’ispettore, che nel marzo-aprile 1948 lo volle con sé in
un viaggio a sud del Paese 59. Per un certo tempo portò la talare – con il nome di don
Valerio – e fu considerato un sacerdote dell’interno del paese che si era fermato tem-
poraneamente in città e che per vari motivi non poteva esercitare il ministero.
Or sereno or preoccupato, si appassionava alla lettura di volumi di storia eccle-
siastica e di storia salesiana. La biblioteca affidata a don Giovanni Rago (1909-1960)
era il suo luogo preferito di lavoro e colà riceveva molte visite. Sembra che abbia
scritto una biografia di Ceferino Namuncurà, il giovane indio, figlio di un cacico, ac-
colto dai salesiani in Patagonia e morto poi a Roma nel 1905 in concetto di santità60.
Onde alleviargli le sofferenze della latitanza ed approfittare delle sue com-
petenze, i salesiani lo invitarono a visitare le loro case dell’Argentina (Fortín Mer-
cedes, Cordoba-Villada, Bernal...) nelle quali tenne apprezzatissime conferenze di
storia d’Italia e di storia della Chiesa in Italia nell’ottocento e primo novecento. Entu-
siasmò i suoi giovani uditori con informatissime relazioni sul fascismo, sul Risor-
gimento 61, sul Concordato Stato-Chiesa, sulle celebrazioni della beatificazione e
canonizzazione di don Bosco. Una volta, accompagnato in treno da don Gaetano
Bruno al collegio Pio X di Cordoba su richiesta dell’ispettore, dovette rientrare
a Buenos Aires anticipatamente rispetto al programma, perché la sua presenza in città
non era passata inosservata.
Ebbe modo di incontrare proveniente dal Brasile, l’ex presidente del senato
Luigi Federzoni, espatriato grazie all’aiuto dei salesiani della Procura di Roma62.
Il 13 febbraio 1848 rifiutò di trasferirsi, con lo stesso Federzoni, nella casa salesiana
di Ramos Mejia 63.
59 ASC F 063 Ispettoria Buenos Aires, Cronaca. Il conte arrivò fino alla Terra del Fuoco
e a Rio Grande venne presentato col suo vero nome al salesiano Marino Francioni degente
in ospedale.
60 Introdotta la causa di beatificazione, attualmente è venerabile. La citata biografia ad ope-
ra del conte De Vecchi non è stata finora reperita, ma è stata comunque vista dai suoi famigliari.
61 Va qui ricordato che nell’agosto 1933 aveva assunto la presidenza della Società
Nazionale per la storia del Risorgimento, dopo aver già assunto quella della “Rassegna Storica
del Risorgimento”. Il 23 marzo 1934 la facoltà di Lettere di Torino gli aveva concesso la libera
docenza in Storia del Risorgimento e nello stesso mese l’ex quadrumviro assunse l’incarico di
Commissario per gli Archivi del Regno. Nel 1932 l’Università Cattolica del S. Cuore di Mi-
lano gli aveva concesso la laurea ad honorem, ovviamente per motivi politici.
62 Cf F. MOTTO, Non abbiamo fatto che il nostro dovere..., pp. 173-174. Pure Federzoni
visse a lungo ospitato, sotto falso nome, in diverse case salesiane del Brasile. Avuta l’amnistia,
nel febbraio 1948 – dopo che il 6 dicembre 1947 le sezioni unite della Cassazione avevano an-
nullato senza rinvio la condanna all’ergastolo inflittagli nel 1945 dall’Alta Corte – si trasferì in
Argentina, sempre ospite dei salesiani, finché rimpatriò a fine marzo 1848, via Portogallo: cf
Vittoria ALBERTINA, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia, in “Studi Storici” 3
(1995) n. 36, pp. 747-748. Il conte De Vecchi in Argentina ebbe modo altresì di incontrare un
altro “congiurato” espatriato, il “ fascista a metà”, Dino Grandi.
63 ASC F 063 Ispettoria Buenos Aires, Cronaca.

2.6 Page 16

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324 Francesco Motto
Con l’Italia manteneva contatti epistolari. Scrisse varie volte a don Grussu e a
don Battezzati. A don Tomasetti si rivolse l’11 novembre 1947 ringraziandolo per alcuni
interventi “in difficilissime circostanze [...] superate [...] in forma provvidenziale e ri-
cordando la loro stretta collaborazione al servizio di S. Romana Chiesa e dello Stato Ita-
liano e della Congregazione Salesiana che è pure una istituzione sacra e immensa”64.
Il 12 agosto 1948 ebbe una forte emorragia cerebrale, che costrinse i salesiani
a ricoverarlo in ospedale 65. Si riprese e continuò la sua vita di ritiro e di studio.
Nei primi mesi del 1949 poté incontrare a Buenos Aires due Consiglieri Generali:
don Pietro Berruti e don Fedele Giraudi, in visita alle case salesiane dell’America
Latina. Si fece riprendere con loro nella fotografia ufficiale qui allegata.
Buenos Aires, collegio S. Francesco di Sales, 31 maggio 1949: il conte Cesare Maria De Vecchi
è seduto in prima fila; alla sua sinistra don Luigi Pedemonte; alla sua destra: don Pietro Ber-
ruti, don Fedele Giraudi e don Giuseppe Reyneri.
64 Lett. ed. in F. RASTELLO, Don Pietro Ricaldone..., p. 407.
65 Cf “Il Tirreno”, 5 ottobre 1949.

2.7 Page 17

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 325
Una volta ottenuta nel giugno 1949 da parte della Cassazione la certezza
dell’applicabilità al suo caso dell’amnistia Togliatti ai 5 anni di carcere inflittagli
nel 1947 dalla corte d’Assise speciale di Roma, decise di rientrare immediatamente
in Italia.
Ritorno in patria (22 giugno 1949)
Accompagnato al porto da don Reyneri e don Domingo Martinez66, salì sulla
“Santa Fé” della società di navigazione Doden il 22 giugno 1949. Diciotto giorni
di viaggio e poté finalmente abbracciare i suoi nel porto di Genova, non senza un ar-
resto di qualche ora per il non aggiornato elenco dei “ricercati” da parte della polizia
italiana di frontiera. Giunto a Roma, si premurò di andare immediatamente a trovare
don Battezzati a S. Tarcisio e nella stessa direzione volle, in ginocchio, ricevere
l’assoluzione sacramentale 67.
Ormai molto invecchiato e provato nella salute, con i famosi baffi completa-
mente bianchi, era ormai l’ombra del personaggio che fu. Abitava in via Michele
Mercati, passeggiava ogni giorno per Roma, talora col nipotino e più di una volta in-
contrò don Grussu.
Per gli auguri di Natale portò a S. Tarcisio da don Battezzati anche la nuora.
Qualche giorno dopo, ed esattamente il 31 dicembre, nelle vicinanze del Colosseo
ebbe un’ulteriore emorragia cerebrale, e una terza poco dopo, che gli tolse la parola e
lo paralizzò a letto, dove passò gli ultimi anni, prima di morire il 23 giugno 1959.
Il documento che pubblichiamo
È una memoria dattiloscritta di don Francesco Làconi di 26 pagine, datata 2 lu-
glio 1971, con firma autografa, inviata a don Francesco Rastello, come testimonianze
sulla figura di don Ricaldone, di cui il Rastello stava scrivendo la biografia. Il giorno
seguente aggiunse quattro fogli riguardanti la sua esperienza in Palestina dal 5 set-
tembre 1947 in poi. Il 16 luglio 1971, dopo aver fatto nei giorni precedenti un sopral-
luogo di verifica sui luoghi del Piemonte e della Valle d’Aosta che avevano visto
la presenza del De Vecchi, completò la sua memoria con altre quattro pagine, sempre
dattiloscritte, con firma e data autografa68.
Da parte nostra pubblichiamo la suddetta memoria del 2 luglio, aggiungendo in
calce le “note suppletive” del 16 luglio. Le parentesi quadre indicano che abbiamo
soppresso delle pagine, soprattutto relative alla figura di don Ricaldone, non diretta-
mente attinenti la vicenda di nostro interesse. Qualche correzione di punteggiatura, la
correzione dei mesi con caratteri minuscoli e la sostituzione della vocale accentata ì
con la doppia i (per indicare il passato remoto della prima persona dei verbi della
terza coniugazione), sono le poche modifiche da noi apportate all’originale, oltre alla
d di Challand che sostituisce la t (Challant) del testo di don Làconi.
66 ASC F 063 Ispettoria Buenos Aires, Cronaca.
67 ASC F 063 Ispettoria Buenos Aires, Cronaca; inoltre lett. Battezzati - Rastello,
2 agosto 1971 in ASC B 804.
68 Tutta la documentazione in ASC C 127 Làconi Francesco.

2.8 Page 18

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326 Francesco Motto
II. TESTO
[...]
GLI ANNI DELLA GUERRA E L’OPERAZIONE DE VECCHI
[...]
Lo svolgimento degli avvenimenti
Il 28 ottobre 1943 fui mandato a Montalenghe, dove si trovavano sfollati da
Torino gli studenti del Rebaudengo. Era Direttore Don Nazareno Camilleri. Vi ero già
stato per predicare gli esercizi spirituali, ed in quell’occasione vi andavo per la pre-
dica di Cristo Re. Fu in quella occasione che fui messo al corrente che colà vi era il
Quadrumviro Conte Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon. Alla sera ci incontrammo
e si parlò insieme, io ed altri Confratelli con il Conte. Durante la mia permanenza Lo
incontrai altre volte e si parlò del più e del meno, e tra l’altro, saputo che io ero sardo,
si parlò della Sardegna e di Mandas [Cagliari], dove egli conosceva il parroco, dato
che quando era la stagione della caccia egli vi si recava. Si discusse tra di noi anche
della situazione politica in corso, del come le cose sarebbero andate a finire. Mi ac-
corsi che ci si illudeva che le cose sarebbero finite presto e bene, magari prendendo la
piega che ognuno desiderava in cuor suo. Ma non doveva essere così [...].
Noi salesiani dobbiamo mostrarci riconoscenti verso chi ci ha aiutati
Ai primi di novembre vengo convocato d’urgenza a Torino da Don Ricaldone.
Il Direttore dello studentato, Don Maniero, mi dice che devo recarmi subito a Torino.
Tanto lui che io siamo alquanto sorpresi, e sebbene tra di noi si cerchi di giocare ad
indovinello per sapere di che si tratti, non riusciamo a pensare di che si tratti. Per me
penso che si tratti di problemi di studentato, oppure di affari del tutto ordinari.
Ricordo che arrivai verso al sera all’Oratorio. Come mi annunciai a Don Savaré
[Bernardo, segretario personale del Rettore Maggiore], questi, pochi minuti dopo, mi
disse che Don Ricaldone mi aspettava in camera sua. Fu lì che appena entrato, contro
il suo solito mi diede un abbraccio e poi mi invitò a sedere. Iniziò poi così: “Mio caro
Làconi, noi Salesiani dobbiamo essere come ci voleva Don Bosco. Che diresti tu, se
uno ci ha reso dei grandi e segnalati favori e poi si trova in necessità di avere il nostro
appoggio e soccorso?”. La mia risposta fu pronta e senza esitazioni: “Signor Don Ri-
caldone, noi dovremmo fare tutto il possibile per aiutare tali persone”.
Don Ricaldone riprese: “Vedi, io ti ho chiamato proprio per questo. La Congrega-
zione ed io ti chiediamo questo favore. So che conosci bene la Val d’Aosta. Gli avve-
nimenti potrebbero durare a lungo e prima che ci siano delle soluzioni, tutto può capi-
tare. Sai che a Montalenghe abbiamo il Conte De Vecchi. Il posto non è sicuro, e poi
troppi ne parlano. Ho pensato che tu potresti condurlo a Bollengo e là tenerlo con te,
senza che nessuno lo sappia eccetto il Direttore, e, al massimo, il prefetto Don Bonvi-
cino, ma nessun’altro. Sei disposto a fare tutto questo? Te la senti? Guarda che però

2.9 Page 19

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 327
la cosa non è così facile come a prima vista può sembrare. Non devo figurare per
questa volta né io né la Congregazione, perché se tu fossi scoperto dai “Tedeschi o da
quelli della Repubblica di Salò” sarebbero dei guai seri.
A questo punto io capivo che le cose si facevano serie anche per me, e che
quanto don Ricaldone mi chiedeva comportava dei rischi molto gravi. In altre parole
potevo rischiarci la testa, lasciarci la pelle. Gli eventi attraverso i quali andai in-
contro, le varie vicende non smentirono questi miei presentimenti. Se una cosa ci fu,
fu solo questa: lì per lì né io né Don Ricaldone ci potevamo rendere conto dei pericoli
ai quali si andava incontro. Tale però era il mio affetto ed attaccamento, stima ed am-
mirazione per il Rettor Maggiore che non esitai a dirgli che se voleva che giocassi
anche la testa, io ero disposto e che poteva contare su di me. Ero certo di andare in-
contro a delle possibili avventure, ma non per amore di avventure sebbene per la de-
dizione alla Congregazione e l’amore che sentivo per il Rettor Maggiore, ero disposto
a fare quanto mi avrebbe detto. Qui Don Ricaldone si fece serio, e poi con una fran-
chezza di cui gli sarò sempre grato, mi disse: “Tu dovrai agire come se tutto debba
avvenire di tua iniziativa. Figlio mio, se ti dovessero scoprire... caso mai ti dovessero
anche arrestare, guarda che io ti dovrò smentire. Cioè io dirò per non compromettere
la Congregazione e i Superiori, che tu hai agito di tua iniziativa”.
Questo era un parlare chiaro, ed io apprezzai proprio in quel momento la completa
chiarezza del mio Superiore Maggiore. I rischi erano gravissimi; don Ricaldone li in-
tuiva e quasi presentiva, e perciò dovevamo mettere tutti e due tutte le nostre carte in
tavola. Così la mia risposta finale fu questa: “Lei disponga di me come crede, e come
giudica. Appartengo alla Congregazione. Per noi sacerdoti e religiosi si tratta di sottrarre
più gente che possiamo, di tutti i colori, alla morte ed alla strage. Lo farò. A Lei chie-
do soltanto una promessa ed è questa: che Lei mi assicuri che nel caso che mi dovesse
succedere qualche cosa, perché i tedeschi o altri mi potrebbero prendere ed arrestare, ed
anche sottoporre a degli interrogatori (io non mi illudevo), Lei manderà non uno qual-
siasi, ma un membro del Capitolo Superiore a spiegare ogni cosa ai miei Genitori. Lei
dovrà salvaguardare dopo il mio nome ed il mio onore. Accetto a queste condizioni”.
Don Ricaldone si alzò e mi abbracciò e poi mi disse: “Hai alcune ore di tempo.
Verrai a cena con noi, poi dopo le preghiere faremo una riunione del Capitolo a cui
parteciperai anche tu, e così vedremo di intenderci meglio. Intanto tu già pensa a
come intendi eseguire il tuo piano, primo del trasferimento del Conte da Montalenghe
a Bollengo, e poi come intendi fronteggiare ogni possibile pericolosa evenienza”.
Uscito da Don Ricaldone passai a salutare don Puddu [Salvatore, segretario del Con-
siglio Superiore], ma non gli dissi niente, ed egli mi guardò incuriosito con due occhi
furbi e penetranti... Capiva che c’era qualche cosa in aria, ma, discretissimo, non mi
chiese nulla, e solo si parlò per un tantino dell’Ispettoria Orientale.
Il resto della serata lo passai in Chiesa, a dirmi il breviario ed il rosario.
In quanto a farmi un piano di azione confesso che non ci riuscii, e più cercai di
pensarci su e più la testa mi girava!... E così la conclusione fu che mi sarei affidato alla
Provvidenza, alla Madonna, e avrei agito a seconda delle varie circostanze e situa-
zioni.
E così in realtà ebbi a fare.
Vedi che qui si sta allegri a dispetto dei tempi
A cena don Ricaldone volle che sedessi davanti a lui. Non ci fu lettura. Mi ac-

2.10 Page 20

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328 Francesco Motto
corsi che tutti mi guardavano con una certa attenzione. Pensai che già don Ricaldone
li aveva fatti partecipi della mia accettazione. Fra tutti a ridere e scherzare di più era
don Giraudi [Economo Generale], il quale non risparmiò neppure don Ricaldone con
alcune storielle su Mirabello [paese di nascita di don Ricaldone]... Don Ricaldone mi
chiese se conoscevo Barbanera e Chiaravalle... E scherzò a lungo sulle loro previsio-
ni, non solo astronomiche ma anche storico-politiche. Uscendo dal refettorio poi mi
disse: “Vedi, mio caro, come noi Superiori riusciamo a stare allegri anche a dispetto dei
tempi? A Bollengo cercate di tener su il morale dei chierici; state allegri. Date loro la
sensazione che riuscite a superare certe angosce e stati d’animo. Fatevi coraggio”.
La decisione insieme ai Capitolari presenti a Torino
Dopo le preghiere della sera si tenne riunione di Capitolo. Don Ricaldone recitò
la preghiera. Poi mi fece cenno di sedere. Ero di fronte a lui, tra don Puddu, a sinistra
e altri Superiori a destra. Don Ricaldone aveva alla destra don Giraudi. I Superiori
mancanti [don Pietro Berruti, don Pietro Tirone, don Antonio Candela] erano a Roma.
La discussione fu ordinata e durò a lungo. Don Ricaldone espose le ragioni per
cui mi aveva convocato, ripeté che dati i favori ricevuti e gl’interventi del Conte De
Vecchi in nostro favore, soprattutto in circostanze dolorose, egli si sentiva obbligato
in coscienza come Superiore dei Salesiani a dare un aiuto al Conte De Vecchi. Era
chiaro che se questi fosse capitato nelle mani della polizia di Salò, certamente sa-
rebbe finito a Verona come tutti gli altri. Alcuni arresti infatti forse erano già avve-
nuti, ed egli, si sapeva era ricercato... Era sfuggito di casa per un miracolo.
I Superiori approvarono e si mostrarono unanimi nel dare questo aiuto, chiesto
da De Vecchi e dai familiari. Allora don Ricaldone espose quanto a me aveva già
detto: affacciò varie ipotesi: quella di una breve e quella di una lunga durata della
guerra, e non nascose mai che la cosa era quanto mai rischiosa. Perciò ancora una
volta mi chiese se me la sentivo. Risposi di sì, e di nuovo chiesi davanti a tutti l’assi-
curazione che nel caso che mi fosse capitato qualche cosa, ed il Rettor Maggiore, per
non mettere in pericolo né la Congregazione e la vita di altri, superiori o confratelli
(per es. quelli di Bollengo) mi avesse smentito dichiarando che io avevo agito di mia
iniziativa senza che nessuno neppur sapesse di chi si trattasse, egli avrebbe mandato
uno dei membri del Capitolo a chiarificare tutta la vicenda da mio padre e da
mia mamma. Don Giraudi, che sempre aveva le sue battute, disse a questo punto:
“Ci andrò io con Puddu, e così beviamo la vernaccia! Ma speriamo che nulla capiti e
che la vernaccia la possiamo bere lo stesso tutti insieme”. Anni dopo, ricordando
quella riunione, don Giraudi non ricordava la sua battuta ma la riconosceva lo stesso
come sua. Si restò d’accordo così.
Un altro punto che si discusse fu questo: quanti a Bollengo dovevano essere
messi al corrente di tutta questa azione. I pareri erano divisi, ed io mi trovai per la ve-
rità in disaccordo con don Ricaldone e gli altri Superiori. Dalla mia parte era decisa-
mente schierato don Giraudi. Sostenevo che non si doveva dire nulla a nessuno, nep-
pure al Direttore Don Maniero.
Don Ricaldone disse testualmente: “Ritengo che non si possa ignorare il Diret-
tore, ed anche il Prefetto; essi bisogna che sappiano chi è in casa. E poi in caso di
emergenza potrebbero aiutare don Làconi”. Si discusse abbastanza questo punto deli-
cato. Quando si fu alla fine di tutta la vicenda, il sottoscritto, Don Puddu e D. Gi-
raudi, pensando alle varie traversie vissute, potevamo dire che sarebbe stato meglio

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 329
tacere e non fare il nome al Direttore, ma tutti e tre apprezzammo la delicatezza ed il
modo di procedere di Don Ricaldone. Egli agiva a ragion veduta e dopo aver tutto
ponderato. In ogni decisione sapeva ascoltare e poi decidere ed assumersi la piena re-
sponsabilità. Rievocando quei giorni egli stesso ebbe a dirmi: “Certo che se avessimo
saputo quali sarebbero state le reazioni del Direttore di fronte ai pericoli che poi si
corsero, avremmo fatto meglio a trovare la maniera di nascondergli il nome della per-
sona ospitata, ma capirai che al momento in cui discutemmo e decidemmo per me
non c’era altra decisione più giusta e più prudente”. [...]
Superato questo punto, io esposi il mio piano. Dissi che sarei andato al più
presto a Montalenghe. Il Conte De Vecchi avrebbe cambiato nome e si sarebbe chia-
mato Don Antonio Porta. Lo avrei presentato come un prete sfollato dalla Sicilia, e
sorpreso dalla guerra nell’Italia del Nord. Avrei pensato io a persuaderlo a tagliarsi i
suoi baffi rigorosi e a indossare la sottana! Don Ricaldone mi ringraziò a nome di
tutti i Superiori presenti ed assenti, ancora una volta mi disse che si trattava di cosa
pericolosa e mi raccomandò in tutto e per tutto la massima prudenza.
Potendo avrei dovuto sempre informarlo personalmente (in seguito mi servii
anche di un certo don Di Vico, missionario salesiano in Argentina, ed al momento
della guerra in Italia), ma ordinariamente lo feci direttamente con delle frequenti vi-
site a Torino. [...]
Quella notte del 18 Novembre [?] dormii all’Oratorio, poi il giorno dopo tornai
a Bollengo. Mi raggiunse qualche giorno dopo Don Savaré per mettere al corrente il
Direttore ed il Prefetto di quanto si era deciso. Don Ricaldone non volle che fossi io
ad informare Don Maniero e Don Bonvicino ma lo fece fare dal suo segretario perso-
nale, come per dare tutta la dovuta importanza al caso.
Riuniti in direzione, alla comunicazione di Don Savaré, la decisione di avere in
casa il Conte De Vecchi venne accolta con tutta la calma ed il rispetto, senza porre ob-
biezione veruna. Una cosa è certa che nessuno pensava allora ai gravi rischi cui si an-
dava incontro. Qualche anno dopo, nel 1945 ce ne saremmo resi conto, cioè quando io
dovetti all’improvviso fuggire con il Conte accompagnato da don Mario Grussu.
La vicenda De Vecchi
Di questa vicenda riferirò unicamente quanto interessa per mettere in risalto la
figura e l’azione di Don Ricaldone. Richiesto, insieme al Conte Cesare De Vecchi, di
scrivere su tale periodo, ho già dato la mia risposta in merito: cioè se si intende fare
opera storica sono disposto a scrivere su quanto udii dal Conte De Vecchi, diversa-
mente no. E così mi sono accordato con il figlio Giorgio.
Dunque, dopo aver tutto bene disposto in antecedenza, la sera del 17 Novembre
1943 (millenovecentoquarantatré) lasciai Montalenghe con il Conte De Vecchi.
Egli era vestito da prete, con i baffi tagliati. Partimmo su di un calesse guidato
dal Coad. salesiano [Cornelio] Moser. Quando iniziammo il viaggio per Ivrea, come
prima tappa, e poi Bollengo, la giornata era buona, ma strada facendo cominciò a ne-
vischiare. Tutto andava liscio. Moser doveva sapere che il sacerdote anziano che era
sul calesse era solo vestito da prete, ma prete non era. Tra lui e Don Porta si iniziò
una vivace discussione sulla prima guerra mondiale. Ad un tratto dovetti dare al
Conte una gomitata. Stava dicendo troppe cose, e questo dava ad intendere che par-
lava più da generale che non da prete!
Giunti alle porte d’Ivrea, poco prima della stazione ferroviaria, vidi che la

3.2 Page 22

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330 Francesco Motto
strada era bloccata. Ufficiali tedeschi ed italiani con un gruppo di soldati perquisi-
vano quanti volevano entrare in città. Il Conte era ancora senza documenti, e questi li
chiedevano a tutti. Ancora a 50 metri di distanza ci guardammo in faccia sul da fare.
Tornare indietro non si poteva, e i documenti ci volevano. Avevo con me il passa-
porto di quando ero in Palestina. Io ero a posto, ma Don Porta non lo era. Mi venne
un’idea e subito la seguii come d’istinto. Scesi dal calesse, e, precedendo carrozza e
carrozziere, andai dritto dai due Ufficiali che controllavano il passaggio, e rivolgen-
domi a quello italiano dissi: “Sono atteso da Mons. Rostagno, Vescovo d’Ivrea, io e
l’altro sacerdote, ma non so quale sia la strada più breve” e così dicendo feci per ti-
rare dalla mia borsa il passaporto. Credo che anche l’Ufficiale abbia avuto la sua ispi-
razione, perché mi rispose: “Padre andate dritti, e poi chieda più avanti passato il
ponte”. Sorridendo gli dissi: “Se vuole le offro un passaggio, ed anche un caffè al
prossimo bar”. E lui sorridendo mi disse: “Padre, sono piantato qui, e non si sa
quando questa faccenda finirà”. Moser avanzò con il calesse, nessuno badò ai due
sopra, io rimontai e via per Bollengo.... Il primo blocco era passato. Poteva andare
bene, come di fatto andò, e poteva andare anche male. Deo gratias che andò bene.
Sistemazione a Bollengo e continuo interessamento del Sig. Don Ricaldone
A Bollengo sistemai il Conte De Vecchi nei locali della infermeria, dove c’era
una cameretta d’isolamento con i servizi. Molto appartata e comoda.
Fin dal primo giorno il Conte vi si adattò a meraviglia. Egli stesso faceva ogni
giorno la pulizia, così che non aveva affatto bisogno del Coad. [Saul] Tricella, allora
infermiere. A questi feci alcune raccomandazioni, e le cose subito vidi che si avvia-
rono bene. Ogni 15, al massimo ogni 20 giorni, mi recavo a Torino per riferire a Don
Ricaldone come andavano le cose. Dopo qualche mese egli mi suggerì di passare a
vedere la famiglia a Revigliasco. Subito io mi mostrai di parere contrario. La mia pre-
senza a Revigliasco poteva essere notata. Era meglio attenersi alla via più sicura.
Caso mai qualche persona della famiglia mi volesse parlare, allora che venisse a To-
rino, e ci si sarebbe incontrati all’Oratorio, dove difficilmente si sarebbe potuto no-
tare il contatto preso con me. Don Ricaldone – e così gli altri Superiori – approvò il
mio parere, anche se ci furono delle insistenze da parte del Conte stesso per una mia
visita a Revigliasco.
In cerca di altri posti più sicuri
Tanto Don Ricaldone quanto altri Superiori, ed il sottoscritto ci si rendeva conto
che il segreto del Conte De Vecchi, ospitato da noi a Bollengo, era un segreto da Pul-
cinella. Per me ero convinto che a Montalenghe [Bollengo] si sapeva... E del resto
qualcuno aveva parlato che Làconi aveva nascosto un generale a Bollengo... Presto o
tardi la cosa avrebbe potuto trapelare, ed oltre le nostre mura. Inoltre amici dei De
Vecchi a Revigliasco erano venuti a sapere che era presso di me... Con due di queste
persone io mi incontrai a Torino, e più tardi (il 2 Dicembre 1943) alla Esattoria Co-
munale, per non destare sospetti. Io cercai subito di far perdere tracce del Conte, e,
dopo un mio soggiorno in Val d’Aosta, riviste tali persone, dissi loro che non avevo
nessun bisogno del loro aiuto: il merlo – aggiunsi – è al sicuro e gode un buon clima.
Bastò questo perché la cosa fosse risaputa persino a Londra! Ché radio Londra una

3.3 Page 23

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 331
sera comunicò che il Conte de Vecchi era in Svizzera... Respirai. Parlandone con Don
Ricaldone gli proposi di portare veramente il Conte in Svizzera, e ciò per l’estate
prossima o a primavera. Convinsi anche il Conte, ma mai don Ricaldone mi auto-
rizzò. Ci fu qualcuno che gli mise in testa l’idea che la Svizzera poteva essere invasa
dai tedeschi. In seguito, discutendone a mente serena, riconobbe che avevo ragione.
Ciò ci avrebbe liberati da molte ansietà e rischi.
Lui invece mi disse di recarmi da Mons. Rossi, Vescovo di Biella e, a nome suo,
vedere se poteva fare qualche cosa, offrendo un posto più sicuro. La cosa mi appariva
assai problematica, ma dovetti ubbidire. L’ordine mi fu dato il giorno 2 Dicembre
1943, e subito dopo andai a Biella. Quando giunsi mi dissero che S. E. era in una riu-
nione del Clero. Era vero, tanto che io stesso venni introdotto e sentii una predica ai
sacerdoti che facevano il ritiro, e poi Monsignore che parlò. Subito dopo, come
usciva, fui presentato dal Segretario, ma come accennai alla cosa, fui interrotto bru-
scamente e non mi volle sentire oltre... Questo appena feci il nome. Compresi che era
inutile insistere, e che non si volevano grane. E forse Monsignore ne aveva già abba-
stanza. Stimai opportuno ritirarmi e rifare a piedi la strada per Bollengo.
Intanto però dovevo pensare a fornire qualche documento a Don Porta, cioè al
Conte. Ne parlai a Borgofranco a Mons. Cavalla, e poi mi rivolsi in Val d’Aosta a
Don Péaquin, parroco di Challand St. Anselme. Mi ci recai il giorno 2 Febbraio 1944.
Ritirai una bella carta d’identità, così come la volevo. Don Péaquin mi disse che in
caso di bisogno mi apriva le porte. Gli dissi che si trattava di una personalità: parlai
di un generale, ed infatti il Conte era generale di complemento [generale di brigata]
nell’esercito di S. M. Vittorio Emmanuele III. I mezzi di comunicazione allora erano
scarsi, e il più delle volte facevo la strada a piedi. Quella volta venni fermato, mentre
scendendo costeggiavo il fiume. Spesso evitando la strada principale. Due giovani
soldati repubblicani. Mi districai meglio che potei... e fui salvo.
Altre volte fui fermato dai partigiani, dai tedeschi, e sempre anche dopo qualche
lungo interrogatorio, fui lasciato libero. Sempre potevo provare che ero andato in Val
d’Aosta per ragioni di ministero. Ed infatti quando ero sul posto confessavo, predi-
cavo e dicevo messa. Suore e Sacerdoti (così si era d’intesa) dicevano che mi aspetta-
vano, e che mi avevano invitato.
Così fui a Courmayeur dal 23 al 25 Febbraio 1944 e poi dal 4 al 10 Aprile per
la Pasqua, sempre bene accolto dal Parroco, Don Cirillo, ex-allievo salesiano di
Valdocco-Torino.
Il conte comincia a sentire lungo il tempo dell’attesa
Ci si era fatta un’illusione e cioè che gli eventi sarebbero precipitati e che presto
tutto sarebbe rientrato nel normale. Lo stesso Conte la pensava così. Non dico di un
ritorno del fascismo, ma di una rapida soluzione. Per conto mio restavo scettico. Fu la
sera del 29 Maggio 1944 che il Conte mi parlò di passare caso mai verso Cuneo! In
Val D’Aosta c’era chi sussurrava che vi era De Vecchi a capo dei partigiani! Ora
qualcuno pensava a metterlo nel cuneense, tra i partigiani nascosti in quelle zone. Al
conte arrideva l’idea, ed anche a dei familiari e a Don Ricaldone. Ci andai una volta,
girai fino alle zone di Mondovì, e la cosa mi lasciò perplesso. Una sera ne discussi
con Don Di Vico, che serviva da legame tra me e Torino, e la famiglia De Vecchi e il
Conte, e anche questi era del parere. Il Conte abboccò e cercò di persuadermi.
Ed io resistetti alla tentazione. A mio parere, o lo avrebbero fatto subito fuori, o

3.4 Page 24

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332 Francesco Motto
lo avrebbero tradito... Mi rifiutai di andare così alla ventura, tanto che il Conte, ricor-
dando un aneddoto in dialetto sardo, me lo raccontò per attaccare la mia “testardag-
gine”... Ma io non cedetti, e gli eventi mi diedero ragione. Sarebbe stato un suicidio
bello e buono.
Sempre pensavo alla Svizzera, e mi sarebbe stato facile arrivarvi, ma mai potei
convincere don Ricaldone. Fu precisamente la sera del 29 maggio, prima di ritirarmi
in camera (tenevo compagnia a Don Porta spesso oltre la mezzanotte, ché di giorno
ero occupato con la scuola e come catechista), che lui mi disse, un poco desolato: “Se
mi dovesse venire a mancare mia moglie, ti assicuro che chiederei di farmi religioso”.
Sentiva il peso della prigionia forzata... Anche se io al giovedì, alla domenica lo fa-
cevo uscire con me, anche quando avevamo in casa tedeschi e repubblicani!
Parroco a Challand St. Anselme
Le mie frequenti visite in Val d’Aosta avevano fatto sì che fossi conosciuto dai
vari parroci, e anche da S. E. Mons. Imberti, vescovo di Aosta. Spesso gli portavo il
saluto di Don Ricaldone e viceversa...
Fu nel luglio 1944 che Mons. Imberti si rivolse a Don Ricaldone per avermi
a Challand, dato che don Péaquin, a seguito di una triste vicenda con i tedeschi e
soldati repubblicani, dovette darsi alla macchia con gruppi di partigiani delle Valli.
Io ero lì in Luglio. Mi ricordo che per S. Anna, 26 [luglio] celebrai la festa anche
dicendo messa in una piccola cappella. Presenti c’erano pure dei partigiani... La storia
di quei giorni la ometto, ché sarebbe un portarmi fuori dallo scopo di queste pagine.
Ad un certo momento dovetti chiedere a don Ricaldone di permettere a don Grussu
Mario di raggiungermi. E così fu.
Non si ebbero giorni facili, tanto più che ognuno concepiva la “resistenza” a
modo proprio. Il giorno 11 agosto ebbi un biglietto da Aosta di sr. Andreina Beretta,
direttrice delle suore F. M. A. in quella città. In modo velato mi pregava di recarmi da
lei quanto prima: diceva che c’era Remmen. Pensai ad un confratello sacerdote olan-
dese, assistente dei teologi a Bollengo, ma sapevo che era andato altrove a curarsi la
salute, o che era in casa allo studentato. Ma don Grussu ebbe un’idea: Don [Gu-
gliemo] Van Remmen gli aveva parlato di un suo fratello ufficiale nell’esercito olan-
dese. Così, tanto per dire, mi disse che forse era questo fratello. Non sapendo come
stessero le cose, dal biglietto io capii che c’era qualche cosa di serio sotto. E partii la
notte, a piedi verso Aosta, dopo aver cenato con Don Grussu dalla Signora Giovanna
Thiébat, nativa di Logoro [Oristano] e sposata con l’Avv. Thiébat di Aosta, ed allora
internato in Germania...
La traversata, fatta attraverso la montagna, fu avventurosa, ma potei arrivare per
la mattina di buon’ora ad Aosta. In breve mi fu detto tutto: Remmen era proprio l’uf-
ficiale olandese, sfuggito ben due volte ai tedeschi, e poi espulso dalla Svizzera per
intervento delle autorità tedesche per aver svolto attività contro la Germania di Hitler.
Portato al confine italiano, invece che a quello francese, egli scese dal Gran S. Ber-
nardo ad Aosta, incontrò per istrada Mons. Glesaz della Collegiata di S. Orso, e
questi saputo che era fratello di un salesiano che stava a Bollengo, lo affidò alle Fi-
glie di Maria Ausiliatrice di Aosta! Saputo che era ricercato, esse lo nascosero per
qualche giorno sotto il palco del teatrino, ma poi di nuovo pregarono Mons. Glesaz di
riprenderselo. E questi lo misi [sic] all’Asilo dei Vecchi! Quando io arrivai vi era ap-
pena da due o tre giorni. Non posso precisare. Sentii Mons. Glesaz che mi conosceva

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 333
da lunga data, fin dal 1941 allorché mi invitò da Plout, Santuario sopra St. Marcel,
dove ero in vacanza con gli aspiranti di Mirabello, a predicare per la festa di S. Lo-
renzo.
Capivo che quel posto non era sicuro... Anzi potei afferrare il giorno stesso da
fonte repubblicana e tedesca che erano sulla pista di una spia olandese calata in Italia
dalla Svizzera. Non c’era tempo da perdere. Mi recai da Van Remmen, e subito si
poté spiegare bene in francese. Gli diedi 10 minuti di tempo per uscire di lì... Mi
avrebbe raggiunto alla stazione di Aosta. Lo precedetti, comprai due biglietti per il
treno Aosta-Ivrea. Arrivò puntuale, mi vide affacciato da un finestrino ed anche lui
salì sopra. Eravamo soli. Un vagone di prima classe con ufficiali tedeschi faceva
parte del convoglio, in maggioranza vagoni scoperti e carrozzoni bestiame.
Non si era passato che poche stazioni intermedie, che mi accorsi che alcuni sol-
dati tedeschi stavano ispezionando, guidati da un ufficiale, tutto il treno. Non si per-
dette un attimo di tempo. Van Remmen avvertito da me, si spostò in avanti, e quando
gli parve che il treno rallentasse, poco prima di Castel Verrès, con un salto audacis-
simo si buttò giù dal treno. Quando i due soldati e l’ufficiale giunsero da me, mi chie-
sero in buon italiano se avevo visto un signore. I connotati rispondevano a perfe-
zione. Io risposi che con me era salito ad Aosta un signore, ma che dopo che era stato
alcuni minuti con me, senza nulla dirmi era uscito, e non sapevo in quale carrozza si
fosse andato a cacciare... Non lo trovarono. Van Remmen raggiunse Bollengo, ed
anche questi fu salvato.
Quando don Ricaldone venne a saperlo, parlandone con me disse che si doveva
fare di tutto per salvare le vite umane che erano in pericolo. A questo lui incorag-
giava, anche se sapeva che se fossimo stati scoperti, quanti lo facevamo, potevamo ri-
metterci la nostra pelle. Ma in tempi pericolosi senza rischi nulla si fa. Non si poteva
stare con le mani in mano. Tutte le vite umane appartengono a Dio, e Lui ci comanda
anche di rimetterci la nostra vita per aiutare i fratelli. Così anche la storia di Van
Remmen trovò in don Ricaldone approvazione e vivissima comprensione. E fu una
storia che, narrata in altra (posto) sede, dimostra ancora una volta quanto fece la Con-
gregazione per aiutare chi a noi ricorreva per potersi salvare in quelle ore tragiche, e
che spesso apparivano senza via d’uscita e senza campo.
Restando a Challand, la vita non fu facile, fino a che non lasciammo con Don
Grussu. A me quel soggiorno era servito assai, e primo perché potei conoscere vari
gruppi di partigiani, farmene un’idea bene chiara, almeno del come essi agivano in
Val d’Aosta, e intanto studiavo i modi onde passare in Svizzera nel caso che, a suo
tempo, come sempre speravo, mi avessero approvato la mia idea che era sempre
quella di sistemare il Conte in qualche nostra Casa della Svizzera, o sempre lì in
qualche posto conveniente.
Intanto a Bollengo, come ritornai, si riprese la vita di prima, ma sempre io te-
mevo che qualche cosa dovesse trapelare da un momento all’altro. Il Conte leggeva la
storia dei Papi del Pastor, la vita di Don Bosco ed il resto del tempo lo dedicava a
scrivere poesie, alla recita intera del Santo Rosario. Ogni mattina mi serviva la Messa
e faceva la Comunione. Si confessava da me ogni settimana, regolarmente. Mi rifece
la storia della sua vita, della sua attività come fascista, mi parlò di tutta quella tre-
menda e tragica avventura, fino alla notte della seduta del Gran Consiglio. Io consi-
gliai che scrivesse tutto mentre le cose erano vive e presenti. In seguito ascoltò il mio
consiglio, e mi pare che con quelle sue cartelle sia giunto fino al 1931.
Anche questo potrà essere narrato in altra sede, ma ricordo i fatti solo per dire
ancora una volta che don Ricaldone sempre se ne interessava. Ogni 15-20 giorni io

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334 Francesco Motto
mi recavo a Torino. E si parlava di tante cose... e si facevano dei pronostici, così per
consolarci. Ma egli sempre, uomo di fede, mi esortava alla preghiera, e mi raccoman-
dava di dire ai teologi che bisognava vivere da veri religiosi, seriamente se si voleva
ottenere la benedizione di Dio [...].
Idea di condurre il Conte in Svizzera
Da Challand con don Grussu dovetti andare via quasi all’improvviso: in via
confidenziale venni a sapere da alcune persone che in certi ambienti partigiani (dove
il bene della patria era l’ultima cosa!... – e parecchio si potrebbe dire ma preferisco
lasciare tutto nel silenzio) avrebbero desiderato farmi fuori come un passerotto! Non
avevo approvato certi loro piani, almeno di quelli che si erano presentati da me nella
parrocchia. E siccome era gente che certo non soffriva di scrupoli, tutto ci si poteva
aspettare. Mi avrebbero anche potuto mettere in mano ai tedeschi. Si sapeva infatti
che in certi ambienti loro che quando un inglese di nome Charles1 era fuggito per
raggiungere la Svizzera, mentre i compagni erano morti tra i monti (era inverno,
quello del 1944) lui ferito era stato soccorso da partigiani di Challand. Trovandomi
per caso ospite di Don Péaquin, fui io che feci da interprete e che dissi di averne tutte
le cure. Venne il dottore, gli ingessò la gamba rotta, e dopo lo si mise al sicuro in una
baita fuori dal paese in posto abbastanza distante, dove io mi recai più volte2. Non ri-
1 “Nel 1945 i partigiani avevano portato via una Signorina da Challand, di nome Mad-
dalena Joly. Essa fu giustiziata dai partigiani che pare l’abbiano ritenuta una spia. Io venni
chiamato per confessarla, ed il posto era nella località detta Ciavanazze nella Valle del Chasten.
Sia Don Péaquin e sia l’attuale parroco di Challand ritenevano che si trattasse di un unico e
medesimo caso che io ebbi a raccontare a Don Péaquin. Ora devo dire che ancora in altra cir-
costanza io venni chiamato per ragioni del mio ministero. Quattro uomini armati fecero una
poco garbata irruzione nella parrocchia, una sera dopo le ore 17, e con i loro mitra spianati, mi
ingiunsero di seguirli. Avendo io chiesto il perché mi dissero che mi volevano per ragioni del
mio ministero. Li seguii, ma appena usciti dal paese in direzione, anche questa volta della Valle
di Chasten, mi diedero istruzioni di seguire il sentiero, di camminare dietro ad un uomo che
portava in braccio un bambino, e poi avrei ricevuto altre istruzioni. Essi scomparvero, e poco
dopo io vidi un uomo con un bambino a cavalcioni sulle spalle, non in braccio come mi ave-
vano detto, e lo seguii fino a che anche questi non scomparve prima che voltassi sulla curva
che dal villaggio porta all’Evancon. Superata la sponda sinistra del fiume, di nuovo trovai degli
armati, e mi dissero di andare avanti. Salii oltre la località Ciavanazze, e su in alto fin quasi ai
piedi della montagna della Valle del Chasten. Come salii i due parlarono insieme tra loro, ma
potei capire il senso delle loro parole in patuà. Più meno dissero che al ritorno mi avrebbero
tolto gli scarponi e buttato nel fiume. Dunque mi si tendeva un agguato. Proseguii la salita e ad
un dato momento trovai 5 uomini che mi parve che fossero della Valle, ma forse provenienti da
altra zona. Mi dissero di aspettare che dovevo confessare una spia alla quale avevano fatto
grazia di potessi [sic] confessare!.. Questa arrivò circa 20-25 [minuti] dopo. Era giovane, non
aveva più di 25-26 anni, e non era della Valle di Challand. Questo ho confermato a Don Péa-
quin e a Don Mario Vacher, ora parroco a Challand ed ai miei tempi vice-parroco a Fenis”.
2 “Abbiamo pure appurato che il soldato inglese Charles fu alloggiato presso le sorelle
Caterina e Marcellina Thiébat. In seguito, dopo che fu visitato dal medico, ed ebbe la gamba
curata, fu trasportato in una baita di proprietà dei Thiébat, e lo accudiva la Marcellina. Spesso
io fui a trovarlo. Nella mia visita a Challand in data 8 luglio 1971 ho poi saputo che restò ivi
fino alla fine della guerra. Quando gl’inglesi giunsero egli rivestì la sua divisa. Con sgomento
della gente umile ma coraggiosa, che, con rischio della propria vita lo aveva aiutato, riprese un

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 335
cordo il cognome, perché avevo preso il proposito di non tenere nessun scritto con
me, né addosso né in casa.
Così lasciammo una sera con Don Grussu diretti alla Ranzola per non dare
nell’occhio, e di lì scendemmo a Gressoney e si dormì nella casa estiva dei Salesiani
del Rebaudengo (credo che fossero quelli del Rebaudengo a trascorrervi le vacanze
d’estate). Al mattino prestissimo, verso le tre del mattino ci dirigemmo verso la Gran
Mologne, e poi ad Oropa, dove arrivammo nel pomeriggio. Il giorno seguente rag-
giungemmo Bollengo.
Inizio dell’anno scolastico 1944-1945
L’anno non si presentava affatto facile. Ma per quello che riguardava il Conte
l’avvenire era più che buio. Per fortuna che la preghiera e l’abbandono alla volontà di
Dio lo sosteneva sempre. Le notizie giungevano regolarmente dalla famiglia, e Don
Ricaldone sempre si mostrava con lui più che fratello, un vero padre. Sempre se ne
interessava.
In casa però già cominciavano a circolare delle voci... Il prete che Don Laconi
teneva in infermeria e che si chiamava Don Antonio Porta, in realtà non era un
prete... Per distrarre l’attenzione di qualcuno con il Conte si ricorreva a degli strata-
gemmi, a volte anche efficaci. Non è il caso di fermarmi a descriverli. Caso mai po-
tranno essere oggetto di una storia a parte.
Una data storica: 14 novembre 1944
In casa, tanto il Sig. Direttore Don Maniero quanto il Sig. Prefetto Don Bonvi-
cino seppero che il 14 novembre ricorreva il giorno Onomastico del Conte. Ed allora
si pensò ad un poco di festa. Le Suore prepararono la torta, e, non saprei dire dietro
suggerimento di chi, sulla torta disegnarono in burro e zucchero la data del 14 No-
vembre... con l’anno di nascita! La giornata non era al suo tramonto quando venne in
camera un teologo per dirmi che tra i chierici si diceva che Don Porta altri non era
che il Quadrumviro Conte Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon. Più di uno me lo
disse, ma il primo che venne a trovarmi per confidarmi quanto si sussurrava nella co-
munità ben ricordo che era Don Amico Antonino [Antonio] della Ispettoria sicula.
Poi ci furono anche altri. Feci buon viso a cattivo gioco e, mantenendo la perfetta
calma, ci risi sopra, tanto che il mio interlocutore rimase assai interdetto. Mi con-
fermò che i chierici avevano verificato la data scritta sulla torta con quella scritta o
meglio stampata sul dizionario di Brunacci.
Al Conte non dissi nulla, e solo mi lamentai con il Signor Direttore per la im-
prudenza commessa. Chi aveva detto alle suore di scrivere l’anno della nascita sulla
torta? Proprio non mi andava giù e per me il digerirla era impossibile. Anche dei
Confratelli Professori me ne fecero parola, come Don [Michele] Pessione e Don Da
Rold Enrico, ma con molta discrezione e tatto. Ammirai invece la discrezione di Don
Grussu che mai mi entrò sull’argomento.
aspetto alquanto deludente per chi lo aveva salvato, e sotto quella sua divisa tenne un contegno
come di chi fosse giunto a Challand appena allora, insieme agli altri inglesi, e che mai avesse
avuto a che fare con gli abitanti di Challand. Mi è stato detto che molte volte gli hanno scritto,
dopo che rientrò in Inghilterra, ma mai ebbero risposta. Potrebbe anche darsi che sia morto!”.

3.8 Page 28

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336 Francesco Motto
Per mia maggiore tranquillità andai a Torino e ne parlai con i Superiori, e ci fu
una riunione. Ricordo che Don Giraudi, rifacendosi alla prima riunione disse che sa-
rebbe stato meglio non aver detto nulla a nessuno fin dal principio. Tutti eravamo
d’accordo che bisognava tener aperti gli occhi... e tenersi pronti ad ogni evenienza.
Ero io che mi dovevo tenere pronto.
A varie riprese in Val d’Aosta
D’accordo con Don Ricaldone pensai di studiare un piano di fuga attraverso la
Valle d’Aosta. Ora anche Don Ricaldone trovava la soluzione Svizzera sicura, ma
però non si veniva ad una decisione. Sempre si sperava ed intanto si tramandava...
Fui ad Aosta dal 2 al 10 dicembre 1944, e ritornai nella Valle ancora per Natale. Stu-
diai i vari posti verso i quali puntare in caso di emergenza. Nel rientrare la sera del 26
dicembre ebbi una sorpresa, e capii che le cose precipitavano.
Lo sanno anche le suore FMA di Bollengo
Quando a Bollengo si fu al primo inverno del 1943, la famiglia De Vecchi
mandò al papà della biancheria da inverno. Tra l’altro c’era anche un bel pastrano di
orbace. Il Conte lo aveva avuto in dono dal parroco di Mandas. Ottimo per l’inverno.
Ma dato che il Conte vestiva da prete, ed io gli avevo dato un bel mantello nero, non
ne aveva bisogno. E perciò diedi tale pastrano insieme con l’altra biancheria alle
suore e precisamente a suor Giuseppina Vogliotti [n. 1911], incaricata della guarda-
roba. Nel dargliela, dopo averla bene esaminata con il Conte e strappato via tutti gli
stemmi gentilizi, le dissi che era roba di un mio fratello. Intendevo fratello in Cristo,
ma suor Giuseppina pensò ad un fratello nato dagli stessi genitori! Vedendo quel pa-
strano io le dissi che in Sardegna erano ancora molto usati. Ritirò tutto e non se ne
parlò più... Ma fu proprio nei giorni del dicembre 1944 che essa tirò fuori la roba del
Conte dalla casella, non so se per stirarla o per stenderla fuori (nota a parte)3. Il fatto
sta che mentre rimetteva a posto tutto, notò nel risvolto della chiusura della tasca
interna del pastrano la scritta a caratteri ben chiari in filo rosso: “Conte Cesare Maria
De Vecchi di Val Cismon”.
La scoperta era fatta. Capii chi era quel mio fratello... E da quel momento non
ebbe pace. Subito chiamò una volta Don Grussu, altre volte Don Pessione, ed altri
3 “In merito alle Suore F.M.A. di Bollengo, in servizio allo Studentato, come ho scritto,
io fui avvertito da sr. Giuseppina Vogliotti che si sapeva (come ho narrato) che da noi c’era De
Vecchi. Da indagini fatte (data 4 luglio 1971) ho saputo da Sr. Innocente Ponti di Samarate
(Varese) F.M.A., residente nella casa di cura di Roppolo, e che fu a Bollengo per 18 anni, fin
dall’apertura della casa, che le Suore già molto prima erano al corrente della presenza di De
Vecchi in casa, ma non dissero mai nulla. Essa afferma che una consorella, Suor Anna Pagani,
la maglierista, non appena vide una volta il Conte De Vecchi, disse: “Quel prete che è con Don
Làconi, non è Don Porta. Con tutta quella biancheria profumata!... È De Vecchi, che io ho visto
da ragazza una volta che visitò il mio paese”. Suor Pagani allora vide De Vecchi a Fenegrò, vi-
cino a Milano, e mai si scordò di quella sua fisionomia. Suor Pagani disse questo già molto
tempo prima che Sr. Giuseppina parlasse con me. Tuttavia mentre si constata quanto sia diffi-
cile non farsi riconoscere, si constata anche la discrezione delle Suore nel non dir nulla, e ne[l]
non lasciare nulla trapelare fuori del loro ambiente.

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 337
chiedendo di me. Non disse nulla, si tenne il segreto per sé, e ma solo insistette
perché appena giungessi a casa fosse chiamata per potermi parlare. Come arrivai la
sera del 26 Dicembre andai alla ruota, e, ricordo, dato che l’ora era abbastanza tarda,
vennero alla ruota con me, stando a dovuta distanza Don Grussu e Don Pessione.
Come si accorse che ero io dietro la ruota, me la girò e mi disse solo: “Guardi il pa-
strano, il risvolto di chiusura della tasca interna”. Oramai sapevo che anche le Suore
erano al corrente. Mi volli assicurare con certezza se solo la guardarobiera lo sapeva
oppure anche le altre della Comunità. La Suora mi garantì che non aveva detto nulla
a nessuno. La pregai allora che togliesse quella scritta.
Gli eventi precipitano
Da notare che in casa noi avevamo soldati tedeschi e repubblicani. Alcuni sol-
dati tedeschi venivano a confessarsi da me in camera. Ricordo uno che era studente di
medicina. Era di Monaco di Baviera. Si confessava tutto in latino, un latino chiaro,
semplice e grammaticalmente perfetto. Era un giovane di soda pietà. Ogni giorno fa-
ceva la sua adorazione davanti al Santissimo Sacramento.
Una sera durante la benedizione eucaristica, appena intonato il Tantum Ergo,
entrarono degli ufficiali delle SS e fecero uscire i soldati dalla cappella che vi si tro-
vavano a pregare con la Comunità. Questo mio penitente non era presente. Venni a
sapere che i soldati avevano ricevuto ordini severi di non andare nella Chiesa, e tanto
meno con la Comunità. Da quel giorno il mio amico penitente non smise mai di fare
un’ora e più di adorazione davanti al SS. Sacramento. Un giorno mi disse che se
avesse qualcuno delle SS. a muovergliene rimprovero, e se per caso fosse entrato per
farlo uscire fuori, lui lo avrebbe steso svenuto a terra, certo che non si sarebbe alzato
per un paio d’ore! Era il tempo risoluto. Ma infatti nessuno osò dirgli alcunché.
Aveva combattuto in Russia e si era spinto con la sua armata fino al Caucaso.
Avendo avuto piena assicurazione da suor Giuseppina che non aveva tradito il
segreto, e che a nessuna della Comunità delle FMA aveva detto della sua scoperta,
non pensai di andare subito a Torino a riferire a Don Ricaldone che era forse meglio
alzare i tacchi cercando rifugio altrove.
Al Conte che era uscito a passeggio un giorno da solo nelle vicinanze di Bol-
lengo ed aveva incontrato le Suore che tornavano da un loro breve passeggio, nulla
sfuggiva. Parlando con me, con la solita confidenza, mi disse che una delle Suore
dopo aver salutato, lo aveva seguito alquanto con l’occhio.... Non gli dissi nulla per
non allarmarlo, ma solo scherzando (ci davamo del tu) dissi che era ancora molto gio-
vane e che appariva essere un bel Monsignore. Rise di gusto e la cosa morì lì. Ma io
non ero tranquillo, pur decidendo di non andare a Torino se non verso la metà del
mese entrante, gennaio 1945. Ma il 2 gennaio mi dovetti muovere precipitosamente.
Forse un giorno si potrà dire la storia piena... qui basti accennare che da parte di
persone che sapevano che con me c’era il Conte de Vecchi, venne fatto un pesante ri-
catto. La persona che riferì mise per iscritto davanti al Direttore... quanto aveva sa-
puto e poi, con le lacrime agli occhi venne da me. Mi disse tutto e mi diede la copia
(aveva scritto in doppia copia) di quanto aveva creduto essere suo dovere deporre.
A me solo disse: “Fugga quanto prima! Da un momento all’altro ci potrebbero essere
dei pazzi che non riflettono”.
Vidi che non c’era tempo da perdere. Andai a Torino e Don Ricaldone mi rice-
vette subito d’urgenza, insieme a Don Giraudi, Don Ziggiotti [Renato, consigliere

3.10 Page 30

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338 Francesco Motto
Scolastico] e Don Puddu, e mi pare che ci fosse anche Don Serié [Giorgio, altro con-
sigliere del Capitolo Superiore]. Dissi del come una Suora sapesse che Don Porta altri
non era che il Conte De Vecchi, e poi esposi la faccenda del ricatto... Non calcai le
tinte, ma presentai le cose molto oggettivamente diminuendo più che potevo la por-
tata della faccenda... e delle minacce per non destare allarme proprio in Don Rical-
done che era allora molto sofferente. Era del resto quanto mi aveva raccomandato
Don Giraudi e Don Puddu, consultati da me prima di parlare con Don Ricaldone.
E saggio fu il loro suggerimento.
Si era ormai in pieno inverno. Dove andare? Don Ricaldone suggerì ancora una
volta le zone di Cuneo, ma io scartai subito tale posto anche perché ero meno pratico
dei posti e avevo ivi poche conoscenze, anzi quasi nessuna. Allora siccome era al cor-
rente che conoscevo la Contessa Fanny Vialardi di Sandigliano, fu Don Ricaldone a
suggerirmi se per caso non avrei potuto nascondere il Conte nel Castello rimasto
vuoto... o in qualche cascinale. Anzi dal suggerimento passò a dirmi di tentare e di
andare a vedere. Dopo avrei riferito e, se tale soluzione non si dimostrava buona al-
lora mi avrebbe dato il via per la fuga in Val d’Aosta.
L’operazione Sandigliano
Io avevo conosciuto la Contessa Vialardi qualche tempo prima. Essa si trovava
in una casa nella serra d’Ivrea insieme ad altre persone, tra cui della famiglia del-
l’Ammiraglio Nomis 4. L’avevo avvicinata con Don Enrico Da Rold. Dopo un certo
periodo di tempo, dacché aveva lasciato il castello (era dovuta fuggire ricercata dai
tedeschi, mentre il Conte Vialardi suo marito era passato in Svizzera con il Duca di
Pistoia) il posto dove si trovava non dava troppa sicurezza. Allora d’intesa con Don
Da Rold la sistemammo nel Noviziato di Burolo delle Suore d’Ivrea.
Come rientrai nel pomeriggio del 2 dicembre da Torino, andai a parlarle e le
esposi il mio piano. Naturalmente non dissi chi era con me! Ma io avrei voluto vedere
il suo castello. Ne fu ben lieta, ed essa si offrì ad accompagnarmi il giorno dopo non
al castello di Sandigliano ma fino ad un cascinale dove aveva degli amici. Di lì dopo
4 “Conobbi la Contessa in casa del Conte Leone di Cavagnasco a Piverone. Essa aveva
dovuto lasciare il Castello, perché ricercata, nel febbraio 1944 e si rifugiò in casa di Ferdi-
nando Avogrado di Collobiano. In seguito si ritirò dalle signorine Delfina e Cecilia Rolando a
Pettinengo, e poi ancora cambiando posto, per timore di essere scoperta dai tedeschi o repub-
blicani di Salò, prese alloggio dal Marchese Spinola a Poirino nella tenuta Banna a circa 5 km.
dal paese. Qui dal Marchese andò il giovedì santo del 1944, e due mesi dopo a Piverone da
Leone di Tavagnasco.
Ci andai in compagnia di Don Enrico Da Rold, professore di storia ecclesiastica a Bol-
lengo e mio compagno di Roma. Don Da Rold dava allora lezioni ai figli dell’ammiraglio No-
mis di Pollone, Ferdinando ed Eugenio. L’ammiraglio Nomis era quello che, eseguendo gli or-
dini del Re Vittorio Emanuele III e di Badoglio, riparò con la flotta a Malta. La signora del-
l’ammiraglio non ebbe noie perché era di solito chiamata Iucci (Mariuccia) di Pollone, e mai di
solito veniva chiamata Nomis, cioè con il cognome del marito. Così passò inosservata. Tutti da
Leone di Tavagnasco si tenevano nascosti, ma sempre un tantino trepidanti. E si era in parecchi
in casa: la contessa Ritta Leone di Tavagnasco, nata Avogrado di Collobiano, la figlia Mariuccia
Nomis di Pollone, i figli di questa, Ferdinando ed Eugenio; la Contessa Vialardi Tornielli di San-
digliano e Alessandro Leone di Tavagnasco, il padrone di casa. Tutti radunati in uno stesso am-
biente, sarebbe bastata una delazione, un sospetto, e la retata poteva essere bella e fatta!”.

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 339
avermi indicato l’itinerario mi avrebbe spiegato come arrivare al castello, dove avrei
trovato la persona che mi avrebbe fatto da guida nella visita.
La notte del 2 gennaio dovetti tutto dire al Conte De Vecchi. Ne rimase quasi
sgomento. Apprezzò molto la delicatezza di Suor Giuseppina, ma vide anche lui che
Bollengo non dava più garanzia per un soggiorno sicuro e segreto. La presenza poi
dei tedeschi in casa, coi i quali spesso ci si tratteneva a parlare quando si usciva in-
sieme a passeggio, rendeva la situazione sempre più precaria, ed era aggravata anche
dal fatto che dei soldati italiani erano fuggiti disertando. Noi si temeva che potessero
accusare noi di dare aiuto nella fuga!... Tutto allora era possibile... e tutto era anche
immaginabile! Con il Conte si era d’accordo. Scherzando mi disse: “Se ti riesce
questa operazione e ne usciamo salvi lo potessi, ti farei senz’altro già generale di bri-
gata!”. Al che disse sorridendo che in Val d’Aosta avevo conosciuto un generale di
brigata partigiana, elegante e profumato, con due stivaletti legati da cordoncini
bianchi... “Se quello studentello (di cui non nego i meriti e lo slancio) poteva fare da
generale... io mi sentivo al confronto un Giulio Cesare nella Gallie” – Si dicevano
anche queste schiocchezze per vincere le situazioni, per non prenderle troppo sul tra-
gico, perché in realtà il tragico lo si sfiorava ad ogni momento. Oggi ripensandoci mi
accorgo che senza una specie di “incoscienza” per i pericoli che si correvano, quando
un nonnulla ci avrebbe potuto tradire, non si avrebbe avuto il coraggio di buttarsi
nella mischia e rischiare per salvare vite umane.
Ero in possesso di carte militari, e una mi dava tutta la zona di Biella e delle
montagne attorno. Esaminai tutto il tracciato. Del resto fino a Graglia ed Oropa ero
stato tante volte. Conoscevo tutti i sentieri.
Il giorno 3 gennaio, con la Contessa Vialardi, vestita da contadina, verso le 10
del mattino partimmo per il cascinale delle persone a lei conosciute ed amiche. Tutto
andò bene e ci fu anche un buon pranzo. Fu dal cascinale che si mandò una persona
ad avvertire che un sacerdote si sarebbe presentato alla custode del castello. Questa la
si doveva solo indurre a pensare che tramite mio la Contessa volesse sapere in che
condizioni era la casa. Nulla più5. Verso le 15 del pomeriggio mi misi in cammino.
Avevo con me la borsa e dentro il breviario, un poco di merenda: un panino con for-
maggio datomi dalla buona famiglia che mi aveva accolto con la Contessa. Avevo
studiato tutto l’itinerario, messo da parte le carte militari che avevo segnato in prece-
denza a casa con il Conte, al quale avevo descritto il mio itinerario assicurando il ri-
torno immancabile per le ore 18, al più tardi per le 20 ora di cena.
Nelle mani prima dei partigiani e poi di tedeschi
Partii e tutto andò liscio. Indisturbato, senza che quasi incontrassi anima viva io
arrivai a Sandigliano. Ero anzi meravigliato che [sic] di non incontrare della gente. In
5 “Fu nel Gennaio 1945 che mi rivolsi alla Contessa Vialardi per vedere se nel castello,
lasciato quasi vuoto, si poteva trovare rifugio sicuro per il Conte De Vecchi. Gliene parlò prima
Don Da Rold, e poi il giorno 3 Gennaio io mi recai da essa, e si partì per Boriana, e si ospitò nel-
la cascina della Signora Amalia Rossetti, vedova. Lì si pranzò, e di lì fu inviata una persona dal-
la Signora Maria Barbero, donna fidata che la Contessa Vialardi aveva posto a custodia della
casa quando la lasciò, fuggendo perché appunto ricercata dai cosiddetti “repubblichini” e dai te-
deschi. A Biella c’era la cosiddetta Villa Schneider dove di solito venivano condotti quanti erano
presi e interrogati. Fuggita dunque la Contessa, il castello era occupato da 3 famiglie della Ditta
Piaggio, una ditta che allora costruiva piccoli ciclomotori lavorando agli ordini dei tedeschi”.

4.2 Page 32

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340 Francesco Motto
un posto come delle donne e degli uomini mi videro si ritirarono dentro la casa, ed io
ne fui sorpreso. Ma forse quell’apparizione di prete era una sorpresa. Io viaggiavo
sempre vestito così, e solo in alcuni casi eccezionali dovetti mettere la veste nello
zaino. Giunto al castello mi fu facilissimo trovare la governante o guardiana6... e mi
fece vedere tutto. Il castello era in disordine. Soldati tedeschi avevano frugato do-
vunque e lasciato in disordine il posto, tutte le camere. Non mi fu difficile rendermi
conto che andare a Sandigliano era un vero buttarsi in trappola. Quindi come lasciai il
castello per riguadagnare il punto di partenza, il cascinale dove la Contessa mi do-
veva aspettare per rientrare a Bollengo, e lei a Burolo, ero deciso a rifiutare tale posto
come luogo che avrebbe fatto al caso nostro.
L’avventura sulla via del ritorno mi convinse, se ce ne fosse stato di bisogno.
La zona era deserta. Io mi misi sulla strada principale, che allora non era asfaltata.
La strada che dal Castello, uscendo e dirigendosi verso la destra del cancello di en-
trata, punta verso la serra d’Ivrea. Non si vedeva nessuno. Silenzio soltanto, ed erano
già le ore 17. Altro che essere a Bollengo per le ore 18! Sapevo che non sarei arrivato
neppure per le ore 20.
Come camminavo sentii un fruscio prima tra le piante, e poi un comando secco:
“Alt! – e: Fermo!” – Tre uomini con tanto di mitra. Erano dei partigiani. Uno il più
piccolo di statura, era molto nervoso. Mi puntò il mitra sul petto e mi disse che se ero
una spia mi avrebbe fatto fuori. La frase me la sarei sentita ripetere anche da altri
sullo stesso cammino, dopo qualche Km. Ci fu un rapido interrogatorio. Sulla serra
operavano parecchi partigiani. Non sempre la loro strategia era alla pari con la loro
buona volontà e slancio.
Risposi che venivo da Biella e che andavo a Bollengo. Ero salesiano e inse-
gnavo a Bollengo. Avevo il passaporto se lo volevano vedere. Se non ne erano con-
vinti avrebbero potuto accompagnarmi fino a casa e lì rendersi conto di tutto. Ma ag-
giunsi: “Sapete che non potete entrare lì, perché ci sono i tedeschi”. “Lo sappiamo”,
mi rispose uno. Mi lasciarono solo a me stesso e sparirono di nuovo nel bosco.
Rimasi molto perplesso, tanto più che intuivo che forse nella zona o era successo
qualche cosa o stava per succedere qualche cosa.
Non ero andato avanti che qualche chilometro ed ecco che sento una macchina
alle mie spalle. Prima ancora che la vedessi bene mi era già addosso e di nuovo
“Alt!”. Dentro c’erano quattro soldati, di cui due ufficiali. Erano tutti tedeschi eccetto
uno che era un ufficiale italiano. Fu proprio questo a puntare su di me la sua pistola.
Anzi me la appoggiò sull’orecchio destro. Ancora mi sento la canna fredda premuta
contro il timpano. Qui mi fu fatto un interrogatorio molto rapido e concitato. Solo al-
lora capii che ero capitato, senza saperlo in una zona dove si stavano movendo parti-
giani e soldati tedeschi e repubblicani. Del resto i tedeschi erano ovunque: ad Ivrea,
in casa nostra a Bollengo, ad Oropa etc...
Il Comandante, l’Ufficiale tedesco, fece fare l’interrogatorio a quello italiano.
6 “Andando a Sandigliano io incontrai la Sig.ra Maria Barbero e mi accompagnò nella
visita al castello. Finita la visita ripartii subito. Non feci visita alcuna al Parroco, che allora era
Mons. Giuseppe De Lorenzi. Quando finì la guerra, il marito della Contessa, Conte Carlo Via-
lardi di Sandigliano, il quale subito dopo l’armistizio di Badoglio era andato in Svizzera col
Duca di Pistoia, rientrò ed era la fine del maggio 1945. Quando, come ho descritto, rientrai al
cascinale della vedova Sig.ra Rossetti, riaccompagnai la Contessa a Burolo, dalle Suore d’I-
vrea. Essa passò ivi la notte, sebbene ancora non si fosse stabilita lì. Definitivamente andò
dalle Suore nel Marzo 1945 e vi restò fino alla fine di Aprile 1945. Con Don Da Rold io incon-
trai il Conte Vialardi, la prima volta a Magnano, dal parroco Don Sisto Monteferrario”.

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 341
Non riuscivo a capire l’accento di questo se del nord o del meridione. La prima cosa
che fece mi frugò addosso per vedere se ero armato. Non mi trovò nulla. Più disar-
mato di così non potevo essere... Mi chiese donde venivo, e dissi da Biella. Mi chiese
dove andavo e dissi che andavo a Bollengo dove era lo studentato salesiano. Sape-
vano che lì c’erano i tedeschi. Fin qui tutto bene, ma dopo l’interrogatorio riprese.
Cosa ero andato a fare a Biella? Lì per lì risposi che ero andato per parlare con il par-
roco della Cattedrale! Non so come mi venne in mente una tale risposta. Il modo di
guardarmi dei tedeschi non mi lasciava tranquillo, ed il continuo premermi la pistola
contro l’orecchio certo che non era un aiuto per la buona riflessione per dare delle ri-
sposte pacate. Sapevo bene che altri sacerdoti erano stati fatti fuori... e uno lo fu
anche nella serra d’Ivrea... L’assassino per un certo tempo dormì accanto alla camera
di Don Grussu a Bollengo.
Come dissi dal parroco della Cattedrale, subito mi si fece questa domanda: “E
come si chiama il parroco?”. Rimasi interdetto un decimo di secondo e subito risposi:
“Non lo so”. Come, va da una persona e non sa come si chiama? Non ci racconti
storie, se lei è una spia la faccio fuori! Io presi coraggio con tutte le forze, e divenni
quasi aggressivo: “Non si fa fuori la gente come fossero cani o passerotti. Lei mi
porti al comando, a Bollengo dal Maggiore e vedrà che sono chi dico di essere. In
quanto al fatto che non so il nome del parroco della cattedrale di Biella, non vuol dire
nulla. Lei sa dirmi il nome del parroco del suo paese?”. Vidi l’italiano restare inter-
detto anche lui, rimise la pistola nel fodera, e poi vidi che i quattro messisi da parte
accanto alla macchina discutevano tra di loro. L’ufficiale italiano sapeva alquanto te-
desco. Dopo un poco ritornò da me. Mi squadrò di nuovo, poi vedendo che avevo una
piccola borsa di pelle nera (quella che usavo a Roma quando andavo alla Gregoriana
ed al Biblico) mi chiese che cosa avevo dentro, ed io risposi: “Ho dentro il breviario e
la merenda e se vuole favorire...” e feci il gesto di aprire, ma lui ritornò vicino ai tre
tedeschi appoggiati alla macchina. Anche il soldato che guidava era sceso a terra.
Oramai si era in questa posizione da più di un quarto d’ora, ma a me sembrava una
settimana! e forse anche un’eternità.
Di nuovo discussione tra di loro. Ad un dato momento potei capire, avendo una
conoscenza sufficiente del tedesco, che il Comandante mi voleva prendere con loro,
mentre l’italiano pareva piuttosto del parere di lasciarmi andare per i fatti miei. Era
indubitato che essi erano alla ricerca di qualcuno. Del resto non c’erano forse i parti-
giani? Mi venne come in un attimo, temendo la cattura, e sapendo che altri sacerdoti
erano finiti in carcere (ed io stesso ne conoscevo), mi venne in mente fulminea la de-
cisione di sfuggire a quella cattura... Non esitai, e rischiando tutto per il tutto fuggii
uscendo fuori dalla strada. Per fortuna che c’erano delle piante vicine. Senti degli
spari e delle pallottole fischiarmi attorno... Io correvo, ma verso Biella, in direzione a
quella della macchina prima e poi in direzione contraria. Mi inseguirono forse un
poco, ma non credo oltre 100 m. e poi udii il rumore della macchina che andava verso
Ivrea. Io in direzione contraria, di nuovo verso Sandigliano.
Colti di sorpresa, e non prevedendo la mia improvvisa fuga determinata dal
fatto che, per quanto io potevo capire, il Comandante tedesco era del parere che an-
dassi con loro, non mi poterono raggiungere. Corsi per un bel pezzo fino a che giunti
vicino ad un torrentello, mi sedetti per riprendere fiato. Mi venne l’idea di aprire la
borsa, ed anche mangiare una mela. Come aprii la borsa la prima cosa che mi capitò
tra le mani furono le carte militari! Ebbi un brivido per tutto il corpo. Se l’ufficiale
italiano che mi aveva chiesto cosa avevo nella borsa, avesse aperto e frugato dentro,
ritengo che vedendo delle carte militari mi avrebbe certo preso per una spia e fatto

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342 Francesco Motto
fuori. Ma non era la mia ora... Si dice sempre così, ed io pure pensai che Dio mi
aveva scampato da morte certa. In quei giorni non si andava troppo per il sottile.
Intanto arrivai, dovendo rifare un lungo giro, sempre movendomi con estrema
cautela, e così vestito da prete, molto tardi alla cascina dove avevo lasciato la Con-
tessa Vialardi. Questa era molto in ansia, in pena non vendendomi arrivare. E quando
giunse la prima cosa che mi disse: “Don Làconi, Lei ha portato via le carte...”. Partito
si era accorta che le carte militari, invece di lasciarle a Lei, dopo averle (credo per di-
strazione, perché avevo detto e ripetuto che me le doveva tenere la Contessa) riposte
nella borsa, le avevo portate con me. Ad ogni modo era andata bene lo stesso.
Con la Contessa ripresi la via di Bollengo e di Burolo. Prima andai a Burolo per
riaccompagnarla al noviziato delle Suore d’Ivrea, e poi da solo risalii al nostro Stu-
dentato. L’ora si era fatta naturalmente tardi, molto più del previsto.
Quando il conte mi vide arrivare, sapendo dove ero andato, sapendo che avevo
con me le carte militari della zona del biellese e delle montagne attorno, cominciò ad
impensierirsi. Mi disse poi che aveva avuto come un triste presentimento. Questo gli
crebbe fino all’inverosimile, fino al punto da non poter più resistere. Pensò addirittura
che mi avessero preso i tedeschi, e si credette in pericolo. Fu allora che uscito fuori
dalla infermeria incontrati dei Confratelli di notte lungo i corridoi, Don Da Rold e
Don Grussu, li fermò e chiese se io ero rientrato. Alla risposta negativa, egli dichiarò
la sua identità, e disse che era il Conte De Vecchi e che doveva fuggire, perché se io
non ero tornato ciò significava che qualche cosa mi era accaduto.
Mi raccontarono poi Don Da Rold e Don Grussu che essi rimasero di sasso, ma
gli dissero di aspettare. Ed infatti quando arrivai, oltre le 21, furono ben 4 a dirmi
di andare via subito... Don Grussu, Don Pessione, Don Da Rold a cui si aggiunse Don
Paolo Stakul. Sebbene fosse rischioso, credetti bene di temporeggiare e di andare
ancora una volta a Torino. Dissi a quei fidatissimi confratelli di tenere gli occhi aperti
bene, a Don Grussu caso mai di nascondere in caso di emergenza Don Porta dalle
Suore. Col primo mezzo che trovai andai a Torino.
Una seduta decisiva
A Torino di nuovo si discusse del ricatto... e di Sandigliano. Non mi fu difficile
provare che sarebbe stata una trappola. Dissi chiaro e tondo che si doveva evitare la
zona di Cuneo. L’unica via aperta come la più sicura e meno rischiosa per me era la
Val D’Aosta. Sarei andato da Don Péaquin a Challand St. Anselme. Ricordo come
Don Ricaldone capisse molto bene che tutta la faccenda era rischiosissima, e perciò
volle che ne discutessi tutti i dettagli. E fu fatto. Alla fine decidemmo di avere un
altro con me. La scelta, dietro mia espressa indicazione e richiesta, cadde su Don
Mario Grussu che oltre alla scuola di dogma era anche catechista dello studentato.
Questo veniva messo bene alla prova. E ciò nonostante Don Ricaldone, per non
abbandonare un uomo che ci aveva beneficato, faceva anche un tale sacrificio. A tutti
Don Grussu appariva come l’uomo più adatto per accompagnarmi in una simile im-
presa: uomo di grande talento e prudenza, temprato alle lunghe camminate e quindi di
una buona resistenza fisica. Per me era soprattutto il confratello e l’amico, capace di
consigliare anche nelle situazioni più delicate, e sempre di una estrema e delicatis-
sima discrezione. Ne avevo avuto le prove in ogni tempo, ma soprattutto quando
fummo insieme nell’estate del 1944 a Challand St. Anselme. Ma lascio la storia per
un’altra occasione e per altra sede.
Prima di congedarmi Don Ricaldone mi diede la sua benedizione e mi

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 343
abbracciò dicendomi: “Figlio mio, cerca di stare attento. Scegli le vie più sicure.
So bene che ora tu rischi la testa, ed io ti dico grazie per tutta la Congregazione”.
Lasciai Torino al più presto possibile, feci il tratto di strada Ivrea-Bollengo a
piedi, e subito andai dal Direttore. Gli dissi che avevo ricevuto l’ordine di lasciare
Bollengo con Don Porta. Mi avrebbe accompagnato Don Grussu. Il Direttore tirò un
respiro come di sollievo. Poverino! Avere in casa un Quadrumviro, i cui compagni
erano finiti fucilati a Verona, con i tedeschi in casa, condannato a morte in contu-
macia... non era una cosa piacevole anche per chi voleva praticare l’ospitalità cri-
stiana. Quindi era un peso ed un pericolo che cessava per la casa. Ma ne fu anche sor-
preso. In breve spiegai le ragioni, ma senza troppi dettagli.
Don Grussu come gli dissi che avevo chiesto di accompagnarmi, accettò subito,
e come se si fosse trattato di un’avventura alpinistica. Invernale. Del resto l’anno pri-
ma l’avevo tentata all’11 Febbraio, tentando di scalare in pieno inverno il Mombaro-
ne. Non ci riuscii! Questa era una ben altra avventura, ed io rimasi quanto mai confor-
tato dal fatto che lui accettasse di venire con me. Nel rischio anche lui veniva coinvol-
to.
Tutto il resto della serata lo dedicai a Don Porta, cioè al Conte. Esposi le ragioni
per cui si doveva lasciare Bollengo, e lui si mostrò pienamente d’accordo e fu lieto
nel sapere che Don Grussu era il terzo. Mi disse: “Due sardi ed un piemontese an-
dranno certamente d’accordo, e tutto andrà bene”. Si fecero i preparativi. La mia tat-
tica era quella di prendere con noi il meno possibile, il puro necessario. Avremmo la-
sciato la casa verso le ore 8 del mattino seguente, 5 gennaio, vigilia dell’Epifania. Ci
saremmo mossi come chi si reca soltanto fino ad Ivrea per non destare sospetti né in
casa né tra i soldati tedeschi e repubblicani che erano da noi. Saremmo andati fino a
Borgofranco, aldilà d’Ivrea, e lì avremmo cercato qualche mezzo di fortuna per por-
tarci prima a Castel Verrès e poi a Challand St. Anselme.
La mattina, prima della Messa il Conte si confessò, ed anche io... Salutai il Di-
rettore ed i Confratelli Sacerdoti e poi uscimmo più allegramente e disinvolti il possi-
bile. Ricordo che due soldati italiani mi videro e ridendo mi dissero: “Che, padre si
va a sciare?”. “Non proprio a sciare, ma andiamo ad Ivrea e se sarà il caso anche scie-
remo”. Durante la notte era scesa neve abbondante e la strada per Ivrea era tutta
bianca. Alcune macchine erano state bloccate. Tutto questo evidentemente ostacolava
la nostra marcia. Il Conte aveva i suoi anni e poco allenamento. In quanto a me allora
ero in perfetta forma, anche Don Grussu reggeva agli sforzi da pari suo.
I tre magi in mezzo alla neve
Partimmo. Qualche chierico, si può immaginare con quale curiosità, notò subito
la partenza. Sulla strada fino ad Ivrea, parecchie persone ci videro, ma tre preti che
vanno sulla neve, soprattutto muovendosi dallo studentato salesiano di Bollengo,
dove ce n’erano tanti, non destava né meraviglia né sorpresa. La marcia sulla neve
era faticosa e ritardava il nostro cammino. Fummo a Borgofranco (Ivrea)7; dove c’era
una caserma di soldati tedeschi, e ricordo che vi erano anche dei reparti russi. Erano
cioè prigionieri russi che i tedeschi avevano tentato di arruolare nei loro ranghi. Si
notavano subito per la loro foggia di vestito: la tipica divisa invernale russa, come se
7 “Nel lasciare Bollengo si puntò prima su Montaldo d’Ora, dove io conoscevo Mons. Ca-
valla, ma credetti opportuno di non disturbarlo, e così il treno lo si prese a Borgofranco d’Ivrea”.

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344 Francesco Motto
fossero presso Mosca o in Siberia. Ve ne erano alcuni presso la stazione che la sorve-
gliavano. Un avviso, strano, proibiva di avvicinarsi oltre i 200 metri. Ed il cartello era
in tedesco per italiani! Feci cenno a Don Grussu e a Don Porta di fermarsi, ed io da
solo avanzai verso la stazione facendo cenno con la mano. Giunto che fui lì, chiesi se
c’erano dei treni perché noi tre dovevamo andare ad Aosta. Tra di me pensavo che
proseguire la marcia sulla neve fino a Castel Verrès era troppo faticoso per il Conte, e
avrebbe anche potuto destare dei sospetti. I soldati di guardia non sapevano dirmi
nulla e mi indicarono di andare alla caserma dove c’era l’ufficiale comandante. Allora
tornai da Don Grussu e Don Porta e dissi che andassero pure alla stazione. Io mi recai
alla caserma. Mi era maturata un’idea in mente, e già in poche battute l’avevo esposta
al Conte e a Don Grussu. Chiedere l’aiuto di un mezzo al Comandante tedesco. Ciò a
mio parere avrebbe fatto sparire ogni sospetto.
La cordialità di chi è stanco della guerra
Mi recai alla caserma e chiesi del Comandante. Questi venne subito. Era molto
giovane e simpatico. Con molta semplicità gli dissi che dovevo andare ad Aosta (ma
saremmo anche discesi a Castel Verrès), io con due compagni. Credevamo che ci
fosse il treno, ma questo non c’era. I treni allora non viaggiavano certo regolarmente!
Lo pregavo se lui poteva farmi accompagnare con un mezzo militare fino ad Aosta.
I miei due compagni, uno soprattutto, aggiunsi, sentiva la stanchezza e il freddo era
molto acuto. L’ufficiale si scusò e mi disse che non poteva, e che in giornata non
c’era nessun mezzo militare del suo reparto che dovesse andare ad Aosta. Ma mi assi-
curò che fra qualche ora sarebbe partito un treno. Lo ringraziai e poi, seduto nel suo
ufficio, dove mi aveva frattanto invitato, mi fece portare del caffè e anche della
grappa. Ci mettemmo a parlare proprio della guerra. Mi disse che lui ne era stanco,
che la Germania la guerra l’aveva perduta. Dal modo di parlare capii che si trattava di
un ufficiale molto colto. Forse era uno laureato in qualche università tedesca.
Si viaggia su carri bestiame allo scoperto
Come l’Ufficiale mi aveva assicurato un treno venne formato. La maggior parte
dei vagoni erano scoperti. Potevano servire per il bestiame o per il carbone. Ci siste-
mammo in uno, e si partì come Dio volle. Era una gran grazia del Signore trovarci a
Castel Verrès per mezzogiorno. Lasciai Don Grussu con Don Porta presso i Canonici
Lateranensi, ed io partii a piedi per Challand. Mi avrebbero raggiunto il giorno dopo.
Così il Conte si sarebbe potuto riposare.
A Challand St. Anselme
Quando giunsi a Challand saranno state le ore 16 del pomeriggio. Don Péaquin
mi accolse con la solita carità fraterna, e quando gli dissi che sarei stato raggiunto da
Don Grussu e da Don Porta (gli dissi che era un generale travestito) non fece segno
alcuno di sorpresa. Già qualche anno prima gli avevo detto che forse avrei chiesto il
suo aiuto. Del resto la carta d’identità per Don Porta era stata fatta a Challand. Solo
dopo che la guerra fu finita, Péaquin seppe chi era il personaggio. Lui intanto, dopo

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 345
trattative tra Mons. Imberti e il Comandante tedesco di Aosta, aveva potuto rientrare
nella sua parrocchia. Aveva attraversato anche lui i suoi brutti momenti.
Il giorno dopo, 6 gennaio, fui raggiunto da Don Grussu con Don Porta. Il giorno
8 gennaio io mi recai ad Aosta da Mons. Imberti e si discusse di vari problemi. Egli mi
conservava una grande riconoscenza per il fatto che avevo accettato di fare il parroco a
Challand St. Anselme durante l’assenza forzata di Don Péaquin. Sapeva inoltre che
svolgevo molto ministero in varie parrocchie della sua Diocesi. Fin dall’inizio mi ave-
va dato tutte le facoltà. Durante il periodo bellico incontrando una volta Don Ricaldone
a Torino, gli disse che a volte andavo in giro senza cappello! Povero e caro Mons. Im-
berti! Don Ricaldone me lo disse, ed io risposi che non era il caso che varcassi il confi-
ne svizzero con il cappello da prete sul capo a oltre 3000 metri! Parlando con Mons. Im-
berti gli dissi che c’era con me De Vecchi. Lui lo conosceva e non solo di nome... Ma
non si sentiva di farlo venire ad Aosta. Restavo quindi alle mie iniziative sui monti.
Passai la notte da Mons. Glesaz parroco alla collegiata di S. Orso, e mio caro
amico da parecchio tempo. Confesso che non mi sentivo tranquillo. Un particolare mi
metteva dei dubbi addosso. Quando la sera del 5 gennaio io giunsi a Challand, parlai
con alcune persone. Una mi disse: “Allora ha portato qui il generale. Gli avevamo
fatto la carta d’identità qui a Challand!”. Restai secco e senza parola. E non volli ri-
spondere. Forse un giorno si potrà fare luce anche su questo punto. Ma dico forse, e
la faccenda è a trattare in altra storia... Comunque a Challand l’aria non mi parve
buona 8. Fu così che dopo qualche giorno io decisi di spostarmi su di un altro paese,
sopra Chatillon. Ed andai a parlare del Parroco. Il paese era Emarese.
Il posto mi pareva quanto mai sicuro, per varie ragioni. Il parroco accettò di ri-
cevermi. Il giorno 8 Gennaio, mentre ero ad Aosta, avevo chiamato presso Mons.
Glesaz la Direttrice delle Suore F.M.A. di Aosta. Venne accompagnata da Sr. Dome-
nica Grassiano. Ad essa diedi alcune commissioni, pregandola di trasmettere tutto a
Torino al Rettor Maggiore. Essa capì che c’era qualche cosa in aria. Del resto si era
rivolta a me per l’affare di Van Remmen9.
Così era deciso un nuovo spostamento. Anche nella Valle c’era il pericolo dello
spionaggio. Ed io ne avevo le prove in mano. Uno del resto, mentre rientravo a Chal-
land, mi disse che tra i partigiani della Val D’Aosta c’era De Vecchi. Io smentii di-
cendo che già da tempo radio Londra lo dava in Svizzera. Sì, eravamo vicino alla
Svizzera ma separati dalla barriera delle Alpi.
8 “Fu a Challand che io potei avere la carta d’identità per il Conte De Vecchi, sotto il
nome di Don Porta. E [a] farla fu il segretario comunale, Sig. Giovanni Dufour. A Challand si
era costituito un gruppo di partigiani, ma dopo un certo tempo tale gruppo sfuggì ad ogni con-
trollo... Quando io lasciai nel gennaio, il 10, Challand per andare a Emarese (si era come ho
narrato nel gennaio 1945), andai ad Emarese. Era ivi parroco Don Luciano Berruquier. Vi
trovai nascosto anche un ebreo, il Sig. Paolo Todros, medico della mutua (indirizzo: Via Me-
dici 46, Torino - telef. 7743467).
Nella sacrestia della Chiesa vi era un buco. Sollevando delle tavole vi ci poteva intro-
durre e nascondervisi. Passando il Colle di Secore – in italiano = ZUCCORE – il Conte, dato
che si era d’inverno dovette fare grandi sforzi. Il colle infatti è oltre i 1600 metri”.
9 “In merito alla storia di Van Remmen, fratello di un salesiano professore dei teologi a
Bollengo, ho interrogato ancora Sr. Andreina Beretta, ex direttrice di Aosta, ed adesso (4 luglio
1971) è malata nella casa di Roppolo, ed è sui circa 82 anni. Essa ricorda ora poco, ma molto
bene il fatto, e tra l’altro mi ha detto che il Sig. Van Remmen ritornò a trovarla ad Aosta e le
scattò una foto. Essa non voleva, ma l’altro disse: Voglio questo ricordo perché mi fece del
bene e mi aiutò”.

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346 Francesco Motto
Quando tornai dal colloquio col parroco di Emarese tutti fummo d’accordo per
cambiare posto. Si sarebbe partiti come per una gita. Si scelse un pomeriggio, con il
tempo bello. Si era al 10 gennaio.
Nel nuovo nascondiglio
Si decise di partire subito dopo pranzo. Per me andava bene ed anche per Don
Grussu, ma fu uno sbaglio nei riguardi di Don Porta, cioè del Conte. Avevamo fatto
un buon pranzo a base di patate e di polenta. Ed il Conte si era fatto onore, come tutti
quanti noi. Il partire così senza un poco di riposo fu uno sbaglio. Quando infatti si era
a metà salita, dovendo scalare un passo non difficile, ma sempre sotto la neve, per poi
calare su Emarese avvertii la fatica dello sforzo di salire sui monti... e con digestione
in atto, certo non era cosa facile. Ad un certo punto, ma quando eravamo in vista del
colle, a poche centinaia di metri, non più di 300, il Conte si sentiva male, e mi suppli-
cava di fare una sosta e di lasciare che dormisse un poco. Io pensai che avvertisse il
mal di montagna e dissi risoluto che avrebbe riposato e dormito in parrocchia. Mi ca-
ricai ancora del suo zaino, e dissi che si doveva fare di tutto per raggiungere la di-
scesa dall’altro versante. Gli ultimi metri furono davvero un calvario. Ma si arrivò
dall’altra parte. Ora per scendere bastava sedersi sulla neve e lasciarsi scivolare giù,
tenendo bene la buona direzione dietro a me.
Ci si sistemò alla meglio. Al Conte venne data la migliore camera, ma la nostra sa-
la di riunioni era la cucina vicino alla stalla. Le mucche facevano da ottimo termosifone!
Dopo nemmeno una settimana, il Conte, forse per la stanchezza e forse per la
lunga permanenza fuori casa, fu afferrato come da una crisi di scoraggiamento.
Grazie a Dio fu di breve durata. Comunque io stesso, dopo averci ben pensato sopra,
mi rendevo conto che la Valle non dava più sicurezza. Con noi erano nascosti nella
Parrocchia altri due, credo ebrei, e nel paesello di montagna si chiacchierava troppo.
D’altra parte il parroco aveva una perpetua dalla lingua molto più lunga di quella al
servizio di Don Abbondio!....
Così credetti bene di mandare Don Grussu a Torino per parlare con Don Rical-
done e gli altri Superiori. Ritenevo più sicuro un posto in città, nella pianura che non
in montagna. I vari passi erano bloccati dai tedeschi che li avevano ripresi ai parti-
giani, divisi tra di loro, e che avrebbero potuto, a mio avviso, controllare la Valle, ed
invece... Cervinia aveva i tedeschi, e così altri posti. Andavano e venivano.... Ed al-
lora cacciato da un posto bisognava rifugiarsi in un altro.
Viaggio di Don Grussu a Torino e le ore più incerte e dolorose
Don Grussu si recò a Torino, e il suo viaggio di ritorno non fu privo di avven-
ture. Sulla strada di Santhià il camion sui cui viaggiava fu bloccato per una serie di
sparatorie e bombardamenti che si svolgevano sulla zona. Egli rimase parecchie ore
in mezzo alla strada mentre una pioggia violenta si abbatteva sul posto. Bagnato
come un pulcino, fu un vero miracolo che non si buscò neppure un raffreddore.
Le notizie che mi portò non erano certe le più liete. Le sintetizzo. Anche i Supe-
riori erano d’accordo che mi spostassi altrove, se a mio avviso la Valle d’Aosta di-
ventava insicura e pericolosa. Il passaggio in Svizzera in pieno inverno era impossi-
bile per l’età del Conte. Lo si sarebbe dovuto fare quando io lo avevo suggerito, e con
insistenza, ed il tempo era propizio non solo dal punto di vista atmosferico. Parlando
con Don Puddu e Don Giraudi, Don Grussu capì molto bene che qualcuno aveva par-

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Dal Piemonte alla Valle d’Aosta, da Roma a Buenos Aires. 347
lato con Don Ricaldone che non era proprio necessario che mi fossi mosso da Bol-
lengo! E altre cose vennero dette a Don Ricaldone che addirittura smentivano quelle
dette in precedenza da me. Ne rimasi penato, e Don Grussu con me, tanto più che ora
anche lui era al corrente di tutta la intricata faccenda, dei suoi inizi due anni prima e
di tutto lo svolgimento.
È doloroso il dirlo ma si tentò persino di insinuare su Don Ricaldone che si an-
dava in cerca di avventura per l’avventura, mentre si era stati chiamati a giocare la
vita... E in pratica si ripeteva quanto allo stesso Conte si era detto: “Che Don Làconi
andando via senza necessità da Bollengo, esponeva al pericolo la vita stessa del
Conte, se addirittura non aveva in mente di consegnarlo ai tedeschi e repubbli-
cani!!!”. Chi abbia messo in circolazione una così spaventosa menzogna non sono
mai riuscito a saperlo, mentre so bene chi andò a dirlo al Conte De Vecchi il giorno 3
gennaio, mentre io per lui correvo serio pericolo sulla strada Sandigliano-Ivrea. Il
Conte non me lo disse chiaramente subito, ma la vigilia della nostra fuga da Bollengo
scoppiando in pianto me lo disse. Si può pensare quanto egli fosse ben lontano dal
credere a simili fandonie, ma capii che anche nelle case religiose possono esistere
degli anormali che sono capaci di tutto. Questo fatto fu per lui determinante, e perciò
fu subito d’accordo nel voler lasciare la casa per tentare di trovare rifugio altrove. In
altra sede, e con accurati dettagli si potrà ritornare sulla triste faccenda [...].
A Don Grussu avevo consegnato una breve letterina per Don Giraudi e tra le al-
tre cose mettevo in mano di Don Giraudi il famoso biglietto di uno che mi aveva par-
lato del ricatto. Come Don Giraudi lo lesse, disse subito che non lo avrebbe consegna-
to al Rettor Maggiore. Non era prudente farlo soffrire più di quanto stava già soffren-
do per tutta la situazione. C’era poi l’età e il suo stato di salute. In quanto a me, disse
che si sarebbe a suo tempo fatta luce su tutto, e che dovevo con coraggio e fede saper
tutto sopportare. Dello stesso parere furono anche gli altri Superiori. Ciò mi era di
conforto nel sopportare anche un’eventuale nebbia tra i miei rapporti con Don Rical-
done... L’ora esigeva fede e coraggio, e condurre a buon termine l’impresa. A bocce fer-
me si sarebbe poi visto meglio. Ad ogni modo la decisione di non mettere al corrente
Don Ricaldone in merito a certe mene, era a mio avviso saggio, dato il suo stato di sa-
lute.
Di nuovo in viaggio
Il giorno 19 gennaio [1945] si ripartì da Emarese per Torino. Si fece una breve so-
sta ad Ivrea dove fummo accolti molto gentilmente. Come si seppe di un treno per To-
rino si andò alla stazione. Qua e là soldati tedeschi e repubblicani. Una volta in treno
tutto sembrava andare ma ad un certo punto passarono dei militari a chiedere i docu-
menti dei vari viaggiatori. Don Porta, cioè il Conte era vicino a me. Mi diede una go-
mitata come per dire: “Ci siamo!”– ed invece a noi preti non fu chiesto di mostrare nes-
sun documento. Don Grussu e il Conte avevano tutta l’aria di vecchi parroci, e perciò
si tranquillizzarono al vedere il solo loro volto. Si arrivò a Porta Susa e subito fummo
all’Oratorio. Era già buio. Prima di andare a dormire Don Ricaldone incontrò il Conte
che ringraziò per quanto si era fatto per lui. C’era anche il figlio, Conte Cesare. Tutti
ringraziarono. Il giorno dopo si decise che andasse a Castelnuovo Don Bosco, dove
c’era un’altra casa salesiana. Io per il momento sarei rientrato a Bollengo.

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348 Francesco Motto
A colloquio con Don Ricaldone
Incontrai Don Ricaldone due volte: la sera dell’arrivo a Torino, 19 gennaio,
la sera molto tardi. Fu quella la sola volta in cui si discusse molto animatamente.
Ero sul punto di dirgli tutto, ma sapevo della consegna di Don Giraudi di non contri-
starlo, e perciò non volli fare accenni dolorosi per non turbare quel grande uomo che
l’età rendeva per me ancora più degno di stima e di affetto. Dopo tutto era il mio
padre, ed un grande padre, spirituale. Non era l’ora di perdersi in recriminazioni.
Ma il giorno dopo, quando fu per congedarmi, ebbe ancora un tratto di genti-
lezza che non scorderò mai. “Certamente sei stanco”, mi disse “anche se sei stato
assente dalla scuola ai chierici, questi possono aspettare”. Perciò basta che rientri
Don Grussu 10, e tu va nella casa che preferisci e riposati alcuni giorni. Scelsi Ivrea,
e vi restai dalla sera del 20 gennaio fino al 6 febbraio.
Dovevo ancora tenermi in stretto contatto con il Conte, ed essere poi pronto
ad ogni evenienza. Ma non ci fu bisogno di ciò.
In seguito il Conte andò alla nostra casa di San Callisto, e ne ebbe cura Don
Battezzati Virginio, Direttore alle Catacombe. [...]
10 A Challand St. Alselme il nome di don Grussu appare sul registro delle Messe solo
il 24 gennaio.
“Un ricordo speciale merita il carissimo Don Giuseppe Péaquin, parroco di Challand
St. Anselme. Un vero sacerdote, ricco di attenzioni per tutti, distaccato dal denaro, coraggioso
e generoso. Non poco ebbe a patire attraverso varie peripezie da rimetterci la vita. Quando la
prima volta lo conobbi ne ebbi subito una bella impressione, e non errai pensando che era
l’uomo del quale mi sarei potuto servire in circostanze dure. E così fu. Spesso andai a Chal-
land, sempre cogliendo l’occasione per predicare e confessare. Così quando ne ebbi bisogno
egli fu a mia completa disposizione. Come ho narrato ad un certo momento ne presi il posto
nella parrocchia, quando cioè dovette fuggire. Presso di lui c’erano parecchi rifugiati! Tra le
altre persone una signora, iugoslava attualmente nel Canadà, la Sig.ra E. Perera – 4625 Bourret
Aprt. 25 Monteal 252 – Quebec – Canada –. Questa era a Challand ancora quando io dovetti
giungere da parroco. Con sé aveva due bambini, Gina e Ivo. La figlia Gina ora si trova in
Canadà: Sig.ra Gina Halpern – 5701 Léger Avenue – Cote St. Luc – Montreal 268 – Quebec –
Canada. Era ebrea la Signora. Il cognato era un certo Moshia che, rientrato nella Svizzera morì,
secondo le informazioni datemi da Don Péaquin (6 Luglio 1971 alla Magdaleine – dove ora
è parroco – a Milano. Durante il periodo bellico morì a Challand una ebrea, ed io suggerì a
D. Péaquin di fare il funerale... così non si sarebbe saputo che la donna era ebrea. Portarono il
cadavere in Chiesa, in fondo, e lui disse una messa da morto, e poi la si seppellì. In seguito,
dopo la guerra, il corpo fu portato altrove.
“Soggiorno a Challand come parroco: Andando a Challand con Don Péaquin, dopo non
esserci più passato dal 1945, in data 8 Luglio 1971, ho potuto verificare con l’attuale Parroco e
lo stesso D. Péaquin quanto segue: Nel periodo che dovetti occuparmi di De Vecchi era parroco
a Courmayeur Don Cirillo Perron, ancora parroco ivi, e col titolo di canonico. Ad Arnaz c’era
don Aldo Chouquer, attualmente cappellano alla Clinica Maternità di Aosta. Questi subì il
carcere, ma fu liberato. Chi per parecchi mesi, a me e a Don Grussu fece da mangiare era la
Signora Giovanna Thiébat, moglie dell’attuale Sovrintendente agli studi della Regione della
Val d’Aosta, Dr. Avv. Augusto Thiébat. Essa allora si trovava a Challand sfollata da Aosta,
con la mamma e una bambina. Il marito era internato in Germania. |
Sac. Làconi Francesco / Torino, 16 Luglio 971”.