Discorso RM-Giovedì santo

"Vi ho dato l'esempio perché,
come ho fatto io, facciate anche voi"

GIOVEDÌ SANTO: LA CENA DEL SIGNORE

Es 12,1-8.11-14; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-5

Roma, Casa Generalizia - 8 aprile 2004

Abbiamo incominciato la Settimana Santa con la Domenica delle Palme. E nella orazione colletta abbiamo pregato: "Padre onnipotente, che hai dato agli uomini un modello nel tuo Figlio fatto uomo e umiliato fino alla morte in croce, fa' che conservando presente l'insegnamento della sua passione possiamo partecipare alla sua Gloria".


È bello, molto bello, sapere che in questo tempo in cui da una parte si sente un grande bisogno di persone sulle cui orme modellare la propria vita e, dall'altra, ci sono tanti idoli che ci sono proposti in tutti i campi, è bello vedere che Dio Padre ci offre un vero modello: suo Figlio.

Proprio domani, venerdì santo, sentiremo nel racconto giovanneo della Passione Pilato che, mostrando Gesù flagellato ed incoronato di spine e schernito con un mantello di porpora, dice alla folla: "Ecce homo" (Gv 19,5). "Ecco, l'uomo". Ecco il Figlio di Dio incarnato, il Re-servo, il nuovo Adamo, il nuovo uomo, il modello fontale di ogni uomo.


Certo, troviamo resistenza psicologica e quasi direi ripugnanza viscerale dinanzi a questo modello d'uomo. La nostra immaginazione ci porta a pensare come modello da imitare l'uomo trionfatore, pieno di successi, ricco, bello. Ci capita appunto di avere lo stesso atteggiamento che abbiamo dinanzi alla croce, dove ci risulta "un duro discorso" quello di pensare ed accettare un Dio-Crocifisso, perché le nostre idee su Dio non si addicono a questa rivelazione. Eppure, è il Padre che ci ha dato questo modello: "il suo Figlio fatto uomo e umiliato fino alla morte in croce".


Questo vuol dire che non c'è un'altra strada per raggiungere la pienezza umana se non quella dell'amore portato sino alla fine, all'estremo di consegnarsi per gli altri, qualsiasi sia la nostra condizione di uomini o donne, consacrati o laici, adulti o ragazzi.

Questo è infatti il disegno di Dio: il mistero della Pasqua, che è mistero di morte e vita.


L'accettazione cordiale ed esistenziale del modello offerto dal Padre è un dono di Dio, perciò gli abbiamo chiesto la grazia di avere sempre presente "l'insegnamento della sua Passione per partecipare alla sua gloria".


E oggi, giovedì santo, è lo stesso Gesù, che ci si presenta come maestro: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi...". Oggi riceviamo da Gesù il suo comandamento: "Vi ho dato l'esempio perché, come ho fatto io, facciate anche voi".


Siamo invitati dunque a fare della nostra chiesa il Cenacolo, simbolo e prolungamento di quello stesso Cenacolo dove Gesù radunato con i suoi discepoli celebra la Pasqua e sigilla la nuova alleanza. Entriamo con stupore e riverenza in questo recinto sacro, tutto intriso di una atmosfera - la più intensa - di intimità. È l'ultima cena. Gesù fa il memoriale della Pasqua d'Israele, ma la attualizza nella propria vita, le dà un nuovo senso e la porta a compimento. D'ora in poi non significherà più la liberazione sociale di un popolo riscattato dalla schiavitù in Egitto, ma la salvezza totale di tutti gli uomini e donne del mondo nella morte di Gesù. Quella era un simbolo. Questa è la realtà.

In questo contesto di congedo Gesù, il Signore, il Maestro, fa due gesti che egli stesso spiega:


Innanzitutto la lavanda dei piedi dei suoi discepoli. Il modello che il Padre ci presenta è quello del Figlio di Dio che si rende servitore degli uomini. "Ecco l'uomo".


Gesù giunse a definire la propria esistenza con la parola "servizio" quando, parlando ai discepoli che disputavano chi fosse il più grande tra loro, disse: "Per questo sono venuto: per servire e dare la mia vita come prezzo di riscatto per molti" (Mc 10, 45).


Servire è un progetto completo di vita che abbraccia la totalità dell'esistenza. Non è una fase della vita, né una funzione. Si tratta di una comprensione della vita non centrata sul successo personale, sullo sviluppo professionale, sulla realizzazione del progetto personale, ma sull'abbandono affinché sia lo Spirito la guida della nostra vita, e, quindi, sull'autodonazione. "Nessuno mi toglie la vita; sono io che la offro di mia volontà" (Gv 10,18).


Servire è una scuola di vita, qualcosa che bisogna imparare. Ci porta a valorizzare gli altri per quel che sono, per quanto attendono da noi, non per ciò che noi vorremmo che fossero; significa comprendere i ritmi e la storia delle persone cui siamo inviati. Significa, semplicemente, fare nostro l'atteggiamento del "buon samaritano" che vede il bisogno di chi è caduto al bordo della strada, abbandonato e in cattive condizioni; gli si avvicina pieno di misericordia, si accosta, lo rialza, lo riempie di attenzioni e se ne fa responsabile (Lc 10, 30-37).


Servire vuol dire essere responsabile degli altri, superando la tentazione e il peccato di Caino: "Sono forse io custode di mio fratello?" (Gn 4,9b). Significa non disinteressarsi di ciò che accade a coloro che vivono con noi, a coloro che ci sono stati affidati. Al contrario, significa sentirsi chiamati a dare il meglio di noi, ad offrire soluzioni, soprattutto quando le persone -a ragione o a torto- si sentono maltrattate, ferite, risentite, frustrate, senza respiro

Servire, pertanto, significa avere più cura delle persone che delle cose o delle strutture. È questa la connotazione che porta in sé la parola "riscatto": qualcosa che bisogna pagare per liberare un familiare e ridonargli la libertà perduta.


"Ecce homo". Ecco il nostro modello in questa società tanto bisognosa di passare dalla creazione dell`Homo consumens" alla gestazione dell`Homo serviens".



L'altro gesto, tanto più sublime quanto più inimmaginabile, è l'istituzione dell'Eucaristia.


Non si può non restare ammirati, affascinati da questo amore di colui che per donarci la vita ha fatto della sua carne cibo di vita eterna e del suo sangue bevanda di salvezza. La sua incarnazione trova il suo culmine in questa "fantasia" divina. Il Figlio di Dio non si è fatto uomo soltanto per rendere visibile la sua dipendenza figliale del Padre: "Ecco, sono venuto per compiere la tua volontà" (Eb 10,10) e adempiere il suo disegno di salvezza, o per mostrare la sua solidarietà con noi condividendo in tutto - tranne il peccato - la nostra natura e condizione umana, fragile, ma per fare della sua carne e del suo sangue il nostro alimento e comunicarci la sua vita divina, e trasformarci in lui.


La sua parola d'ordine "fate questo in memoria di me" non si riduce perciò all'atto liturgico, tale come ce lo trasmette Paolo nel testo della prima lettera ai Corinzi, ma si prolunga e si verifica nella nostra capacità di consegnare la nostra propria vita perché gli altri abbiano vita in abbondanza.


Non si può celebrare l'Eucaristia degnamente mentre non c'impegniamo fino in fondo a distruggere tutte le barriere che dividono le nostre famiglie, le nostre comunità, la nostra società, il nostro mondo. L'eucaristia è segno e sacramento di comunione e la si celebra mentre diventiamo costruttori di comunione in obbedienza a Gesù che è venuto a distruggere il muro che separava gli uomini e a ricostituire nell'unità i figli di Dio dispersi. "Ecco l'Uomo", il nostro modello in questa società tanto bisognosa di comunione e di amore per superare l'egoismo, l'invidia e l'odio, che straccia l'umanità in interminabili guerre, lotte razziali, conflitti interetnici, esclusione dei poveri.


Se è vero che quanto più si vive nella comunione e quanto più concreto è il ritmo della vita, tanto più grandi sono le esigenze e quindi le difficoltà della vita comunitaria e familiare, è anche vero che ci vuole uno spirito di larga e mutua misericordia, una notevole capacità di perdono e di riconciliazione, come unica possibilità per non venir meno all'ideale propostoci dal Signore Gesù.


C'è bisogno d'imparare ad accogliere le persone, ascoltarle, incoraggiarle, perdonarle, e non solo verificare i programmi, adattare i progetti, potenziare le risorse. L'amore cristiano è un'arte che si impara alla scuola di Gesù, al Cenacolo, all'Eucaristia.


Esso implica la volontà di

- Amare tutti, senza procedere in base a simpatie o antipatie, o appartenenze etniche diverse.

- Amare per primi, facendo sempre il primo passo, andando incontro per primi ai più lontani, senza aspettare di essere prima cercati o riveriti, o di farsi cercare.

- Amare come se stessi, secondo la "regola d'oro del vangelo", che ci invita a trattare gli altri come noi stessi vogliamo essere trattati (cf. Lc 6, 31).

- Amare solidalmente, portando i pesi gli uni degli altri, soffrendo con chi soffre e godendo con chi gode (cf. Gal 6,2; 1 Cor, 12,26).

- Amare anche il nemico, quello che non la pensa come noi e forse anche vuole il nostro male.

- Amare bene, imparando a rinnegare se stessi pur di arrivare all'unità.

L'eucaristia che si celebra nella Chiesa si prolunga e verifica nella concretezza della vita di comunità e di famiglia mentre si costruisce la comunione, che diventa profezia.


Tutto questo viene sintetizzato nel comandamento dell'amore che Gesù ci lascia come marchio distintivo dei suoi discepoli: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34-35).

In questo clima d'intimità, quasi ineffabile, in cui sono più eloquenti i gesti che le parole, Gesù ci offre la chiave di lettura di tutta la sua vita e di quanto accadrà il giorno dopo quando sarà crocifisso.


La lavanda dei piedi, l'istituzione dell'eucaristia, il comandamento dell'amore sono i tratti dell'uomo nuovo, del modello che il Padre ci ha dato nel suo Figlio incarnato e umiliato fino alla morte in croce per partecipare alla gloria. Essi devono caratterizzare la nostra vita e devono essere la nostra profezia. Essi devono trasformare le nostre famiglie e le nostre comunità fino a farle diventare lievito di riconciliazione, di unità, di amore e di pace nel nostro mondo.


Il Signore, che ci hai riuniti per celebrare la santa cena nella quale il suo unico Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, faccia sì che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita

Don Pacual Chavez

Casa Generalizia - 8 aprile 2004