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L’IMPLICITO PEDAGOGICO E CULTURALE
Carlo Nanni
Premessa
Nessuno legge qualcosa senza presupposizioni e punti di vista. Io ho
letto i materiali dei tre volumi degli Atti: L’Opera Salesiana dal 1880 al
1922. Significatività e portata sociale a cura di F. Motto (Roma, LAS 2001)
dal mio specifico “osservatorio”, cioè: 1) di salesiano e quindi con le letture e
l’esperienza personale e testimonianze avute; 2) di teorico e quindi attento
agli aspetti globali e unitari (e metadiscorsivi) possibili in una materia così
vasta e disparata; 3) di pedagogista, vale a dire interessato alla riflessione su e
per l’educazione.
1. Il “boom” dell’opera salesiana
Vorrei partire da una prima impressione: i materiali degli Atti mostrano a
chiare note una rilevante espansione, certamente quantitativa, della Congre-
gazione salesiana e della parallela Congregazione delle Figlie di Maria Ausi-
liatrice (= FMA) soprattutto tra il 1890 e il 1910.
Lo attesta in generale la mole delle esperienze presentate, che mi si dice
potevano essere molte di più, anche su richiesta di interessati che non figu-
rano negli Atti. Ma si leggano in particolare la relazione di Silvano Sarti, Evo-
luzione e tipologia delle opere salesiane, 1880-1922 (vol. I, pp. 107-118) e
quella di Enrica Rosanna, Estensione e tipologia delle opere delle Figlie di
Maria Ausiliatrice, 1872-1922 (vol. I., pp. 151-177). Dopo il 1890 si coglie
quasi una crescita esponenziale. Si analizzino alcune tabelle, ad esempio, tra
quelle di Sarti, la tabella a p. 108.
I salesiani professi (cioè senza contare gli “ascritti” che ancora non ave-
vano concluso il noviziato e la professione religiosa) nel 1880 erano 405; ma
già nel 1890 erano 994 (più del doppio); nel 1990 sono 2723 (triplicati ri-
spetto a dieci anni prima e addirittura settuplicati rispetto a venti anni prima);
nel 1910 superano i 4001 (più di cinque volte di più in venti anni e dieci volte
di più in trent’anni).
È appena da notare che, invece, sembra esserci una situazione di stallo

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tra il 1910 e il 1920 (da 4001 si cresce solo fino a 4417). La spiegazione più
ovvia è che i Salesiani, che in Italia e altrove dovettero andare in guerra, fu-
rono dimezzati da essa (in questo caso la mia fonte “orale” è don Pietro
Braido con cui ho discusso la questione). Ma, per quanto ne so, dopo il 1910,
da parte della dirigenza della Congregazione, ci fu anche una maggiore cura
della qualità di coloro che venivano ascritti (la mia fonte è in questo caso il
prof. Prellezo, che, studiando don Cerruti, ha trovato nelle sue lettere accenni
di preoccupazioni di questo tipo).
In parallelo, altrettanto è da dire per le FMA. Si legga in particolare la
tabella riportata da E. Rosanna, a p. 155 del I volume.
In questo caso l’indice è dato dall’incremento delle opere e non delle
suore. Ebbene se nel 1889 sono 54 le case delle FMA, nel 1908 sono 277
(oltre cinque volte di più) e nel 1922 arrivano a 423, vale a dire quasi nove
volte di più (e se si vede il 1877, quando le opere erano solo 10), si coglie su-
bito il grado di “boom” di crescita anche per la Congregazione delle FMA (in
quarantacinque anni, dal 1877 al 1922, si ha un aumento dell’ordine delle
quarantadue volte di più!).
2. La risposta ad esigenze formative di un contesto difficile
Di fronte a questa eclatante espansione quantitativa, ho cercato di far-
mene una ragione ricercandone le possibili spiegazioni.
Una prima spiegazione mi pare possa essere espressa in questi termini: i
Salesiani e le FMA, crescono perché rispondono al meglio ad una forte esi-
genza formativa (oggi si direbbe ad una domanda sociale di formazione) del
tipo di quella richiesta da un contesto difficile e complesso quale fu quello tra
la fine del 1800 e i primi decenni del 1900.
Indicazioni a riguardo si hanno soprattutto dalle relazioni del primo vo-
lume, specie quelle di Belardinelli e Gutiérrez, Wirth, Caimi, Semeraro, Zito,
ecc. Indubbiamente fu importante l’”effetto fondatore”: la figura di don
Bosco, più che altri fondatori del periodo, ebbe larga risonanza pubblica:
forse proprio perché non ristretta all’ambito ecclesiale, ma con ampie esten-
sioni nel civile.
In effetti la società civile e politica di quel periodo, per tanti motivi,
aveva bisogno di risposte significative di tipo formativo a domande sociali e
politiche più vaste. Si pensi a livello europeo all’espansione colonialistica del
dopo congresso di Berlino (e il supporto dei missionari, spesso richiesto da
governi tutto eccetto che clericali). Ma sono pure da tener conto, come nota
Gutiérrez, le peculiarità tipiche del contesto socio-politico latino-americano
dello stesso periodo.

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Più in particolare sarà da pensare, per un verso, all’incandescente fine
secolo e poi, invece, al primo decennio del secolo, sia a livello internazionale
(segnato dal pacifismo e dalla concorrenza, che ebbe come effetto la corsa
agli armamenti, a livello di mercato mondiale specie tra Inghilterra, Germania
e Francia e gli stessi USA) sia in particolare a livello italiano, quando si ebbe
il decollo industriale dell’Italia giolittiana.
Dopo la sconfitta ad Adua, sotto Crispi, in parlamento si riprese l’espres-
sione attribuita a Massimo D’Azeglio, che, cioè, fatta l’Italia mancava di fare
gli italiani. E certamente, la gente perbene non pensava solo ai cannoni di
Bava Beccaris per sedare i tumulti anarchici o quelli socialisti o per vincere il
malgoverno che era sullo sfondo del fallimento del Banco di Roma, ma a
buone forme di educazione. Il regicidio anarchico a metà dell’anno 1900 fu
come un arrivare al colmo. Seppure di marca positivista, l’istanza di una
maggiore istruzione era invocata e ricercata (si pensi al Credaro e dal 1907
alla Montessori, sia sul piano dell’istruzione “scientifica” che della “reden-
zione sociale”).
Anche in sede ecclesiale, non fu certamente senza incidenza la nuova
presenza della Chiesa nel sociale con Leone XIII. Essa fu, forse, “costretta”
teoricamente con il pontificato di Pio X (cf la repressione del Modernismo e
della democrazia cristiana di Murri e compagni), ma continuò – come con
tutti i papi conservatori dogmaticamente – sul piano del caritativo-sociale,
non solo con nuove congregazioni, ma con la vasta opera sociale da parte di
quella che fu l’Opera dei Congressi e di quelli che furono detti “clerico-mo-
derati”.
3. “Educatori nuovi per tempi nuovi”
Ma c’è, a mio parere, una seconda spiegazione, più diretta.
F. Motto, nella relazione introduttoria (“Introduzione ai lavori”, vol. I,
pp. 29-38) insinua che la specificità della rilevanza sociale riconosciuta anche
da anticlericali, laicisti e socialisti, all’opera salesiana di questo periodo, fu
dovuta essenzialmente al fatto dell’impegno educativo dei salesiani e delle
FMA (e della sua buona – almeno percepita tale – qualità di esso). A dar loro
credito fu la loro maniera di educare, fortemente caratterizzata in senso civile
oltre che ecclesiale (= cf la frase, sbandierata dappertutto e in ogni occasione
civile, per indicare il fine dell’azione educativa salesiana: “buoni cristiani ed
onesti cittadini”), e quindi qualificata da un buon effetto socializzante, cioè
effettivamente capace di produrre per un verso un inserimento positivo nella
società dei giovani poveri e abbandonati e per altro verso di elevare social-
mente i ragazzi e le ragazze delle classi popolari. Tale tipo di azione educa-

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tiva li premiò anche rispetto ad altre consimili iniziative caritative-apostoliche
di altre giovani congregazioni: sicché il “fenomeno salesiano”, riconosciuto
dall’opinione pubblica mondiale, fu certamente legato al fatto che essi eb-
bero, perlomeno, la buona sorte di apparire al pubblico come gli “educatori
nuovi per i tempi nuovi” (cf il testo di Motto, soprattutto pp. 33-34).
In questa peculiarità essi poterono evidenziarsi pure rispetto alla gene-
rica opera caritativo-sociale educativa a favore delle classi povere, che
sempre più veniva giustamente attribuita, anche da parte avversa, ai “cleri-
cali”. Per i Salesiani e per le FMA ci fu quindi come l’attribuizione di una
sorta di “patente pedagogica” di elevata qualità (che li rese “appetibili” anche
vocazionalmente).
Credo che sia interessante richiamare in proposito un testo che non è
stato citato nel convegno in nessuna relazione: quello del pedagogista laicista,
seguace e creativo continuatore di Giovanni Gentile: Giuseppe Lombardo Ra-
dice. Il pedagogista catanese, nel 1920, al termine di un suo opuscoletto piut-
tosto polemico (Giuseppe LOMBARDO RADICE, Clericali e massoni di fronte al
problema della scuola, Roma, La Voce, 1920, pp. 62-64) pubblicava, come
prima «Appendice», questo testo:
“Meglio don Bosco?”
«Benemerito Signore», dice una circolare dei Salesiani ai padri di fami-
glia, invitandoli ad una festa di exallievi. «Benemerito Signore, i nostri exal-
lievi celebrano il fondatore delle nostre scuole, don Bosco, nostro venerato
padre in occasione della inaugurazione a Torino del monumento erettogli col
contributo degli ex-allievi di tutto il mondo».
Don Bosco. Era un grande che dovreste cercar di conoscere. Nell’am-
bito della chiesa fu il correttore del Gesuitismo, e pur senza avere la statura
di Ignazio, seppe creare un imponente movimento di educazione, ridando alla
Chiesa il contatto colle masse, che essa era venuta perdendo. Per noi che
siamo fuori della chiesa e di ogni chiesa, egli è pure un eroe, l’eroe dell’edu-
cazione preventiva e della scuola-famiglia.
I suoi prosecutori possono esserne orgogliosi. Noi possiamo dalla loro
opera imparare qualche cosa per la scuola laica.
Leggete le parole della circolare; intuite subito che i figli di Don Bosco
hanno un grande numero di famiglie e di cittadini d’ogni specie che alimenta
il loro movimento: sono gli ex-allievi. Una Idea li tiene legati alla tradizione
delle loro scuole; sono gli ex-allievi che i salesiani non abbandonano mai;
che frequentano i solenni ritrovi, indetti per loro; che affermano l’Idea in so-
lenni cerimonie, espressione della loro devozione. Questa gente ha fede nella
sua scuola; i loro scolari ricordano la loro scuola, fanno qualche cosa per la

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sua vita. E pagano anche, per glorificarla. Sono forti, sebbene la loro dot-
trina dimezzi la personalità umana ed il loro misticismo implichi l’abdica-
zione dello spirito, che si arma solo della coscienza della sua debolezza e
della speranza, che rimanda la vita oltre la vita.
Se la nostra scuola non giungerà a tanto: ad essere centro attivo della
vita giovanile, che leghi a sé i giovani, anche dopo che l’han lasciata, nell’o-
pera o almeno nel ricordo; se la nostra scuola non avrà i suoi ex-allievi,
come allievi grati alla madre e desiderosi qualche volta di rivederla e di rivi-
vere cogli altri loro compagni i giorni lieti dello studio e del lavoro scola-
stico: non sarà ancora scuola.
Intanto, i nostri scolari scioperano; i nostri giornali politici parlano di
cocottes e bandiscono concorsi di bellezza, e danno alla scuola e all’educa-
zione l’ultimo posto delle loro colonne; quasi tutti i nostri deputati trovano di
cattivo gusto occuparsi di scuole; i nostri professori si agitano solo per gli
stipendi; i nostri maestri mutantur in horas e: nessuna scuola ha una tradi-
zione sua. Scuola? No, ufficio distributore di diplomi. Scolari? No, contri-
buenti recalcitranti alla tassa di lavoro cerebrale.
Don Bosco? Il segreto è lì: UNA idea. La nostra scuola: MOLTE idee.
Molte idee può averle anche un’imbecille, prete o non prete, maestro o non
maestro. Una idea è difficile. Una idea vuol dire un’anima. Una, una vuol es-
sere!
La nostra «UNA» idea è la divina libertà dello spirito, in contrapposto
all’idea dei credenti, che è il mistico annullarsi della persona nel Dio che
essa non fa, e che le è di contro come l’assoluto, mentre essa è il nulla.
Ma la divina libertà vuole una gioiosa e insieme faticosa formazione
della persona umana nel bimbo, nel fanciullo, nel giovinetto. E noi invece ab-
biamo svogliati pappagalli, che ripetono la parola quando c’è la chicca (la
visione, ohimè, dell’esame, del punto, del posto, del pane, della tessera per la
libera concorrenza all’intrigo della vita).
Allora? Meglio don Bosco? Meglio sì, meglio la scuola clericale, o la
scuola socialista, o la scuola dell’anarchia, o qualunque scuola dommatica,
che questa scuola anti-dommatica che è la scuola del nulla, e non sa essere
anti-dommatica se non sostituendo al dommatismo della fede, di una fede, il
dommatismo delle notizie, dei sunti, di quadri sinottici delle date e via di-
cendo; e a una idea, molte idee, cioè nessuna idea.
Don Bosco! Salesiani, continuate il vostro lavoro. Noi, vostri avversarii,
vi salutiamo con gratitudine, perché voi e tutti gli altri dogmatici, simili o di-
versi da voi, se lavorerete con vera fede costringerete – contro il vostro pro-
posito – a rinvigorire le scuole (dalle prime alle superiori) dove una fede e un
dogma non si insegna, ma tutte le fedi si studiano per acquistar fede in sé,
(fede nel pensiero).

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Soldati della nostra scuola, ricordatevi che per vincere l’esercito di Don
Bosco, bisogna epurare le scuole del massonismo neutro, che le ha popolate
di molte idee, vermi brulicanti sul cadavere dell’Idea, morta nello spirito dei
falsi laici. Ma è morta nel vostro? La teofania non è nel libero formarsi della
persona umana? Credete a questo libero formarsi? Ritenete sacro il bambino
perché esso è «un dio che comincia» come disse il Gioberti, come il Gentile a
chi lavora oggi in Italia scopre e ridice, con più profonda indagine?
E se questo credete, questo fate!”.
4. Le idee forza dell’azione educativa dei salesiani e delle FMA
Come fanno capire la relazione introduttiva e quella conclusiva (vol. III,
pp. 515-522) di F. Motto, il convegno ha fatto una sorta di scelta/restrizione
di campo: si è, come dire, limitato alla rilevazione delle “opere”, cioè delle
istituzioni in cui si è dispiegata l’azione educativo-pastorale dei Salesiani e
delle FMA nel quarantennio indagato (1880-1922). Ma proprio quanto si è
detto, e la lunga citazione di Giuseppe Lombardo Radice, mi pare giustifichino
una breve evidenziazione di quella “idea pedagogica” che, seppure in varia
misura – come si dirà – fece da supporto “ideale” alla pratica educativa attuata
nelle opere dei Salesiani e delle FMA, permettendone il “successo sociale” in
quei non facili decenni immediatamente seguenti alla morte del fondatore
(1888). Essa del resto è implicita e qua e là traspare nelle diverse ricostruzioni
delle opere, riportate nel secondo e terzo volume. In estrema sintesi si può dire
che il sistema preventivo attuato dai salesiani e FMA fa riferimento:
l) ad una scelta di fondo proiettata ad operare per il bene, nel senso più
vasto del termine; e che porta a ricercare in particolare il bene spirituale dei
giovani (“Da mihi animas”), ma che si precisa come “carità educativa” e
azione di promozione umana a favore dei giovani “specie i più poveri ed ab-
bandonati”;
2) una profonda fede nella benignità e nella paternità misericordiosa di
Dio, riferibile esemplarmente a san Francesco di Sales (da cui la scelta per il
nome della congregazione);
3) una profonda convinzione circa la grandezza e la fragilità del ragazzo
e la sua dignità di figlio di Dio, che con don Bosco porta a dire: “senza di voi
non posso far nulla”; o che “in ogni ragazzo anche il più traviato c’è un punto
accessibile al bene”; e che spinge ad educare nella tradizionale fiducia del
“niente ti turbi” che fu di Gesù, di s. Paolo, di s. Teresa d’Avila, di s. Fran-
cesco di Sales;
4) uno stile di intervento, nei confronti dei giovani, improntato a ragio-

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nevolezza, ad amorevolezza (nella convinzione che “l’educazione è questione
di cuore”) e alle motivazioni profonde che discendono da una visione reli-
giosa della vita;
5) una struttura educativa di base, fondata su una presenza attiva ed ami-
chevole atta a favorire l’iniziativa e a crescere nel bene (“assistenza e preven-
tività”); ed esemplata sulla struttura, le dinamiche, le funzioni e lo “spirito di
famiglia”, in modo tale che ciascuno si possa sentire “a casa sua”;
6) il fine ultimo dell’azione educativa è formare “buoni cristiani ed
onesti cittadini”, che si “guadagneranno il pane con il proprio lavoro”, con-
cretizzato in un progetto-uomo (che coniuga insieme lavoro, religione, virtù)
e un più vasto progetto-società (che ricerca pietà, moralità, cultura, civiltà);
7) a queste idee-forza fanno da “corpo”, cioè danno consistenza istitu-
zionale, procedurale, giuridica, storica sia la “casa salesiana” che un ricco
“armamentario” pedagogico.
La “casa salesiana” (sia essa scuola, collegio, oratorio, parrocchia, labo-
ratorio professionale, colonia agricola o altro) è esemplata sull’Oratorio di
Valdocco, che come dicono le recenti costituzioni dei Salesiani intendeva es-
sere per i giovani “casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che
avvia alla vita e cortile per incontrarsi con gli amici e vivere in allegria”.
L’”armamentario” pedagogico è costituito da una serie “congegnata” di “di-
spositivi” educativi che vanno da una precisa organizzazione dell’ambiente,
alla regolamentazione della vita comunitaria, di gruppo (con le forme associa-
tive delle “compagnie”), di massa; all’insieme delle attività ricreative, lu-
diche, fisiche, culturali, religiose; alla scansione dei tempi di festa e della
quotidianità giornaliera, settimanale, periodica, annuale; al vivo senso di
coinvolgimento, di corresponsabilità, di partecipazione di tutti ed ognuno alla
vita della “casa”; all’uso ricorrente di momenti rituali e di momenti di sponta-
neità e di svago; al ricorso a forme di comunicazione di massa o indiretta e a
forme di comunicazione interpersonale, diretta, intima, fino alla famosa “pa-
rolina all’orecchio”; ma fino anche a certi “mezzi educativi” tipici della tradi-
zione salesiana: la banda, il teatro, le passeggiate annuali, la festa delle ca-
stagne, dell’Immacolata (soprattutto per i collegiali), di san Giuseppe (soprat-
tutto per gli artigiani), di Maria Ausiliatrice (di maggiore respiro pubblico)...
5. Attese di approfondimenti
La scelta di campo, fatta dal convegno di limitarsi ad una “prima feno-
menologia delle opere” ha forse impedito alcuni approfondimenti che avreb-

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bero, a mio parere, giovato sia alla storia del periodo ricoperto dal convegno
(1880-1922) sia ad una maggiore comprensione degli sviluppi successivi
delle due congregazioni.
5.1. Nel terzo volume, una comunicazione presenta l’opera del padre Lino
Carbajal e il suo apporto scientifico alla conoscenza delle Pampa-Patagonia
dell’Argentina (vol. III, pp. 87-109); una seconda, offre un quadro dell’atti-
vità dell’ex-alunno salesiano uruguaiano Luis Pedro Lenguas (1862-1932),
medico, politico, periodista, promotore di opere sociali (oltre che cristiano in
fama di santità).
Altre persone “fisiche” non sono studiate nei tre volumi degli Atti. Nella
relazione di M. Wirth (Orientamenti e strategie di impegno sociale dei sale-
siani di don Bosco, vol. I, pp. 73-105), si citano quasi “en passant” Francesco
Cerruti, superiore incaricato delle scuole e della formazione per vari anni,
Carlo Maria Baratta a Parma, Francesco Scaloni in Belgio, e lo stesso Pietro
Ricaldone, al tempo consigliere per le scuole professionali. Ora tutte queste
figure, forse, avrebbero meritato anch’esse una maggiore evidenziazione: non
solo in quanto testimoni privilegiati, ma in quanto espressione di quella storia
delle idee che fa storia non meno della storia degli effetti, delle opere (che il
Convegno ha invece privilegiato), pur sempre e magari solo rimanendo nel-
l’ambito di quella “significatività e portata sociale” (che il convegno ha vo-
luto mettere a fuoco dal punto di vista ideale).
5.2. La relazione introduttiva accenna al fatto che “l’azione sociale” dei Sale-
siani e delle FMA fu “intrinsecamente congiunta con l’impegno apostolico”
(p. 33). Mi sembra che non sarebbe stato fuor di luogo indagare sulla qualità
culturale e teologica di tale rapporto.
Lo spunto mi viene dal racconto riportato da M. Wirth in una recente
pubblicazione [La figura di don Pietro Ricaldone e le linee del suo governo
in S. Frigato (a cura di), Don Pietro Ricaldone. Quarto successore di don
Bosco (1932-1951) a cinquant’anni dalla morte (25 novembre 1951),[edi-
zione fuori commercio], pp. 15-29].
A pag. 18, si racconta che: “nel 1920 fu inaugurata una grande mostra
professionale all’Oratorio. Tra i visitatori vi furono anche scrittori e politici,
specialmente Gramsci e Togliatti, ai quali don Ricaldone spiegò senza com-
plessi che per realizzare il vero comunismo ci volevano tre cose essenziali:
povertà castità e obbedienza…”.
F. Motto nella sua relazione finale cita il severo giudizio che Sergio
Quinzio dà dell’opera salesiana (e di quella del Cottolengo), al di là del loro
successo sociale immediato: “Non hanno inciso minimamente sul grande
corso della storia successiva” (vol. III, p. 520). È esatto un tale giudizio? Di

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che qualità culturale-teologica era questo pur generoso impegno apostolico
educativo e questa pur meritevole azione sociale? Debole (a giudicare dalle
parole di don Ricaldone, superiore della Congregazione)? Può essere presa a
motivo (ovviamente non da solo) dell’eventuale verità del giudizio di
Quinzio?
5.3. Un terzo approfondimento, che a mio parere sarebbe stato necessario, è
quello relativo alla effettiva recezione del sistema preventivo ricevuto da don
Bosco e dai primi salesiani. Questa attesa di chiarimento mi proviene da un
doppio dubbio-timore:
1) che all’entusiasmo per don Bosco e il suo modo di educare non si sia
accompagnata, in molti casi, una acconsentita, personalizzata e cosciente fon-
damentazione teorico-pedagogica, sicché nell’attività educativa pratica lo
scollamento tra ideale salesiano e comportamento effettivo dei Salesiani e
FMA sia stato di una certa rilevanza (e non sempre in senso positivo per la
formazione delle personalità dei giovani e delle giovani, educati nelle opere
dei Salesiani e delle FMA!);
2) e che a motivo di ciò (e magari in connessione con l’eventuale debo-
lezza “culturale e teologica” di cui sopra), la pratica educativa salesiana, suc-
cessivamente al periodo studiato, sia stata più facilmente esposta ad incidenze
non proprio di segno della familiarità ed amorevolezza o ragionevolezza del
sistema preventivo “carismatico”: specie quando, ad esempio, con Salesiani
addestrati militarmente per effetto inerziale della loro esperienza di guerra
prima e della socializzazione fascista poi – come molte testimonianze atte-
stano – si è andati piuttosto verso modi più da educazione disciplinata e mili-
taresca, da collegio nazionale o da caserma di reclute militari che da “ideale
di Oratorio di Valdocco” (pur continuando la funzione socializzante e la
caratterizzazione popolare, ma di impregnazione “fascista”, della pratica
educativa).
Conclusione
Rispetto a queste questioni di carattere storico pedagogico-culturale,
Motto, nella sua conclusione, a p. 521, precisa che “il convegno non era chia-
mato a rispondere ed è scontato che per farlo saranno necessari ulteriori studi
di cui oggi non si dispone”.
Allora, anche la mia conclusione sarà “scontata”. Ringrazio tutti, ed in
particolare gli organizzatori, per la mole del lavoro progettato e per i risultati

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presentati. Essi ci danno un denso spaccato storico dell’opera salesiana,
degno di vero apprezzamento. Non solo evidenziano la rilevante “significati-
vità e portata sociale”, ma offrono un quadro nitido e affascinante di istitu-
zioni (= le due Congregazioni) in pieno sviluppo, veramente sorprendente.
E tuttavia, quasi naturalmente, la lettura dei testi offerti invita a prose-
guire nella ricerca qualitativa per lo stesso periodo e in quella
quantitativa/qualitativa per il periodo successivo.