2000_VecchiJ_Spiritualita_salesiana_SDB_IVE-IVO


2000_VecchiJ_Spiritualita_salesiana_SDB_IVE-IVO



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don Juan Edmondo Vecchi
SPIRITUALITÀ
SALESIANA
Approfondimento di alcuni temi fondamentali
SDB
V •I

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don Juan Edmundo Vecchi
Spiritualità Salesiana
Approfondimento di alcuni temi fondamentali
U.P.S. - B IBLIOTECA
D ON B OSCO
D OPPIO
o
Roma-Salesianum, 26 marzo - 1 aprile 2000
Esercizi Spirituali per i Direttori sales iani delle lspettorie IVE ed IVO

1.4 Page 4

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SDB IVE-IVO
lspettorie Salesiane di Venezia e di Verona
Edizione extraco mmerciale
Istituto Salesiano "S. Marco"
Via dei Salesiani, 15 - 30174 Venezia-Mestre
Marzo 2000

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Una Nota
Nasce dall'intesa e collaborazione tra i Salesiani delle Ispettorie di
Verona - cui va il merito principale - e di Venezia:
1. l'iniziativa di realizzare nell'anno del grande Giubileo del 2000
un corso speciale di Esercizi Spirituali per i Direttori, con il Rettor
Maggiore, a Roma-Salesianum, dal 26 marzo al 1 aprile;
2. il desiderio di poter disporre dei testi stampati delle riflessioni di
don ]uan Edmundo Vecchi, per utilizzo personale diretto e oppor-
tuna ripresa, e, nel caso, per poterli mettere a disposizione di altri
Salesiani e membri della Famiglia che lo desiderassero;
3. l'impegno di curarne la stampa che, mentre naturalmente ha
l'esplicita autorizzazione del Rettor Maggiore, non ha invece
potuto essere da lui rivista: a questo fatto vanno attribuiti gli
eventuali piccoli difetti di forma, qualche disomogeneità nei testi
delle nove meditazioni e l'omissione di qualche citazione.
Ma la sostanza della sua parola c'è tutta. E molto ricca.
Lo ringraziamo del dono.
5

1.6 Page 6

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[J Introduzione: gli esercizi spirituali
1. Gli esercizi spirituali
Spesso si applica ai giorni di esercizi spirituali l'invito che
Gesù rivolse ai suoi discepoli: "Venite in disparte, in un luogo
solitario, e riposatevi un po'" 1•
La circostanza di tale invito è il ritorno degli apostoli
dalla missione. Essa aveva avuto momenti esaltanti e graditi,
ma anche resistenze e situazioni che i discepoli non avevano
saputo come gestire. "Gli apostoli.. . gli riferirono tutto quello
che avevano fatto e insegnato"2. Nel loro animo si mescolavano
l'entusiasmo, il ripensamento, alcuni dubbi e tanti interrogativi.
Il lavoro era stato intenso e ininterrotto e ora minacciava
di prolungarsi senza controllo. "Era molta la folla che andava e
veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare"3.
Fra la missione e l'invito si interpone la narrazione della
morte di san Giovanni Battista. Il fatto venne a conoscenza di
Gesù e dei discepoli e fu un fulmine a ciel sereno. Giovanni
era un personaggio pubblico, di gran significato religioso, uni-
versalmente apprezzato. È come se oggi ci arrivasse la notizia
dell'assassinio del vescovo della nostra diocesi.
Durante gli esercizi, che ho predicato in Messico alle di-
rettrici FMA, giunse improvvisamente la notizia dell'uccisione
del candidato alla Presidenza. Quanti commenti e interpreta-
zioni tra le esercitande! Quanto turbamento, preoF cupazioni e
previsioni per il futuro!
Allo stesso modo la morte di Giovanni d'avette turbare
profondamente i discepoli e provocare pessimismo e frustrazio-
ni, parole di condanna o rivendicazione. Alcuni infatti l'aveva-
no avuto come Maestro.
1 Mc 6, 31
2 Mc 6, 30
3 Mc 6, 31
7

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Le parole di Gesù non sono soltanto un invito "al ripo-
so", a "una verifica" sulla missione svolta, ma anche a una
"sosta" di riflessione sugli awenimenti del mondo, del nostro
ambiente, che si presentano carichi di significato.
Alcuni simboli mettono ancora meglio a fuoco la natura
singolare del momento a cui i discepoli vengono invitati. Sono
tre questi simboli:
C'è in primo luogo lo stare, il rimanere da soli con Cri-
sto, staccarsi dalle folle. L'espressione è simile a quella con cui
si descrive la vocazione degli Apostoli: "Li chiamò perché stes-
sero con Lui e per inviarli a predicare"4• Una scena simile ha
luogo quando Gesù sceglie alcuni e con essi si ritira sul
monte della trasfigurazione o nell'orto degli ulivi.
Stare da soli con Gesù è un privilegio e una grazia per i
discepoli.
In tali momenti essi l'ascoltavano e lo interrogavano libe-
ramente, senza limite di tempo né preoccupazione per la pre-
senza di altre persone: è un simbolo dell'intimità, della predile-
zione da parte di Cristo, della possibilità per i discepoli di ac-
cedere al suo mistero e scoprirne aspetti insoliti. Quando gli
apostoli sceglieranno il sostituto di Giuda, esigeranno dal can-
didato questa convivenza lunga e questo tratto di amicizia con
Gesù: "Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni
per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo
a noi... uno divenga insieme a noi testimone della sua risurre-
zione"5.
Awicinato ai nostri esercizi, questo simbolo ci parla di
un incontro con Cristo più calmo e prolungato che di solito.
Un secondo simbolo è il "luogo solitario". La solitudine è
nella Scrittura il luogo della manifestazione di Dio. Gesù si
porta i discepoli nella solitudine come Jaweh portò il suo po-
polo nel deserto.
Il "deserto" è un luogo fisico, geografico. Ma a poco a
poco va acquistando un significato umano e spirituale; è uno
4 cf. Mc 3, 14
5 cf. At 1, 21-22
8

1.9 Page 9

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spazio interiore, una disposizione d'animo soprattutto verso Dio
e verso la vita.
11 d ese rto è il luogo d elh fed e: in esso bisogn :i a\\Tè ntu-
rarsi affidandosi soltanto a Dio, perché non ci sono appoggi
logistici. Non ci sono città, non ci sono rifornimenti, non c'è
segnaletica, non c'è rifugio. Israele deve ottenere l'acqua dalla
pietra e viene alimentato con la manna.
Comporta l'esigenza e l'esperienza della fiducia totale in
Dio, se non altro sotto forma di Provvidenza.
Ma il deserto è pure il luogo dell'amore: viene ricordato
sempre come il tempo ideale del fidanzamento tra Dio e il
suo popolo: "La condurrò nel deserto116: tale è la decisione di
Dio per rinnovare il suo rapporto singolarissimo col popolo.
Il deserto perciò è il luogo dell'alleanza e della vicende-
vole promessa di fedeltà, mantenuta sempre da Dio e meno
dal popolo. Ancora oggi il luogo preferito per l'espressione del-
l'amore tra gli innamorati è la separazione e la solitudine.
A noi l'accenno al deserto dice che questi giorni sono
fatti per riscoprire il singolare rapporto col Signore che so-
stiene la nostra vita.
Il deserto è ancora il luogo della "prova": della stanchezza,
della sfiducia, del desiderio di cambiare divinità, della tenta-
zione del ritorno, della voglia di una "sosta". Gesù stesso soffre
le tentazioni nel deserto7•
Esso è dunque il luogo dove bisogna decidersi e scom-
mettere sul cammino che Dio propone. Non ci si può fermare
né provare continuamente direzioni diverse. Ci si esaurirebbe e
si perderebbe l'orientamento.
Per questo il deserto è il luogo della rivelazione e della li-
berazione. ci si affranca dalla schiavitù di questo mondo e
dai poteri degli idoli; Dio manifesta la sua volontà attraverso
la Parola. Questa diventa la legge e Dio il solo Signore. Gli
altri poteri, autorità e influssi vengono relativizzati.
Oltre a stare con Cristo e affidarci a Dio siamo invitati
dunque ad ascoltare la Parola e a liberarci di quanto non è
conforme ad essa.
6 Os 2, 16
7 cf. Le 4, 1-12
9

1.10 Page 10

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C'è ancora il simbolo del "riposo": "Riposatevi un poco"8•
Ricorda il riposo di Dio il settimo giorno, dopo la crea-
zione. Il riposo è segno di libertà e di dominio sul tempo e
sulle cose.
Di fronte ai pagani che credevano che gli dei fossero sot-
tomessi al tempo o alle forze cosmiche, la Bibbia presenta la
trascendenza, la libertà e l'assoluto dominio di Jaweh sul
tempo, sulle forze della natura, sulle cose. Israele doveva acqui-
stare lo stesso atteggiamento e perciò "riposare" il giorno di sa-
bato. Così veniva anche a capire che il suo rapporto con Dio
era al di sopra delle urgenze immediate e costituiva la fonte
della sua libertà.
Gli strumenti "simbolo" della nostra vita oggi sono: l'oro-
logio, l'agenda, la macchina e il computer. Tutti i quattro
hanno a che fare con le attività da compiere, con gli obiettivi
da raggiungere, il tempo da fissare e impiegare.
La pubblicità di molti prodotti sottolinea il risparmio di
tempo che essi consentono: un treno che fa un percorso in
due ore piuttosto che in tre, un metodo che ti fa imparare
inglese in soli due mesi, una macchina fotografica che sviluppa
la fotografia al momento, un apparecchio che pulisce pavimenti
o piatti in un batter d'occhio.
Avere l'agenda piena di impegni è segno di status e
competenza. La fretta, il fare le cose nel minimo di tempo, da
necessità di efficienza può diventare abitudine e atteggiamento
interno, che non ci consente di fermarci a riflettere, a esami-
nare e meno ancora ad assaporare e contemplare.
Se già abbiamo sentito qualcosa una volta, pensiamo di
perdere tempo se la risentiamo per scoprire sensi nuovi. Ep-
pure qualcuno ci ha già awertito che, solo dopo aver guardato
mille volte una cosa, riusciamo a "vederla" come veramente è.
Gli esercizi, secondo Sant'lgnazio, non sono tanto per
imparare molte cose nuove, nel minor tempo possibile, ma
piuttosto "per sentire e gustare", per "fermarsi e ripetere"9, per
interiorizzare e incorporare nel proprio essere.
8 Mc6,31
9 S. Ignazio, Esercizi Spirituali, 29
10

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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Esercizi spirituali dunque "sosta" per noi, per incontrarci
a tu per tu col Signore, per ascoltare insieme a Lui gli interro-
gativi che la nostra vita e il nostro tempo pongono, per pren-
dere una salutare distanza dalle attività, per riacquistare libertà
nell'uso del nostro tempo e nella scelta dei nostri impegni.
Sulla medesima linea ci portano le parole di Don Bosco
che deftniscono gli Esercizi la "sintesi di tutte le pratiche di
pietà". E questa un'espressione frequente nel vocabolario spiri-
tuale del suo tempo. "Sintesi" non riguarda tanto la quantità
di pratiche religiose, ma al fatto che gli esercizi ripropongono
con più forza quello che costituisce la finalità e il cuore della
pietà: prendere coscienza del senso della nostra esistenza e del
nostro essere destinati alla comunione con Dio.
Ma l'aver fatto memoria di Don Bosco ci fa ricordare la
sua personale esperienza degli esercizi. Di quelli che volle fare
prima dell'entrata in seminario e dell'ordinazione sacerdotale ci
sono arrivati i propositi. Conserviamo affettuosa memoria so-
prattutto di quello che costituì come la prima pietra del Si-
stema Preventivo: "La carità e la dolcezza di San Francesco di
Sales mi guidino in ogni cosa".
Don Bosco è stato poi partecipante assiduo agli esercm
che si facevano a Sant'lgnazio sopra Lanzo dal 1842 al 1870...
e qualche volta fu pure invitato a predicarli.
Ma la grande novità introdotta da lui sono gli esercizi
per i giovani dell'oratorio già dal 1847. Quest'esperienza la
volle estendere ai giovani di Torino che fossero desiderosi di
un momento di riflessione religiosa.
Le Costituzioni indicano un risultato degli esercm per i
salesiani: la profonda unità del nostro Spirito nel Signore
Gesù. L'unità! elemento chiave e indispensabile! La vita ci
porta verso la frammentazione, la dispersione, la distrazione. La
nostra attenzione e il nostro interesse si vanno concentrando
su diverse realtà, secondo le attività che svolgiamo. Alla fine
della giornata abbiamo l'impressione di aver fatto una corsa in
autobus, vedendo sfilare oggetti, persone, situazioni senza aver
potuto gustarli ne valutarli nel Signore Gesù.
11

2.2 Page 12

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2. Le circostanze di questo ritiro
Quello che vi dicevo prima si applica ad ogni nttro sale-
siano. Ma questo nostro ha delle caratteristiche particolari che
non debbono restare solo "curiosità", "interesse" o "privilegio",
ma devono diventare inviti e grazie.
La più immediata è il nostro incontro: tra il Rettor Mag-
giore e tutti i direttori del Triveneto, una delle regioni dove il
carisma salesiano è stato impiantato fin dall'inizio della congre-
gazione e, allo stesso tempo, una regione che ha dato storica-
mente all'Italia e al mondo un grande contributo sul piano del
personale e del lavoro salesiano. Si tratta di un momento di
intensa comunione tra i salesiani di queste terre col Fondatore
e con quella Famiglia carismatica universale che è la congrega-
zione salesiana, caratterizzata da una solida unità spirituale e da
una ricchezza di realizzazioni nei diversi continenti.
Questa Famiglia si trova oggi in una particolare fase del
suo cammino: il CG 24 le ha indicato di coinvolgere molti
laici nella missione giovanile e nel lavoro educativo, facendo
spazio alla loro responsabilità e diventandone efficaci animatori.
E ciò attraverso, non tanto ordini e organizzazioni, ma median-
te la comunicazione entusiasta della spiritualità salesiana.
Da ultimo siamo entrati con tutta la Chiesa nel Giubileo
di preparazione 'al terzo millennio, per il quale Giovanni Paolo
Secondo ha indicato alcune mete alla Chiesa: sforzo di comu-
nione universale (concordia nella chiesa, ecumenismo, dialogo
interreligioso, dialogo con la società), nuova evangelizzazione,
conversione, preferenza per i più poveri e bisognosi. Noi siamo
impegnati su questi fronti con i giovani e il popolo che curia-
mo pastoralmente.
3. La nostra riflessione
La nostra riflessione verterà su alcuni aspetti della SPIRI-
TUALITÀ SALESIANA. Perché? Un primo motivo è che gli esercizi
ci devono riportare sempre ai punti fondamentali della nostra
12

2.3 Page 13

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vita . Approfond ire la nostra spiritualità significa capire megli o
la grazia che ci è stata data, il progetto di vita a cui siamo
stati chiamati , la vi a di sa ntifi cazione a nostra disposizione.
Ci sono poi altri due motivi: uno proviene dal cammino
che stanno facendo le nostre Congregazioni, l'altro dall'ambito
ecclesiale.
Le Congregazioni negli ultimi 30 anni circa (1970-2000),
seguendo gli orientamenti del Concilio Vaticano Il e di fronte
alle nuove sfide poste all'evangelizzazione, hanno cercato di ri-
pensare la propria vita e la propria azione.
La prima fase di questo cammino è stata prevalentemente
dottrinale. Si trattava di rinnovare la mentalità, di interpretare
quello che doveva essere oggi la vita salesiana conforme alla
nuova coscienza della Chiesa. Dialogo, partecipazione, comu-
nione ecclesiale, come intendere la povertà, la castità, l'ubbi-
dienza, l'autorità in un mondo dominato dal benessere e dalla
libertà, erano i temi posti al centro della riflessione.
Ne seguì un'altra fase, in cui si è badato al rinnovamento
delle strutture e dei criteri di azione pastorale. Questa tappa
abbonda in studi e proposte sull'evangelizzazione dei giovani,
sul progetto pastorale, su nuove forme di presenza, sulle nuove
sfide dell'educazione.
In tutto questo percorso non sono mancati richiami alla
nostra vita spirituale. Ma l'esigenza di questa è apparsa più for-
temente quando abbiamo toccato con mano che le idee, pur
necessarie, non bastano; che il lavoro pastorale, anche com-
piuto con intelligenza, pur essendo un aspetto importante, non
è sufficiente per darci il senso della nostra identità.
Oggi l'accento è portato sulla nostra esperienza di Dio,
sulla nostra interiorità apostolica, sulla grazia di unità, per
adoperare espressioni che si leggono sovente nei documenti. Al
salesiano si chiede di tradurre idee e progetti in uno stile di
vita personale e comunitaria che faccia trasparire, in forma
comprensibile, quello che siamo: discepoli e seguaci di Cristo.
13

2.4 Page 14

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Questo nostro percorso richiama alla mente altri simili,
che hanno avuto luogo in tempi precedenti nella Chiesa. Di
fronte ad una epoca . nuova, per la quale non è più · adeguato
il bagaglio precedente di idee e pratiche, si sviluppano cinque
reazioni collegate, ma con diverse accentuazioni: l'adeguamento,
per cedimento, alle pressioni mondane, il ripensamento delle
verità della fede, lo sforzo di ricollocazione pastorale, la modi-
fica delle strutture e norme, le esperienze di vita spirituale.
Si vede poi che la. prima di queste linee, quella del puro
adeguamento, si esaurisce presto. Ha qualcosa di buono, ma,
nella sostanza è contraria alla radicalità evangelica. Le altre
quattro invece convergono e si integrano. Il loro / alveo più
profondo è proprio quello della esperienza di vita nello Spirito.
Sono stati così "gli spirituali" (non gli spiritualisti) a produrre
il rinnovamento. Basta pensare a S. Bernardo, Santa Teresa,
Gregorio VII.
In ambito di Chiesa è in corso una riflessione sulla vita
consacrata. Cominciata alcuni anni fa, ha avuto il suo coro-
namento nell'Esortazione Apostolica Vita Consecrata, del 25
marzo 1996.
Si è riflettuto molto sullo specifico del cristiano nel con-
testo secolare odierno e del consacrato che si propone di se-
guire radicalmente Cristo. La conclusione è che non sono i
segni esterni, né il lavoro apostolico o professionale ciò che
caratterizza il religioso nel mondo, ma il tipo di esistenza che
si propone di realizzare, basato sul riconoscimento della pre-
senza e azione di Dio come l'elemento principale. "Una delle
preoccupazioni più volte manifestate nel Sinodo - si legge - è
stata quella di una vita consacrata che si alimenti alle sorgenti
di una spiritualità solida e profonda" 10. "La vita spirituale deve
essere dunque al primo posto nel programma delle Famiglie di
vita consacrata" 11 .
Non la spiegheremo tutta. Non ci sarebbe tempo. Negli
Esercizi poi non si cerca di accumulare conoscenze. Non sono
10 ve 93
11 VC93
14

2.5 Page 15

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un "corso". L'ideale non è la quantità ma l'approfondimento e
l'interiorizzazione che invoglia ad assumere quello che ci ha
impressionato . È il consiglio di Sant'lgnazio: "Badare non sol-
tanto a conoscere, ma a comprendere e meditare; non è il co-
noscere abbondante che sazia l'anima, ma il sentire e gustare le
cose internamente. Per cui, trovando un punto sul quale sento
di poter riflettere e pregare, vi sosterò, senza fretta di andare
oltre finché sia soddisfatfo" 12.
Nelle biografie di alcuni santi si legge che hanno orien-
tato tutta la loro vita a causa di una sola sentenza evangelica,
quasi un frammento o una briciola, ma compresa, interiorizzata
e vissuta. Nel frammento infatti si trova la qualità del tutto.
La parola "esercizio" ci dice anche che non si tratta di
accumulare per il futuro e per gli altri, ma di praticare, in
questi giorni, quello che si va scoprendo e che si vorrebbe as-
sicurare per se stessi.
Ciò viene paragonato da Sant'Ignazio agli esercizi fisici:
"Come il passeggiare, il camminare, il correre sono esercizi
corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi di
preparare e disporre l'anima a liberarsi di tutte le affezioni di-
sordinate e a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizza-
zione della propria vita" 13 .
Non basta dunque l'ascolto e nemmeno l'entusiasmo per
quello che si ascolta. La raccomandazione è di essere "attivi",
di impegnare le proprie forze nell'esercizio della preghiera, la
meditazione, l'esame della vita.
Il Signore ci assista e ci doni il suo aiuto!
12 S. Ignazio, Esercizi Spirituali, 76
13 S. Ignazio, Esercizi Spirituali, 1
15

2.6 Page 16

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~ Chiamati ad essere buoni servitori di
Cristo 1
1. Unità tra persona e servizio di autorità
Non è infrequente trovarsi con persone che dkono di
non sentirsi bene nel posto o nel lavoro che è stato loro affi-
dato. Perciò lo considerano e lo svolgono come prowisorio.
Non solo; ma cercano il loro "riposo", il loro momento di
maggiore soddisfazione legittima in qualche altra attività.
A volte il superiore stesso, awertendo la tensione, indica
loro "uscite" di sicurezza a modo di hobby.
La divisione tra lavoro e realizzazione personale è un fe-
nomeno della cultura e della situazione attuale. Molta gente è
obbligata ad assumere un lavoro che non gli si addice: allora si
prende la rivincita della frustrazione in altri momenti. Si lavora
in una parte, ma "si vive", quello che si chiama realmente vi-
vere, in un'altra. Il lavoro è funzionale al guadagno o all'adem-
pimento di obblighi sociali e istituzionali (nel caso nostro!); la
gratificazione e i desideri personali sono in un altro spazio.
Qualcuno crede questo naturale. E lo è. Ma troppo natu-
rale soprattutto quando il lavoro è "missione" e quando c'è di
mezzo qualche indicazione della volontà di Dio. Ha intanto
conseguenze almeno limitanti sia nella propria crescita quanto
nella prestazione del servizio.
Riguardo alla prima il limite consiste nel non poter capi-
talizzare l'esperienza, anche spirituale, che la situazione compor-
ta. Riguardo al servizio è vero quello che si afferma: "Nessuno
raggiunge la perfezione di un lavoro a meno che ne senta il
piacere". Il puro obbligo non porta all'arte. La conseguenza più
seria non è solo un'eventuale limitazione nel tempo che si de-
dica al servizio. Tante volte awiene, ma è soprattutto il lesina-
1 1 Tim 4,6
16

2.7 Page 17

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re delle risorse personali: il non funzionare con tutta la poten-
za del proprio motore; il non riuscire a donarsi totalmente.
C può cap itare, e ca p ita d i fo tto, tra colorò che sono
chiamati a responsabilità di animazione e governo.
La divisione, o semplice separazione, comporta sempre sof-
ferenza e relativa inefficacia. Il segreto per la serenità ed anche
per i buoni risultati sta nel costruire l'unità tra persona e ser-
vizio. Quando diciamo persona diciamo cuore, mente, desideri,
gusti, occupazione, amicizie. Quando diciamo servizio diciamo
coordinamento e formazione, confratelli gradevoli e difficili, ini-
ziative incoraggianti e pratiche fastidiose, animazione di comu-
nità ed accompagnamento di persone che ci sono affidate, vita
fraterna e rapporti sociali e persino burocratici, progettazione e
ridimensionamento, stimolo e correzioni opportune.
L'esercizio dell'autorità ha aspetti difficili che la Sacra
Scrittura descrive in maniera incisiva nella parabola che lotam
propose ai signori di Sichem2: la vite, il fico e l'ulivo vengono
invitati a prendersi il governo degli alberi, ma rispondono che
non trovano ragione per rinunciare alle loro qualità originali
(la dolcezza, la capacità di comunicare gioia, la soavità e la
pace) e mettersi a lottare con coloro che dovranno dirigere.
Risulta chiaro che prendere responsabilità di governo comporta
tante volte rinunciare a coltivare e donare quello che uno
considera più dentro la propria natura.
Viene allora invitato il rovo che non soltanto accetta, ma
promette che si farà rispettare.
L'esercizio dell'autorità comporta decidere e prendersi delle
parti che molti hanno chiamato "odiose": chiamiamole sempli-
cemente "ardue" . E nell'esercizio del potere si può deviare verso
forme di egoismo e persino di violenza. D'altra parte il senso
pieno dell'autorità viene dato dalle parole di Gesù che invita al
servizio e nel gesto di lavare i piedi ai discepoli ne rivela il
senso.
L'unità richiede di superare l'attaccamento della vite, del
fico e dell'ulivo ai propri legittimi gusti e progetti; di moderare,
2 cf. Gdc 9,7-15
17

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nei giusti limiti, la prontezza del rovo nell'usare del potere e di
mettere tutto sotto il segno dell'amore fraterno che ci viene
indicato nella lavanda dei piedi.
Ci sono alcune riflessioni che possono aiutarci a costruire
questa unità.
2. "La chiamata" alla responsabilità
La prima è la coscienza che l'invito o l'ordine di assume-
re una carica è una "chiamata di Dio" a partecipare più dal di
dentro e con più responsabilità nella costruzione del suo Re-
gno in un tempo ed in un luogo determinato. Se così non
fosse, la nostra designazione sarebbe un puro "caso", frutto di
amicizia o, nella migliore delle ipotesi, solo risultato di una ri-
cerca tecnica per scoprire i migliori talenti della comunità.
È invece una iniziativa di Dio collegata a tutte le prece-
denti che hanno segnato il sorgere e il maturare della nostra
vocazione.
Nel recente congresso dei giovani religiosi, tenutosi a Ro-
ma nel mese di settembre del 1997, chi ha esposto il tema
della "vocazione" faceva vedere che le chiamate o inviti di Dio
si succedono, si completano e si chiariscono nel corso della
vita di una persona.
Non riusciamo a sapere quali dovevamo essere, a che cosa
eravamo chiamati, finché non lo diventiamo per successive ri-
sposte generose e fiduciose ad altrettante chiamate. Indicava,
come passaggi, la chiamata alla vita, la chiamata alla fede o
all'essere cristiano, la chiamata all'esistenza consacrata, la chia-
mata a vivere in una certa chiesa e fo un mondo determinato
che è il nostro. Faceva vedere anche che le chiamate non solo
si succedono ma si chiariscono e si arricchiscono a vicenda. La
vocazione alla fede non succede a quella alla vita, ma apre a
questa nuove dimensioni e orizzonti. L'invito alla vita consacra-
ta non sostituisce le due precedenti, ma le assume, porta a
maggior senso e ne estrae nuove possibilità. Lo stesso va detto
della chiamata a vivere da persona, cristiano e consacrato, nella
chiesa di cui ci tocca essere parte viva, e nel nostro mondo
odierno con le sue sfide, vantaggi e difficoltà.
18

2.9 Page 19

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Vo rrei applicare la stressa traccia di rifless io ne alla chia-
mata a prendere responsabili tà a servizio dei co nfratelli e delle
comunità. Qu esti , in qu anto consacrati , sono proprietà d i Dio.
Egli li cura e propone ad essi alcune persone secondo la sua
prowidenza. Per chi vi è inviato, ciò comporta un'iniziativa di
Dio in linea con la prima e fondamentale chiamata vocaziona-
le, la porta a compimento nelle sue caratteristiche più vere e
fondamentali: vivere radicalmente il vangelo e collaborare con
Dio alla salvezza. Non giova alla maturità cristiana il sognarsi
liberi da responsabilità comunitarie. Il cammino di crescita le
comporta come condizione e come "devoluzione" dei doni rice-
vuti.
È quello che è capitato ai seguaci di Gesù . Prima hanno
avuto la gioia dell'incontro e della conoscenza del Signore ed il
privilegio di essergli vicino in forma abituale, poi è venuta la
partecipazione parziale al suo ministero di servizio, che non so-
lo comportava muoversi e incontrare ogni tipo di persone, ma
anche condividere la sofferenza e la morte. In questo i disce-
poli mostrarono limiti ed incomprensioni che il Signore segnalò
e corresse. Poi, con la venuta dello Spirito, awenne la conse-
gna a loro dell'evangelizzazione e della cura delle comunità co-
stituite nel nome di Gesù. Non solo dell'annuncio gioioso, ma
della vita e testimonianza comunitaria: non solo della parola,
ma anche delle persone e dell'organizzazione. Così, come Gesù,
impararono a morire a se stessi ed a vivere per gli altri.
"Quando eri più giovane, ti mettevi da solo la cintura ed an-
davi dove volevi; ma io ti assicuro che quando sarai vecchio,
un altro ti legherà la cintura e ti porterà dove tu non vuoi"3.
Gesù intercala queste parole a Pietro, come spiegazione, tra al-
tre due: "Abbi cura delle mie pecore" e "Seguimi", in un rac-
conto evangelico che è tutto centrato sulla cura pastorale della
comunità.
Sulla base della consapevolezza che si tratta di iniziative e
volontà di Dio, giova fare una lettura "spirituale" dei passi che
ci hanno portato alla situazione in cui ci troviamo. L'ispettore
deve pensare che la consulta comunitaria, nella quale è stato
indicato, è il risultato di un discernimento guidato dallo
Spirito. La decisione del Rettor Maggiore con il suo Consiglio
3 Gv 21,19
19

2.10 Page 20

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costituisce una di quelle mediazioni che noi accettiamo e quasi
concordiamo con il Signore nella nostra professione. Mi piace
un commento di un autore: "L'obbedienza non è professione
di sofferenza o sopportazione, ma di gioia per la certezza della
volontà di Dio che ci indica dove impegnare quello che ci ha
gratuitamente donato".
Giova all'unità tra sentimenti, desideri e compiti il consi-
derare che il servizio di autorità costituisce per noi una oppor-
tunità personale, del tutto singolare, per crescere in ogni senso.
Me lo ripetono gli ispettori nelle loro lettere. Le visite alle
comunità e l'incontro personale con i confratelli apre loro dei
panorami sconosciuti sulla varietà e la ricchezza umana. Il do-
ver valutare situazioni ed illuminare le comunità li porta ad
approfondire tutte le dimensioni della vocazione e della spiri-
tualità salesiana. Il dover partecipare a responsabilità di Chiesa
locale o di congregazione a livelli ampi li introduce in orizzonti
più vasti di valutazioni e di realizzazioni. Il dover risolvere casi
dolorosi li apre alla comprensione, alla compassione, al rispetto
delle persone, al dialogo.
Sovente quando si cerca una persona per una m1ss1one
delicata si domanda se ha già svolto funzioni di animazione e
governo. Ciò viene considerato palestra e prova di alcune qua-
lità: l'attitudine a valutare correttamente avvenimenti e persone,
la capacità di stabilire rapporti adeguati con un ventaglio ampio
di "tipi", la tenuta di fronte alle difficoltà, la capacità di man-
tenere chiare le finalità riguardo all'evangelizzazione ed all'educa-
zione e di concepire iniziative nuove in relazione ad esse.
Il Signore dunque, "chiamandovi" a prendere responsabili-
tà, non vi chiede tanto un "sacrificio", quanto piuttosto vi of-
fre una grazia.
A questo punto qualcuno potrebbe avanzare una difficol-
tà: non sono capace, mi pesa il senso di inadeguatezza. È un
sentimento pertinente. Il tipo di · lavoro è tale che nessuno
può considerarsi totalmente all'altezza. Ci sentiamo sicuri
quando lavoriamo ferri, contiamo o scambiamo valute o ope-
riamo sul computer. Quando si tratta di persone, delle loro op-
zioni e del loro orientamento a Dio tutto si gioca sull'impreve-
dibile e sulle reazioni libere.
20

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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La dichiarazione di inadeguatezza è, d'altra parte, codifica-
ta in tutte le narrazioni di "ch iamata" a res ponsabilità da parte
di D io. Lo disse Mosè, Gedeone, G eremia, Maria Santi ss ima e
Paolo... per ricordarne solo alcuni. Chi è spinto a profetare si
sente esposto e debole; chi è chiamato a parlare si riconosce
balbuziente e confuso; chi è chiamato ad operare per le perso-
ne e per Dio si dichiara povero ed inesperto.
C'è però sempre una risposta del Signore. Egli assicura
che concederà un aiuto non generale, ma singolare, proporzio-
nato a quello che Egli ci chiede, a quello che noi siamo ed
alle situazioni in cui si trovano i destinatari del nostro servizio.
Nella terminologia teologica tradizionale e per il nostro caso lo
si chiama grazia dello stato. Essa opera in noi svegliando ener-
gie e possibilità potenziali che prima erano nascoste. Da supe-
riori tante volte osiamo, e siamo obbligati ad osare, al di sopra
delle nostre capacità; dobbiamo agire con un confratello o per
un'iniziativa mancando di indicazioni sicure di buon risultato.
E vediamo che Dio ci viene in aiuto.
La grazia dello stato opera anche nei confratelli e desti-
natari. Molti di loro coltivano attese sul nostro servizio, lo va-
lorizzano con spirito di fede al di sopra del valore delle nostre
prestazioni, ci accolgono come "rappresentanti" di Dio. Così il
Signore costruisce la comunità attraverso la loro fede e attraver-
so la nostra inadeguata mediazione. È il mio sentimento e la
mia conclusione dopo numerosi incontri con i confratelli e
comunità.
La graiia dello stato opera nelle comunità come insieme e
agisce anche nell'istituzione intendendo per tale non un insie-
me di freddi strumenti di governo, ma l'organizzazione ed il
tessuto di ruoli, finalità e strumenti che le comunità si sono
date in vista della genuinità e della continuazione del carisma.
Esse danno a chi presiede un primo assegno, quasi in bianco,
di fiducia ed autorevolezza, che, se non va disperso, ma fatto
fruttificare, rappresenta un'assicurazione totalmente affidabile.
Quando sono stato nominato direttore a 33 anni mi ha detto
un anziano: "Molti sanno più di te e sono più virtuosi di te.
Ma stai tranquillo, ciò giova alla tua autorità e la facilita. Essi
ti accetteranno proprio perché sono saggi e virtuosi e vedono
nelle tue indicazioni segni della volontà di Dio. La tua giovi-
21

3.2 Page 22

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nezza ti fa ancora più accettabile perché vedono in te il frutto
del loro lavoro e la realizzazione della loro speranza".
Un ultimo commento: grazia e crescita provocate dalla re-
sponsabilità di governo lasciano il segno e rimangono per tutta
la vita. Non è necessario prolungarsi nella carica per continua-
re a servire "da ispettore" cioè da persona che ha imparato a
vivere per gli altri, a discernere e valutare situazioni. Afferma
un proverbio popolare: chi, anche per una volta sola, fu vera-
mente re, non perde mai la maestà. Il servizio, diciamo pure il
ruolo vissuto integralmente, plasma. Va dunque superato il sen-
timento di vivere qualche cosa di provvisorio dal quale voglia-
mo liberarci al più presto possibile, perché la nostra vita, il
nostro gusto e le nostre possibilità di espressione sarebbero al-
trove.
3. eosc1.enza d'1 essere " strumento"
È vero che gli obiettivi e i compiti dell'animazione e di
governo ci superano. Sono tante le cose a cui badare. Non è
soltanto però la molteplicità che fa problemi. Ci supera anche
la qualità che ciascuno di tali compiti richiede: si devono ac-
compagnare persone, consacrati, in una vocazione tutta fatta di
decisioni personali, di dialogo e libertà. Si mette a prova la
nostra capacità di convincere, di muovere e commuovere, di
orientare verso la santità.
Lo diceva Don Bosco: "Dio solo è padrone dei cuori". A
questo punto dobbiamo dirci ad alta voce che nessuno ci ha
invitati né chiamati a compiere questo lavoro da soli e nem-
meno come agenti principali, da protagonisti. Si può essere
molto responsabili, senza pensarsi né proporsi come primo atto-
re o personaggio.
In ogni singola persona opera lo Spirito Santo sin dal
momento del Battesimo. Egli intavola in dialogo personale nella
coscienza, nelle aspirazioni e nei propositi di ciascuno. Molte
cose i confratelli non vengono a domandarcele; vengono a dir-
cele o a raccontarcele e noi siamo come spettatori, testimoni,
22

3.3 Page 23

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am ici de llo Sposo. Siamo chiamati ad ascoltare, a guardare, ad
imparare, a "raccogli ere" .
Così pure lo Spirito abita nelle com unit::t . Seguendo le
ispettorie mi sono convinto che non poche soluzioni e aggiu-
stamenti non sono dovuti a misure di governo, ma ad una
conversione interiore awenuta dopo una ricerca, da parte dei
confratelli per superare una situazione: un cambiamento matu-
rato nelle loro conversazioni o nel loro impegno di preghiera.
Lo stesso Spirito opera negli ambiti più larghi dove dob-
biamo orientare la missione: la nostra comunità educativa o il
nostro quartiere, il territorio più grande dove l'ispettoria svolge
la propria azione e quello più vasto ancora del mondo dove
partecipiamo ad un servizio senza confini. I segni della presenza
dello Spirito sono molto visibili nella Chiesa. A partire da essa
impareremo ad individuare anche la sua presenza oltre la
Chiesa. È l'esercizio che siamo invitati a fare quest'anno di ce-
lebrazione del Giubileo.
Ci dovremo meditare. Con lo Spirito dovremo stabilire
quasi un dialogo ed una comunicazione. Le nostre valutazioni,
le nostre opere, il nostro rapporto con persone e realtà dovran-
no essere concepiti nello Spirito Santo, discernendo la sua vo-
ce e seguendo i suoi indirizzi.
Dello Spirito Santo diciamo nel Credo: è Signore e dà la
vita. È l'espressione che Giovanni Paolo 2° ha voluto mettere
come titolo alla sua lettera. Opera con magnanimità, energia e
sulla linea della vita, della felicità, del senso, della dignità. Non
è un povero diavolo.... che non ci riesce; o una vaga ispirazione
tipo "New age" che fa girare la gente attorno a sé stessa e
consumarsi nella pura agitazione del sentimento. Non è fatto
per intrattenere l'uomo o per essere consumato.
Ci mette invece in un grande progetto, più grande di
noi, al quale siamo chiamati a dare una collaborazione. Se par-
liamo delle cose salesiane, il progetto è il carisma e la Famiglia
salesiana, una forma di awicinamento di Cristo e una rivelazio-
ne dell'amore del Padre ai giovani attraverso quell'insieme di
persone ed iniziative che chiamiamo "Missione salesiana" e quel-
1'atteggiamento e prassi che denominiamo "Sistema preventivo".
Mi piace ricordare a questo punto un'espressione dell'art. 122
delle Costituzioni nella quale si afferma che "i superiori, a tut-
ti i livelli di governo, partecipano di un'unica e medesima auto-
23

3.4 Page 24

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rità", la svolgono in unità di progetto e articolazione di com-
piti, solidalmente responsabili del carisma salesiano non solo sul
posto, ma in tutto il mondo. Mi piace, così pure, ricordare
l'art. 59 delle Costituzioni: "La professione religiosa - e la fun-
zione di animazione, aggiungo io - incorpora il Salesiano nella
Società, facendolo partecipe della comunione di spirito, di te-
stimonianza e di servizio che essa vive nella Chiesa universale" .
La nostra mentalità e gli orientamenti che esprimiamo
non influiscono soltanto sui confratelli che ci sono vicini, ma
sulla salute di tutta la Congregazione; altrettanto avviene con
la nostra fedeltà alle buone abitudini o tradizioni salesiane, la
nostra ben orientata creatività.
Se parliamo della Chiesa, il grande progetto in cui ci
immette lo Spirito è la presenza cristiana nel mondo attuata
dalla Chiesa universale e, più in là di essa, dall'esperienza reli-
giosa. Oggi la si include nel movimento della nuova evangelizza-
zione. Voi non agite soltanto su un piccolo spazio: per il mi-
stero della vite e dei tralci, cooperate a creare quel tessuto per
cui la Chiesa risulta veramente strumento di salvezza universale.
Se parliamo della storia, il progetto è il Regno. La
Chiesa ne è il segno, non la totalità. Il Regno è quella impo-
stazione della vita personale e sociale che si ispira al nostro es-
sere figli di Dio, chiamati alla sua comunione.
Il progetto è più grande di noi. Anche fossimo capaci di
gestire bene la nostra piccola barca che è la casa o l'ispettoria,
non avremmo esaurito le esigenze e le possibilità del progetto a
cui partecipiamo. Ci sono sempre nuove potenzialità da estrarre
da esso e nuovi spazi per lavorare. Dobbiamo averne il senso,
farlo diventare criterio di valutazione e decisione. A ciò ci
chiama lo Spirito salesiano: alla magnanimità di visione e di
sentimenti.
Poiché il progetto è così grande, noi non siamo chiamati
a lavorare da soli. Lo facciamo in un'ampia comunione visibile
e invisibile che non ha confini. Non ci aiutano soltanto i
confratelli che abbiamo vicino. Siamo sostenuti da tutti quelli
che sono sulla stessa onda e ci colleghiamo fino al cielo, cioè
ai santi, i dichiarati e non dichiarati, che si sono spesi o per
il carisma, per il Regno o per il Bene. Siamo dunque in molti
ed in buona compagnia.
24

3.5 Page 25

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Da tu tto ciò, cioè, da lla coscienza cl i chi è il capo , lo
Sp irito, cl i quale è il progetto, cli quale è l'insieme cli collabora-
to r i d ov rebbe 1enirc un a \\'i sio n e seren a cl i se stess i e ci e l com-
pito da svolgere.
Tale visione si traduce nella certezza di avere ricevuto dal
Signore quello che può giovare alla comunità ed alla Congrega-
zione in una fase concreta della loro vita. Nella comunità
molti hanno lavorato prima di noi e altri dopo di noi compi-
ranno passi forse più importanti di quelli che noi siamo chia-
mati a fare. Noi ricopriamo una fase che è stata preceduta e
verrà completata da altri; di conseguenza dovrebbe esprimersi
nella offerta gioiosa delle proprie possibilità e nella tranquillità
di umore di fronte ai nostri limiti di temperamento o di capa-
cità. Non abbiamo tutte le conoscenze, risorse e capacità che
una comunità richiede per la sua vita in Dio e per la sua mis-
sione, ma abbiamo quello che è sufficiente in questa fase se
messo insieme con quello che posseggono altri confratelli che
vivono con noi.
Dalle stesse convinzioni: Capo, Progetto, rete di tecnici e
operai, verrà l'atteggiamento di gratitudine verso i confratelli e
di ricerca della collaborazione. Si tratta di valorizzare i doni
della comunità, della piccola e della grande: del gruppo che la-
vora con noi, ma anche della Congregazione, di quanto questa
vi può passare di esperienza, di stimolo, di senso del carisma.
I difetti che io ho visto vanno più su questo secondo
fronte che sul primo. La comunità grande la si pensa molte
volte come anonima e vaga, un'istituzione di appartenenza piut-
tosto che una grande comunione di quei beni che il piccolo
gruppo non riuscirebbe ad elaborare e dunque riserva di ener-
gie, esperienze ed orientamenti. Dobbiamo superare tutti i pre-
giudizi e tutte le ragioni che limitano la sinergia con la comu-
nità mondiale se vogliamo entrare in una rete ampia di comu-
nione ed usufruire dei suoi benefici.
4. Coscienza di essere chiamati ad un "bel mestiere"
Ci sono mestieri pesanti, ingrati, duri. Nel mondo della
malavita organizzata si parla di "lavori sporchi": i mandanti
m antengono la faccia e le mani pulite, ma incaricano altri di
25

3.6 Page 26

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eliminare persone e di compiere sabotaggi. Anche nella vita ci-
vile ci sono i mestieri nobili e quelli che soltanto gli immigrati
prendono.
Che tipo di mestiere è quello di un superiore?
È un lavoro di alta qualità. Lo si vede nei destinatari del
proprio servizio. Non sono soltanto persone, ma persone nelle
quali lo Spirito ha fatto tutto un lavoro di santificazione sin
dal momento della prima risposta alla vocazione, e continua a
farlo. Noi diciamo che la formazione è permanente e che il
primo agente è lo Spirito. Abbiamo dunque nelle nostre un
materiale pregiato. Ciò appare tanto più evidente quando si cal-
colano le possibilità umane e spirituali aperte a loro. Le abbia-
mo constatate queste possibilità vedendo i confratelli crescere
sotto i nostri occhi, soprattutto se siamo stati in comunità for-
mative.
Mi viene in mente una scena che si ripete in quasi tutti
i film sui santi: superiori o superiore che li hanno nelle loro
comunità e non se ne rendono conto. Relativamente già "san-
tificati" ed in cammino di esserlo sempre di più dalla consacra-
zione, dall'Eucaristia, dalla presenza dello Spirito sono tutti i
confratelli e le consorelle ed ad essi si rivolge il nostro mestie-
re di superiori.
Il mestiere è pregiato non soltanto per i destinatari, ma
per il lavoro che siamo chiamati a fare e per i risultati a cui
si tende. Alcuni anni fa partecipavo a un corso di formazione
permanente per direttori. La casa dove abitavamo era di fronte
ad una caserma. Di buon mattino, mentre andavamo all'Eucari-
stia, si sentiva il suono militare della levata e poco dopo gli
ordini dei sottufficiali che comandavano: Riposo, fermi, marcia!
Potevamo vedere persino i soldati che, nel cortile, si sforzavano
di eseguire tali ordini.
Tenere bene una truppa è anche un lavoro utile alla so-
cietà. Ma commentavamo con i direttori: "Quale differenza di
contenuto e di finalità con quello che noi facciamo ! Nell'ani-
mazione noi operiamo sull'anima e sul cuore, sui sentimenti e
sulle convinzioni".
Tutto ciò ci deve portare ad operare con fiducia anche
in condizioni non ideali, iniziali, precarie. Si tratta di gettare
26

3.7 Page 27

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sem i; di lavorare quella parte di campo che si pu ò. A volte si
tratta di dissodare. Ci sono persone preoccupatissime del loro
successo in termini cli rea lizzazion i con trollabi li e appariscenti:
manca sempre loro personale, tempi e mezzi; ma chi tende
troppo alle realizzazioni finisce per sacrificare le persone. Men-
tre le nostre realizzazioni più desiderate debbono essere di poter
offrire a Dio persone, i nostri confratelli, come "ostie pure e
immacolate".
Per .operare così è necessaria la capacità di scorgere i se-
gni di salvezza, le ricchezze delle persone, le opportunità che si
presentano improwisamente o, come lo formula l'articolo 95
delle Costituzioni, "scoprire i frutti dello Spirito nella vita degli
uomm' 1•Il .
Impressiona sempre quella pagina del Vangelo in cui
Gesù, tra la molta gente che poteva attirare la sua attenzione
per la vistosità dell'offerta, scopre la vedova che offre un cen-
tesimo. A volte siamo persi alla ricerca dei grandi talenti e
delle grandi opportunità e non scopriamo il valore di quello
che ci è messo a disposizione.
C'è una ascesi da praticare: è quella dell'ottimismo che
consiste nello scommettere che i semi di bene si moltipliche-
ranno e produrranno nuove risorse, che il regno, non solo al
tempo di Gesù, ma anche oggi, è come un piccolo seme che
diventerà albero, come un lievito che farà fermentare una
massa.
Siamo chiamati ad organizzare ambiti di speranza: dove
essa si senta non a parole, ma perché ci sono realtà che atti-
rano, convincono e fanno sognare.
Leggiamo nel vangelo: "Il Figlio dell'uomo non è venuto
per farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto per la
moltitudine"4.
La parola "servizio" è una delle parole ricche di significa-
to, forti ed orientatrici del vangelo perché riferita da Gesù alla
propria vita e morte quasi come la principale definizione. Pur-
troppo è a rischio di diventare logora e generica perché usata
dappertutto: servizio del paese, dicono i politici; servizio deì
clienti, dicono i venditori, servizio dell'altare...
4 Mc 10,45
27

3.8 Page 28

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L'autorità viene detta "un servizio" proprio nel senso
evangelico più forte, awicinato alla vita ed alla morte di Gesù.
D a un periodo di "servizio" "dobbiamo portarci" per la
vita tutto quello che è incluso in queste parole.
Primo: che servire è una dimensione dell'intera esistenza
("Sono venuto per ... "), non un frammento del nostro tempo
e del nostro agire. Tocca non solo i compiti, ma il pensare e
il ragionare. Servire è un modo di esistere. A questa profondità
dobbiamo sempre interrogarci.
Secondo: lo stile di servizio si oppone nettamente alla lo-
gica del farsi servire ("Ma..."). È inutile voler comporre le due
logiche. Non si possono vivere alcuni sforzi come servizio ed al-
tri come ricerca di sé. Per il vangelo chi è egoista lo è dapper-
tutto, nella vita privata e nella pubblica: è centrato su di sé.
Terzo: servire significa sentirsi responsabile degli altri.
"Riscatto" allude a solidarietà fra i parenti stretti. Quando un
fratello è in necessità, non si può fare finta di niente: ci ri-
guarda ed è così che siamo chiamati a vivere.
Quarto: il servizio non raggiunge soltanto i bisogni, ma
accoglie la persona. Le "moltitudini" per cui Gesù si offre non
sono né "problemi", né "funzioni"; sono persone, volti (la
"pazienza del contadino").
28

3.9 Page 29

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[] Don Bosco: ispirazione, modello e
manuale d ella nostra spiritualità
Costituzioni, art. 21
1. "Il Signore ci ha donato Don Bosco
come padre e maestro.
Lo studiamo e lo imitiamo,
ammirando in lui:
2. uno splendido accordo di natura e di grazia.
* Profondamente uomo
* ricco delle virtù della sua
gente
* egli era aperto alle realtà
terrestri
* Profondamente uomo di Dio
* ricolmo dei doni dello Spirito
Santo
* viveva "come se vedesse
l'invisibile".
3. Questi due aspetti si sono fusi in
un progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei
giovani.
Lo realizzò:
* con fermezza e costanza
* fra ostacoli e fatiche
* con la sensibilità di un cuore generoso.
* "Non diede passo, non pronunciò parola,
* non mise mano ad impresa che non avesse di
mira la salvezza della gioventù.
4. Realmente non ebbe a cuore altro che le anime".
29

3.10 Page 30

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Oggi si sente dappertutto un grande bisogno e desiderio
di spiritualità: in oriente e in occidente, nel mondo religioso e
negli ambienti secolari. Noi stessi, salesiani, mentre siamo con-
tenti della nostra capacità di lavoro, ci accorgiamo che la
mancanza di profondità nella esperienza di Dio limita la nostra
gioia interiore e i risultati della nostra azione.
Al CG 24 il Rettor Maggiore disse: "Il CG 24 è appro-
dato alla spiritualità nella ricerca di una fonte di comunione
fra laici e salesiani. È diffusa in congregazione la coscienza che
i nostri legami con i laici abbisognano di maggior robustezza
spirituale se insieme dobbiamo affrontare le difficili sfide della
missione salesiana nell'ora presente" 1.
Alla medesima conclusione si era arrivati quando si è par-
lato dell'evangelizzazione dei giovani e della vita delle nostre
comunità.
Di una spiritualità, in concreto della nostra, si può avere
una presentazione dottrinale. E ne abbiamo parecchie di diver-
sa profondità e lunghezza, prima tra tutte le Costituzioni.
Se ne può avere un'esperienza diretta vivendo in una
delle nostre comunità o lavorando in una delle nostre opere.
"Vieni a vedere come facciamo", diceva Don Bosco a chi gli
domandava sul suo spirito e stile.
Si può avere una conoscenza della spiritualità attraverso la
biografia di qualcuno che l'ha vissuta in forma semplice e tota-
le. Oggi si corre ai grandi testimoni della spiritualità, per es.
Madre Teresa di Calcutta, Roger Schutz...
Nel caso della spiritualità salesiana la biografia dove con-
templarla e comprenderla sempre meglio è quella di Don
Bosco. Ce ne sono molte: brevi, medie e lunghe. La sua figura
l'abbiamo anche in quadri e sculture che cercano di cogliere
quello che più spicca nella sua personalità.
Ciascun salesiano poi porta dentro di un'immagine di
Don Bosco che si è costruita lungo gli anni, attraverso
esperienze, letture, meditazioni, scelte.
1 CG24, 239
30

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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A volte queste immagini personali ingrandiscono a dismi-
sura un tratto secondo le proprie preferenze e ne lasciano altri
nell'om bra. Alcuni, per esemp io, ha nno ingran dito la figura di
Don Bosco come amico dei giovani e quasi non lo conoscono
come "Fondatore di un movimento spirituale". Nelle celebrazio-
ni si ingrandisce generalmente la sua figura di educatore, men-
tre si lascia in ombra, forse perché pensiamo che l'uditorio
non la potrebbe capire, la sua spiritualità.
Il rapporto tra queste due immagini, quella obiettiva e
quella personale, è dinamico: si arricchiscono e correggono a
vicenda. È vera quella che ci portiamo dentro perché si va
formando in un nostro rapporto reale con Don Bosco; essa
però si arricchisce, si corregge e si completa anche con gli
studi storicamente documentati. Una comunità o una persona
non vivono soltanto di dati obiettivi, ma anche di quello che
la loro esperienza va rivelando.
C'è un profilo di Don Bosco "consacrato, apostolo, uomo
spirituale" che accorda e fonde queste due immagini, quella og-
gettiva e quella soggettiva, perché proviene dalla riflessione della
comunità sulla storia documentata e sulla vita. Lo troviamo,
come sintesi, alla conclusione nel secondo capitolo delle Costi-
tuzioni, nel quale si descrive in maniera organica lo spirito sa-
lesiano.
La forma stessa dell'articolo è singolare: ha qualche cosa
di un inno o di un salmo. Le sue frasi sono misurate quasi da
un metro poetico. Le idee si presentano con espressioni a
volte contrapposte, a volte parallele o in un crescendo studiato.
La sequenza è pensata in modo che a intervalli calcolati
si succedono due motivi: la ricchezza molteplice della personali-
tà di Don Bosco e la sua straordinaria unità.
Ciò non è frutto di sforzo o abilità letteraria. Se lo
fosse, si noterebbe l'artificiosità. È invece il risultato del fasci-
no, dell'attrazione che Don Bosco esercita sui salesiani.
All'origine di questo testo c'è infatti una lunga contem-
plazione comunitaria. Formulato una prima volta, venne ristu-
diato per tre volte consecutive, in un periodo di 12 anni
31

4.2 Page 32

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(1972-1984) da duecento persone, quanti erano membri dei
Capitoli Generali.
Questa è dunque l'immagine di Don Bosco che la con-
gregazione porta nella sua coscienza comunitaria. Essa ci offre i
nuclei fondamentali della nostra spiritualità.
1. Il nostro rapporto con Don Bosco
Il primo di questi nuclei riguarda il singolare rapporto di
ciascuno di noi con Don Bosco: "11 Signore ci ha donato Don Bosco
come Padre e Maestro".
L'incontro con lui è stato provvidenziale e determinante
per la nostra vita spirituale. Possiamo ricordare come esso è av-
venuto realmente e la grazia che il contatto successivo con lui
ha rappresentato per noi; quanto ci ha arricchito di progetti,
sentimenti, ideali e relazioni lungo le diverse fasi della nostra
esistenza: come candidati alla vita salesiana, come novizi, in
tutto il cammino formativo successivo, nelle diverse mansioni
pastorali e nei ripensamenti che abbiamo fatto da adulti.
La sua compagnia interiore è stata sempre ispirante. Se
oggi rinunciassimo a tutto quello che ci è venuto da lui, ben
poca cosa resterebbe della nostra attuale vita spirituale.
È stato dunque veramente il dono di Dio per la nostra
vita. È vero che se non ci fosse stato lui, ci sarebbero stati al-
tri. Ma la vita non è fatta di condizionali, bensì di fatti reali.
Perciò, nell'espressione che stiamo commentando, il pro-
nome "ci" non ha senso collettivo-generale, ma proprio distribu-
tivo-personale: a ciascuno di noi, in forma personale, è stata
fatta la grazia dell'incontro e conoscenza di Don Bosco.
"Come Padre e Maestro": la nostra relazione con lui è di figli
e discepoli. Don Bosco ha avuto e ha ancora ammiratori, fans,
collaboratori, amici. Pure Cristo ebbe ascoltatori, seguaci, amici,
discepoli e apostoli. Ciascuna di queste parole indica un rap-
porto diverso. Noi non siamo solo ammiratori, collaboratori e
amici.
32

4.3 Page 33

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Il termine che definisce la sua re lazione con noi è
"Padre". Sarebbe uno sbagli o pensare che si tratta di una
espress ione so lta nto affettuosa, devozionale o retorica. R iguarda
invece qualche cosa che va oltre la sua bontà e il nostro af-
fetto. Dice che lui è l'iniziatore, il fondatore che ci trasmette
quella esperienza spirituale che è il carisma salesiano. È collo-
cato storicamente nel momento e luogo della nascita della vo-
cazione salesiana. Ci genera al seguito di Cristo per i giovani.
Padre, Abbà, è una denominazione tradizionale nella vita
religiosa per designare colui che svela il carisma e fa crescere
m esso.
"Padre" ci ricorda anche la sua capacità di far sentire la
paternità di Dio ai giovani poveri: dopo l'esperienza con loro,
la paternità divenne un tema del suo sistema educativo e del
suo stile di autorità. "I direttori e gli assistenti come padri
amorosi awisino, servano di guida in ogni circostanza" . Ci ri-
corda che, per i salesiani di ieri e di oggi, lui ha preferito a
tutti i titoli quello di Padre; ·"Chiamatemi Padre e sarò felice" 2.
E ci fa pensare anche al tipo di rapporto che i suoi se-
guaci conservarono con lui: piuttosto che capo, fondatore,
leader carismatico, lo conosciamo come il Padre. "In qualsiasi
parte vi troverete ricordate che qui a Torino avete un Padre
che vi ama nel Signore"3.
Accanto a quella di Padre viene collocato l'accenno al
magistero: "Maestro". Piuttosto che all'autorità di imporre una
dottrina allude all'arte di insegnare, di farsi capire, di parlare
col linguaggio del cuore, di comunicare con la vita. Accenna al
fatto che noi l'abbiamo seguito lasciandoci guidare dalla sua
esperienza e, attraverso di lui, abbiamo inteso seguire Gesù
Maestro.
2 Lettera del 1884, MB XVII, pag. 175
3 cf. MB XI, pag. 387
NB - Si potrebbe ancora andare avanti, esaminando la sua responsabilità
paterna. "Del padre ebbe tutto: l'amore tenero e forte verso i figli di adozione, la
resistenza alle fatiche e al dolore, l'acuto senso di responsabilità del padre di
famiglia e la donazione senza limiti che ha il suo corrispondente soltanto
nell'amore materno" (Don Caviglia).
33

4.4 Page 34

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Il magistero è un motivo o tema che ricorre sovente nelle
sue raccomandazioni e commenti. Nel primo sogno appare la
figura della Maestra. Nel testamento dice di Gesù: "Egli sarà il
nostro maestro, la nostra guida e il nostro modello...". È colle-
gato al tema della saggezza, che è centrale nella sua pedagogia,
nella sua mentalità, e nella sua vita spirituale.
"Padre e Maestro" è un'espressione che proviene dall'ufficio
liturgico. E l'articolo 21 sembra più un testo liturgico, una
meditazione sapienziale che una norma giuridica o un brano
dottrinale.
La nostra reazione e il nostro atteggiamento di fronte a
questo dono di Dio sono espresse in queste parole: "Lo stu-
diamo e lo imitiamo ammirando... ". Le nostre possibilità di matura-
zione sono ormai legate al rapporto vitale con lui. Infatti ci
stiamo sviluppando spiritualmente nell'ambito e con le sostanze
del suo carisma, della sua comunità, della sua missione.
Si dice "ammirando": il nostro non è uno studio scienti-
fico e critico, anche se questo non va scartato; ma un approc-
cio e una frequentazione affettuosa. Ammirare è il verbo della
contemplazione, di chi rimane a guardare perché è attirato.
Riusciamo a capirlo per amore e connaturalità, piuttosto che
per l'analisi e la verifica rigorosa di dati storici.
Nelle comunità salesiane l'amore a Don Bosco finora è
stato espresso senza rossore. Ciò appartiene al nostro spirito.
Don Stella ha scritto un volume sulla formazione dell'immagine
di Don Bosco come persona affascinante per i giovani e accet-
tata dal mondo sempre sensibile alla promozione dei più poveri.
In esso hanno avuto parte importante i Salesiani che racconta-
vano entusiasti la loro esperienza oratoriana.
Tra gli elementi caratteristici del nostro spirito c'è quindi
l'amore filiale a Don Bosco, accompagnato da sentimenti di
adesione e di ammirazione. Ciò rende vivaci gli ambienti edu-
cativi ed entusiasma anche i giovani a mettersi al seguito di
Don Bosco. Mentre la distanza e la freddezza produce effetti
negativi.
34

4.5 Page 35

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Ma questo comporta comunque un impegno: "studiarlo". Ci
sono oggi alcune grosse difficoltà per una conoscenza utile di
D on Bosco . U na è il tempo che si va interpon end o tra no i e
lui: sono ormai 112 anni dalla sua morte. Ma più grave del
tempo è la differenza culturale.
Tra le generazioni a noi precedenti e il tempo di Don
Bosco c'era ancora una somiglianza di stile di vita. Le diffe-
renze erano limitate. Oggi per capire il significato vero di
quello che egli ha pensato e operato, bisogna che ci collo-
chiamo mentalmente nel suo contesto e che collochiamo lui
nel nostro ambiente.
C'è poi la difficoltà degli scarsi incontri comunitari per
comunicare ricordi, aneddoti o criteri di Don Bosco. Tali in-
contri prima erano numerosi e regolari: Buone notti, confe-
renze, letture. La trasmissione "orale" aveva incidenza. Oggi la
vita ci disperde di più e le poche parole che riusciamo a dire
su Don Bosco annegano in un mare di immagini e messaggi.
Si va imponendo anche un cambio di linguaggio e di
atteggiamenti: si passa dal racconto ingenuo ed elogiativo alla
conoscenza approfondita, alla collocazione dei fatti e detti nel
loro contesto, allo sforzo di ripensare il loro significato nella
nostra situazione e cultura. E ciò richiede altrettanto affetto e
attenzione e in più un discernimento paziente e illuminato.
Allo stesso tempo, come fattore favorevole, c'è oggi una
autentica "cultura salesiana": una meditazione sulla vita e sul cari-
sma dei fondatori e della loro Famiglia religiosa accumulata at-
traverso le generazioni.
Particolarmente nell'ultimo tempo si è fatto un grosso
sforzo di riflessione su tre linee: quella spirituale, e ne sono prova
gli Atti dei Capitoli Generali, le lettere dei Rettori Maggiori e
delle Madri Generali; quella storica, e ne è segno la fondazione
di un Istituto storico, l'organizzazione dell'archivio centrale e la
volontà di studiare la storia della Congregazione in tutte le
parti del mondo; e quella pedagogica: l'abbondante bibliografia
sul sistema preventivo dimostra l'affetto con cui i salesiani
guardano a questa eredità.
Lo studio diventa oltre che un cammino di vita spirituale,
una condizione per poterla comunicare e trasmettere con fe-
35

4.6 Page 36

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deltà e ricchezza. Perciò è stato inserito in tutte le fasi della
formazione.
2. La fisionomia spirituale di Don Bosco
Un secondo nucleo da meditare è il tipo di persona e di
cristiano, la personalità di Don Bosco: è caratterizzata a colpo
d'occhio da uno splendido accordo di natura e di grazia, armonia tra
profondo istinto di vita e apertura a Dio, passione per tutto
quanto è umano e profondità spirituale.
Bisogna in primo luogo cogliere la forza dell'aggettivo
"splendido". Non si tratta di una armonia modesta, normale, che
si confonde nel comune. È qualche cosa che colpisce forte-
mente... come un panorama straordinario, un quadro partico-
larmente riuscito, una musica vibrante.
Non sono pochi gli studiosi che si sono espressi nello
stesso senso. "Uno degli uomini più completi che abbia cono-
sciuto la storia" (Joergensen). "Agostino, Francesco, Caterina da
Siena, Don Bosco vanno annoverati tra i culmini dell'umanità"
(Hertling).
"Noi l'abbiamo veduta da vicino questa figura, in una vi-
sione non breve, in una conversazione non momentanea; una
magnifica figura che l'immensa, l'insondabile umiltà non riu-
sciva a nascondere... una figura di gran lunga dominante e tra-
scinante: una figura composta, una di quelle anime che per
qualunque via si fosse messa, avrebbe certamente lasciato
grande traccia di sé, tanto era egli magnificamente attrezzato
per la vita" (Pio XI).
"Accordo o armonia", dice più che unità. Questa si ottiene
a volte saldando le parti, a volte sacrificando aspetti impor-
tanti; appare come qualcosa già raggiunta, terminale. Armonia
dice pienezza che va diventando splendente nel gioco delle ten-
sioni: nessuna in don Bosco veniva mortificata in favore dell'al-
tra o della tranquillità.
La natura umana di Don Bosco, tenera e affettuosa, sen-
sibile all'amicizia divenne il segno trasparente dell'esperienza di
36

4.7 Page 37

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Dio. Questa, a sua volta , produsse una finezza sempre maggio re
di umanità.
Tale armonia appare nella sua persona: tenerezza e austeri-
tà, intelligenza e praticità, rettitudine e furbizia, santità e sciol-
tezza nel mondo.
Appare anche nella sua spiritualità: lavoro e contemplazio-
ne, Dio e il prossimo, carità e professionalità, ubbidienza e
libertà.
Appare pure nella sua pedagogia: disciplina e familiarità,
ragionevolezza e spontaneità, esigenza e bontà.
Sono le medesime tensioni che noi sentiamo. Per questo,
ormai da molti anni, si è sottolineata la sua e nostra caratteri-
stica principale: la grazia di unità. Per il nostro lavoro educa-
tivo significa professionalità e senso pastorale; nel rapporto con
i ragazzi coniuga bontà ed esigenza, accoglienza della loro spon-
taneità e proposta educativa, adeguamento al loro passo e
cammino di fede. Per noi stessi dice capacità di inserimento
nel mondo e ascesi profonda, adeguamento alla vita ed agli
aspetti tecnici e genuino senso di essere "consacrati", attività e
interiorità, lavoro e preghiera.
La vita attuale poi aggiunge altre tensioni, a tale punto
che Vita Consecrata afferma che c'è bisogno per tutti di una te-
rapia.
Collegato all'accordo armonia-umta, c'è un altro aspetto .
Sono le dimensioni fondamentali della personalità di Don Bo-
sco: profondamente uomo e profondamente uomo di Dio; ricco delle virtù
della sua gente e ricolmo dei doni dello Spirito; aperto alle realtà terrestri, vi-
veva come se vedesse l'Invisibile.
Vengono presentate in maniera strettamente parallela.
La prima cosa che colpiva in Lui era la sua umanità. Era
la manifestazione della sua santità, mentre questa appariva
come la perfezione della sua umanità. "Tutto in Don Bosco, è
stato scritto, è umano e tutto irradia misteriosamente una luce
soprannaturale".
L'umanità si manifestava in una capacità di affetto intenso e
personale. Questa divenne la sua forma abituale di rapporto;
37

4.8 Page 38

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mai formale, burocratico, ammm1strativo: sempre v1cmo, awol-
gendo la persona in una atmosfera di stima. Lo si vede nell'o-
ratorio, ma anche nelle udienze, nei viaggi, per la strada.
Ad affezionarsi era portato dal suo temperamento, ma di-
ventò la sua forma di imitare Cristo. Nelle sue memorie ri-
corda che da ragazzo aveva preso un merlo e l'aveva messo in
una gabbia. Lo curava e gli dava da mangiare come si fa con
un amico. Un giorno il gatto si awicinò alla gabbia e lo uc-
cise. Sconsolato si mise a piangere. Sua madre gli disse: "Ma
perché piangi? Ci sono tanti uccelli nel bosco". Ma tutti gli
altri non valevano per lui quanto quello a cui si era affeziona-
to. In quella opportunità fece il proposito di non attaccare
mai il cuore a creatura alcuna". Felicemente - commenta un
autore - non lo adempì.
Questa forma di relazionarsi, personalmente e con inten-
sità di affetto, costituì il segreto della sua prassi educativa. C'è
tutta una collezione di aneddoti che lo ricordano: dalla frase
detta a Gastini: "Sono un povero sacerdote, ma ti voglio tanto
bene che se un giorno avessi soltanto un tozzo di pane lo di-
viderei con te"; fino al commosso ricordo di Don Albera:
"Bisogna dire che Don Bosco ci prediligeva in modo unico,
tutto suo: se ne provava il fascino irresistibile. Io mi sentivo
come fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimen-
tava i pensieri, le parole e le azioni.
Sentivo di essere amato in modo non mai provato prima,
singolarmente, superiore a qualunque affetto. Ci awolgeva tutti
e interamente quasi in una atmosfera di contentezza e di feli-
cità. Tutto in lui aveva una potenza di attrazione, operava sui
nostri cuori giovanili a mo' di calamita a cui non era possibile
sottrarsi e, anche se l'avess imo potuto, non l'avremmo fatto per
tutto l'oro del mondo, tanto si era felici di questo singolaris-
simo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale
senza studio e senza sforzo alcuno; e non poteva essere altri-
menti, perché da ogni sua parola e atto emanava la santità
dell'unione con Dio che è carità perfetta. Egli ci attirava a sé
per la pienezza dell'amore soprannaturale che gli divampava in cuore.
Da questa singolare attrazione scaturiva l'opera conquistatrice
38

4.9 Page 39

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dei nos tri cuo ri . In lui i moltepli ci do ni naturali erano res i so-
prannaturali dalla sa ntità della sua vita" 4.
All'affetto, come tratto di umanità, si deve aggiungere la
capacità di amicizia. Quante e diverse ne ebbe sin dai primi anni
della vita, nella giovinezza, nell'età matura! La gioia di condivi-
dere, di stare e lavorare assieme è una caratteristica del suo
temperamento. Amico del fratello Giuseppe col quale spartì
trattenimenti e confidenze; amico dei ragazzi della borgata per i
quali raccontava storie e preparava trattenimenti (oggi ricordati
con un bel monumento al Colle Don Bosco); amico dei com-
pagni di Chieri coi quali fondò la "società dell'allegria", amico
del collega Comollo, con cui stabilì un patto oltre la morte;
amico dei ragazzi ebrei, discriminati. Specialmente di uno di
loro, Giacomo Levi, soprannominato Giona, che ricorderà con
queste parole: "Di bellissimo aspetto, cantava con una voce
rara, fra le più belle. Giocava assai bene al biliardo. Gli por-
tavo un grande affetto ed egli era folle per l'amicizia verso di
me. Ogni momento libero veniva a passarlo in camera mia. Ci
trattenevamo a cantare, a suonare il pianoforte, a leggere e
raccontare"5.
Questo tratto continua nella maturità, in cui coltiva l'a-
micizia con sacerdoti, religiosi, cooperatori e giovani, scrittori,
perseguitati, politici, autorità. Lo lascerà documentato in una
serie di raccomandazioni di questo tenore: "Tutti quelli con cui
parli diventino tuoi amici"6.
L'amicizia sarà un tema della sua pedagogia. Per provarlo
basta ricordare il capitolo sulla amicizia tra Domenico Savio e
Camilla Gavio7.
Un altro versante della sua umanità viene ricordata con
l'espressione "ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà
terrestri".
4 Brocardo P., Uomo e santo, pag. 41-42 (Lettere circolari di Don Paolo Albera,
pagg. 372-373)
5 Memorie dell'Oratorio di San Francesco di Sales, a cura di A. Da Silva Ferreira,
LAS, p.73.
6 MB X, pag. 1038
7 cf. Vita di Domenico Savio, cap. XVIII
39

4.10 Page 40

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Quali sono le virtù della sua gente non è molto impor-
tante chiarirlo. C'è un volumetto che porta come titolo questo
articolo e cerca di definirne i contenuti8.
C'è certamente la magnanimità nei progetti, l'idealismo e
il senso pratico, la tenacia e allo stesso tempo la flessibilità, la
capacità di lavoro e di realizzare grandi imprese e, insieme, il
senso del reale.
Qualcuno l'ha definito: lucido nel progettare, forte nel
volere, lento nel deliberare, moderato nel procedere. Lo ricono-
sceva egli stesso: "Don Bosco non è un uomo a cui piaccia
rimanere a metà strada, quando ha messo mano ad una im-
presa".
Questo stile lo si può vedere in tutte le sue imprese: l'o-
ratorio comincia con poca cosa, quello che era possibile, ma
subito senza indugio. All'inizio raccoglie solo alcuni ragazzi, ma
non cessa di crescere. L'aumento suscita nuovi progetti che
raggiungono le dimensioni sognate. Così accade con le mis-
sioni. Comincia con un'intuizione. Si preparano alcuni uomini.
Pazientemente e per anni si cercano contatti utili. Si prepara
al meglio quello che è possibile prevedere, ma molte cose re-
stano incerte. Comunque si parte. Lo stesso capiterà con le
altre istituzioni educative. L'organizzazione delle scuole profes-
sionali occupò tutta la vita di Don Bosco e il loro "modello"
maturò nel corso di vent'anni.
Viene opportuno un commento: la santità rende univer-
sali alcuni valori vissuti da una comunità o contesto particolare
già lungamente lievitato dal cristianesimo. Certamente qualche
cosa del Piemonte e dell'Italia, attraverso Don Bosco, passò al
mondo, come alla comumta cnst1ana passò qualche cosa
dell'ebraismo e della cultura greca e latina. Per noi è una trac-
cia per pensare con maturità quello che nella Congregazione è
universale e che bisogna inculturare e quello che può essere
sostituito da costumi o atteggiamenti locali.
Ma questa ricca umanità, sensibile, concreta, pratica, ca-
pace di mescolarsi con i problemi del suo tempo era il risultato
8 cf. Cerrato N., Don Bosco e le virtù della sua gente, LAS Roma, 1985
40

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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finale di una generosa risposta alla grazia: "Uomo di Dio, ricolmo
dei doni dello Spirito Santo" .
Ern qu esta una dimensione in parte nascosta per il tem-
peramento. Infatti sebbene Don Bosco fosse portato a comuni-
care i propri sentimenti riguardo all'interlocutore, non lo era
altrettanto per manifestare la sua esperienza interiore. Gli scritti
e le lettere lasciano trasparire poco dei suoi sentimenti pro-
fondi.
Don Bosco non ha lasciato una "Storia dell'anima", come
la piccola Teresa o Giovanni X:Xlll. Ha lasciato la storia dell'o-
ratorio. Non scrisse il "Diario spirituale", ma il quaderno di
esperienze pedagogiche. Ciò fa pensare al nostro stile spirituale
sobrio nell'espressione delle emozioni e sentimenti e moderato
nell'introspezione.
Ma la profondità spirituale in parte era nascosta anche
sotto il suo stile di azione. "Troppo ostinato e scaltro, troppo
avido di denaro e facile a parlare o far parlare di sé", lo tro-
vava un cardinale (Card. Ferrieri). Veniva messa in discussione
per l'apparente disordine e per i limiti reali della sua opera
educativa, che doveva aiutare i ragazzi poveri a crescere e non
presentava dunque i "pregi" dell'opera educativa esemplare. "Se
Don Bosco avesse realmente spirito di pietà, dovrebbe impedire
certi disordini nella sua casa", disse un altro cardinale male
impressionato dalla spontaneità non totalmente regolata di Val-
docco.
Eppure era chiarissimamente manifestata soprattutto attra-
verso la fede in Dio e la carità verso il prossimo. "Ho sfogliato
molti processi; ma non ne ho trovato uno così riboccante di
soprannaturale" (Card. Vives).
"Per rintracciare una figura delle stesse proporzioni, oc-
corre rifare di secoli la storia della Chiesa e raggiungere i santi
fondatori dei grandi ordini religiosi" (Card. Schuster).
Un altro aspetto della sua dimensione spirituale è la ric-
chezza dei doni dello Spirito: la prudenza, la fortezza, la saggezza.
Riguardano tutti l'azione, la lettura dei segni, il capire gli uo-
mini e gli awenimenti, le forme appropriate di intervento.
41

5.2 Page 42

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Ma soprattutto si sottolinea un tratto: "Viveva come se ve-
desse ['invisibile". L'espressione è presa dalla lettera agli Ebrei. Lo
scrittore sacro descrive la fede dei patriarchi che vissero nella
precarietà, sostenendo dure prove, nella speranza salda che si
awerassero le promesse di Dio. Arrivando a Mosè si ricordano
le sue imprese e le difficoltà che comportavano. E si afferma
che tutto egli riuscì a compiere perché "camminava per questo
mondo come se vedesse l'Invisibile". Letteralmente: "Per la fede
lasciò l'Egitto senza temere l'ira del Re. Rimase infatti saldo
come se vedesse l'lnvisibile"9.
È un accostamento che si addice bene a Don Bosco,
uomo di grandi sogni per liberare i giovani dalla miseria mate-
riale o . morale e per la diffusione del Vangelo. Descrive bene
la sua maniera di collocarsi di fronte alle cose di questo
mondo e agli awenimenti storici come se vedesse la presenza
di Dio, che opera in essi. È nella linea della lettura liturgica
che sottolinea la sua fede e la sua magnanimità.
3. Il progetto di vita
Un terzo nucleo da meditare è quale sia il punto di fu-
sione di tanta vitalità naturale e di tanti doni spirituali: un
progetto di vita unitario, il servizio dei giovani, è la risposta .
Il testo dedica a questo un commento lungo, con un cre-
scendo di espressioni che evidenziano lo sforzo di Don Bosco
per realizzare tale progetto, le difficoltà superate per questa do-
nazione totale e il pieno impiego in esso delle sue energie fisi-
che, intellettuali, spirituali.
Il progetto, non più soltanto un "sogno", assunto con la
sensibilità di un cuore generoso e portato avanti con fermezza
e costanza, finì per modellare la sua personalità, e divenne il
luogo storico della sua maturazione come santo originale: don
Bosco sarà padre e maestro dei giovani, un santo educatore.
Le nostre costituzioni diranno che la nostra consacrazione
comprende simultaneamente la vita comunitaria, la "sequela
Christi" e la missione giovanile. Ma è la missione giovanile che
9 Eb 11,27
42

5.3 Page 43

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a tu tta la vita il suo to no co ncreto; qu ella che ci distin gue
e ci plas ma. Essa è il lu ogo dove si es igono e si esercitano le
virtt1 del s:i les i:rno, dove egli è obhlig:ito :i riprodurre lo
splendido accordo tra umanità e senso di Dio che impara da
don Bosco.
Se si esamina però il suo progetto per i giovani si vede
che ha un "cuore", un elemento che gli dà senso, un'origina-
lità: "Realmente non ebbe a cuore altro che le anime" 10.
Il segreto della nostra unità di vita e di governo risiede
non in un riferimento generico ai giovani, ma nel desiderio di
salvare la loro "anima", di aprirli alla conoscenza di Dio, di
iniziarli nella vita di grazia, di fare di loro templi di Dio.
Noi non siamo soltanto "filantropici o umanitari", educa-
tori e agenti di promozione umana, ma "segni e portatori", ri-
velatori dell'amore di Dio ai giovani. Il cuore del nostro pro-
getto di vita, diciamo, è la carità pastorale.
4. La carità pastorale: "Da mihi animas"
Questa espressione appare molte volte nelle Costituzioni,
documenti e discorsi dei salesiani. Si sa che la carità è l'anima
e il centro di ogni spiritualità. Ha innumerevoli manifestazioni:
l'amore materno, l'amore coniugale, la beneficenza, la compas-
sione . La storia della santità è una sinfonia della carità. Le sue
molteplici manifestazioni ricoprono tutti gli ambiti, come rispo-
sta ad ogni bisogno umano 11 I salesiani e le FMA parlano di
una carità "pastorale".
La parola "pastorale" sta ad indicare una forma singolare
di carità. Fa risalire mentalmente alla figura di Dio Pastore e
di Gesù Buon Pastore 12: alle modalità del suo agire: accoglien-
za, bontà, ricerca di chi si è perso, dialogo, perdono; più an-
cora alla sostanza del suo ministero: rivelare Dio a ciascun
uomo/donna, liberare dalla miseria, dall'ignoranza, dal senso di
colpa e dalla lontananza da Dio. Soprattutto al fatto che per
lO Cost 21
11 cf. ve 75-76
12 cf. Gv 10
43

5.4 Page 44

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fare questo dona quanto ha quotidianamente fino a dare an-
che la vita.
È più che evidente la differenza con altre forme di carità
che rivolgono attenzione preferenziale a particolari bisogni tem-
porali delle persone: salute, cibo, lavoro.
L'elemento tipico della carità pastorale è la rivelazione di
Dio, l'annuncio del Vangelo, l'educazione alla fede, la forma-
zione della comunità cnst1ana, la lievitazione evangelica
dell'ambiente. Chiede dunque disponibilità piena e donazione
per la salvezza dell'uomo, come viene prospettata da Gesù: di
tutti gli uomini, di ogni uomo, di uno solo.
Don Bosco e, dietro di lui, i salesiani esprimono questa
carità con una frase : Da mihi animas, coetera talle.
Le grandi correnti di spiritualità ne hanno condensato il
nocciolo in una breve frase. "Per la maggiore gloria di Dio",
dicono i gesuiti; "Pace e bene" è il saluto dei francescani;
"Prega e lavora" è il programma dei benedettini; "Contemplare
e consegnare agli altri le cose contemplate" è la norma dei
domenicani.
I testimoni della prima ora e la riflessione successiva della
Congregazione hanno portato alla convinzione che l'espressione
che riassume la spiritualità salesiana è proprio il "Da mihi ani-
mas".
L'espressione ricorre con frequenza sulle labbra e negli
scritti di Don Bosco. Impressionò Domenico Savio nell'ufficio
di Don Bosco ancora giovane sacerdote (34 anni) e lo mosse a
un commento rimasto famoso: "Ho capito che qui non si fa
negozio di danaro, ma di anime. Ho capito: spero che l'anima
mia farà anche parte di questo commercio" 13.
Per questo ragazzo fu chiaro dunque che Don Bosco non
gli offriva solo istruzione e casa, ma soprattutto un'opportunità
di crescita spirituale.
L'espressione è stata raccolta nella liturgia: "Suscita anche
in noi la stessa carità apostolica che ci spinge a cercare le
anime per servire te, unico e sommo bene".
13 Bosco G., Vita di San Domenico Savio, SEI, cap. VII, pag. 34
44

5.5 Page 45

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Era giusto che così fosse , dato che Do n Bosco l'aveva
avuto come intenzione perm anente nella fo nd azione delle asso-
ciazioni: "Il fine di questa società, se lo si considera ne i suoi
membri, non è altro che un invito a unirsi, spinti dal detto di
Sant'Agostino: divinorum divinissimum est in lucrum animarum
operare" 14
Nella storia della Congregazione leggiamo: "La sera del 26
gennaio 1854, ci siamo radunati nella camera di don Bosco e
ci venne proposto di fare con l'aiuto del Signore e di San
Francesco di Sales una prova di esercizio pratico di carità...
d'allora è stato dato il nome di Salesiani a coloro che si propo-
sero o si proporranno questo esercizio" 15 .
Dopo Don Bosco, i singoli Rettori Maggiori, da testimoni
autorevoli, hanno riaffermato la stessa convinzione. È interes-
sante il fatto che tutti si siano premurati di ribadirlo con una
convergenza che non lascia spazio al dubbio.
Don Rua ha potuto affermare ai processi: "Lasciò che al-
tri accumulasse beni... e corresse dietro gli onori; Don Bosco
realmente non ebbe a cuore altro che le anime: disse col
fatto, non solo con la parola: Da mihi animas, coetera talle".
Anche don Albera, che ebbe una lunga consuetudine con
Don Bosco, attesta: "Il concetto animatore di tutta la sua vita
era di lavorare per le anime fino alla totale immolazione di se
stesso... Salvare le anime... fu, si può dire, l'unica ragione del
suo esistere".
Don Filippo Rinaldi trova nel motto "Da mihi animas" le
motivazioni profonde dell'agire di Don Bosco: "il segreto del
suo amore, la forza, l'ardore della sua carità".
Riguardo alla consapevolezza attuale, dopo il ripensamento
della vita salesiana alla luce del Concilio, così si esprime don
Egidio Viganò : "La mia convinzione è che non c'è nessuna
espressione sintetica che qualifichi meglio lo spirito salesiano di
questa scelta dallo stesso Don Bosco: Da mihi animas, coetera talle.
Essa sta ad indicare una ardente unione con Dio che ci
fa penetrare il mistero della sua vita trinitaria manifestata stori-
camente nelle missioni del Figlio e dello Spirito quale Amore
infinito ad hominum salutem intentus".
14 MB VII, pag. 622; cf. Aubry J., Scritti spirituali/2, Città Nuova, pag. 14
15 MB V, pag. 9
45

5.6 Page 46

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Da dove viene e che significato preciso può avere oggi
questa espressione o motto? Dico oggi, dopo gli sviluppi della
conoscenza biblica, quando la parola anima, data l'evoluzione
del pensiero antropologico, non esprime e non evoca quello
che richiamava in epoche precedenti.
L'espressione si trova nella Genesi, al capo 14. Quattro re
alleati fanno guerra ad altri cinque, tra i quali c'è quello di
Sodoma. Durante il saccheggio della città cade prigioniero an-
che Lot, nipote di Abramo, con la sua famiglia. Abramo viene
avvisato. Parte con la sua tribù, dopo aver armato gli uomini.
Sconfigge i predatori, ricupera il bottino e riscatta le persone.
Allora il re di Sodoma, grato, gli dice: "Dammi le persone, il
resto è per te". La presenza di Melchisedek, sacerdote di cui
non si conosce l'origine, dà un particolare senso religioso e
messianico al brano, soprattutto per la benedizione che pro-
nuncia su Abramo.
Dunque una situazione tutt'altro che "spirituale". Si tratta
del bottino. Nella richiesta del re c'è però un elemento: la
netta distinzione tra persone e "roba", le cose.
Don Bosco dà all'espressione una interpretazione personale
entro la visione religioso-culturale del secolo scorso. "Anima"
indica l'elemento spirituale dell'uomo, centro della sua libertà e
ragione della sua dignità, spazio della sua apertura a Dio.
L'intreccio dei due significati, quello biblico e quello dato
da Don Bosco, avvicinato alla nostra cultura, indica scelte
molto concrete.
In primo luogo, l'amore, la carità pastorale prende in
considerazione la persona e si rivolge ad essa: prima e soprat-
tutto le interessa ricuperare la persona, sviluppare le sue risorse,
illuminare la coscienza, darle il senso della sua dignità. Dare
"cose" viene dopo e così pure prestarle un servizio specifico per
esempio di istruzione.
Inoltre la carità che guarda soprattutto alla persona è
guidata da una "visione" di essa. La persona non vive di solo
46

5.7 Page 47

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pane ; ha bisogni immediati, ma anche aspirazioni infinite. De-
sidera beni materia li, ma anche va lori spirituali. Secondo l'e-
spress ione di Agostino fort:-i per Di o, assetata di lu i".
Perciò la salvezza che la carità pastorale cerca e offre è
quella piena e definitiva. Tutto il resto viene ordinato ad essa:
la beneficenza all'educazione; questa all'iniziazione religiosa; l'ini-
ziazione religiosa alla vita di grazia e alla comunione con Dio.
In altre parole si può dire che nella nostra educazione o
promozione diamo il primato alla dimensione religiosa. Non per
proselitismo, ma perché siamo convinti che essa costituisce la
sorgente più profonda della crescita della persona. In un . tempo
di secolarismo, quest'orientamento non è facile. Ha le sue vie
di realizzazione diverse da quelle del tempo della cristianità.
La massima contiene anche un'indicazione di metodo:
nella formazione o rigenerazione della persona bisogna far forza
e rawivare le sue energie spirituali, la sua coscienza morale, la
sua apertura a Dio, il pensiero del suo destino eterno. La pe-
dagogia di Don Bosco è una pedagogia dell'anima, del sopran-
naturale. Quando si arriva a toccare questo punto comincia il
vero lavoro di educazione. L'altro è propedeutico o preparatorio.
Don Bosco lo afferma con chiarezza nella biografia di
Michele Magone. Questi passa dalla strada all'oratorio. Si sente
contento ed è, umanamente parlando, un bravo ragazzo: è
spontaneo e sincero, gioca, studia, fa amicizie. Gli manca an-
cora una cosa: çapire la vita di grazia, il rapporto con Dio, e
intraprenderla. E religiosamente ignorante o svagato. A un
certo punto ha una crisi di pianto, quando si paragona con i
compagni e nota che gli manca questo. Allora Don Bosco
parla con lui. Da quel momento comincia il cammino educa-
tivo descritto nella biografia: tutto realmente comincia dalla
consapevolezza e assunzione della propria dimensione religioso-
cristiana.
C'è dunque una scelta e una ascesi per chi è mosso dalla
carità pastorale: "coetera tolle", "lascia tutto il resto". Si deve
rinunciare a molte cose per salvare la cosa principale; si pos-
sono affidare ad altri e anche tralasciare molte altre attività
pur di avere tempo e disponibilità per aprire i giovani a Dio.
47

5.8 Page 48

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E ciò non solo nella vita personale, ma anche nei programmi
e nelle opere apostoliche.
Afferma don Piero Stella: "Chi percorre la vita di Don
Bosco, seguendo i suoi schemi mentali ed esplorando le tracce
del suo pensiero trova una matrice: la salvezza nella chiesa cat-
tolica, unica depositaria dei mezzi salvifici. Egli sente come la
sfida della gioventù abbandonata, povera, vagabonda svegli in
lui l'urgenza educativa di promuovere l'inserimento di questi
giovani nel mondo e · nella Chiesa mediante metodi di dolcezza
e carità; ma con una tensione che ha la sua origine nel desi-
derio della salvezza eterna del giovane" 16•
5. Le espressioni della carità pastorale
La carità pastorale ha le sue espressioni originali come ce
le ha la carità fraterna o quella che si esercita nella cura dei
malati terminali. Può manifestarsi in impulsi spontanei e gene-
rosi. Ma l'esperienza più comune è che ci si deve impegnare a
lungo in un'opera paziente e quotidiana per far crescere le per-
sone e animare le comunità.
Piuttosto che un atteggiamento vago di bontà o qualche
gesto passeggero di simpatia, la carità pastorale è una prassi:
una forma costante di agire con competenza in un ambito, si-
mile alla prassi politica, sociale, medica. Tutte comportano un'a-
zione coerente, pensata e mirata. Ciò richiede da noi alcuni
atteggiamenti e alcune capacità permanenti. Ed è questo che
finisce per modellare la fisionomia spirituale della persona.
La carità pastorale richiede da noi, in primo luogo, un
"cuore" pastorale: la voglia, lo slancio, il desiderio di lavorare, il
trovare gusto nelle iniziative pastorali, l'essere disposto, il do-
narsi come chi gode, il considerare proporzionate tutte le fati-
che, il sentirsi attratto da quelli che più hanno bisogno, il su-
perare facilmente piccole frustrazioni, il non disertare il campo
giovanile, il far fronte a rischi e difficoltà come fossero cose
16 Stella P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, voi II, PAS
Verlag, pag. 13
48

5.9 Page 49

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da poco. Il suo contra rio è l'indifferenza, la pigrizia pastorale,
l'andare verso i momenti e comp1t1 pastorali come verso una
soffe renza o un obbligo da sbri ga re il più in fretta poss ibile.
Ma oltre al "cuore", tale carità postula e sviluppa il senso
pastorale. Il senso pastorale è come il senso artistico o degli
affari. È quasi un fiuto, un modo di collocarsi rapidamente di
fronte a una situazione. Visitando le nostre opere scolastiche o
oratoriane si percepisce subito se la comunità ha il "senso" pa-
storale dall'orientamento delle attività e il tono dei rapporti. In
alcune appare piuttosto in primo piano il senso economico,
quello organizzativo o quello disciplinare.
Il senso pastorale consiste nel saper giudicare le cose dal
punto di vista dello sviluppo spirituale dei giovani, della salvezza
delle persone; nell'orientarsi bene nella lettura degli avveni-
menti, nell'avere criteri o punti di riferimento validi per pen-
sare e impostare un'attività, in modo tale che le persone cre-
scano umanamente e riescano a rendersi consapevoli della pre-
senza di Dio Padre nella loro esistenza.
C'è poi la capacità pastorale: è una preparazione profes-
sionale specifica, che la carità pastorale richiede, per cui impa-
riamo e ci perfezioniamo nel1 motivare, istruire, consigliare,
orientare, santificare, animare. Ci rendiamo capaci di capire un
contesto, di elaborare un progetto che risponda alle sue ur-
genze e di realizzarlo, tenendo conto anche dell'elemento invi-
sibile e imponderabile che c'è sempre nel lavoro pastorale.
Da ultimo bisogna annoverare anche la creatività pasto-
rale: è quell'atteggiamento mentale e pratico che porta a tro-
vare soluzioni originali a problemi e situazioni nuove. Don Bo-
sco concepì un progetto per i ragazzi della strada mentre le
pàrrocchie continuavano con ,il catechismo "regolare".
Se Don Bosco avesse accettato l'invito a inserirsi in una
parrocchia, sarebbe forse diventato un santo parroco, ma non
sarebbe quel santo originale che conosciamo. Egli ha creato
nuove modalità e nuovi spazi di azione pastorale e questi
hanno modellato il suo stile pastorale e la sua fisionomia spiri-
tuale.
49

5.10 Page 50

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Mentre tutti continuavano a fare il catechismo "tradizio-
nale", cosa certamente meritoria e necessaria, Don Bosco si av-
viò verso un altro campo. Subito dopo, quando si accorse che
i ragazzi non erano preparati per il lavoro né protetti in esso,
pensò una soluzione "piccola" e "casalinga" che poi crebbe: i
contratti di lavoro, i laboratori, le scuole professionali. E così
per altri bisogni, come la casa, l'istruzione. Questa si chiama
creatività pastorale: rispondere con una soluzione anche germi-
nale a nuovi bisogni.
Don Ceria indica questo tratto come carattenst1co dello
spirito salesiano: "Il primo tratto, quello che più salta agli oc-
chi di tutti è una prodigiosa attività sia individuale che collet-
tiva" 17 .
/
Lo stesso concetto è stato accolto anche nelle Costitu-
zioni: "... la carità pastorale, caratterizzata da quel dinamismo
giovanile che si rivelava così forte nel nostro Fondatore e alle
origini della nostra società..." 18_
Questi quattro aspetti modellano il nostro volto spirituale:
il cuore pastorale, il senso pastorale che ci orienta nei nostri
progetti di vita, lo sforzo che facciamo per qualificarci pasto-
ralmente e il nostro impegno di creatività, di risposte originali.
17 Ceria E., Annali della Società Salesiana, c. LXVII, pag. 722; cf Cost. 10, 19
18 Cost. 10; cf Cost. 11
50

6 Pages 51-60

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6.1 Page 51

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[] Professione di vita secondo lo Spirito
Don Bosco è maestro di spiritualità per molte persone:
uomini e donne, sacerdoti e laici, consacrati e secolari. Nelle
opere salesiane, per esempio, lavorano molti laici che noi ci
proponiamo di animare. Attorno a tale spiritualità progettiamo
di dar vita alla Famiglia Salesiana.
Il CG 24 però avverte: "Don Bosco ha voluto persone
consacrate al centro della sua opera, orientata alla salvezza dei
giovani ed alla loro santità" 1. Il carisma non si esprime nella
sua totalità se mancano i laici; ma meno ancora se venisse a
mancare il contributo specifico dei consacrati.
C'è dunque da approfondire la nostra identità di religiosi
e da individuare l'apporto originale ed insostituibile che siamo
chiamati a dare alla chiesa, al mondo, alla Famiglia Salesiana.
Le discussioni degli ultimi anni hanno evidenziato posi-
zioni diverse circa la natura e collocazione della vita consacrata
nella Chiesa.
Alcuni hanno parlato di diverse teologie.
Il Sinodo sulla vita consacrata (1994) è stato consapevole
di tale diversità; ha chiesto perciò al Papa di dare una risposta
ad alcune questioni per poter operare un discernimento di
fronte alle sfide che incombono e sviluppare i valori perma-
nenti della vita consacrata, anche attraverso nuove espressioni.
Tra le questioni da chiarire c'era l'elemento distintivo,
cioè quello che determina la identità e differenza della vita
consacrata: dunque anche il suo contributo specifico nella vita
della comunità cristiana e nella pastorale.
È noto, perché è stato già oggetto di discussioni, che
l'Esortazione Vita Consecrata lo ripone nella consacrazione. Ciò
era già presente nell'insegnamento che va dal Concilio Vaticano
al Sinodo. Ma era stato intaccato sia da una interpretazione
ristretta, a volte rituale della consacrazione, sia della nuova col-
locazione della vita consacrata nella Chiesa, intesa come popolo
1 CG24, 50
51

6.2 Page 52

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di Dio, sia dal progredire della secolarizzazione, che ha portato
ad una caduta e ad un cambiamento di significato del "sacro",
sottolineato e quasi inteso finora come un insieme di segni
esterni: status, edificio, vestimenta, funzioni, collocazione nei
pubblici riti: insomma un "sacro" sociologico.
L'Esortazione Apostolica "Redemptionis Donum", che intende-
va venire incontro alle discuss ioni, rivolgendosi ai religiosi dice-
va: "La Chiesa pensa a voi prima di tutto come persone con-
sacrate: consacrati a Dio in Gesù Cristo come proprietà esclu-
siva. Questa consacrazione determina il vostro posto nella vasta
comunità della Chiesa, del popolo di Dio. Allo stesso tempo
essa introduce nella missione universale di questo popolo una
speciale risorsa di energia spirituale e soprannaturale"2•
Nel Sinodo "consacrazione" è diventata la parola chiave
con cui si riassumono la condizione ed il cammino di santità
di coloro che si mettono alla sequela radicale di Cristo. Tutti
i progetti di vita che rispondono a tale proposito vengono de-
signati come vita consacrata, anche se tra di essi intercorrono
notevoli differenze.
·
Alcuni passaggi dell'Esortazione Vita Consecrata poi affron-
tano direttamente l'argomento e ne parlano con deliberata
chiarezza. Al n. 72 dal titolo "Consacrati per la missione" si
legge : "Ad immagine di Gesù, Figlio diletto che il Padre ha
consacrato e mandato al mondo, anche coloro che Dio chiama
alla sua sequela sono consacrati e inviati al mondo per imitar-
ne l'esempio e continuarne la missione".
Dopo lo studio delle m,olte e diverse forme di sequela di
Cristo, sorte nel tempo, si è scelto questo elemento "comune"
a tutte come il più adeguato per designare la loro identità
fondamentale.
Si chiarisce in seguito il senso della "nuova e speciale
consacrazione" che determina tale identità e il contributo dei
religiosi nella comunità ecclesiale e se ne dissipano i malintesi.
C'è una continuità con la consacrazione battesimale perché
questa viene assunta in forma radicale; e di lì, dalla radicalità
2 RD, 17
52

6.3 Page 53

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scaturiscono delle novità di vita e di apostolato. L'obiettiva ec-
cellenza della vita consacrata non esclude altre obiettive eccel-
lenze ne l loro gene re (l aica le, sace rd otale), né ind uce superi orità
gerarchica o di livello spirituale; ma genera differenza arric-
chente nella comunione, e dunque rappresenta un contributo
tipico in termini cli segno che i consacrati danno, di annuncio,
testimonianza di vita cristiana e servizio.
L'Esortazione Vita Consecrata sottolinea come nessun elemento,
al di fuori di questo, può dare la fisionomia della vita religiosa
nel mondo attuale: non gli impegni educativi o sociali, non il
volontariato nelle situazioni di povertà, non le lotte per le
grandi cause umane; soltanto il fatto che si riconosce il prima-
to di Dio e l'eccellenza di Cristo nell'orientamento e organizza-
zione della propria esistenza.
Si vede quindi la debolezza, in particolare oggi, di una voca-
zione la cui motivazione fosse soltanto il lavoro giovanile o
l'impresa missionaria. Tali motivazioni si esauriscono se non
hanno radici più solide e definitive.
Quanto detto si presta ad alcuni commenti.
* Non a tutti è piaciuta questa scelta e questa insistenza.
Qualcuno temeva che si tornasse a pensare ai religiosi come a
persone pubblicamente "sacre", costituiti in uno stato sociocul-
turale diverso, cosa ormai "estranea" e indigeribile alla mentalità
odierna. Ciò è totalmente escluso nell'Esortazione. Dalla nostra
scelta di Dio non provengono prerogative né segni particolari
di status.
Alcune riserve poi venivano dal sospetto che i consacrati
si considerassero e fossero dagli altri ritenuti "superiori".
"L'oggettiva eccellenza" della vita consacrata, la "nuova e specia-
le consacrazione", il termine "più" (più radicale, più intensa,
più vicino, più conforme ...), ripetuto spesso per descrivere
l'impegno del religioso riguardo all'esigenza del cristiano comu-
ne, sollevava diffidenza. E così pure il timore che i religiosi
apparissero organizzati in una categoria, in contrasto con
l'attuale visione ecclesiale di comunione.
C'erano ancora altre due riserve. Una di tipo pastorale:
che l'affermazione prima e quasi isolata del rapporto personale
53

6.4 Page 54

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con Dio ricentrasse i religiosi sulla propria perfezione, staccan-
doli dall'essere per il mondo. L'altra spirituale: che ciò deter-
minasse una visione intimistica o dualistica (sacro-profano, spiri-
tuale-corporale, rapporto a Dio - azione nel mondo, chiesa ar-
roccata e separata - società) dell'esperienza cristiana.
Riassume bene quanto ho detto il seguente commento:
"In questi anni una certa difficoltà verso la consacrazione pote-
va venire dal timore dell'influsso di una certa mentalità fissista,
ripiegata cioè sugli elementi costanti e immutabili della vita
consacrata, una mentalità che qualcuno considerava poco o
nulla preoccupata di portare avanti quella opportuna sintonizza-
zione sulle necessità di una società che, sotto molti aspetti,
aveva poco a che fare con il tipo di società dentro la quale e
per la quale erano sorti i vari istituti"3• Nessuno dei significati
che provocano queste diffidenze viene inteso nel termine con-
sacrazione come lo impiega l'Esortazione.
* Va ricordato, anzi sottolineato sin dall'inizio il senso
globale che si dà a consacrazione. Essa non consiste solo nei
voti. Ma comprende simultaneamente tutti gli elementi di un
progetto di vita in Dio: il rapporto con lui, la miss ione apo-
stolica, la comunione fraterna, la spiritualità.
Ciò a noi è familiare perché lo troviamo nelle nostre co-
stituzioni. Esse affermano che siamo stati consacrati col dono
dello Spirito. "Il Padre ci consacra col dono del suo Spirito e
ci inv~a ad essere apostoli dei giovani"4.
E un motivo che viene ripreso con molta frequenza,
quasi ripetuto eccessivamente. Per esprimerlo si adoperano an-
che altre parole equivalenti: vocazione, alleanza con Dio, dona-
zione totale, amore di predilezione, scelta radicale. Tutte indi-
cano una sola cosa: una relazione particolarissima con Dio che
segna la nostra esperienza personale e il nostro lavoro educati-
vo. Quello che comprende è detto nell'art. 3: "La missione
apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli evange-
lici sono gli elementi inseparabili della nostra consacrazione vis-
3 Cabra, pag. 195
4 Cost. 3
54

6.5 Page 55

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suta in un uni co movimento d i ca ri tà ve rso Di o e ve rso i fra-
telli"5.
Pe r q uesto se nso compless ivo (sequela di Cristo co n i
voti, vita di comunio ne, forme concrete di missione) ali'inte rno
della vita consacrata si danno molte forme o tipi. La consacra-
zione non è una nella modalità, ma ha espressioni molteplici.
Si parla di forme di vita consacrata, antiche, moderne e
future. È importante capire ciò per non confondere vita consa-
crata con vita monastica, di frate, o con vita religiosa, conglo-
bandole tutte in un'unica esperienza spirituale. Esiste anche la
vita consacrata nel mondo.
A noi, per la nostra testimonianza e per il contributo da
dare nella comunità educativa, interessa comprendere che cosa
si intende col termine consacrazione. Oggi, piuttosto che ad
elementi esterni, si pensa ad un continuum costituito da:
* un'esperienza personale sentita come appello e scoperta di
senso,
* la lettura di tale awenimento alla luce della fede,
* la scelta di un progetto di vita,
* il riconoscimento, da parte della Chiesa, di tale progetto
e l'inserimento pubblico di esso nella sua missione.
Questi punti hanno una valenza che non è solo dottrina-
le: ciascuno rappresenta un aspetto di come viene vissuta ed
espressa la vita consacrata nel contesto attuale. Allo stesso
tempo ci ricorda che alla base e in tutto il percorso di spiri-
tualità per noi, c'è una grazia, un'esperienza ed una scelta che
non si possono dimenticare. Riflettiamo su ciascuno degli
aspetti indicati.
1. Un'esperienza ed una storia personale: il dono ricevuto
"Un appello accompagnato da un'interiore attrazione", dice
l'esortazione al n. 17 parlando della consacrazione. Lo sviluppa
poi con l'icona della Trasfigurazione: "Un'esperienza singolare deHa
luce che promana dal Verbo Incarnato fanno certamente i
5 Cost. 3
55

6.6 Page 56

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chiamati alla vita consacrata"6. "Chi ha ricevuto la grazia di
questa speciale comunione di amore con Cristo, si sente come
rapito dal suo fulgore" 7. Riporta più avanti l'esperienza della ade-
sione dei profeti a Dio: "Sotto la sua azione essi rivivono, in
qualche modo, l'esperienza del profeta Geremia: "Mi hai sedot-
to, Signore, e io mi sono lasciato sedurre"8•
Molti "motivi" trasversali dell'Esortazione ribadiscono que-
sto elemento soggettivo, che è il segno ed il primo passo nella
consacrazione: il richiamo alla bellezza che attira, il sentirsi rag-
giunto da una rivelazione particolare di Cristo9, l'essere rapito
nell'orizzonte dell'éterno IO o avvolto nel fulgore della verità, il
fare esperienza di Dio amore, la felicità interiore per la cono-
scenza di Cristo, il fascino della saggezza.
La consacrazione consiste nel fatto che Dio si è fatto sen-
tire nella nostra vita in forma singolare fino ad avvolgerla to-
talmente e diventarne il "motivo" principale, colui che più
ascoltiamo e al quale con più attenzione e gusto guardiamo. E
non per obbligo religioso o etico, ma come vita, senso e gioia.
Questa attrazione o innamoramento di Dio è un dato e
una esperienza che possiamo rivivere a ritroso. Certamente ri-
cordiamo quando e perché ci siamo decisi per lui, come gli
sposi ricordano quando avvenne il loro incontro e come si ac-
cese una vicendevole attrazione.
Per alcuni può essere stata un'illuminazione repentina e
folgorante in un momento di particolare intensità spirituale,
per esempio, un ritiro. Per i più tutto è capitato con graduali-
tà: un primo assaggio dovuto al contatto con ambienti o per-
sone legate al religioso, nei quali si è appreso un valore parti-
colare. Poi, un poco alla volta, si è scoperta la fonte da cui
tali valori procedono; si è partecipato all'esperienza di coloro
che ci hanno impressionato, attraverso l'amicizia, la collabora-
zione e le confidenze. Si è scoperto un panorama di vita
'
6 vc 15
7 ve 15
8 ve 19
9 cf. ve 14
10 cf. ve 14
56

6.7 Page 57

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nuovo e pieno di senso. Infine, ci si è sentiti "presi", secondo
l'espressione di San Paolo: "Sono stato conquistato da Gesù
Cristo" 11 .
È l'esperienza biblica di appartenere a Dio e non riuscire
a staccarsi da Lui anche in mezzo alle nostre debolezze ed in-
fedeltà: "Tu mi hai sedotto, Signore... e io mi sono lasciato
sedurre... nel mio cuore c'era un fuoco ardente, rinchiuso nelle
mie ossa. Cercavo di contenerlo, ma non potevo" 12•
A volte risentiamo queste storie personali quando negli
incontri giovanili qualche giovane professo racconta ai com-
pagni come e perché si è deciso ad entrare nella vita religiosa.
Nel 1993 le clarisse hanno celebrato il loro nono cente-
nario. La TV ne ha intervistato alcune! La domanda che più
interessava ai giornalisti era quali ragioni o fatti le avessero po-
tute portare alla decisione di assumere un tale genere di vita.
Le risposte erano molto varie quanto ad aneddoti e circostan-
ze. Ma sottostava a tutte uno stesso schema: dopo un primo
barlume del valore di Cristo, di Dio Padre per la propria vita,
la riflessione le aveva portate a sceglierli come "l'amore" della
loro esistenza, preferendolo ad altre possibili esperienze umane.
Qualche cosa di simile abbiamo ascoltato in occasione dei fu-
nerali di Madre Teresa.
La consacrazione non consiste principalmente in un de-
creto, in un insieme di segni esterni, in uno stato sociale o in
una separazione dal mondo; ma nel fatto che Dio sia entrato
nell'esistenza di una persona e vi abbia preso il posto princi-
pale, che abiti in essa e la faccia suo interlocutore e partner.
Non è dunque esclusiva dei religiosi e nemmeno dei cri-
stiani. Dovunque Dio interviene, creando o salvando, consacra
con la presenza del suo amore e dà dignità inviolabile. La
prima consacrazione è l'esistenza umana: è il primo atto di
amore che stabilisce il carattere intangibile della persona, la sua
superiorità su tutto ed anche i tratti fondamentali della nostra
esistenza.
11 Fil 3,12
12 Ger 20,7-9
57

6.8 Page 58

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Mediante la fede e il battesimo, che sono autocomunica-
zione di Dio attraverso il ministero della Chiesa, la nostra ap-
partenenza a lui diventa cosciente e si trasforma in principio
di sviluppo personale. L'abbiamo spiegato noi stessi tante volte
ai giovani parlando della consacrazione del battesimo che ci fa
figli di Dio, membri del suo popolo, templi dello Spirito.
La cosa singolare del consacrato nella vita religiosa o nel
"secolo" è che egli sente tutto ciò come l'elemento principale,
un punto irrinunciabile per la propria realizzazione. Il pensiero
di Dio lo raggiunge nel momento in cui fa il progetto della
propria vita: mediante il dono dello Spirito l'attira a sé in for-
ma radicale ed esclusiva. Potrebbe anche non fare la professio-
ne religiosa. Il fatto sorgivo della consacrazione sussisterebbe lo
stesso, con minore forza e significato. La Chiesa non riuscireb-
be a dargli visibilità comunitaria di segno né ad inserirlo nella
propria missione.
Siamo dunque lontani da quella concezione per cui in
forza di un gesto rituale si diventa persone socialmente "sacre".
Il recente congresso dei giovani religiosi (1997) ha espresso
questo primo elemento della consacrazione nel motto "Vidimus
Dominum": abbiamo avuto un'esperienza di incontro, uno sve-
lamento, una "visione".
La vivacità di questa esperienza non deve diminuire col
crescere dell'età o il radicarsi dell'abitudine. È chiamata anzi a
maturare e riempire la vita. Se cadesse, la vita religiosa perde-
rebbe la sua motivazione e si trascinerebbe nel funzionalismo,
cioè nel solo adempimento corretto dei propri doveri.
Capiterebbe a noi quello che capita alle coppie stanche
che continuano a convivere e in pace, ma che da tale convi-
venza non si attendono novità felicità. Non avrebbero
su di essa niente da raccontare.
Aggiungo che è indispensabile oggi. Viviamo tempi di
emergenza del "soggettivo"; la comunicazione porta a sottoli-
neare "l'emozionalità"; i giovani vanno dove li porta "il cuore";
meno indicata che mai è la "genericità", una proposta che non
tocchi la vita. Ai giovani religiosi il Papa diceva: "Questa sa-
pienza (della vita consacrata) è il sapore del mistero di Dio, il
58

6.9 Page 59

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gusto dell'intimità divina; ma è anche la bellezza dello stare m-
sieme in n o me suo"13.
2. La lettura di questa esperienza alla luce della fede
In corrispondenza con questa autorivelazione di Dio nella
nostra vita (in forma di intuizione, gusto, percezione nitida) e
alla nostra gioiosa accoglienza, si va radicando in noi il con-
vincimento di essere stati destinatari dell'attenzione e dell'amore
di Dio, non in generale, come un individuo in una massa, ma
personalmente: "Ti ho chiamato per nome" 14; "Con amore eter-
no io ti ho amato" 15; "Ci ha scelti prima della creazione del
mondo perché fossimo suoi figli adottivi" 16.
Di espressioni di questo tenore è piena la Scrittura quan-
do descrive l'atteggiamento di Dio verso di noi. L'iniziativa e il
primo passo sono stati suoi. La categoria "dono" per inter-
pretare il fatto, non solo della vocazione, ma dell'esistenza, è
dominante. Nell'Esortazione viene adoperata in continuità.
Colpisce l'uso del verbo "consecrare" al passivo. Sovente si
dice "siamo stati consacrati" e spesso non da una persona, da
un rito o istituzione umana o divina, ma dallo Spirito: "Dio ci
consacra col dono dello Spirito" 17.
La consacrazione non è uno sforzo nostro per raggiungere
un certo grado di virtù o per mettere Dio al centro del pen-
siero e della vita. Ciò è piuttosto conseguenza di un fatto che
sta più alla base. La consacrazione è una visita, un dono, una
venuta di Dio verso noi, un'irruzione della sua grazia nella no-
stra vita. Nel vangelo l'iniziativa viene espressa con lo sguardo
che Gesù rivolge ad alcuni, la chiamata, l'invito, il fascino che
lui suscita, il coinvolgimento pratico, l' interpellare, la visita a
casa.
13 Giovanni Paolo II, messaggio al Convegno "Vidimus Dominum", 29.09.97
14 Is 43,1
15 Ger31,3
16 Ef 1,4
17 cf. Cost. 3
59

6.10 Page 60

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Lo stesso si vede nelle vocazioni profetiche. Esse sono
repentine e imprevedibili. Non è il profeta che va in cerca di
Dio, ma è Dio che lo investe, lo occupa. Amos dice che an-
dava dietro il gregge quando sentì la voce di Dio 18• Movi-
mento simile, sebbene in circostanze molto diverse, raccontano
gli altri profeti. Di solito, e per correttezza teologica, questo
elemento si enuncia al primo posto. Si segue l'ordine della
causalità.
L'Esortazione riprende le immagini evangeliche e bibliche
e afferma categoricamente che il riferimento alla consacrazione
sottolinea l'iniziativa di Dio. "Qui sta il senso della vocazione
alla vita consacrata: un'iniziativa tutta del Padre, che richiede
da coloro che ha scelti la risposta di una dedizione totale ed
esclusiva" 19. L'iniziativa, nella storia, appartiene anche al Figlio:
Gesù chiama, invita... "ad alcuni chiede un coinvolgimento to-
tale, che comporta l'abbandono di ogni cosa, per vivere in in-
timità con lui e seguirlo dovunque egli vada"20. L'iniziativa ap-
partiene allo Spirito Santo che dal profondo della coscienza e
della mente produce aperture, svelamenti, gusti, propositi, ten-
denza, amore verso Dio e la sua opera. "E lo Spirito che su-
scita il desiderio di una risposta piena; è lui che guida la cre-
scita di tale desiderio, portando a maturazione la risposta posi-
tiva e sostenendone poi la fedele esecuzione"21•
Qualche anno fa la Congregazione della dottrina della
fede pubblicò un documento su "Alcuni aspetti della medita-
zione cristiana" (15 ottobre 1989). Il motivo che indusse a ciò
era il diffondersi di pratiche e modalità di meditazione orien-
tale. Dalla sua lettura si capiscono bene le differenze tra una
spiritualità naturale razionalistica e la spiritualità cristiana. La
prima appare come una conquista propria: attraverso uno
sforzo di ricerca intellettuale e dominio dei movimenti istintivi,
la persona raggiunge la illuminazione. La vita spirituale cristia-
na invece è concepita come un dono dello Spirito. Si tratta di
18 cf. Am 1,1
19 ve 11
20 ve 1s
21 ve 19
60

7 Pages 61-70

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7.1 Page 61

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aprirsi all'ascolto, di rispondere , di lasciarsi occupare, di acco-
gliere. È grazia. L'iniziat iva e le possibilità non sono in noi.
Perciò in alc une form e d i sp iri tualità orienta le la via
principale è la presa di coscienza di sé, l'ascesi che fiducia
nella propria capacità e la soddisfazione per i successi raggiunti,
la lotta con se stessi, il volontarismo. Nella spiritualità cristiana
la via principale è la carità. Si tratta di sentire una presenza
che ci ha fatto oggetto della sua predilezione e rispondere con
amore. È tutta fondata sul rapporto: non è una lotta con se
stessi, ma principalmente una "lotta con Dio", nel senso di
non riuscire mai a rispondere adeguatamente al suo amore,
sentito ogni volta con maggiore intensità e chiarezza. È questa
l'icona presentata al n. 38 dell'Esortazione Vita Consecrata. In
essa domina il desiderio della benedizione di Dio e il ringra-
ziamento. Il cristiano è un essere grato: "Ti rendiamo grazie
per la tua gloria immensa".
3..Una scelta e un progetto di vita
Dai due fatti descritti, che esistenzialmente sono uno so-
lo, (presenza-accoglienza, vocazione-risposta, appello-sequela, do-
no-corrispondenza, rivelazione-adesione...), ne deriva un terzo:
un orientamento e una a scelta di vita.
Matura in noi la convinzione, la consapevolezza o il senti-
mento che siamo suoi, che "in lui viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo"22, che lui è il primo e il solo importante, non in
astratto e .in generale, per il mondo o per il genere umano,
ma per noi.
Ci concentriamo in lui. Lo cerchiamo "dall'aurora"23, cioè
continuamente, come fonte di senso, come interlocutore, come
punto di arrivo, come compagnia.
Da ciò proviene un rapporto che ci va riempiendo di lu-
ce e di pace, anche psicologicamente, e ci caratterizza di fronte
al mondo. Il consacrato è colui che ha messo Dio e il valore
22 At 17,28
23 Sal 62,2
61

7.2 Page 62

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religioso (la fede) al centro della sua esistenza. "Il Signore è la
parte della mia eredità"24.
Questo diventa proposito. La persona allora si dà, si
dona totalmente, si consacra secondo il senso analogico che si
a questa parola.
Il suo sforzo è di giungere ad essere creatura di un solo
desiderio, vivere il mistero di Dio non come una breve pausa
settimanale o giornaliera, per esempio, nella messa o nella pre-
ghiera, ma come uno stato e un rapporto permanente, capace
di ispirare le scelte e le modalità di vita.
Per questo si assume un progetto concreto, una forma di
esistenza visibile che porta il segno di Dio. Ci incorporiamo in
una comunità che si riconosce già nella medesima scelta e ha
predisposto un cammino per svilupparla.
Pure questo tipo di vita è "consacrato" non in forza di
una separazione materiale dal mondo, dei segni o delle prati-
che esterne (questa sarebbe una visione estranea alla fede cri-
stiana), ma perché viene impostato e organizzato alla luce del
rapporto trasformante con Dio e del suo Regno.
Di essa si sottolinea spesso l'imitazione di Cristo, espressa
nei Consigli assunti con voti. Né il contenuto dei Consigli,
il voto con cui vengono assunti hanno un significato formale e
chiuso. Esprimono il midollo e sono il segno della vita ispirata
al vangelo. Oggi sono esposti a più seri interrogativi antropolo-
gici e a nuove sfide; allo stesso tempo si prestano a nuove
espressioni e messaggi. L'esortazione ci tiene a commentare che
il capirli nel senso evangelico, lo sceglierli come modalità di
vita, il decidersi a professarli pubblicamente è un dono che
procede dalla Trinità e ne riflette il mistero di donazione.
Bisogna aggiungere altre due esigenze. In primo luogo il
tratto, l'amicizia e l'intimità con Cristo. Sarebbe insufficiente
assumere soltanto le sue preferenze operative e i suoi atteggia-
menti verso i fratelli. Ci vuole il rapporto. Gesù è una perso-
na viva con la quale incontrarsi e nella quale vivere. Fra il
consacrato e lui si stabilisce una relazione profonda. Ce lo in-
24 Sal 16,5
62

7.3 Page 63

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segna la vita de i discepoli. Ges(t in fatt i ebbe asc ltatori, amm i-
ratori, segu:ici, discepoli e alcuni che furono particolarm.ente
intimi e ami ci: "Voi siere mi ei ami ci"25 ; "Maes tro , dove ahiri ?'126.
Oggi quando tutti i vincoli istituzionali appaiono deboli e
tutte le appartenenze formali sembrano transitorie e poco elo-
quenti, questa esperienza personale risulta una testimonianza
convincente e garanzia di fedeltà.
Viene opportuno un commento: è conveniente dare luogo
alle manifestazioni affettive di amicizia con Cristo oltre a
quelle effettive. Bisogna evitare due estremi: convertire l'amore
in un sentimento superficiale, un semplice movimento di sen-
sibilità quasi da adolescente; e, all'altro estremo, rendere arido
il nostro cuore con un certo intellettualismo. Se tante volte la
volontà si trova frenata nell'amore di Dio è perché la nostra
sensibilità umana è atrofizzata. Finché la fede o il pensiero di
Dio non raggiungono i sentimenti, rimangono marginali e ino-
perosi. Ci furono santi che manifestarono con tenerezza il loro
amore per Dio. Possiamo ricordare San Francesco di Assisi, ma
non meno, sebbene con altro stile, San Francesco di Sales, alla
cui spiritu alità ci ispiriamo.
Oltre l'imitazione e l'intimità c'è la partecipazione attiva
alla sua causa, cioè lo spendersi per quello per cui Egli ha la-
vorato e sofferto.
Questo dinamismo di amicizia, imitazione, partecipazione,
discepolato, nell'Esortazione viene denominata "adesione con-
formativa a Cristo". "Attraverso la professione dei consigli, in-
fatti il consacrato, non solo fa di Cristo il senso della propria
vita, ma si preoccupa di riprodurre in sé, per quanto è possi-
bile, la forma di vita che il Figlio di Dio prese quando venne
nel mondo" 27 .
D alle modalità concrete assunte nel passato o inventate
oggi per realizzare questo progetto di vita in Dio, conforme
alle diverse situazioni, provengono i vari tipi di vita consacrata
e la diversa configurazione della consacrazione.
25 cf. Gv 15, 14
26 Gv 1,38
27 ve 16
63

7.4 Page 64

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4. Nella Chiesa e per la Chiesa
Questi tre fatti, chiamata-risposta-progetto, presenza-acco-
glienza-scelta, invito-corrispondenza-alleanza, vengono espressi
dalla professione.
Le formule più antiche sono stringate ed essenziali. Le
moderne invece sono piuttosto lunghe e analitiche. Tutte però
si caratterizzano perché sottolineano che l'oggetto della consa-
crazione non sono le cose, né le attività, né gli obblighi mo-
rali, ma la persona; che la ragione è l'amore di Dio percepito
e il desiderio di corrispondervi.
"La professione religiosa è un segno dell'incontro di
amore tra il Signore che chiama e il discepolo che risponde
donandosi totalmente a lui ed ai fratelli" 28. Le esigenze della
consacrazione sono dunque totali, esclusive, perpetue: tutto,
solo, per sempre. In un certo periodo prevalse la formula "fino
alla morte". Non era una determinazione di tempo ma di in-
tensità: fino all'olocausto, alla consumazione.
La professione ha un'importanza singolare nell'organizza-
zione e sviluppo della nostra vita spirituale. Non è un atto
passeggero, una sottoscrizione a un documento, ma l'inizio di
una relazione che si prolungherà, come quella del matrimonio.
Da essa dovranno sgorgare atteggiamenti, gesti e parole. Risulta
dunque non solo un proposito di santificazione, e tanto meno
il contratto di appartenenza ad una comunità, ma anche una
fonte di grazia, come per gli sposi la promessa iniziale di vi-
cendevole appartenenza. Il ·periodo di preparazione immediata
ribadisce il suo carattere unico. Sull'impegno che si assume si
costruirà l'esistenza e si andrà stabilendo la differenza tra il sa-
lesiano autentico e quello incolore. Viverla e manifestarla è
parte del nostro contributo all'educazione dei giovani ed alla
dinamica comunitaria.
Soprattutto la professione è il riconoscimento pubblico,
da parte della comunità ecclesiale, di questa irruzione di Dio
nella vita di una persona, della volontà di questa persona di
vivere tale evento in quello spazio dello Spirito manifestatosi
28 cf. Cost. 23
64

7.5 Page 65

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nel mondo, che è il Regno e la Ch ies;-i; non dunque in forma
intimistica e individuale. La Chiesa la riconosce e la incorpora
a ll a comun ione e m iss i\\)lìe d el p,JJJ\\) lci cli D io. Perc iò la l itur-
gia la valorizza con una celebrazione speciale, invoca sulle per-
sone il dono dello Spirito Santo e associa la loro oblazione al
sacrificio di Cristo. La presenza numerosa della comunità gli
dà rilievo sociale.
Tutto ciò va collegato ad un punto commentato e sof-
ferto oggi: il carattere indispensabile della vita consacrata. "La
vita consacrata presente sin dagli inizi, non potrà mai mancare alla
Chiesa come un suo elemento irrinunciabile e qualificante, in
quanto espressivo della sua stessa natura"...
"La concezione di una Chiesa composta unicamente di
ministri sacri e da laici non corrisponde, pertanto, alle inten-
zioni del suo divino Fondatore quali ci risultano dai Vangeli e
dagli altri scritti neotestamentari"29.
In sintesi, la consacrazione è una esperienza complessa
che comprende l'iniziativa di Dio, l'esperienza personale del
suo appello ed invito, un progetto di vita che mette il riferi-
mento a Dio al centro dell'esistenza e il gesto della Chiesa che
inserisce questa vocazione nella propria comunione e missione.
Non è un momento o un atto singolo, ma un continuum
che dura tutta la vita e si realizza in crescendo: un'alleanza, un
patto di amore, un matrimonio.
5. Alcune conseguenze importanti
Da quanto abbiamo detto possiamo ricavare alcune rifles-
sioni per la nostra vita.
I consacrati:
* Sono le donne e gli uomini del senso religioso: questo
nella considerazione di tutti, credenti e non credenti. L'esi-
stenza personale e collettiva si basa su una costellazione di va-
lori che tutti assumiamo: il rispetto dell'altro, il lavoro, la sa-
lute, l'onestà, la responsabilità sociale. Dicendo costellazione in-
dichiamo che tra di loro c'è un'organizzazione e una gerarchia
29 cf. ve 29
65

7.6 Page 66

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che consente di vederli come un sistema. Ciascuno di noi
mette al centro alcuni di sua preferenza e in coerenza con essi
organizza il tutto.
I consacrati si concentrano sul valore religioso e da esso
si proiettano verso gli altri valori, ritornando sempre al primo
come a giustificazione e matricè di tutto quello che fanno. In
forza di esso assumono l'educazione, curano i malati, si danno
alla ricerca. Ogni ramo dell'agire umano è aperto ai consacrati,
purché l'ispirazione e la motivazione siano proprie di chi ha
fatto di Dio la sua scelta principale. C'è grande differenza tra
un'educatrice onesta e professionalmente capace ed una reli-
giosa educatrice.
Appare una anormalità quando un'altra dimensione
prende il sopravvento e il senso religioso rimane emarginato.
Particolarmente nelle congregazioni dedicate alla educazione o
ad altri servizi, ci può essere uno squilibrio tra ruolo profes-
sionale e testimonianza religiosa.
Tillard dice che il senso religioso è per il consacrato
quello che l'igiene è per il medico. Una mancanza di pulizia è
tollerabile in qualsiasi persona, ma costituisce una mancanza
seria in un medico chirurgo.
* Appaiono come esperti dell'esperienza di Dio. Non
solo essi scelgono la via della spiritualità come propria via; ma
si propongono anche come interlocutori per tutti quelli che
nel mondo sono alla ricerca di Dio. A coloro che già sono
cristiani offrono, quindi, la possibilità di fare, in loro compa-
gnia, un'esperienza religiosa e a coloro che non sono cristiani
si mettono accanto, nel cammino di ricerca. L'esperienza reli-
giosa è all'origine della loro vocazione. Il progetto di vita che
assumono tende a coltivarla. La privilegiano in termini di
tempo e di attività.
Tutti i cristiani, d'altra parte, debbono e vogliono fare
una certa esperienza di Dio; ma vi si possono dedicare soltan-
to ad intervalli e in condizioni di vita meno favorevoli, per cui
rischiano di trascurarla.
I consacrati sono allo stesso tempo una memoria di Dio
per cristiani e non cnst1ani e un supporto per coloro che vo-
gliono cercare, percepire e gustare la sua presenza.
66

7.7 Page 67

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C'è nella vita una legge che viene app li ca ta in tutti gli
ambiti: nessun valore permane nella società senza un gruppo di
persone che si dedichino completamente a svi lupparlo e soste-
nerlo. Senza la classe medica e l'organizzazione degli ospedali,
la salute sarebbe impossibile. Senza gli artisti e le istituzioni
corrispondenti, il senso artistico della popolazione decade. Lo
stesso avviene col senso di Dio: i religiosi, contemplativi o no,
sono quel corpo di mistici capace di aiutare almeno chi è
prossimo a leggere l'esistenza alla luce dell'assoluto e di accom-
pagnarli a farne esperienza.
Ciò appartiene ai propositi essenziali della vita religiosa.
Perciò i Fondatori misero il senso di Dio al di sopra di tutte
le attività e aspetti. Credenti e non credenti avvertono la me-
diocrità religiosa dei consacrati come una difformità. I religiosi
medesimi sentono un vuoto incolmabile quando questa dimen-
sione sparisce.
L'Esortazione Apostolica Vita Consecrata ha visto la vita re-
ligiosa come spazio privilegiato per il dialogo tra le grandi reli-
gioni30, perché alla sua origine c'è una opzione che, in termini
generali, è condivisa da tutte le persone profondamente reli-
giose.
Le Costituzioni salesiane ricordano questo all'art. 62: "In
un mondo tentato dall'ateismo e dall'idolatria del piacere, del
possesso e del potere, il nostro modo di vivere testimonia spe-
cialmente ai giovani che Dio esiste e che il suo amore può
colmare una vita"31.
Manifestazione di questo nostro profilo professionale è la
nostra personale esperienza di Dio, resa cosciente, cercata, ap-
profondita e maturata da adulti; è la competenza nell'iniziare
altri, specialmente i giovani, nell'esperienza di Dio. Essi deside-
rano, almeno come curiosità o sensazione passeggera, avere
qualche momento spirituale. Lo dimostrano la frequenza alle
case di ritiro e le giornate di monastero o convento. Sarebbe
triste se i consacrati fossero più occupati ad amministrare che
a guidare le persone in un'esperienza di vita.
30 cf. ve 101-102
31 Cost. 62
67

7.8 Page 68

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* Assumono la santità come proposito principale della
vita. Non la si intende solo come correttezza morale o come
sforzo ascetico, ma come stile di esistenza e di rapporto nei
quali traspare, in qualche forma, il mistero di Dio, liberante,
vicino.
I santi sono stati chiamati trasparenza di Cristo oggi. San
Vincenzo de' Paoli diceva: "Come sarà stato buono Gesù se il
Vescovo Francesco di Sales è così amabile".
Le Costituzioni dicono che la santità è il dono più pre-
zioso che possiamo fare ai giovani. Ad essi infatti risulta diffi-
cile costruire la loro umanità . Dall'esterno gli giungono
messaggi e suggerimenti discordanti e contraddittori; con diffi-
coltà riescono a discernere, scegliere e soprattutto sintetizzare.
Non è facile, per i giovani, percepire la trascendenza nel
contesto secolare e il clima di libertarismo rende difficile matu-
rare criteri morali; come non è facile per loro credere che Cri-
sto vive oggi e non è solo una storia edificante del passato.
Possiamo aggiungere che la santità è anche il contributo
dei religiosi alla cultura e alla promozione umana. Infatti la
santità ha anche un valore temporale, non soltanto per le
opere di carità a beneficio dei poveri, ma per il senso e la di-
gnità che immette nella convivenza umana.
Ha scritto Congar: "La più grande novità del Concilio è
questa: se la Chiesa è nel mondo e nel mondo si trovano i
problemi, la santità è un fenomeno che interessa la cultura.
Può sembrare un concetto discutibile, ma un punto centrale
delle intuizioni del Concilio è che la santità ha a che vedere
con la storia. Con l'Incarnazione la storia dell'uomo è il luogo
dove si esprime l'amore di Dio; la santità non nasce dunque
dalla fuga o rigetto del mondo, perché è nella misura in cui
mi tuffo nel mondo per salvarlo che trovo il gran dono di
Dio" 32.
32 Radio Vaticana, 20.02.84; Avvenire 22.02.84
68

7.9 Page 69

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[l La spiritualità salesiana nel quotidiano
La spiritualità salesiana è stata sintetizzata in alcune for-
rpule brevi come quelle che adoperava don Bosco per i ragazzi.
E questa un'abitudine di famiglia: semplificare, unire, aiutare a
ricordare.
La sintesi mistica è sintetizzata nel motto: Da mihi animas.
Quella pedagogica è: ragione, religione, amorevolezza. Riguarda
non solo il rapporto con i giovani, ma la forma di costruirsi
dell'educatore apostolo.
Quella devozionale è: Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice e il
Papa .
Quale è il programma pratico da vivere ogni giorno, il
cammino sul lungo termine per maturare nella spiritualità sale-
siana? Lavoro, preghiera, temperanza.
Le tre parole, popolari, quasi proletarie, corrispondono
alle tre dimensioni che Vita Consecrata indica come indispen-
sabili in ogni spiritualità: quella contemplativa, quella apostolica,
quella ascetica.
Dobbiamo dunque scavare nel contenuto tradizionale ed
odierno di questi riferimenti, per nostro profitto e come
"bussola" pratica per l'animazione comunitaria.
Vediamole una a una.
1. Preghiera: contemplativi nell'azione
Secondo VC, della contemplazione hanno bisogno tutti 1
discepoli di Cristo e sempre: i teologi per poter valorizzare in
pieno l'anima sapienziale e spirituale della loro scienza; coloro
che si danno alla preghiera perché non dimentichino che vede-
re Dio significa scendere dal monte con un volto così raggian-
te da essere costretti a coprirlo con un velo; coloro che si im-
pegnano per non chiudersi in una lotta senza amore e senza
perdonol.
1 cf. ve 38
69

7.10 Page 70

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Ciò vuol dire che la contemplazione non coincide con lo
studio delle cose sacre, anche se se ne awantaggia. Vuol dire
che include la preghiera ma va oltre: la contemplazione, quello
che da noi tradizionalmente si chiamava unione con Dio, è
senso e gioia della sua presenza, rapporto filiale con lui.
Riguardo ad essa si intravedono molteplici questioni da
approfondire: che cosa significa contemplazione, le diverse
forme di contemplazione, i luoghi atti e da preferire secondo
le diverse esperienze spirituali. Ho avuto l'opportunità di con-
frontare questi concetti con membri di ordini "contemplativi" a
proposito della nostra spiritualità dell'azione. Mi accorgo che
non sono superflue alcune spiegazioni per prendere coscienza
di quale sia la nostra forma di contemplazione e orientare
verso una pratica convincente.
Due luoghi sono da curare in unità, quasi fossero comu-
nicanti, per inverare la definizione di contemplativi nell'azione:
la preghiera e l'azione.
Una delle domande più serie che si fanno quando si
propone una spiritualità riguarda la preghiera. Oggi un insieme
di fenomeni la fanno emergere non solo come espressione
della fede cristiana ma anche come soddisfazione di un biso-
gno dell'uomo. Non sono pochi coloro, di diverse fedi, ed an-
che senza alcuna, che cercano una certa forma di preghiera
nelle tecniche orientali o in forme nuove di religiosità.
Nella Chiesa si sono diffuse le scuole di preghiera, gui-
date da vescovi o sacerdoti. Ci si raduna una volta al mese o
settimanalmente nei tempi di quaresima e awento per leggere
la Scrittura, recitare i salmi, pregare in silenzio. Il movimento
di rinnovamento nello Spirito ha fatto della preghiera il suo
punto distintivo; e quello di Taizè invita i giovani all'esperienza
della contemplazione.
Si offrono dappertutto le giornate di "monastero". Il mo-
nastero viene considerato come un luogo sociale di riflessione
e di manifestazioni artistiche legate allo spirituale. Sono state
molto seguite dalla TV le "adunanze di preghiera" interreligiose
(cristiani, ebrei, musulmani, buddisti) per le grandi cause come
70

8 Pages 71-80

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8.1 Page 71

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la pace. Se ne faranno altre in quest'anno giubilare dedica to
alla cultura de lla pace e alla preoccupazio ne ecumenica . In
quasi tutte le celebrazioni legate ad avvenimen t i religiosi si in-
clude una veglia di preghiera.
Insomma sembra sia il mondo o la persona a sentire un
bisogno urgente di mettersi in contatto con altre realtà che
non siano computer, macchine, borsa, bilanci, produzione,
conti e simili.
La medesima tendenza, allo stesso tempo significativa e
ambigua, appare anche nella religiosità giovanile. Ci sono
gruppi di giovani che cercano profondità di preghiera e maestri
che li guidino. Per loro si stanno moltiplicando i luoghi di
preghiera: oasi, case di ritiro, "capanne".
Un certo numero ne fa un assaggio, una esperienza fu-
gace che non mette radici. Forse cercano la soddisfazione per-
sonale di provare il "diverso", l'insolito. Ma non manca mai un
certo desiderio di "senso" o un elemento stabilizzante e rassere-
nante per la propria vita.
La nostra pastorale giovanile si è premurata anche di
dare risposte alla domanda dei giovani. Per loro sono stati
proposti cammini aggiornati di preghiera. È rinata oggi una
produzione abbondante di libri di meditazione e di preghiera
per tutte le circostanze (feste, campeggi, incontri, sport, mo-
menti di gioia e anche momenti di sofferenza). In particolare i
movimenti ecclesiali si sono dati il loro stile di orazione con
relativi testi e collezioni di canti: tutto sotto il segno della
"personalizzazione", della qualità biblica, della partecipazione.
Questi fatti ci interpellano in primo luogo come religiosi.
Nella mentalità popolare, il religioso è uno che pratica e gusta
la preghiera, che sa pregare e vi si dedica.
Ci interpellano più ancora che come educatori-evangelizza-
tori. A noi tocca iniziare i giovani in quell'atteggiamento cri-
stianissimo che si chiama pietà. Se non si vuole ridurre il
Vangelo ad una teoria religiosa, ad una spiegazione intellettuale
su Dio, si devono radicare atteggiamenti di affetto verso il Pa-
dre con le corrispondenti espressioni.
71

8.2 Page 72

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I salesiani in generale hanno accolto favorevolmente gli
stimoli che venivano dall'ambiente e dalla Chiesa: molte cose
sono migliorate nella preghiera della comunità. E ci sono am-
mirevoli esempi di oranti: penso ai malati, agli anziani.
D'altra parte risultano difficili, per coloro che sono nel
vivo delle responsabilità, l'atteggiamento e la pratica della pre-
ghiera regolare e impegnata. Il loro tipo di vita infatti non
porta alla preghiera né è pensato in funzione di essa. Sembra
orientato piuttosto ad attività secolari, scuole, ambienti giova-
nili, rapporti sociali, organizzazione. Tutto ciò li espone ad im-
previsti, all'agitazione, ad accumulo di impegni che non favori-
scono la calma e la regolarità.
Questo tipo di vita riproduce quello di Don Bosco: la
sua attività multiforme e continua sembrava sottrarlo alla pre-
ghiera esplicita abbondante che si trova in tutte le biografie di
santi. "Riguardo alla preghiera propriamente detta - diceva il
Promotore della fede al Processo di beatificazione - della quale
tutti i fondatori di nuove congregazioni hanno avuto cura spe-
ciale, in Don Bosco non si trova, si può dire, niente. Come si
può qualificare di eroico uno che è stato così carente in ciò
che riguarda la pratica della preghiera vocale? Nella vita dei
santi non si era visto niente di simile precedentemente".
A ciò si aggiunge la difficoltà intrinseca della preghiera,
che non consiste soltanto nel concentrarsi, nell'entrare in se
stesso o nel parlare ad un interlocutore invisibile che non ri-
sponde, ma anche nel fatto che la preghiera è lo specchio
della fede vissuta e dell'attenzione che Dio riceve nella , nostra
vita. "La preghiera è la sintesi del nostro rapporto con Dio.
Possiamo dire che noi siamo quello che preghiamo e come lo
preghiamo. Il livello della nostra fede è il livello della nostra
preghiera; la forza della nostra speranza è la forza della nostra
preghiera: l'ardore della nostra carità è l'ardore della nostra
p r e g h i e r a 11 2.
Dal nostro modo di parlare ci si accorge subito del grado
di confidenza che abbiamo con una persona. Con un amico
2 cf. Carretto C., Lettere dal deserto
72

8.3 Page 73

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parli amo di qualsiasi cosa e con facilità. Di fronte ad un
estraneo non ci vengono né argomenti né parole. Lo stesso av-
vi ene quando ci mettiamo d i fronte a D io .
Ad alcuni poi sembra che tra i salesiani non ci sia una
iniziazione alla preghiera, che nessuno li abbia introdotti o
guidati alla sua pratica e che i direttori che ricevono giovani
confratelli non prendano in considerazione e molte volte non
siano capaci di farli progredire nella preghiera. Per questo si
nota tra di loro una fuga verso gruppi e movimenti che la of-
frono _in maniera più emotiva e partecipata.
E legittimo allora domand arsi come è la preghiera del sa-
lesiano, uomo dato alla attività educativa e pastorale.
Egli ha due modelli per capire come dev'essere la sua
preghiera: Gesù Pastore e predicatore del Regno e Don Bosco.
San Luca ci parla abbondantemente della preghiera di
Gesù e dei suoi insegnamenti in merito. Ma ancora prima di
presentarci Gesù in atteggiamento di preghiera, avvolge tutto il
racconto della sua vicenda in un clima di invocazione, lode,
ringraziamento e petizione.
La sua nascita e l'infanzia vengono come inquadrate da
quattro cantici di gioia, speranza e lode: quello di Elisabetta,
di Maria, degli Angeli e di Simeone. La morte suggerisce a
Cristo la preghiera: "Padre, perdona loro perché non sanno
quello, che fanno"3; "Nelle tue mani affido il mio spirito"4.
E un'indicazione sul come guardare e vivere gli eventi di
salvezza. Coloro che pregano riescono a vedere la portata degli
avvenimenti che per gli altri non esulano dalla normalità o
hanno significato negativo.
I principali momenti della sua missione sono segnati
esplicitamente dalla preghiera.
Nella preghiera, durante il battesimo, riceve pubblica-
mente l'investitura pubblica e il beneplacito del Padre: "Mentre
Gesù, ricevuto anche lui il battesimo stava in preghiera, il
3 Le 23, 33
4 Le 23, 46
73

8.4 Page 74

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cielo si apri" e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza
corporea come di colomba e vi fu una voce dal cielo: Tu sei
il mio figlio ..."5_
Un lungo periodo di preghiera accompagnato dal digiuno
nel deserto gli il senso della sua opera e la forza per resi-
stere alle tentazioni di orientarla in forma diversa da quello
che il Padre vuole6.
Prima della scelta dei discepoli mette nelle mani del Pa-
dre la decisione e coloro che sceglierà: "In quei giorni Gesù se
ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in ora-
zione. Quando si fece giorno chiamò a sé i suoi discepoli e
ne scelse dodici..."7.
La sua preghiera ottiene dal Padre la confessione di Pie-
tro... e lo sostiene nei momenti di prova: "Ho pregato affinché
la tua fede non venga meno" 8•
La trasfigurazione ha luogo in un momento di intensa
conversazione col Padre. E in questo atteggiamento la sua
umanità appare agli occhi degli apostoli come era realmente9.
Molti miracoli sono preceduti o accompagnati da un ge-
sto orante: la moltiplicazione dei pani, la guarigione del cieco
nato, la cacciata dei demoni, la risurrezione di Lazzaro.
L'ultima grande preghiera è un testamento, uno sguardo
sulla sua esistenza: raccoglie i motivi della sua vita e della sua
morte 10, la sua posizione critica di fronte al mondo, la sua to-
tale disponibilità per il disegno del Padre, l'amore ai suoi, la
preoccupazione per l'unità e la perseveranza di tutti coloro che
partecipano alla sua azione di salvezza, il suo proposito di fe-
deltà.
La preghiera nell'orto e sulla croce è l'accettazione dei
fatti come venuti dalla volontà di Dio piuttosto che dalla mali-
5 Le 3, 21-22
6 ef. Le 4
7 Le 6, 12-13
8 Le 22,32
9 cf. Le 9,28-29
10 cf. Gv 17
74

8.5 Page 75

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w 1 degli uomini. Con essa co nsegna la vita 'nelle mani del Si-
gn o re .
La preghiera di Gesù appare così come un atteggiamento
costante, interno, che si manifesta in espressioni spontanee di
gioia, di ringraziamento, di invocazione, di disponibilità, di
riflessione. Sullo sfondo di tutte queste espressioni c'è una sola
parola, Padre: "Ti benedico, Padre" 11.
Per il Padre ci sono anche tempi e luoghi adatti per una
conversazione tranquilla: i monti, il deserto, la notte, i luoghi
solitari, la compagnia di pochi amici.
Ma la vera preghiera è la vita che si snoda secondo la
volontà del Padre e a servizio degli uomini1 2• Perciò il suo in-
segnamento ai discepoli si concentra in quattro raccomanda-
zioni, la cui unità non tutti colgono:
* pregate sempre, senza interruzione 13: non si tratta del
dire sempre preghiere, ma di far di ogni momento della vita
una invocazione al Padre;
* quando pregate "non dite molte parole" 14... Ciò è tipico
dei pagani. Essi credono che gli dei riescano a conoscere i no-
stri problemi e sentimenti solo se noi glieli diciamo 15;
* nella sostanza e nel profondo di ogni espressione e
scelta ci sia sempre una parola, un sentimento: "Padre".
Quando pregate dite "Padre nostro che sei nel cielo..."16• Il va-
lore e il fondamento di ogni parola è il rapporto e il posto
che diamo a Dio nella nostra vita;
* bisogna pregare "in Spiritu et veritate" 17..• l'intensità e
l'autenticità della preghiera si manifestano in una vita messa a
servizio di Dio e dei fratelli.
11 Mt 11, 25
12 cf. Mt 7, 21
13 cf. Le 21, 36
14 Mt 6, 7
15 cf. Mt 6, 7
16 Mt 6, 9
17 Gv 4, 23
75

8.6 Page 76

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Don Bosco e Maria Mazzarello hanno preso da Gesù Pa-
store questa modalità. Scoprirono il carattere di preghiera che
ha l'azione apostolica e caritativa quanc:\\o viene compiuta se-
condo la volontà e nella presenza di Dio. Ciò d'altra parte era
già conosciuto dai mistici.
Per Santa Teresa: "La preghiera è un trattare da amici
con Dio ..."; comprende la totalità della vita, qualunque sia l'oc-
cupazione del momento; si può parlare con lui o lavorare per
lui; pensare a lui o soffrire per lui.
Perciò, sempre secondo Santa Teresa, la preghiera prepara
l'incontro con Dio nell'azione: "L'orazione mentale non è altro
che fare pratica di amicizia incontrandosi frequentemente con
chi si ama... non ·per godere ma per accumulare energie per
servire". Per questo l'azione la sostituisce con vantaggio in de-
terminati momenti: "Smettere di star da soli con lui per dedi-
carsi a una di queste due cose (agire e patire) gli gradi-
mento".
Bisogna dire però che i salesiani conoscono poco della
vita di preghiera di Don Bosco. Si ripete che "era l'unione con
Dio". Ma se domandassimo a ciascun salesiano se Don Bosco
è stato per lui Maestro di preghiera come lo è stato, per
esempio, di pedagogia, forse non poche risposte sarebbero ne-
gative.
Il cammino attraverso cui Don Bosco è progredito nella
preghiera attiva è certamente meno noto e commentato di
quello che l'ha portato a maturare il sistema preventivo. Di
quest'ultimo conosciamo e diffondiamo aneddoti e massime; del
primo invece abbiamo un'immagine alquanto generica. Le bio-
grafie danno ampio spazio al suo genio creativo e aggiungono
alcune pagine esemplari sui momenti mattutini di preghiera.
C'è un "classico" della letteratura salesiana nel quale si fa
uno sforzo di osservazione più accurata della vita mistica di
Don Bosco; è: "Don Bosco con Dio" di Don Eugenio Ceria.
Da esso si vede che ha insistito spesso sulla necessità per i sa-
lesiani della preghiera mentale e vocale: "La preghiera... ecco la
prima cosa. Non si comincia bene se non dal cielo. La pre-
76

8.7 Page 77

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ghiera è per no i come l'acq ua al pesce , l'a ria all'u ccello, la
fo n te al ce rvo, il calo re al co rpo" 18.
Sarebbe sbagliato rappresentarci Don Bosco che dice sem-
pre preghiere vocali, così come sarebbe erroneo immaginare che
non ci fossero in Lui espressioni esterne di pietà. Quello che
si ammirava di più però è quanto commenta don Ceria: "In
Don Bosco lo Spirito di preghiera era ciò che nel buon mili-
tare è lo spirito marziale, ciò che in un bravo artista è il gu-
sto e in uno scienziato lo spirito di osservazione: una disposi-
zione abituale dell'anima attuantesi con facilità, costanza e
grande diletto" 19.
C'è dunqpe in lui una fusione naturale e serena tra
azione e orazione. La vita non si divide tra l'uno e l'altra.
L'amore si esprime nell'uno e nell'altra: "La differenza specifica
della pietà salesiana consiste nel saper fare del lavoro pre-
ghiera... Questa è una delle caratteristiche più belle di don Bo-
sco"20.
Al seguito di questi due "modelli", il salesiano dovrebbe
arrivare ad essere "un orante" come ogni religioso. Ma lo deve
fare "immerso nel mondo e nelle preoccupazioni della vita pa-
storale"21, "in un'operosità instancabile santificata dalla pre-
ghiera e dall'unione con Dio"22.
Per indicare questo, nel nostro vocabolario si usano due
espressioni: essere contemplativo nell'azione, celebrare la liturgia della vita.
Essere un contemplativo nell'azione è un'espressione clas-
sica della spiritualità ignaziana, applicata a Don Bosco da Don
Rinaldi. Dice, in altro modo, quello che abbiamo commentato
18 P. Brocardo, Don Bosco, profondamente uomo, profondamente santo, Roma,
LAS 1985, pag. 99
19 ib. pag. 99
20 ib. pag. 105
21 Cost 95
22 ib. 95
77

8.8 Page 78

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nella meditazione sulla figura di Don Bosco: "Camminare in
questo mondo come se si vedesse l'invisibile".
Ma come si "contempla" nell'azione? Ecco alcune indica-
zioni.
Manteniamo viva, nel nostro lavoro, la coscie~za che
siamo strumento dell'azione di Dio a favore dei giovani. Dei
nostri sforzi, dei nostri gesti di servizio, delle nostre parole si
serve il Signore per farsi sentire nella vita dei giovani e sve-
gliare in loro il desiderio di essere "di più". Noi non raggiun-
giamo il loro cuore e la loro coscienza. Ma la nostra presenza,
la nostra voce sono la porta attraverso cui Dio si comunica a
loro.
Abituiamoci poi a scoprire la presenza dello Spirito nella
vita degli uomini, particolarmente dei giovani. Uniamoci all'o-
pera che Dio porta avanti, ringraziando, godendo, intercedendo.
Se le nostre distrazioni riguardano i problemi e le speranze
della gente possiamo incorporarle nelle nostre preghiere. Se-
condo la piccola Teresa, le distrazioni sono come i bambini
che disturbano i genitori durante la messa. Basta congiungergli
le manine e farli guardare verso l'altare.
Ancora: doniamoci pienamente al servmo dei giovani e
del popolo accettandone le esigenze quotidiane sull'esempio del
buon Pastore; parteciperemo così alla paternità di Dio, ope-
rando come lui in favore della vita, dalle forme più elementari
(cibo, casa, istruzione), a quelle più alte (rivelazione del Van-
gelo, vita di fede).
L'altra espressione sintetica della preghiera salesiana è: ce-
lebrare la liturgia della vita. Nel documento da cui è stata presa,
la Costituzione apostolica "Laudis Canticum", è riferita a tutti i
cristiani che offrono la loro vita a Dio e agli uomini, incorpo-
randola all'esistenza di Cristo sacerdote.
È una delle presentazioni più belle e più vere del culto
cristiano, che va oltre il rito e le cerimonie; e fa dell'uomo il
tempio di Dio e della sua esistenza l'adorazione e la lode al
Signore.
78

8.9 Page 79

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Può essere meditata e approfondita seguendo molte piste:
"Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio ad offrire i vostri
corpi come sacrificio vivente , s:rnto e grn dito a D io: è questo
il vostro culto spirituale! "23 .
"Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si com-
pia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui
grazie a Dio Padre"24.
L'hanno assunta come "regola" di pr_eghiera per i sale-
siani/e le Costituzioni dei due lstituti25• E infatti particolar-
mente applicabile alla circostanza o situazione "educativa".
La Settimana di spiritualità della Famiglia Salesiana del
1980 ("Il sistema preventivo come cammino di santità") parlava
dell'incontro con Dio attraverso due tipi di mediazioni, incluse
in un unico universo sacramentale: quelle "celebrativo-rituali" e
quelle "pratico-tecniche". Sottolineava l'importanza di queste ul-
time nell'esperienza spirituale salesiana26•
In una parola: "lavoro e preghiera fusi nel sacramento to-
tale della vita orientata verso Dio e mossa dalla carità".
Unione di preghiera e unione di vita con Dio sono due mo-
vimenti dello stesso cuore. Le due hanno ritmi e forme pro-
prie. "L'unione di preghiera celebrata interrompe le relazioni
con le creature per concentrare tutta l'attenzione direttamente
sulla luce e sulla vita intima di Dio. L'unione pratica si attua
nel cuore stesso della vita corrente, nel tessuto delle relazioni
umane" 27•
Non è infrequente trovare ancora testi in cui l'esperienza
spirituale viene concepita con un "prima" e "a parte" preparato-
rio, nel quale ha luogo l'incontro con Dio; e un "dopo" nell'a-
zione in cui mettiamo a frutto, e, in un certo senso, spen-
diamo utilmente la luce e l'energia ricevuta.
23 Rom 12, 1
24 Col3,17
25 cf. Cost. 95; Cost. FMA 48
26 cf. Il sistema preventivo vissuto come cammino di santità, pag. 36-51
27 Brocardo P., "Don Bosco profeta di santità per la nuova cultura" in M. Midali,
Spiritualità dell'azione, Roma, LAS, 1977, pag. 197
79

8.10 Page 80

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Nella spiritualità salesiana si ha continuità senza rottura
tra i due momenti; anzi, i due si uniscono in un punto di
congiunzione ulteriore: la carità. E per il nostro tipo di carità,
che è educativa pastorale, il momento dell'azione è principale
come carica e manifestazione. Per questo don Egidio Viganò
preferiva l'espressione di San Francesco di Sales: l'estasi
dell'azione.
Lo esprime un testo dei Salesiani: "Educare i giovani alla
fede è, per il salesiano, lavoro e preghiera. Egli è consapevole
che impegnandosi per la salvezza della gioventù fa esperienza
della paternità di Dio. (. ..) Don Bosco ci ha insegnato a rico-
noscere la presenza operante di Dio nel nostro impegno educa-
tivo, a sperimentarla come vita e amore. (...) Noi crediamo che
Dio c'i sta attendendo nei giovani per offrirci la grazia dell'in-
contro con lui e per disporci a servirlo in loro, riconoscen-
done la dignità ed educandoli alla pienezza di vita.
Il momento educativo diviene, così, il luogo privilegiato
del nostro incontro con lui" 28 e della contemplazione della sua
opera nella vita dell'uomo.
Chi educa è chiamato a riconoscere Dio che opera nella
persona umana e a mettersi a suo servizio. Qualcosa di simile
a quello che dovette fare Maria, perché nella umanità di Gesù
si manifestasse in forma storica la coscienza divina. Maria do-
vette accompagnarlo e sostenerlo con il cibo, l'affetto, il consi-
glio, l'insegnamento della lingua e delle tradizioni, l'inserimento
nei rapporti umani, l'iniziazione nell'universo dei gesti e delle
parole religiose, senza sapere di scienza certa che cosa si sa-
rebbe rivelato questo suo figlio.
C'è un dialogo misterioso tra ciascun giovane e quello
che gli giunge dall'esterno, quello che sorge dentro di lui,
quello che scopre come imperativo, grazia o senso . Un po' alla
volta va acquistando piena coscienza di sé, va elaborando un
progetto di esistenza nel quale scommette le sue forze e gioca
le sue possibilità.
L'educatore è chiamato ad offrire tutto quello che crede
opportuno, vivendo con speranza le incognite del futuro. Si in-
28 CG23 94-95
80

9 Pages 81-90

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9.1 Page 81

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teressa since ramen te dell'umano incerto che cresce. In esso 10-
fatti Dio ve rrà acco lto e anch e in forz a della cresc ita si man i-
festerà co n sem p re rn ag,gior luminos ità.
Chi educa, dunque, - genitore, amico o animatore -
mantiene viva la consapevolezza che egli è parte nella festa
dell'incontro di Dio con i giovani. È l'amico dello sposo, non
protagonista ma aiuto e spettatore attivo, come Maria alle
nozze di Cana. Nelle Costituzioni delle Figlie di Maria
Ausiliatrice si legge che l'assistenza attenzione allo Spirito
che opera in ogni persona" 29.
Proprio nella fede che intravede l'agire di Dio, nella spe-
ranza che attende la sua manifestazione nella vita dei giovani,
e nella carità che si mette a disposizione del giovane e dello
sposo si sviluppano i sentimenti e si vivono come preghiera i
momenti educativi di gioia, di attesa, di dolore, di sforzo, di
apparente fallimento. Si ringrazia, ci si rallegra, ci si lamenta,
si intercede, si desidera, si invoca.
La celebrazione liturgica ha un Kyrie, un Gloria, un
Credo, un'offerta, uno spazio simbolico, una comunità, tempi
di penitenza e di esultanza. Così la liturgia della vita ha mo-
menti di risultati gratificanti e di delusione, di iniziativa e di
attesa, di solitudine e di compagnia. C'è uno spazio (cortile,
scuola, quartiere!) e ci sono persone da amare e con le quali
collaborare di cuore (la comunità educante).
Il tutto, vissuto alla luce della presenza operante di Dio,
diventa contemplazione. Awiene come nella comunicazione tra
persone che si conoscono bene: un sentimento si può espri-
mere con parole, con un gesto, con un dono, con uno
sguardo, con un silenzio, con una visita, con un messaggio at-
traverso telefono o fax.
Si tratta - direbbe Sant'Agostino - "di prendere in mano
il salterio delle buone opere e con esso cantare le lodi del Si-
gnore".
C'è però un rapporto tra atteggiamento continuo di pre-
ghiera ed esercizio di preghiera, tra preghiera-parola e preghiera-
29 Cost. FMA 67
81

9.2 Page 82

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vita, tra preghiera esplicita e preghiera diffusa nella giornata,
tra liturgia celebrata e liturgia della vita.
Forse è in questo rapporto dove si troyano le difficoltà e
allo stesso tempo la ricchezza del salesiano. E dunque il punto
fondamentale della sua formazione spirituale-apostolica.
I due elementi o aspetti sono importanti: l'uno per l'al-
tro; entrambi per la stabilità e pienezza della vita consacrata.
Chi lascia l'uno, perde l'altro.
Il rapporto tra essi è diverso secondo il "tipo" di vita.
Già all'origine stessa del nostro istituto si dichiara: "La vita at-
tiva a cui tende la società fa che i suoi membri non possano
avere molte pratiche di pietà in comune. Si sforzeranno di
supplire con il buon esempio, e il perfetto adempimento dei
doveri del buon cristiano"30. E un testo che bisogna interpre-
tare collocandolo nel proprio "tempo".
Quello che suggerisce richiede apprendimento e tempi
speciali di concentrazione. "Molti credono che la preghiera
venga da sé e non vogliono saperne del suo esercizio, ma sba-
gliano"31 .
La preghiera deve scaturire "naturalmente", dice qualcuno;
ma tutto quello che noi facciamo con molta naturalezza è ri-
sultato di un lungo esercizio: giocare, camminare, suonare. La
pratica regolare personale e la partecipazione assidua a quella
comunitaria sono -indispensabili.
C'è bisogno di una iniziazione calma e progressiva alle
diverse forme di preghiera: vocale, mentale, lettura, silenzio,
contemplazione, formule, creatività. Bisogna praticarle in diverse
situazioni e momenti, fino ad impregnare la vita in modo che
la preghiera entri e venga fuori da noi per molte vie e in
molte forme.
L'esercizio radica la consuetudine: la regolarità è determi-
nante; tutte le cose importanti nella nostra vita hanno un ora-
rio, un tempo riservato; se un giorno non le possiamo fare
°3 Costituzioni del 1858
31 Guardini R., Lettere su autoformazione, pag. 91
82

9.3 Page 83

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nell'orario consueto, ne fissiamo subito un altro. Così per
mangiare, dormire, lavarci.
Le mediazioni comunitarie sono indispensabili per noi:
luoghi, i tempi, le forme, la comunità. Dico "per noi", per i
quali lo stile comunitario ricopre tutte le dimensioni della vita.
Per altri religiosi può essere diverso. Si richiede però anche
l'applicazione personale. Il risultato e la modalità di questa ap-
plicazione sono diversi. Ciascuno ha il suo modo di pregare,
come ha il suo modo di parlare, camminare e guardare. In
questa chiave vanno interpretati la maggior o minor emotività,
le distrazioni, le preferenze per la riflessione o le formule, i
periodi di stanchezza.
Ma la preghiera è un dono. Cristo è il solo orante. Egli
ci incorpora alla sua preghiera nello Spirito. Noi non sappiamo
né che cosa dire né come dirlo. Lo Spirito mette sulle nostre
labbra quello che conviene chiedere.
"Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché
nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandate, ma
lo stesso Spirito intercede con insistenza per noi con gemiti
inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri
dello spirito poiché egli intercede per i credenti secondo i di-
segni di Dio"32•
"Sovente, dice un autore, i libri parlano della preghiera
come di una capacità che bisogna acquistare con sforzi propri
come una scienza o una abilità... Ci si sente persi per strade
intricate e di nuovo il desiderio di poter pregare rimane fru-
strato. Signore insegnaci a pregare".
La nostra vita ha bisogno di integrare riflessione e prassi,
studio ed attività, silenzio ed incontro, sebbene per noi ciò
non sia legato ad una rigida alternanza di tempi. E ciò nelle
condizioni attuali di vita in cui s1 e più esposti alla molte-
plicità, al logorio, all'incalzare degli impegni.
32 Rom 8, 26-27
83

9.4 Page 84

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2. Il lavoro: la carità pastorale
Ne parlerò di meno. È un aspetto più assimilato e più
percepito dall'esterno. La rilevanza che ha nella nostra vita la
si coglie facilmente da un insieme di fatti di portata reale e
simbolica: la radice contadina e le prime esperienze di don
Bosco, i protagonisti ed il tono delle esperienze delle origini,
la professione di povertà, il ceto lavoratore al quale dedichiamo
le nostre cure preferenziali.
Il lavoro è il contenuto principale dei nostri programmi
di educazione nelle scuole professionali e tecniche, è la caratte-
ristica di una delle figure dei soci, il coadiutore; è la nostra
forma di inserimento nella società e nella cultura. Dà il tratto
quasi fondamentale del salesiano: il salesiano è un lavoratore.
Don Cagliero diceva con una espressione forte: "Chi non la-
vora, non è salesiano".
Servono come sintesi due fatti: la menzione del lavoro
nello stemma, dove si sono dovute scegliere soltanto "due" pa-
role, e le ultime espressioni di don Bosco: "Vi raccomando:
lavoro, lavoro, lavoro".
Alcuni chiarimenti, però, non sono superflui. Per don
Bosco il lavoro non è il puro riempimento del tempo in qual-
siasi attività, anche forse stancante. Ma la dedizione alla mis-
sione con tutte le capacità e a tempo pieno. In questo senso
non comprende soltanto il lavoro manuale, ma anche quello
intellettuale e apostolico.
Lavora chi scrive, chi confessa, chi predica, chi studia,
chi ordina la casa. Il lavoro è caratterizzato dall'ubbidienza,
dalla carità pastorale, dalla retta intenzione e dal senso comu-
nitario. Non dunque agitazione, movimento per impossibilità di
stare calmi, ma finalità, scelta, ordinamento delle azioni, quali-
ficazione costante. Bisogna dire che nella voce "lavoro" c'è un
forte riferimento alla manualità e praticità. Il Salesiano impara
a lavorare con le mani e si trova bene anche facendo lavori
"umili": domestici, materiali. Non ha bisogno di farsi servire
da impiegati per tutto.
Ma è vero che il grande "lavoro" è l'educazione cristiana
dei giovani. Il salesiano dunque si dedica e si perfeziona, non
84

9.5 Page 85

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solo né principalmente dal punto di vista accademico, ma piut-
tosto dal punto d i vista di , una esperienza riflessa e di una
prassi sempre più efficace , come evangelizzatore ed educatore in
particolare dei giovani poveri, lontani, bisognosi; tutte e due le
competenze, fuse in un unico impegno e programma. Il suo
ideale non è tanto "insegnare" le discipline corrispondenti a
queste due competenze, ma mescolarsi con i giovani creando
iniziative per il loro sviluppo.
La Chiesa sta vivendo oggi un tempo segnato dallo sforzo
di evangelizzare, dappertutto, ma con modalità singolari nel
mondo occidentale. · Il compito dell'evangelizzatore sembra riem~
pire tutti gli altri e passare · in primo piano. La missione più
importante dei credenti oggi è ridire il Vangelo in forma com-
prensibile e provocare il desiderio della fede. Non è difficile
percepire i perché: il dilagare della mentalità secolarista, la
corsa alle nuove religiosità, la presenza sempre più influente
delle grandi religioni, i ,problemi che assillano la coscienza
dell'uomo, l'allontanamento di molti cristiani dalla Chiesa.
Noi viviamo questo tempo tra i giovani. Avvertiamo la
loro progressiva disaffezione nei riguardi della chiesa per la dif-
ficoltà di comunicare con essa, una volta concluso il percorso
catechistico. Allo stesso tempo vediamo il loro cuore religioso,
la loro ricerca di esperienza umana e spirituale, il desiderio di
riuscire nella vita e persino di impegnarsi per gli altri.
Proprio per questo quadro della situazione dei giovani
scegliamo la via educativa. Andiamo cioè dove si trovano i
giovani con le loro domande e i loro bisogni, per annunciare,
all'interno di un lavoro di liberazione dal male e di sviluppo
della persona, la potenza, la luce e la grazia di Gesù Cristo.
Ricordiamo Don Bosco, che non assunse un ruolo ufficiale
nella Chiesa (né parroco, né cappellano, né "incaricato" dioce-
sano, né docente del "convitto"), ma fu missionario dei gio-
vani. Si spinse lì dove gli altri non andavano e diventò il
"parroco" dei giovani che non sapevano a quale parrocchia ap-
partenevano. Offrì loro il Vangelo e il catechismo all'interno di
una esperienza di redenzione, il cui simbolo è l'oratorio.
Un santo Educatore: questa è la definizione di Don Bo-
sco che ha preferito Giovanni Paolo Il nella lettera "Juvenum
Patris", che ci ha rivolto in occasione del centenario della
85

9.6 Page 86

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morte del nostro Padre; un santo che ha maturato e impe-
gnato la sua santità nell'educazione. Ciò è rimasto scolpito
nelle nostre Costituzioni, nelle quali infallibilmente accanto alla
parola Pastore e pastorale, il lavoro del salesiano viene definito
con i termini di Educatore educazione-educativo e, finalmente,
con il binomio "evangelizzare educando".
Sarebbe interessante approfondire come le due attività
sono diverse e come il salesiano nelle iniziative, nel rapporto . e
nella vita li unisce. Ma questo- Ta parte di quella dimensione
della spiritualità che chiamiamo "lavoro": occupazione del
tempo e delle risorse nel miglior modo, attenzione alle finalità
ultime, accortezza nelle scelte, selezione dei contenuti, dona-
zione piena.
3. Temperanza
La spiritualità comporta anche la dimensione ascetica, di
resistenza o combattimento spirituale, rappresentata, nell'Esorta-
zione apostolica, con l'icona di Giacobbe che lotta con l'An-
gelo. "L'ascesi, aiutando a dominare e correggere le tendenze
della natura umana ferita dal peccato, è veramente indispensa-
bile alla persona consacrata per restare fedele alla propria voca-
zione e seguire Gesù sulla via della Croce"33 .
È legata alla dimensione penitenziale che è essenziale alla
maturità cristiana. Senza di essa è impossibile sia l'inizio che
l'ulteriore cammino di conversione: questa consiste nell'assumere
qualche cosa e lasciarne molte altre, optare e tagliare, distrug-
gere cose o abitudini vecchie o inutili e lasciarsi ricostruire. In
tale senso ci parlano le storie di Abramo e degli apostoli.
Si tratta di un aspetto non molto congeniale alla sensibi-
lità corrente che tende alla soddisfazione dei desideri e la giu-
stifica. Ciascun Istituto ha una tradizione ascetica coerente con
il proprio stile spirituale. Nel nostro, la formula che la rias-
sume è "coetera tolle": lascia il resto, ordina il resto a questo,
cioè al "da mihi animas", alla possibilità di vivere interior-
mente ed esprimere l'amore ai giovani, togliendoli dalle situa-
33 ve n. 38
86

9.7 Page 87

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zioni che impediscono loro di vivere. Sono due aspetti corre-
lati.
Aspetto importZ\\ntc cli t;1 lc asces i è dare uni all a per-
sona, integrando nel progetto di vita in Dio alcune tendenze
che, sviluppate in forma autonoma, compromettono la qualità
dell'esperienza spirituale e le finalità della missione:
un'esasperante ricerca dell'efficienza e della professionalità sepa-
rate dalle finalità pastorali, la secolarizzazione della mentalità e
dello stile di vita, il desiderio di una collocazione personale
prestigiosa, le forme anche larvate di affermazione eccessiva
della peculiarità culturale34.
Il "coetera talle", lascia o ordina il resto, ha la sua
espressione quotidiana, non unica, nella temperanza "salesiana".
Dico "salesiana" perché nella nostra storia e nei nostri testi si
è caricata di alcuni riferimenti molto caratteristici.
La temperanza è quella virtù cardinale che modera le
pulsioni, le parole e gli atti secondo la ragione e le esigenze
della vita cristiana. Attorno ad essa si muovono la continenza,
l'umiltà, la sobrietà, la semplicità, l'austerità. Nel sistema pre-
ventivo le stesse realtà vengono incluse nella ragionevolezza. Le
sue manifestazioni nella vita quotidiana sono: l'equilibrio, cioè
la misura in tutto, una conveniente disciplina, la capacità di
collaborazione, la calma interiore ed esteriore, un rapporto con
rutti, ma specialmente con i giovani, sereno e autorevole.
Temperanza è soprattutto "stato atletico" permanente per
qualsiasi richiesta in favore dei giovani; rendersi e mantenersi
liberi da legami troppo condizionanti, dal peso dei gusti ed
esigenze personali che creano dipendenze: "Tutti gli atleti sono
temperanti in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona cor-
ruttibile, noi invece una incorruttibile. lo dunque corro ma
non come chi è senza meta: faccio il pugilato ma non come
chi batte l'aria..."35.
La temperanza si applica nel lavoro: è l'ordine per cui le
azioni hanno una motivazione nelle finalità e un ordine di
priorità; si dominano e si commisurano sia le ambizioni perso-
34 cf. ve n. 38
35 1 Cor 9,25-27
87

9.8 Page 88

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nali come le ambizioni "apostoliche", si richiede dagli altri il
giusto e non quello che è eccessivo o servirebbe solo per no-
stra comodità; si fa in modo che il lavoro non elimini la pre-
ghiera né i rapporti fraterni. Si deve essere temperanti nel mo-
vimento, nelle uscite, nella ricerca del denaro, nella voglia di
finire una cosa per incominciare l'altra; nel dominio della pro-
pria azione, fosse anche solo perché non finisca per prenderci
come in un ingranaggio.
La temperanza si applica nella vita fraterna: anzi senza di
essa non è possibile una buona relazione comunitaria36• L'a-
more fraterno implica dominio di sé, sforzo di attenzione, con-
trollo dei sentimenti spontanei, superamento di conflitti, com-
prensione delle sofferenze altrui. È tutto un esercizio di uscire
da se stessi e cambiare il proprio orientamento. Per noi c'è
anche l'impegno di dimostrarlo in forma comprensibile: un af-
fetto che sa provocare corrispondenza per il bene dell'altro.
La temperanza si applica allo stile di vita personale: rap-
porti commisurati alla missione; uso e prassi di beni di con-
sumo (macchine, apparecchi); tempo di distensione e vacanze;
interiorità vigilata e purificata. E in tal senso ciascuno dei voti
offre molti suggerimenti.
La temperanza si applica anche alla preghiera e alla con-
templazione: è la fede che non esige di vedere di sentire;
che quando "sente" non si attacca al gusto. Gli autori parlano
di desiderio immoderato di "consolazioni".
Tutto ciò può sembrare troppo ordinario, come dimen-
sione ascetica, e quasi allegro di fronte alla serietà del ri-
chiamo alla conversione ed alla radicalità. Don Bosco espresse
questa apparente contraddizione col sogno del pergolato delle
rose. I salesiani camminano sui petali. Tutti li credono "gau-
denti". Essi sono infatti "felici". Punzecchiati dalle spine non
perdono la gioia. Anche ciò è ascesi: la semplicità, il buon
viso, il non fare scena. Risponde al consiglio evangelico:
quando digiunate non assumete un'aria malinconica, ma pro-
fumatevi la testa e lavatevi il volto37.
36 cf. Cost. 90
37 cf. Mt 6,16-17
88

9.9 Page 89

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[6. I La spiritualità salesiana nella prassi
pastorale: il sistema preventivo
Prima parte: carità pastorale e carità pedagogica
1. Una forma originale di carità pastorale
La carità pastorale comprende tutto il servizio della
Chiesa all'uomo: annunciare il vangelo, promuovere le persone,
animare la comunità, compiere le opere di misericordia corpora-
li e spirituali.
Il Concilio la propone come via di santificazione a coloro
che intendono coinvolgersi intensamente nella missione della
chiesa: vescovi, sacerdoti, religiosi di vita attiva, laici impegnati.
La carità pastorale salesiana ha un'altra determinazione
più precisa che non la restringe, ma la definisce meglio: è una
carità pedagogica. È un amore che sa creare un rapporto educa-
tivo: si esprime sulla misura dell'adolescente e dell'adolescente
povero che deve essere aiutato ad aprirsi, a scoprire la ricchezza
della vita, a crescere.
Per questo adolescente povero, a volte scarso di coraggio,
di educazione, di parole e di pensiero, la carità, del salesiano
deve diventare segno leggibile dell'amore di Dio. E dunque una
carità che sa arrivare agli ultimi, ai più umili, a coloro che
hanno maggiori difficoltà.
Alcuni confratelli che lavorano in zone di emarginazione
mi riferivano che una delle maggiori difficoltà che i ragazzi di
questi ambienti hanno all'inizio è proprio quella di esprimersi
di fronte a persone adulte estranee, di fronte alle istituzioni e
a coloro che le rappresentano, inclusa la Chiesa. Le istituzioni
sono per loro l'immagine di quel mondo organizzato dal quale
si sentono esclusi. L'amore dei salesiani, che vorrebbero essere
strumento di salvezza per i più poveri, deve essere capace di ge-
sti che aiutino ad assumere il proprio sviluppo con allegria e
speranza, àd aprirsi alla fiducia e al dialogo, anche nel contesto
di una vita depauperata e soggetta a condizionamenti.
89

9.10 Page 90

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Ciò riproduce il gesto di carità che don Bosco compì
con Bartolomeo Garelli, che consistette nel farlo "ridere" met-
tendolo a suo agio. All'ardore spirituale questa carità unisce,
dunque, la saggezza, il tatto pedagogico e il senso pratico, l'ot-
timismo educativo e la pazienza di chi deve sostenere e coltiva-
re i germi di vita. Tutto ciò esprime quello che afferma Don
Caviglia e riprende Giovanni Paolo Il nella Juvenum Patris: "La
santità di Don Bosco si plasma come santità educativa" 1.
Avete avuto opportunità di vedere l'ardore profetico di al-
cuni predicatori, in generale non cattolici, che nelle piazze si
fanno interpreti del comando di Dio di convertirsi e annun-
ciano la fine dei tempi? Nessuno può negare che abbiano
amore e zelo religioso. Ma nemmeno ci sentiamo di affermare
che questo sia lo "stile" della carità "pedagogica" che ascolta,
comprende, aiuta e accompagna le persone.
La carità pedagogica dimostra ardore, ma anche tatto,
buon senso, misura e affetto. In una parola, saggezza paterna
che insegna ad affrontare la vita. Il patrimonio di riflessione
ed esperienza su questa forma di carità è espresso nelle Costi-
tuzioni2 con queste parole: "Guidato da Maria che gli fu Mae-
stra, Don Bosco visse nell'incontro con i giovani del primo
oratorio un'esperienza spirituale ed educativa che chiamò "Si-
stema Preventivo". Era per lui un amore che si dona gratuita-
mente, attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura
con la sua Prowidenza, l'accompagna con la sua presenza e la
salva donando la vita.
Don Bosco ce lo trasmette come modo di vivere e di la-
vorare per comunicare il Vangelo e salvare i giovani con loro e
per mezzo di loro. Esso permea le nostre relazioni con Dio, i
rapporti personali e la vita di comunità, nell'esercizio di una
carità che sa farsi amare".
C'è in questo articolo un insieme di accenni che non bi-
sogna lasciar sfuggire.
Il Sistema Preventivo è chiamato "esperienza spirituale" e
non solo pedagogia.
1 JP 5
2 Cost. 20
90

10 Pages 91-100

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10.1 Page 91

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"S i ispi ra all a carità di Dio": non è dunq ue so ltanto ris ul-
tato di ricerche ed ucative né per ciò che riguard a i suo i fon-
damenti, né per ciò che rigunrda la prati ca .
L'esperienza nasce e si sviluppa "nell'incontro con i gio-
vani" e "nell'oratorio". Ciò costituisce l'humus, la terra dove si
trovano le sostanze nutrienti per questa pianta. L'esperienza
non nasce e si sviluppa nei monasteri, nelle biblioteche, nella
propria camera... : il che non vuol dire che tutto questo non
sia utile anche per il salesiano.
"Informa i nostri rapporti con Dio". Il salesiano è un
"tipo da oratorio" anche di fronte a Dio e nelle questioni spi-
rituali, immediato e aperto, semplice e spontaneo, fiducioso e
festivo.
Si tratta di riflettere allora sugli atteggiamenti che tale ca-
rità pastorale esige e crea e sulla pratica che richiede.
2. Gli atteggiamenti della carità pedagogica
Il primo è la predilezione per i giovani. Ciascun salesiano,
nel quale opera la carità, deve poter ripetere con Don Bosco:
"Tra voi mi trovo bene. La mia vita è proprio stare tra voi".
La conseguenza concreta della predilezione in don Bosco
per i giovani fu di scegliere la gioventù come campo del pro-
prio lavoro. A don Bosco come sacerdote venivano offerti altri
campi con notevoli vantaggi economici, di prestigio e in ordine
alla propria realizzazione. La scelta di stare con i ragazzi della
strada e con i piccoli lavoratori, rinunciando ad essere vicario
parrocchiale, istitutore di una famiglia agiata, cappellano di col-
legio o insegnante di morale segnò tutto il suo cammino po-
steriore.
La stessa cosa vale per Madre Mazzarello. Il lavoro aposto-
lico tra le giovani del suo paese crea in lei quella affinità che
la porta a un incontro "spiritualmente caldo" con Don Bosco,
dal quale nasce l'espressione femminile della spiritualità sale-
siana.
Ma da questa scelta determinante derivarono due conse-
guenze: dedicare ai giovani tutto il proprio tempo e assumere i
loro problemi: la povertà, il lavoro, la mancanza di educazione,
le difficoltà della crescita, l'assenza del focolare.
91

10.2 Page 92

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Pure noi dobbiamo poter asserire che non siamo tra i
giovani "per obbligo di orario", "per mestiere" o "per guadagno";
che non aspettiamo il momento di ritirarci per poterci dedicare
ad altro che ci piace di più, che consideriamo più serio e pro-
fondo e in cui collochiamo la nostra principale preoccupazione
pastorale, il nostro momento di distensione o il punto più alto
della nostra vita spirituale.
Non ci consumiamo spiritualmente tra i giovani per poi
caricarci di energie spirituali in altri momenti. Con loro ci tro-
viamo bene... è il nostro momento spirituale!
In una versione attuale lo esprime il CG23: "Noi credia-
mo che Dio ama i giovani. Questa è la fede che sta all'origine
della nostra vocazione, e che motiva la nostra vita e tutte le
nostre attività pastorali.
Noi crediamo che Gesù vuole condividere la "sua vita"
con i giovani: essi sono la speranza di un futuro nuovo e por-
tano in sé, nascosti nelle loro attese, i semi del Regno.
Noi crediamo che lo Spirito si fa presente nei giovani e
che per mezzo loro vuole edificare una più autentica comunità
umana e cristiana. Egli è già all'opera, nei singoli e nei gruppi.
Ha affidato loro un compito profetico da svolgere nel mondo
che è anche il mondo di tutti noi.
Noi crediamo che Dio ci sta attendendo nei giovani per
offrirci la grazia dell'incontro con Lui e per disporci a servirlo
in loro, riconoscendone la dignità ed educandoli alla pienezza
della vita.
Il momento educativo diviene, così, il luogo privilegiato
del nostro incontro con lui"3.
All'inizio della vita salesiana e mentre noi stessi siamo
ancora giovani, lo stare con e tra i ragazzi è un movimento
spontaneo e persino gratificante, soprattutto se si è capaci di
sintonizzarsi e si è accolti con simpatia. I giovani esercitano
una certa attrattiva per la loro vivacità, la capacità creativa, la
voglia di vivere e condividere.
Ma quando si esaurisce la voglia spontanea, la decisione
di "stare con i giovani" impegna la vita e richiede sforzo asce-
3 CG23 95
92

10.3 Page 93

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tico . Ad un certo momento incomincia a costarci essere fis ica-
mente trn i giovani; pit'1 ancora essere psicologicamente e cu ltu-
ra lmente co n loro , preferire il lo ro mondo ad altri ambien ti
più cordiali e formali.
Oggi può diventare addirittura diffic~le. L'età dei giovani
in periodo di educazione è più alta, la loro libertà più ampia, i
comportamenti più svariati e meno regolari, il dialogo più
aperto su tutte le questioni. Ciò può provocare una "fuga", un
"abbandono" progressivo del campo giovanile da parte di non
pochi salesiani, sotto l'impressione di non riuscire a comunicare
col linguaggio, con le aspirazioni o il tipo di vita delle nuove
generazioni. Il lavorare in comunità ci aiuta a integrare i con-
tributi di tutti: quello di chi è particolarmente dotato per il
contatto con i giovani e quello di chi può dare soltanto un
apporto parziale e limitato.
Ciò costituisce la fortuna e il distintivo della Congrega-
zione. È così caratteristico della spiritualità individuale e comu-
nitaria che tutto quanto ha fatto la Congregazione lo ha fatto
con e dai giovani. Dall'oratorio e dai giovani ebbero origine,
almeno in ordine di tempo, le altre realtà che oggi compongo-
no il grande albero del movimento salesiano. Da essi venne
fuori la Congregazione e tutto il resto... Senza di essi, niente!
Alle celebrazioni del mese di gennaio 1988 erano presenti
a Torino 56 vescovi salesiani. Guardandoli provavamo soddisfa-
zione per questo contributo qualificato della Congregazione alla
Chiesa, per la fiducia che ciò significa da parte della Chiesa
verso la Congregazione, per la responsabilità e l'amore di questi
fratelli verso la comunità salesiana. Ma tra alcuni di noi ab-
biamo fatto un commento: i vescovi salesiani, dicevamo, sono
un eccellente prodotto finale di un lavoro pastorale che co-
mincia e si rigenera costantemente nell'ambito oratoriano e
giovanile. Se i salesiani non avessero giovani non avrebbero
neanche vescovi!
Il luogo dove la Congregazione si rigenera, dove produce
nuove espressioni spirituali e genera per sé nuovi membri, ispi-
rati dallo Spirito, dove rinnova l'entusiasmo ed esprime la crea-
tività carismatica è lo spazio giovanile. In esso ha avuto luogo
la nostra nascita; esso continua ad essere il continente della
nostra missione e la nostra terra promessa. La nostra spirituali-
93

10.4 Page 94

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tà non troverebbe nuove espressioni se i salesial'li si allontanas-
sero da esso.
L'espressione dell'articolo 20 "nel coh tatto con i giovani
del primo oratorio Don Bosco elaborò un'esperienza spirituale"
è valida anche oggi. La carità pastorale, nella forma come la
vivono i salesiani, crea dunque questo atteggiamento fondamen-
tale: la predilezione per i giovani, che significa "esserci", "collo-
carsi", "ritornare" al luogo tipico della nostra esperienza di Dio.
Ma c'è un secondo atteggiamento: è la fiducia nei giovani.
La carità salesiana intende incominciare non dai primi, ma da-
gli ultimi; non dai più ricchi dal pynto di vista economico o
spirituale, i quali hanno già attenzione e servizi; ma da coloro
che non sanno a quale parrocchia appartengono quale è la
scuola alla quale devono andare. In questi giovani si deve su-
scitare una speranza e svegliare energie.
Per questo è necessario che il salesiano, in forza della sua
fede in Dio che vuole la salvezza di tutti, creda quello che
Don Bosco diceva: "In ogni giovane, anche il più disgraziato,
c'è un punto che opportunamente scoperto e stimolato dall'e-
ducatore, reagisce con generosità", e proporziona l'energia della
quale il giovane ha bisogno per trasformarsi.
La fede in Dio Padre e l'evento di Cristo Salvatore ci
dice che nessuno è definitivamente perso. Ogni giovane porta
nel suo interno il segno del piano di salvezza, nel quale c'è
una promessa di vita piena e felice per ciascuno.
Le tre biografie esemplari che Don Bosco scrisse fanno
vedere come sia possibile portare ad alto livello la vita cristiana
di chi è particolarmente dotato (Domenico Savio!); di ricuperare
chi ha un passato meno favorevole (Michele Magone); di ac-
compagnare fino ad uno sviluppo soddisfacente chi ha risorse
normali (Francesco Besucco).
La soddisfazione spirituale del salesiano non è soltanto
quella di proporre una meta a chi è capace di volare alto, ma
.di "salvare": prendere dal livello più basso ed elevare, aiutare a
fare un passo. Questa è anche la partecipazione del salesiano
all'opera di Dio, partecipazione che richiede fede e speranza.
L'esercizio costante delle virtù teologali, dunque, costituisce l'a-
scetica del salesiano: capacità di seminare senza stancarsi e sen-
94

10.5 Page 95

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za grettezza, d i dare sempre una nuova opporturnta, anche
quando sembra che i risultati non compensino, di vedere la
vita in tutto il suo valore potenziale come m istero im preved ibi-
le, sempre in attesa dell'azione della grazia.
Il buon educatore è quello capace di dare e creare sempre
una nuova opportunità. È quello che mai dice: basta!
Per questo diciamo che le tre energie interiori che ha il
ragazzo - religione, ragione, amore - sono anche i tre aspetti e
le tre fonti di crescita per l'educatore. Egli deve crescere conti-
nuamente nella fede, riconoscendo la fecondità di quello che
Dio ha seminato nella vita dei giovani attraverso la parola e la
presenza; deve alimentare il suo ottimismo che è speranza e fi-
ducia nel futuro del suo lavoro; deve riconvertire il tutto in
una carità che è prontezza e capacità di intervento a favore
dei giovani.
Tutto ciò ha portato a ripensare il concetto di preven-
zione e preventività. Forse per molti significava occuparsi sol-
tanto di ragazzi e giovani che non sono stati ancora raggiunti
dal male. Anticipare è certamente una regola d'oro. Ma "preve-
nire" vuol dire anche impedire la rovina definitiva di chi è già
sulla cattiva strada ma ha ancora energie sane da sviluppare o
ricuperare. Nella attuale riflessione socio-pedagogica si parla di
una prevenzione prima e di base, di una seconda, di ricupero e
rafforzamento, e di una ultima che riesce ad arginare le conse-
guenze estreme del male.
Insieme alla predilezione per i giovani e la fiducia nella
grazia di salvezza che opera in essi, c'è un terzo atteggiamento:
è l'amore manifestato in forma di affetto.
L'amore vero si riferisce al bene assoluto dell'altro, che
viene desiderato e cercato come fosse proprio. Questa è l'e-
spressione fondamentale, non legata alla simpatia reciproca tra
coloro che si amano. Ma l'amore del salesiano è, come diceva
don Viganò, quello che sa farsi corrispondere, perché ha in-
tuito che con questa corrispondenza fa crescere il giovane.
Sentendosi stimato, questi impara a stimarsi, ad avere fiducia e
a donare anche lui gratuitamente.
Possiamo noi stessi ricordare chi sono stati coloro che
hanno rawivato in noi desideri di superarci e ci hanno dato
95

10.6 Page 96

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coraggio per misurarci anche con mete difficili: sono coloro
che ci hanno dimostrato stima, fiducia, affetto.
Mentre coloro che ci hanno trascurato, ignorato o svalu-
tato, hanno risvegliato in noi istinti di aggressività e sentimenti
di scoraggiamento. L'amore crea la persona!
È il tema della lettera scritta da Roma nel 1884. E an-
che una conclusione della esperienza educativa di Don Bosco.
Quando Egli era seminarista, i gesuiti, durante un'epidemia, gli
offrirono di fare l'assistente in un soggiorno che essi avevano
nei pressi di Torino, al quale avevano inviato i loro giovani
convittori. Don Bosco accettò l'invito per occupare il tempo,
guadagnarsi da vivere e soddisfare la sua naturale inclinazione a
stare con i giovani. Erano alunni di scuola media, dunque di
buona società.
Don Bosco non trovò difficoltà nel rapporto con loro.
Impartiva loro ripetizioni di greco, assisteva nei dormitori e,
stando alle sue parole, ebbe in questi giovani eccellenti amici
che gli volevano bene e lo rispettavano. Ma rilevò un partico-
lare: la difficoltà di influire profondamente quando il rapporto
educativo è "finanziato" e il giovane può dire: "Tu fai bene il
tuo mestiere e io lo riconosco. Ma io pago il servizio". Il rap-
porto non era gratuito. Il giovane faceva l'esperienza di un
"buon servizio", non quella di essere "salvato". Allora fece per
una riflessione che il biografo ci ha tramandato: "A Montal-
to percepì la difficoltà di ottenere su quei giovani l'influsso
pieno di cui si ha bisogno per far loro del bene. Perciò si per-
suase di non essere stato chiamato ad occuparsi di giovani di
famiglie agiate".
Il suo modo di educare non funzionava bene con quei
giovani. C'era un buon rapporto. Ma si trattava di un rapporto
piuttosto di cose che di persone. Era un interscambio di dena-
ro con servizi, entrambi prestati con perfetta gentilezza e re-
sponsabilità. Ne scaturiva una relazione di rispetto e di amici-
zia, ma non di gratitudine. Invece il sistema che lui sperimentò
dopo, era basato sulla corrispondenza di affetto gratuitamente
dato e gratuitamente corrisposto.
Saper scatenare la fiducia è un aspetto della nostra carità
educativa, perché soltanto dove essa esiste è possibile il lavoro
96

10.7 Page 97

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di educazio ne. Questa, come dice Don Bosco, e11, cosa di
cuore".
Riferendo tutto questo discorso alla spiritualità, non c'è
chi non veda quanta ascesi e purificazione richieda l'essere a
disposizione dei ragazzi, non per propria soddisfazione ma per il
loro progresso; quanta fede .. , richieda il rinnovare la propria
disponibilità, l'inventare opportunità di incontrarli, l'essere
pronti a nuove forme di comunicazione, il capire situazioni
inedite per poterli aiutare.
È ciò che esprime l'articolo 15 delle Costituzioni: "Man-
dato ai giovani da Dio che è tutto carità, il salesiano è aperto
e cordiale, pronto a fare il primo passo e ad accogliere sempre
con bontà, rispetto e pazienza. Il suo affetto è quello di un
padre, fratello e amico, capace di creare corrispondenza di ami-
cizia: è l'amorevolezza tanto raccomandata da Don Bosco. La
sua castità e il suo equilibrio gli aprono il cuore alla paternità
spirituale e lasciano trasparire in lui l'amore preveniente di
Dio"4.
Seconda parte: la pratica della carità pastorale nel
lavoro educativo
Ma oltre gli atteggiamenti che la carità pastorale crea, ci
sono alcuni comportamenti visibili che costituiscono la sua pra-
tica. Come manifesta il salesiano la sua predilezione per i gio-
vani? la sua fiducia nelle loro risorse, la sua capacità di amarli
al di sopra della simpatia spontanea o della loro corrispondenza
immediata?
1. L'incontro con il giovane
Espressione tipica della carità pastorale è innanzitutto l'in-
contro... il saper incontrare i giovani e incontrarsi con i ragaz-
zi, facendo il primo passo. Pensate voi che ciò abbia a che
4 Cost. 15
97

10.8 Page 98

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fare con la spiritualità? Certo! Dove e quando si vede la spm-
tualità, per esempio di una religiosa infermiera, se non nell'in-
contro con i malati? Dove e quando vedere la spiritualità del-
l'educatore se non nel "momento" educativo?
Don Bosco fu uno specialista del primo incontro con il
giovane. Era capace di suscitare immediatamente la fiducia, eli-
minare le barriere, provocare la gioia. Ci sono tanti di questi
incontri tramandati da lui stesso.
Alcuni di questi incontri sono passati alla storia come
momenti "fondanti".- L'incontro con Bartolomeo Garelli nella
sacrestia della chiesa di San Francesco d'Assisi gettò le fonda-
menta dell'oratorio.
Nelle biografie dei giovani Don Bosco rievoca con piacere
i suoi incontri con loro e si sofferma a ricostruire passo passo
lo scambio di battute. Nella biografia di Domenico Savio ripro-
duce il dialogo-incontro, che ebbe luogo nella casa parrocchiale
di Murialdo e nella direzione dell'Oratorio. Nella vita di Miche-
le Magone c'è addirittura un capitolo, il primo che porta come
titolo "Un curioso incontro".
Don Bosco non solo rivive questi incontri, ma li propone
come norma educativa. Si esibisce quasi nella sua arte di attin-
gere la vita del ragazzo. L'incontro comincia sempre con un ge-
sto di assoluta stima, di affetto, di sintonia. Don Bosco entra
subito e con semplicità nei punti importanti della vita del suo
piccolo interlocutore (istruzione religiosa, lavoro, genitori, ab-
bandono, vagabondaggio).
Il dialogo, dunque, è serio nei suoi contenuti, sebbene le
singole espressioni siano cariche di allegria e di buon umore.
Perché affrontano punti caldi di vita e li affrontano seriamente
e con gioia, questi incontri si caratterizzano per l'intensità dei
sentimenti. Michele Magone si commuove, Francesco Besucco
piange di commozione, Domenico Savio "non sapeva come
esprimere la sua gioia e gratitudine; mi prese la mano, la
strinse, la baciò più volte". Questi sentimenti spiegano perché
il ricordo del primo incontro rimase incancellabile anche nella
memoria dei giovani. Don Rua non dimenticherà mai i gesti e
le parole del primo incontro, quando era appena fanciullo, con
Don Bosco.
98

10.9 Page 99

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Se tale era il ricordo che avevano lasciato gli incontri nel
suo animo, se tale è la ril evanza che lui gli dà nelle biografie,
fino a farne il perno clell::1 narraz ione , è pe rché era co nvinto
che la qualità dell'educatore-pastore si mostra nell'incontro per-
sonale, e che questo è il punto a cui tendono l'ambiente e il
programma.
Quando un cardinale a Roma lo sfidò sulla sua capacità
educativa, Don Bosco gli offrì lo spettacolo e la prova di un
incontro personale e un dialogo con i ragazzi in Piazza del Po-
polo. Partirono insieme verso il posto scelto. La carrozza si
fermò vicino alla piazza. Il Cardinale rim_;ise in osservazione da
lontano. Don Bosco avanza verso un gruppo di ragazzi che
giocano e schiamazzano. Non sono certo dei delinquenti, ma
monelli e ineducati. Si tratta di un episodio vero ma probabil-
mente ricostruito come "dimostrazione o •,lezione pedagogica".
Rileggendolo troviamo la struttura narrativa di tutti gli altri
"incontri": la prima mossa di aggancio, la fuga dei ragazzi, il
superamento della timidezza, il dialogo serio-allegro, l'intensità
emotiva della conclusione.
L'incontro che suscita fiducia e sveglia la stima di sé,
d'altra parte, è una categoria evangelica. Gesù accoglie e va in-
contro ad ogni tipo di persone: Zaccheo, Levi, Nicodemo, la
Samaritana, l'adultera. E l'incontro con lui lascia il segno.
Forse tra i salesiani ci sono di quelli che hanno perso
questa capacità. Ma in compenso in diverse parti del mondo si
vedono alcuni fratelli e sorelle che vanno incontro ai giovani
che né istituzioni educative, né forze dell'ordine, né assistenti
sociali sono capaci di raggiungere. E l'incontro lo fanno sulla
strada, sotto i ponti, nei luoghi di ritrovo delle bande. Par-
lando con loro si capisce come questo è una pratica di carità.
Per tutti i salesiani si presenta un dilemma: incontrare i
giovani solo nelle istituzioni educative o anche in luoghi più
liberi e aperti? Le prime si stanno riducendo sempre più alle
attività e al tempo di insegnamento. E non sono per i giovani
il luogo dove essi svelano spontaneamente i loro problemi per-
sonali. I secondi non hanno un'evidente connotazione educati-
va e sono di difficile gestione.
99

10.10 Page 100

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Nell'incontro all'interno di una 1st1tuzione, il rapporto
iniziale tra giovane ed educatore è protetto dalle norme di
comportamento. Ci può essere correttezza senza fiducia.
All'infuori delle istituzioni educative viene messa alla prova la
nostra capacità di dimostrare ai giovani il nostro interesse per
la loro vita e di comunicare con loro. Forse oggi i due luoghi
di incontro vanno presi in considerazione dalla comunità, an-
che se non tutti potranno agire nel secondo.
2. L'accoglienza
Una seconda pratica della carità pastorale è l'accoglienza.
Il saper ricevere il giovane con gioia come chi riceve una gra-
zia.
Non si tratta soltanto dell'accoglienza fisica, ma di tutto
quello che la persona porta con sé come bagaglio di vita: i
suoi gusti legittimi, le sue aspirazioni, la sua cultura.
Forse tempo addietro l'accoglienza che si dava al giovane
era soprattutto "istituzionale". Il ragazzo si inseriva in uno dei
nostri ambienti e si sentiva accolto, perché il poter disporre di
una simile opportunità educativa era un privilegio. La vita del-
l'istituto ritmata dal dovere di studio, dalla preghiera quotidia-
na, dal gioco, da attività varie, rappresentava per lui una vera
novità. L'istituto era più "interessante" del paese o della fami-
glia.
In questo contesto, si facevano vicine le persone dei sale-
siani: l'assistente, il professore, il catechista, il direttore.
Bisogna prendere coscienza dell'influsso marginale, e dun-
que della poca attrazione, che le istituzioni hanno oggi sui gio-
vani. L'entrata in un ambiente solenne e ordinato, ma anoni-
mo, non dice niente al giovane. Ha valore invece l'accoglienza
umana e personale, espressa con gesti sensibili di accettazione.
Ciò comporta comprensione ed empatia riguardo a tutte le si-
tuazioni e sane tendenze giovanili, dei singoli e dei gruppi. Le
Costituzioni raccomandano di "aprirsi alla conoscenza vitale del
mondo giovanile e alla solidarietà con tutte le manifestazioni
autentiche del suo dinamismo"5.
5 Cost. 39
100

11 Pages 101-110

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11.1 Page 101

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3. La creazione di un ambiente
La terza manifestazione è dedicarsi con pazienza e cura a
costruire un ambiente ricco di umanità, che è già espressione e
veicolo di valori. L'esperienza della forza dell'ambiente appartie-
ne ai primi anni di apostolato di Don Bosco e diviene un'ac-
quisizione definitiva per tutto il resto dei suoi giorni. Visitava
allora le carceri. Stando alle sue parole, "fu in quelle occasioni
che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito,
perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se questi
giovanetti avessero fuori un amico che si prendesse cura di
loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi,
chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina" .
Don Bosco sarà l'amico di molti ragazzi awicinati indivi-
dualmente nei più disparati luoghi; ma sarà anche l'animatore
di una comunità di giovani, caratterizzata da alcuni tratti e con
un programma da sviluppare. Ragioni psicologiche, sociologiche
e di fede lo confermarono nella convinzione che c'era bisogno
di un'ecologia educativa, dove la religione e l'impegno si respi-
rassero e dove la carità informasse i ruoli, i rapporti e l'atmo-
sfera.
Non soltanto, dunque, fa la scelta dell'ambiente, cercando
stabilità per il suo oratorio e redigendo un piccolo regolamen-
to, ma enuncia una teoria: "L'essere molti insieme serve molto
a far questo miele di allegrezza, pietà e studio. È questo il van-
taggio che reca a voi il trovarvi nell'oratorio. L'essere molti in-
sieme accresce l'allegria delle vostre ricreazioni, toglie la malin-
conia quando questa brutta maga volesse entravi nel cuore; l'es-
sere molti serve di incoraggiamento a sopportare le fatiche
dello studio, serve di stimolo nel vedere il profitto degli altri;
uno comunica all'altro le proprie cognizioni, le proprie idee e
così uno impara dall'altro. L'essere fra molti che fanno il bene
ci anima senza awedercene"6•
L'ambiente non è generico, ma ha tratti caratterizzanti.
Non è un luogo materiale, dove si va ad intrattenersi indivi-
dualmente, ma una comunità, un programma, una tensione
dove ci si inserisce per maturare.
6 MB VII, 366
101

11.2 Page 102

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La carità pastorale, l'amore educativo ci portano a spende-
re tempo e salute, a prenderci cura di organizzare bene un
ambiente largo, positivo, ricco di proposte, capace di accogliere
molti giovani e offrire loro un'esperienza positiva della convi-
venza, della responsabilità, dell'impegno, della vita di fede.
Chi vede il salesiano, a volte stanco, che ordina cose, in-
tesse rapporti, fa adunanze e abbellisce muri, per poter creare
questa atmosfera, è tentato di pensare: che cosa fa di spirituale
questo religioso attaccando posters e s_crivendo manifestini?
Questo ha a che fare con la spiritualità? E vero che se il sale-
siano è totalmente preso dalle cose, potendo essere aiutato, for-
se sta impiegando male il suo tempo e la sua capacità. Ma se
qualcuno pensasse che tutta la preoccupazione per predisporre
un ambiente positivo per i giovani è perdita di tempo e non
ha niente a che vedere con la spiritualità, allora dovrebbe me-
ditare il pensiero di San Paolo. Secondo l'apostolo non sono
spirituali o carnali le cose. È la persona che, mossa dall'istinto,
dall'egoismo o dalla carità, conferisce qualità all'azione e orienta
le cose verso lo spirituale o verso il carnale.
4. Rapporto educativo personale
Insieme al sapere e volere incontrare giovani, insieme al-
l'accoglienza, all'animazione educativa e religiosa di un ambiente,
mettiamo un'ultima manifestazione della carità pastorale: il rap-
porto personale che aiuta la crescita.
L'accoglienza forse richiama soltanto il primo momento di
incontro. L'educazione richiede poi un accompagnamento sere-
no ma prolungato. La natura prowede a ciò nella relazione
padre-figlio. In essa la generazione biologica si continua nell'as-
sistenza alla vita mediante l'allevamento-educazione (upbringing).
Ci sono, riguardo a questo punto, particolarmente due
manifestazioni: l'amicizia e la paternità. La prima ricorre spessis-
simo nelle narrazioni di don Bosco che riguardano l'esperienza
personale e la prassi educativa. Abbiamo visto che l'amicizia è
stata un tratto della sua giovinezza, dimostrazione della sua ca-
pacità di dare e ricevere affetto gioiosamente e sempre in ma-
niera personale e profonda.
102

11.3 Page 103

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Nell'educazione, l'amiciz ia profonda nasce dai gesti e dalla
vo lontà di familiarir;i, e di es :1 i nutre. A sua vo lta provoca
co nfi denza. E la confidenza è tutto in ed ucaz ione , pcrch ~ so l-
tanto nel momento in cui il giovane ci affida i suoi segreti è
possibile educare.
L'espressione concreta dell'amicizia è l'assistenza. Essa viene
intesa come un desiderio di stare con i ragazzi e condividere la
loro vita. Non è, dunque, un "obbligo di stato", ma una certa
passione per capire e aiutare a vivere le esperienze giovanili. È
allo stesso tempo presenza fisica lì dove i ragazzi si trovano, in-
terscambiano o progettano; è forza morale con capacità di
animazione, stimolo e risveglio. Assume il doppio aspetto della
preventività: proteggere da esperienze negative precoci e svilup-
pare le potenzialità della persona attraverso proposte positive.
Sviluppa motivazioni ispirate alla ragionevolezza (vita onesta,
senso attraente dell'esistenza) e alla coscienza, mentre rafforza
nei ragazzi la capacità di risposta autonoma al richiamo dei va-
lori.
Anche l'assistenza ha avuto tra noi un'evoluzione e un
arricchimento progressivo. Il primo modello di assistenza fu
quello oratoriano, tutto basato sul rapporto di amicizia, collabo-
razione e voglia di stare insieme e aiutarsi. L'esigenza disciplina-
re e il controllo costituiscono in essa una percentuale minima.
Poi è venuto il "modello" scolastico. L'adempimento del
dovere, la prevenzione di disordini, la disciplina presero il so-
prawento. Il rapporto personale, la comunicazione spontanea
persero quota. Oggi si ricupera la dimensione di accompagna-
mento, aiuto in libertà, proposta, animazione delle attività gio-
vanili. Perciò si fa "assistenza" anche fuori delle opere.
L'accoglienza, l'amicizia, l'assistenza culminano in una
manife~tazione singolarissima: la paternità. Essa è più che l'ami-
cizia. E una responsabilità affettuosa e autorevole che porge
guida e insegname1:to vitale ed esige disciplina e impegno. È
amore e autorità. E il carattere che distingue il primo respon-
sabile di un programma. Si estende al singolo e all'insieme e in
questo insieme va protetta, difesa e sottolineata.
Si manifesta soprattutto nel "saper parlare al cuore", in
maniera personalizzata e personalizzante, perché si attingono le
103

11.4 Page 104

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questioni che attualmente occupano la vita e la mente dei ra-
gazzi; saper parlare svelando la portata e il senso di quello che
va loro capitando, in modo da toccare la coscienza, la profon-
dità e aiutarli ad acquisire una sapienza con cui affrontare
gioie, problemi e prove: in un parlare che comunica l'arte di
vivere.
Amicizia e paternità creano il clima di famiglia, dove i va-
lori diventano comprensibili e le esigenze accettabili. Così si
traccia la linea tra l'autoritarismo, che rischia di non influire, e
il permissivismo, che non riesce a trasmettere valori e in cui
l'amicizia risulta passatempo inconsistente che non aiuta a cre-
scere.
5. Conclusione
* La nostra carità pastorale ha una sua fisionomia: è pe-
dagogia.
* Include atteggiamenti mterni, pratiche quotidiane, abi-
tudini di lavoro, criteri organizzativi...
* Il tutto, immaginato e messo in pratica per poter rive-
lare ai giovani il gusto della vita pienamente umana e l'amore
di Dio: vogliamo essere "segni dell'amore di Dio".
* In questo senso, il nostro lavoro educativo costituisce
anche la nostra esperienza spirituale tipica. Quando vogliamo
mostrare a qualcuno la spiritualità benedettina, lo portiamo al
"monastero"; se vogliamo fargli sperimentare direttamente il
punto alto della spiritualità focolarina lo invitiamo alle "Maria-
poli". Per vedere in atto, al vivo e in diretta la spiritualità sale-
siana, bisogna andare nel cortile o osservare i salesiani tra e
con i giovani.
104

11.5 Page 105

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[zJ La comunità: scuola e segno della
spiritualità salesiana
1. Richiesta di comunione
Un'osservazione che sovente viene fatta sulla spiritualità
salesiana è che la si vede in alcuni singoli confratelli, ma non
la si scorge nella vita della comunità.
Riguardo a tutta la vita consacrata, nel congresso dei gio-
vani religiosi realizzato a Roma nel 1997, ci si domandava
come mai ci sono tanti singoli religiosi canonizzati, ma una
comunità portata agli altari tutta insieme non c'è, eccetto in
caso di martirio. E si auspicava la beatificazione di qualche
comunità.
La domanda che ne deriva è: le comunità cercano di vi-
vere la loro spiritualità specifica e renderla evidente insieme? O
sono diventate "luoghi materiali", umanamente inespressive, in
cui si sta, si adempiono le norme stabilite, si rispettano i ruoli,
si lavora soltanto?
Nel momento attuale, caratterizzato dal desiderio di co-
municare, i giovani non vogliono vedere soltanto singoli sale-
siani anche geniali, ma comunità che vivano, preghino e lavo-
rino con spirito fraterno visibile e comprensibile. Chi entra in
un movimento ecclesiale non lo fa per la santità dei singoli
soltanto, ma per la spiritualità del movimento.
Inoltre tutti i modelli di comunità che oggi vengono
proposti ai religiosi non sono comunità neutre o fredde, giuri-
diche, dove qualcuno si è fatto santo, ma gruppi dove tutti vi-
vono con entusiasmo e partecipano di una grazia comune.
Quanto a noi, nuotiamo nella vita comunitaria dal mat-
tino alla sera: comunità religiosa, comunità educativa, comunità
ecclesiale.
Gli ultimi due Capitoli hanno formulato una serie di
proposte interessanti sull'educazione dei giovani alla fede e la
comunicazione dello spirito salesiano ai laici. Tali proposte
105

11.6 Page 106

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comportano alcune condizioni: l'animazione dei laici da parte
dei salesiani, un progetto educativo pastorale che metta al cen-
tro la crescita dei giovani alla fede e simili.
Leggendo con attenzione questi orientamenti, si scopre
che la speranza di poterli portare alla pratica poggia su un fat-
tore che si suppone saldo e funzionante: la comunità salesiana.
La comunità è invitata a leggere le sfide che vengono dai
giovani. Alla comunità si chiede di pensare il cammino da
proporre perché la loro fede maturi. La comunità dovrebbe vi-
vere e comunicare un'esperienza senza la quale sarebbero inutili
gli sforzi per mettere i giovani a contatto col mistero di Gesù
ed i propositi per radunare i laici.
A quale comunità si riferisce il testo? Alla comunità loca-
le, a quella ispettoriale, a quella mondiale? Vengono intesi i tre
livelli che operano insieme e in maniera intercomunicante,
come indicano gli articoli 58 e 59 delle Costituzioni: il Sale-
siano per la professione si inserisce nella comunità mondiale,
viene ascritto ad un'ispettoria, destinato ad una casa.
Esaminando però meglio le deliberazioni, si vede che il
punto focale, quello da cui si parte e a cui si ritorna, è la
comunità locale ed ispettoriale.
Quello che viene messo a fuoco oggi è la capacità di rea-
zione, la vitalità di quello che possiamo chiamare le cellule e
gli organi del grande corpo che è la congregazione.
Non è difficile capirne le ragioni. Sono tali comumta a
venire a contatto con i giovani e con la gente. Sono esse che
sentono nella propria carne le difficoltà per aiutarli a fare un
cammino di fede. Sono pure esse che devono pensare con
quali iniziative rispondervi. Nella comunità locale dunque si
possono verificare la validità e praticabilità delle indicazioni
operative nelle nostre attuali condizioni.
C'è un'altra ragione. Solo coinvolgendo le comunità locali
si riesce ad impegnare tutti o almeno la maggior parte dei con-
fratelli nello sforzo di ripensare una pedagogia della fede e una
nuova dinamica comunitaria. Si sa che ai livelli ispettoriali e
mondiali vengono impegnati soltanto pochi confratelli, sebbene
le loro iniziative siano di grande portata e incidenza.
106

11.7 Page 107

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Per tutto ciò negli ultimi ternpi si è rifl ettuto parecchio
sulla comunità a d ue livelli:
* la qu,ilit:1 umana e cristiana , cioè le condizioni di vita
e maturazione che offre, le possibilità di espressione che favori-
sce, la risposta alle nuove esigenze della persona derivate dalla
cultura, dal rinnovamento ecclesiale e dalle attuali sensibilità;
* l'estensione della comunione verso l'esterno: è una nuo-
va dimensione molto sottolineata oggi dopo l'approfondimento
della Chiesa come mistero di comunione, che ha le sue mani-
festazioni nella partecipazione a livello di Chiesa locale, nella
comunione a livello continentale e mondiale, nel movimento
ecumenico, nel dialogo interreligioso.
2. La comunità fraterna oggi
Oggi rifletteremo sul primo aspetto: la manifestazione del-
la spiritualità nella comunità. Sono molti i punti che si dovreb-
bero considerare con criteri di fede, ma anche in maniera uma-
namente praticabile: il servizio dell'autorità, la corresponsabilità
e partecipazione, i rapporti interpersonali, la relazione vita - la-
voro o comunità religiosa - gestione dell'opera, l'equilibrio tra
progetto comunitario e carisma personale, l'ambito della privacy,
la comunicazione tra le generazioni.
Non è facile affrontarli tutti in una sola conversazione
perché richiedono approfondimenti differenziati. D'altra parte
per gestirli con maturità non basta uno studio teorico. Nella
comunità interagiscono persone molto diverse. A volte quindi il
"gruppo" deve trovare un proprio equilibrio in un processo di
riflessione comune piuttosto che in consigli generali, non sem-
pre utili ai singoli casi.
Bisogna tener presenti alcuni cambiamenti che hanno
modificato la vita della comunità e lo faranno ancora di più
nel futuro.
In primo luogo la composizione: diminuisce il numero di
confratelli per comunità e in alcuni casi si è al limite. I con-
fratelli appartengono, per lo più, a diverse generazioni; anzi, a
volte, è preponderante la presenza di persone piuttosto attem-
pate. Ciò, owiamente, non è male, soprattutto se viene vissu-
107

11.8 Page 108

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to, in modo posltlvo. Certamente però richiede nuova capacità
di rapporti ed atteggiamenti particolari.
Un secondo cambiamento riguarda il rapporto tra comunità e
opera apostolica. Ormai non si ha più la responsabilità esclusiva
dell'opera e non vi è più il coinvolgimento di tutti i compo-
nenti della comunità religiosa nell'opera; sempre più spesso ci
sono alcuni coinvolti e altri che sono già a riposo o lavorano
altrove. C'è abbondante interscambio tra religiosi ancora attivi
e laici che ricoprono responsabilità nelle opere, e con essi a
volte si stabiliscono relazioni preferenziali. In molti casi poi il
sovraccarico di funzioni allontana i confratelli dalla comunità.
Un terzo cambiamento è il maggior inserimento della comu-
mta nella dinamica di Chiesa e una maggior apertura al conte-
sto. La vita consacrata viene vista non come un "ritirarsi", ma
come un inserirsi nel mondo con un contributo e per una
missione. Di conseguenza c'è un moltiplicarsi di relazioni e in-
terscambi con l'esterno. Il tempo per la comunità è minore ed
essa è meno raccolta e protetta, più attraversata dalla comples-
sità della vita e dagli stimoli dell'ambiente.
Per tutto questo c'è stato un passaggio dalla insistenza sulla
vita in comune, a quella sulla vita fraterna in comunità.
Penso che i due termini, vita comune e vita fraterna in
comunità, rendano immediatamente l'idea e se ne distingua
quindi la diversa portata. Vita in comune vuol dire fare le
stesse cose allo stesso tempo (radunarsi, pregare, mangiare, lavo-
rare, ecc.). Per la vita comune era importante il "tutti insieme":
alla stessa ora ed allo stesso posto.
Vita fraterna in comunità vuol dire accoglienza della per-
sona singola nella sua legittima originalità, qualità dei rapporti
interpersonali, partecipazione attiva di tutti alla vita del gruppo.
Oggi badiamo di più all'unione delle persone, alla frater-
nità dei rapporti, all'aiuto e appDggio vicendevole, alla conver-
genza degli intenti.
Il documento La vita fraterna in comunità raccomanda di
trovare un equilibrio: non pura comunione di spiriti in modo
che si svalutino le manifestazioni della vita comune; non tanta
insistenza legale sulla vita comune da far porre in second'ordi-
108

11.9 Page 109

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ne gli as petti più sosta nziali dell a fraternità in C risto: "Amatevi
gli un i gli altri . In q t1 esto co nosceranno che siete mi ei discepo-
li"1 . chi aro che la '\\· ita fraterna " no n sarà au tomaticamen te
realizzata dall'osservanza delle norme che regolano la vita co-
mune; ma è evidente che la vita comune ha lo scopo di favo-
rire intensamente la vita fraterna" 2.
Le nostre costituzioni aiutano a comprendere e a realizza-
re questo equilibrio. Ci dicono che abbiamo momenti in co-
mune: essi, però tendono a creare tra di noi un rapporto ma-
turo, aperto alla comunicazione, collaborazione, condivisione e
partecipazione, all'accoglienza delle persone tali e quali esse
sono.
Il buon ordinamento ed equilibrio dei due elementi realiz-
za il desiderio e l'esigenza di formare comunità nuove sulla mi-
sura delle aspirazioni delle persone, capaci di aiutare queste a
crescere umanamente e religiosamente, molto più espressive an-
che dei valori religiosi e atte a suscitare il desiderio di apparte-
nervi, cioè comunità con capacità vocazionali.
Alla base di tale sforzo c'è una visione di fede. Noi
siamo convinti che i fratelli radunati nel nome del Signore
godono della sua presenza: "Dove due o tre sono riuniti nel
mio nome, io sono tra loro"3. Così pure siamo convinti che
vivere da fratelli nel nome del Signore è il segreto della effica-
cia nell'evangelizzazione. ·
Oltre alla visione di fede, che va sempre approfondita, il
voler formare una vera famiglia tra adulti ha bisogno di una
nuova forma di concepire la vita di comunità.
Tenendo conto del tempo a disposizione per questa rifles-
sione, credo che due temi siano urgenti per esprimere una spiri-
tualità nella nostra vita fraterna: quello dei rapporti e quello
della comunicazione. Sono come grandi dinamiche di comunità
che raccolgono attorno a sé e rendono possibili altre cose a
cui diamo grande importanza, come la corresponsabilità, la pro-
gettazione, il discernimento e simili.
1 Gv 13, 34-35
2 CIVCSVA, La vita fraterna in comunità, 3
3 Mt 18,20
109

11.10 Page 110

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3. Rapporti interpersonali
I rapporti interpersonali sono una delle prove della matu-
rità della persona; forse addirittura il principale dei parametri
per misurare le sue qualità e limiti. Da essi dipendono in gran
parte la possibilità di vita serena con i vicini e i fratelli e an-
che quella di una feconda azione pastorale.
L'Optatam Totius, parlando dei candidati al sacerdozio, dice
che si deve esigere in loro una certa maturità umana4. E ne
enuncia i tratti o segni.
* Tra di essi viene in primo luogo quella stabilità dell'ani-
mo, che mette al sicuro dagli sbalzi o variazioni impreviste e
immotivate nell'umore, negli orientamenti, nelle convinzioni e
progetti di vita, nei criteri di valutazione. Esperienze di persone
instabili ne abbiamo avute tutti, particolarmente tra adolescenti.
E questo, cioè che abbondino tra gli adolescenti, dice qualcosa.
* Mette poi la capacità di valutare con ponderatezza awe-
nimenti e persone: cioè la maturità del giudizio che sa prende-
re in considerazione tutti gli aspetti di una questione secondo
la loro importanza, si premunisce contro l'eccessivo influsso
della propria soggettività ed evita di essere precipitato; soprat-
tutto si colloca nella prospettiva del bene delle persone,
dell'amore e del Regno.
* In terzo luogo vengono enumerati i rapporti: l'attitudine
a stabilire rapporti profondi e oblativi; capaci di durata, di va-
lorizzazione delle persone, cioè di generosità disinteressata e
aperta al bene dell'altro, fondati su motivazioni non egoistiche.
Su questi rapporti ci sono alcune specificazioni da non
perdere. Si parla, infatti, di:
* rapporti duraturi e fedeli, capaci cioè di superare anche le
prove. Queste nei rapporti ci sono sempre. Le hanno le cop-
pie. Noi, da pastori e consiglieri, sovente abbiamo dovuto av-
vertire che dopo un tempo felice vengono anche le difficoltà,
che bisogna imparare a superare la stanchezza, la routine, che i
rapporti bisogna rawivarli e rinnovarli perché si logorano e si
esauriscono.
4 cf. Decreto Conciliare Optatarn Totius, 11
110

12 Pages 111-120

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12.1 Page 111

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Le prove ca pitano anche tra gli am1 c1. Abbiamo visto
tante volte ragazzi e ragazze che furono amkissimi per un certo
tempo , cl ivenirc poi vicendevo lm ente antipatici o antago nisti .
Bisogna imparare ad essere disposti a superarle. Come nell'amo-
re, il primo aggancio può , essere di spontanea simpatia. La fe-
deltà è invece virtù. Imparare a perdonare, come abitudine
acquisita, è indispensabile.
* Ma si insiste che i rapporti siano interiori e profondi,
non solo funzionali al lavoro, ma capaci di maturare in
amicizie. Non facciamo amicizia con tutti. Anche dentro la
fraternità re-ligiosa l'affinità di punti di vista, e, più in
generale, quella inspiegabile dimensione dell'affettività che è la
legittima simpa-tia, portano a diversi gradi di amicizia.
Questa situazione, c10e che siamo fratelli di tutti e
''amici" di chi ci è possibile, viene accettata senza scandalo,
come una cosa che giova alla persona e alla comunità. Il testo
delle
Costituzioni5
1
dic'e-
che
la
fraternità
deve
essere
capace
di
dar luogo all'amicizia aperta a tutti, che _si esprime poi in vario
grado e misura conforme a temperamenti, antecedenti, affinità,
circostanze di collaborazioni o lavoro insieme, esperienze spiri-
tuali condiv,ise.
È una valutazione corrente tra gli osservatori di gruppi e
comunità che la maggior parte delle difficoltà interne che sem-
brano di lavoro o di idee, in fondo sono problemi di rapporto
interpersonale che · hanno il lavoro o le idee come campo di
scontro. Si tratta di personalità che tendono ad imporsi, a
centrare tutto in se stesse: dall'altra parte sta chi si sente
niente o poco riconosciuto o valorizzato. E ciò non sempre lo
avvertono gli interessati. Con una sola parola si dice "rapporti
n male impostati" tra i singoli e tra singolo e il gruppo.
Ci sono nella comunità, a volte, blocchi già formati che
non facilitano l'ingresso di un membro nuovo. Chi vi entra
deve adeguarsi e forse inquadrarsi necessariamente in una certa
I
mentalità, in una certa forma di agire e · in un certo stile di
rapporti. C'è in questi gruppi la tendenza a difendersi e a
condizionare. E ciò è tanto più pesante ·quanto più autorevoli
5 cf. Cost 51 e 110.
ll l

12.2 Page 112

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per età, scienza, ruolo si presentano coloro che formano il
gruppo. Ciò si nota poi nel dialogo, nella vita quotidiana e
persino nelle assemblee o adunanze comunitarie.
Vi può anche essere, da parte di chi soffre il condizio-
namento, il proposito di non aprirsi: "lo rimango in me, non
mi espongo!" Tutto ciò non sempre comporta colpevolezza sog-
gettiva. Anzi, chi prende determinati atteggiamenti lo fa per
motivo di "coscienza". Semplicemente non coglie che cosa si-
gnifichi obiettivamente un tale atteggiamento per sé, per l'altro
e per il gruppo.
Rapporti male impostati, dicevo. Aggiungo: non risolti po-
sitivamente in occasione di conflitti: per esempio, quando per
qualsiasì causa la persona crede di aver sofferto mancanza di
riguardo o non si è sentita ascoltata e compresa, o chi gli ha
parlato non è stato chiaro sulle cose riguardo alle quali essa si
attendeva chiarezza o non l'ha sostenuto, o non ha dato suffi-
ciente spazio di tempo alla maturazione della sua decisione.
Sono tutte cause di conflitti, dichiarati o taciuti, risolti o
rimossi. Possono capitare a tutti, anche ai più incapaci di pro-
vocarle o più disposti ad evitarle. In ogni caso però il rapporto
va ricostruito se si vuole uno sbocco conforme alla Parola del
Signore.
L'ho sperimentato sovente come superiore. Dovendo trat-
tare situazioni molto difficili, di fronte a una persona asserra-
gliata nelle proprie ragioni, dovevo armarmi di molta calma e
dargli possibilità di esporre, di divagare, di riprendere il discor-
so. Ci vuole del tempo per riuscire a dire ad un altro la verità
di certe cose, ma più ancora perché l'interessato medesimo le
chiarisca a se stesso e sciolga da se stesso le argomentazioni co-
struite solo per difendersi. Si deve allora, con calma, stimolare
atteggiamenti critici e rinviare il discorso a un tempo succes-
sivo.
I conflitti non ben risolti o non risanati opportunamen-
te, ai quali cioè non è seguita la riconciliazione (riattaccare,
spiegarsi, ridare fiducia o, se la situazione lo consiglia, buttare
le cose sull'umorismo), agiscono all'interno della persona bloc-
cando il processo di maturazione e creando delle difficoltà nel-
la stessa donazione serena e g101osa alla missione e a Dio. La
tristezza e il disagio sono dannosi in ogni senso.
112

12.3 Page 113

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Le amarezze interne logorano; per questo un grande mmi-
stero di carità è aiut;ne a scioglierle, a chiarirne le radici, ad
ass um erl e come limiti perso nali e ad affrontarle cun calma ,
senza rimanere fissi in esse. Quanti confratelli troviamo fissati
su un conflitto capitato e non risolto! La riconciliazione è ve-
ramente segno di saggezza e sorgente di pace.
D'altra parte nessuno può attendersi (questo vale per
tutti!) soltanto di "ricevere" nella comunità, come se questa fos-
se bell'e fatta prima o indipendentemente da lui e gli venisse
offerta come un nido caldo già pronto. Probabilmente ciascuno
ottiene dalla comunità una risposta conforme ai "segni" che ha
dato. Se dà, riceve; se si dimostra desideroso dì aiuto, viene so-
stenuto; se fa le mosse per inserirsi, viene coinvolto. E il con-
trario!
La linea quindi è: educarsi ed educare i singoli conti-
nuamente e per diverse vie ai rapporti, anche con una parola,
un sostegno, un incoraggiamento.
Allo stesso tempo bisogna supplire le carenze, che alcuni
mostrano, con una più grande capacità di donare da parte no-
stra, di andare incontro, di riaprire i giochi con chi non si
mostra disponibile. Nelle comunità ci sono spesso limiti di co-
municazione, timidezze, eccessivo riguardo, che frenano la fami-
liarità. Benedetti quei confratelli o consorelle che di fronte a
questo limite sono disposti a mettere da parte loro un po' più
di conversazione, di gioia, di vicinanza affinché il livello della
vita di comunità, in ciò che riguarda l'affetto vicendevole e
l'ambiente familiare, non si abbassi.
È necessario poi animare i rapporti. È un aspetto della
"carità" pastorale del direttore e dell'ispettore con cui essi co-
struiscono l'unione della comunità. Anche coloro che hanno
delle difficoltà riescono a superarsi e crescono, se vengono loro
offerte opportunità e facilitazioni per esprimersi senza ansietà
da parte loro e senza condanne da parte altrui.
Gli Atti del CG24 parlano della spiritualità salesiana
come di una spiritualità relazionale6; spiritualità, cioè una carità
che fa attenzione, si preoccupa, si rende capace e disponibil~
nel creare, risanare, ristabilire e moltiplicare rapporti. E
6 cf. CG 24, 91-93
113

12.4 Page 114

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"pastorale" tale carità quando viene esercitata nel mm1stero di
reggere e orientare una comunità ecclesiale, religiosa, educativa.
4. La comunicazione
Legata alla questione dei rapporti, c'è quella della comu-
nicazione: la disposizione e la capacità a comunicare e a co-
municarsi. Non ci riferiamo a quella espressiva, professionale o
teatrale delle star della TV; ma a quella più quotidiana per cui
offriamo con facilità la nostra esperienza e riceviamo quella di
coloro che vivono con noi.
Valorizzarla nella giusta misura, conoscere le sue leggi e i
suoi intoppi senza cadere in tecnicismi, è importante per tutti,
ma in modo particolare per coloro che devono creare una ade-
guata piattaforma di intesa e collaborazione nella comunità.
Ciò richiede di:
* rendere scorrevoli i canali attraverso i quali deve fluire
la comunicazione che conta: non solo in senso verticale, cioè
da chi è in autorità verso gli altri e da questi verso di lui; ma
in senso circolare e multidirezionale, cioè tra tutti; in questo
senso ci sono le assemblee, le revisioni di vita, la lectio divina,
le programmazioni comunitarie; i dialoghi a due o a tre;
* assicurare una generosa distribuzione dei "ruoli" att1v1
nella comunicazione: che non siano solo alcuni a elaborare la
comunicazione e gli altri soltanto "destinatari", pure docili e
compiacenti;
* portare la comunicazione verso un livello soddisfacente:
su che cosa comunichiamo? fino a quale punto coinvolgiamo la
nostra persona nella comunicazione?
Alla comunicazione appartiene il dialogo sciolto, il con-
fronto libero e sereno in momenti stabiliti, la manifestazione
spontanea di sentimenti, idee, progetti e preferenze, il coordi-
namento chiaro delle corresponsabilità, le verifiche comuni, il
colloquio personale cercato, il dialogo spirituale.
Si avverte subito che i livelli della comunicazione sono
diversi nelle comunità.
* C'è un livello che è di valore negativo, cioè sotto zero:
è 1a non-comunicazione che può arrivare a una aggressività silen-
ziosa. Consiste nell'ignoranza dell'esistenza dell'altro, anche se
114

12.5 Page 115

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vive sotto lo stesso tetto e mangia alla stessa tavo la: "Tu per
me è come se non ci fossi!" Q uri lch e volta l'abb iamo sentito
da un confrate llo adirato o stizz ito per dire che non discute rc'1 ,
non ci proverà più ad accordarsi o · riconciliarsi; si comporterà
con · il fratello come se vivessero in due mondi diversi. Sovente
però awiene senza dichiarazione previa: negando la parola, ri-
fuggendo, limitandosi a rispondere.
* C'è pure una non-comunicazione meno drammatica, ac-
cettata, benevola. Pensate a tante situazioni ·familiari odierne,
dove ci si sta, non ci si aggredisce, non si interferisce in idee,
gusti e progetti, ma non si ha nemmeno l'intenzione di mette-
re in comune quello che ci sta a cuore. La nqn-comunicazione,
lo sapete, è una delle tare dell'era della comunicazione di
massa. Si dà persino la contraddizione che i comunicatori di
massa soffrono di non-comunicazione personale. Qualche suici-
dio, qualche "frana" di personaggi famosi stanno a dimostrarlo.
* C'è poi un livello già positivo, sopra zero, ma mmimo:
è la comunicazione superficiale. Si parla delle cose più banali, in-
differenti o lontane, tanto per non stare zitti. È sempre meglio
del silenzio e della non-comunicazione, perché almeno si vuole
stare assieme, in pace, non essere "scortesi", fare allegra la
compagnia: si commenta il tempo, gli awenimenti diffusi dalla
TV, i personaggi, gli sport. È una piattaforma accettabile per
un buon vicinato, almeno un primo passo. Voi sapete però
che di tutte queste cose parliamo anche con un "estraneo",
che ci sieda accanto sul treno o sull'aereo.
* Tra noi si dà, e possiamo a volte non andare oltre,
una comunicazione funzionale al lavoro: carne lo facciamo, come
conviene migliorarlo, ridistribuire tempi, ruoli, compiti. È segno
di corresponsabilità e in generale riveste una forma corretta.
Ma c'è il rischio di fermarci nel nostro rapporto con i con-
fratelli e giovani. Uno dei suggerimenti ricorrenti per le comu-
nità oggi è che non considerino se stesse si lascino vedere
dall'esterno solo come "équipes di lavoro", come imprese.
* Al livello più alto si colloca la comunicazione personale, in
cui condividiamo l'esperienza della nostra vocazione. Ci scam-
biamo valutazioni, esigenze, intuizioni che riguardano la nostra
115

12.6 Page 116

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vita in Cristo e la nostra forma di comprendere il carisma. È
quello a cui ci chiama la revisione di vita, la verifica della no-
stra comunità, l'interscambio nella preghiera, il discernimento
su progetti o avvenimenti.
Il tempo attuale ha reso più necessaria la comunicazione
nelle comunità religiose e ne ha modificati i criteri e le moda-
lità. La complessità della vita richiede che ci confrontiamo su
tendenze, criteri e avvenimenti di famiglia e su fatti esterni ad
essa: o noi riusciamo a comprenderli e interpretarli, o restiamo
sempre più fuori della vita e del movimento del mondo.
Per questo bisogna creare l'abitudine di valutare insieme,
anzi di elaborare criteri comuni di
chiede un cammino che comporta
evsaplluotraazziioonnei1
Spesso ciò ri-
e prove. Dob-
biamo essere disposti ad esprimerci con semplicità, a mostrarci
sempre pronti a modificare giudizi e posizioni, anche solo ai
fini della convergenza fraterna e operativa: mediare, c1oe ac-
compagnare nel dialogo, giova sempre alla comunità, quando
non vengono compromessi valori essenziali.
La comunicazione è necessaria anche a motivo del plurali-
smo positivo di visioni e doni che c'è nella comunità: ci sono
ricchezze di intelligenza, di spirito, di fantasia, di competenze
pratiche da mettere in comune. Inoltre, i temi sui quali comu-
nicare con profitto nella vita consacrata sono tanti: il progetto
apostolico, l'esperienza spirituale, le sfide della missione, gli
orientamenti delle Congregazione, le tendenze della Chiesa.
La comunicazione richiede apprendimento, pratica e anche animazio-
ne. Diciamo apprendimento spirituale, più ancora che tecnico.
Quando si comunica a certi livelli ci si espone. La mia espe-
rienza mi dice che non tutti hanno il coraggio di esporsi. Pen-
sano: "Chissà se io parlo bene, se le mie idee saranno accetta-
te, se faccio brutta figura, se mi catalogheranno definitivamen-
te". Ci vuole apprendimento anche per ricevere la comunica-
zione, senza giudicare la persona, senza collocarla in una cate-
goria definitiva sulla base di quello che ha espresso.
C'è- inoltre un certo pudore da superare, · per cui non vo-
gliamo raccontarci. C'è ancora la fiducia nell'altro da consolida-
re, che mi rassicura che lui accoglierà con maturità e positiva-
mente quello che io dico.
116

12.7 Page 117

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O ltre all'apprendimento ci vuo le pratica. La capacità di
comunicare, trascurata, arrugginisce. Si perde il gusto e l'alle-
namento. La pratica porta alla comprens ione dei d ivers i lin-
guaggi adeguati alle situazioni, che vanno dal silenzio e i gesti,
fino alla parola scritta. Tutto ispirato alla carità e non al cal-
colo tecnico. Ricordate don Bosco con il suo posare la mano
sul capo, sorridere, guardare, dire una parola all'orecchio, dare
una buona notte, mantenere un dialogo come quello con Do-
menico Savio, chiedere dei pareri, discutere.
Persino il volto si modifica. "Ad una certa età siamo re-
sponsabili del nostro volto", diceva un umorista. "l~para a sor-
ridere", consigliavano alcuni dei nostri direttori. E lo sforzo,
così tipico del sistema preventivo, di rendere espressivo l'affetto,
liberarlo da un atteggiamento generico o racchiuso in una
fredda interiorità.
Ci vuole quindi apprendimento e pratica da parte di cia-
scuno, ma ci vuole pure animazione da parte di chi dirige per
creare il clima adeguato ad una comunicazione serena e disin-
volta. Dare opportunità di esprimersi; avere uno stile di dire-
zione per cui è facile manifestare opinioni, richiedere e provo-
care tali opinioni, godere della molteplicità di contributi, far
capire che la persona non verrà giudicata per quello che dice
in un momento di confronto . Che non ci sia il timore che,
se si manifesta una idea o si esprime un parere non gradito
sul lavoro o sulla comunità, o sulla congregazione, ciò poi
venga ricordato, mentre sovente è semplicemente un passaggio
nel dialogo, un'impressione che si vuole verificare.
Tante volte io stesso ci tengo a chiarirlo espressamente:
"Questo che sto dicendo - sottolineo - è un pensiero prowi-
sorio che sto cercando di elaborare; se voi avete altre prospet-
tive, ditele: così, insieme, lo maturiamo".
Uno stile di direzione, dunque, ci vuole; è anche un al-
largamento della tolleranza, della recettività. Dobbiamo abituarci
a sentire idee e prospettive inattese e insolite.
Vi leggo un testo tanto per aiutarvi a pensare: "Alcune
comunità possono essere frenate nella loro comunicazione
spontanea dai superiori, ma anche da fratelli venerabili con
molta autorità sul posto, che accettano solo la propria forma-
zione e la propria mentalità; che accettano soltanto informa-
117

12.8 Page 118

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zioni primarie, cioè quelle che riguardano la salute e il lavoro,
l'acquisto di cose, ecc. e non quelle profonde che riguardano
la vita. Che pensano che dobbiamo parlare solo di cose impor-
tanti o spirituali come le pratiche di pietà e l'apostolato, come
se il religioso esaurisse i suoi sentimenti e possibilità in questi
livelli ufficiali".
Si tratta di superiori o troppo manager o troppo spiritua-
listi, mentre la comunicazione oggi è più diversificata e molte-
plice. Accettarla vuol dire accettare la persona come è secondo
la sua storia, il suo stato attuale, le sue competenze e la collo-
cazione che ha nella comunità e nel lavoro.
5. Rapporti e comunicazione per crescere
Rapporti interpersonali e comunicazione aiutano non solo
a sentirsi bene, ma anche a crescere; arricchiscono dal punto
di vista culturale, psicologico e sociale e anche spirituale.
C'è una crescita culturale, perché ascoltando gli altri rice-
viamo informazioni ed interpretazioni di svariate realtà. Pensate
come sono cercati e quanto giovano i rapporti e la comunica-
zione con persone competenti: i consultori, gli opinionisti, i
guru, gli specialisti. Ce ne sono anche tra i confratelli che vi-
vono nelle nostre comunità, anzi probabilmente ognuno ha
una sua competenza da offrirci.
C'è una crescita psicologica, perché si sviluppano l'affettivi-
tà, la capacità di accoglienza di altre persone e mentalità; si
diventa più pronti alla donazione, a superare frustrazioni e
blocchi interni, fissazioni su noi stessi o sul nostro successo.
C'è crescita sociale, perché si rafforza l'attitudine ad inse-
rirsi in gruppi di lavoro, in équipe di partecipazione e in am-
bienti vari, con libertà e schiettezza; si padroneggia l'ansietà so-
ciale, quel sentimento di estraneità e disagio che ci assale
quando ci troviamo in un contesto o gruppo sconosciuto o
poco familiare.
Finalmente e al vertice si dà una crescita spirituale, o
complessiva, perché gli atteggiamenti e le attitudini enunciate
sopra fanno parte di uno sforzo di risposta al Signore confor-
me al carisma e di una qualifica per lo svolgimento della mis-
sione.
118

12.9 Page 119

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La crescita ha lu ogo insieme nelle perso ne singo le e ne lla
co mun ità in qua n to tal e. Q uesta p rese nta l'immagine che
giuvani dcsidcrnnu e che può attirare ,ucaziuni.
Così, proprio per l'importanza che viene riconosciuta ai
rapporti e alla comunicazione, è cambiata l'impostazione della
formazione permanente.
Le prime esperienze di formazione permanente si realizza-
vano lontano dalla propria comunità. Producevano dei benefici,
come un ripensamento, una nuova sintesi, un aggiornamento
dottrinale, un nuovo entusiasmo vocazionale. Ma quando ci si
immergeva di nuovo nella comunità e nel quotidiano, quella
visione rinnovata della vita e del lavoro, intravista in condizio-
ni straordinarie di tempo e di ambiente, difficilmente veniva
tradotta in pratica. I ritmi consueti prendevano il soprawento
e l'andamento "ordinario" delle giornate diluiva le esperienze
esemplari di preghiera, di interscambio, di studio. Il corso di
formazione permanente rimaneva così "isolato" nel decorrere
della vita: una parentesi.
Si è pensato allora di perfezionare il concetto e le inizia-
tive. Si sono introdotte quattro variazioni nel concetto di for-
mazione permanente. Riguardano il luogo, il tempo, la materia
e la metodologia.
* Il luogo preferenziale della formazione permanente è la
comunità locale. Il luogo straordinario è quello dove si fanno i
corsi lunghi. Ma il più continuo è la comunità, perché è
dove si impara a gestire la vita e a reagire da religioso salesiano
di fronte alle difficoltà e prove quotidiane.
* Il tempo più atto e continuato per la formazione perma-
nente non è quello separato e libero, ma quello segnato
dall'alternanza di lavoro, studio, confronto, incontro con per-
sone. Il tempo separato è utile come ripresa e appoggio.
* C'è poi una variazione riguardo alla materia o contenuti. È
vero che una esposizione sistematica, "magistrale", sulla Chiesa,
su Gesù Cristo, sulla comunità, giova, perché motiva, illumina
e riorienta. Tutto questo però lo si trova poi distribuito e
frammentato e quasi diluito nel quotidiano.
119

12.10 Page 120

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La comurnta, in cui devi riuscire a leggere in termmL rea-
li quel trattato che ti hanno spiegato, sono quei quattro o
cinque fratelli con cui vivi gomito a gomito, che hanno le
loro idee, sono segnati da un loro passato, hanno dei limiti,
anche se hanno pure tanta ricchezza che si deve saper scoprire
e accogliere.
Altrettanto si può dire della ecclesiologia ascoltata, della
Pastorale giovanile dilucidata, del Sistema preventivo approfondi-
to: sono quadri di riferimento utili perché illuminanti. Ma che
vanno riportati poi al concreto particolare di una comunità ec-
clesiale e alle sue condizioni, al campo di lavoro pastorale e ai
giovani che in esso trovo, all'ambiente salesiano in cui il Si-
stema preventivo ascoltato andrebbe applicato.
Questa, cioè la maniera concreta di applicare visioni, qua-
dri di riferimento o trattati a casi particolari, è la materia pro-
pria della formazione permanente che ha luogo nella comunità
locale. Lì, la sottomettiamo a riflessione e verifica per vedere
qual è la nostra risposta attuale alle esigenze della vocazione e
del lavoro. Direi che la formazione permanente ricalca più il
modello del tirocinio ben fatto che quello dello studentato.
* Da ultimo, ma collegato a quanto detto precedentemen-
te, si deve accennare al mezzo o via più efficace per una for-
mazione continua: non sono le lezioni che si ricevono, ma la
comunicazione fraterna: ascoltarsi con calma, rilevare e sintetiz-
zare con cura, elaborare valutazioni e criteri, prendere degli
orientamenti pensati. Ciò naturalmente va appoggiato e rilan-
ciato con i cosiddetti "tempi forti".
Rapporti e comunicazione dunque realizzano processi di
formazione e crescita. Al presente non tutti lo capiscono. Non
si fa colpa a nessuno, perché nella prassi formativa precedente
la comunicazione non aveva né il peso, né le possibilità attuali.
Mentre non colpevolizziamo nessuno, dobbiamo saper
creare e moltiplicare opportunità di comunicazione, mettere a
tema la questione dei rapporti, essere consapevoli della piatta-
forma che esigono e curare entrambi, rapporti e comunicazione
come una pratica della carità pastorale verso confratelli e co-
munità.
120

13 Pages 121-130

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13.1 Page 121

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Si dice che le diverse forme di co munità religiose si ispi-
rano a tre modelli evangelici.
* li primo modello è N azaret, la Santa Famiglia: l'accento
va sui rapporti vicendevoli di amore, intensi, basati sul senso di
Dio, come quelli che intercorrevano tra Maria, Giuseppe e
Gesù.
* Il secondo modello è la comunità di Gesù con gli apo-
stoli: sottolinea lo stare con Gesù predicatore del Regno e il
servizio con Lui alla gente.
* Il terzo è la comunità dei credenti, quella descritta negli
Atti degli Apostoli?: si accentuano la preghiera comune, il met-
tere tutto in comune, la testimonianza dei valori evangelici.
La nostra vita comunitaria prende come modello soprat-
tutto quella di Gesù con gli apostoli: è una comunità per il
Regno, per il Vangelo, per il servizio alla gente. E viene per
noi awicinata dalla comunità di Valdocco, che pure esprimeva
tutta insieme una spiritualità: il sistema preventivo.
7 cf. At 2, 44-47; 4, 32-35
121

13.2 Page 122

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ls. I La spiritualità salesiana nell'esercizio
dell'autorità: la paternità
1. Don Bosco, Sacerdote Educatore
Abbiamo contemplato in partenza l'immagine di Don Bo-
sco. In seguito abbiamo visto come si concretizza la sua spiri-
tualità nel quotidiano, nella esperienza comunitaria, nel lavoro
educativo. Guardiamolo ora nell'esercizio dell'autorità: mentre
promuove un progetto, anima una comunità, inizia discepoli
nella vita spirituale.
Ci sono due lineamenti maggiori che rimangono in tutte
le immagini che ci formiamo di Don Bosco. Uno è la vocazio-
ne sacerdotale: il cuore e il ministero sacerdotale. L'altro è la
genialità educativa, l'essere portato verso i giovani, la facilità di
comprenderli, attirarli e trattarli.
Lo rappresenta bene l'iconografia più diffusa: un prete
circondato da ragazzi, rivolto affettuosamente verso di loro, che
li tiene per mano e li ascolta. Se venisse cancellato o soltanto
indebolito uno qualsiasi di questi due tratti, la sua figura ver-
rebbe tradita.
L'originalità educativa ha avuto più fortuna nella storia: è
stata, sin dall'inizio, più ampiamente presentata e commentata
fino, in alcuni casi, a far dimenticare e lasciare in ombra l'al-
tra dimensione: quella sacerdotale. Don Bosco e le scuole pro-
fessionali, Don Bosco e il tempo libero, Don Bosco e la
cultura popolare, Don Bosco e la promozione della gioventù
emarginata e povera sono temi ricorrenti nelle celebrazioni e
negli scritti.
A Don Bosco sacerdote i biografi hanno dedicato quasi
sempre qualche capitolo. Don Auffray, per esempio, nel suo
libro dal titolo "Don Bosco educatore" costruisce un capitolo
attorno alla sua figura di sacerdote, ma per mostrarlo subito
come geniale educatore tra i giovani.
122

13.3 Page 123

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Ciò forse perché la scelta e la modalità educativa costitui-
rono , sin dagli inizi, un'espressione insolita del sacerdozio e nel
sacerdozio. Di buoni preti "normali", ce n'erano molti; al con-
trario, sacerdoti amici dei ragazzi della strada, capaci di convive-
re con i giovani poveri e di preparare programmi di ricupero e
crescita adeguata alla loro condizione, erano pochi.
Avviene anche oggi che dei bravi preti "normali" non se
ne parli e vengano invece gettonati, in giornali e TV, quelli
che hanno un apostolato singolare, gli "originali".
Il fatto si deve pure ai salesiani e ad altri ammiratori di
Don Bosco che hanno voluto presentarlo in forma simpatica e
attraente, non soltanto negli ambienti credenti, ma anche di
fronte al mondo: sensibilità questa che viene da Don Bosco
stesso, che, come ricordate, ha steso una versione "secolare"
del sistema preventivo.
Il Card. Ballestrero di Torino invece, nell'anno centena-
rio, ha rivolto in forma particolarmente intensa lo sguardo a
Don Bosco sacerdote. Ha centrato gli esercizi spirituali agli
ispettori d'Italia sul tema "Un prete per i giovani", calcando
l'accento proprio su "un prete". Ha poi rivolto al proprio clero
una lettera pastorale dal titolo "San Giovanni Bosco sacerdote
di Cristo e della Chiesa". E anche nell'omelia della Messa di
apertura del centenario, ha riportato all'ispirazione sacerdotale
tutto lo sforzo educativo di Don Bosco.
Sacerdote
Conviene ricordare in primo luogo la consistenza della
sua identità sacerdotale, ossia la misura, la profondità con cui
Don Bosco si era consostanziato con questa sua condizione
fino a non sentirsi, a non voler essere e a non essere in real-
tà nient'altro che sacerdote; di conseguenza, a cercare la pro-
pria realizzazione come uomo e come discepolo di Cristo svi-
luppando la grazia sacerdotale.
Il prete in lui emergeva su tutti gli aspetti della persona
e li riempiva. Ce lo ricorda Giovani Paolo II nella '1uvenum Pa-
tris": "Don Bosco, dice, è stato innanzitutto e soprattutto un
vero prete. La nota dominante della sua vita e della sua mis-
123

13.4 Page 124

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sione è stato il fortissimo senso della propria identità sacerdota-
le: prete cattolico secondo il cuore di Dio".
Le sue parole sono un commento a quelle di Don Bosco,
familiari a noi salesiani, che vale però la spesa risentire: "Don
Bosco è prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo
a suoi giovani; come è prete a Torino, così è prete a Firenze,
prete nella casa del povero, prete nel palazzo del Re e dei mi-
nistri" 1.
Questo dato biografico è stato considerato da tutti come
il primo e più importante per interpretare Don Bosco. Don
Albera lo riassumeva nell'espressione "Prete sempre e in ogni
istante". E don Brocardo, nel libro "Profondamente uomo, pro-
fondamente santo", afferma: "Non è possibile pensarlo se non
come sacerdote".
Meditare questo aspetto diventa urgente per noi, che ci
dedichiamo prevalentemente all'educazione, considerata oggi un
diritto civile e un'attività laicale. Da presidi, animatori di poli-
sportive e direttori di oratori ci impegniamo in campi secolari e
ci può riuscire difficile esprimere in ogni momento il nostro
sacerdozio: essere preti prima di tutto e su tutto, come . inten-
zione, proposito e come servizio.
Questa caratteristica di Don Bosco, di sent1rs1 e apparire
sempre soprattutto come sacerdote, può essere vista da un'altra
angolatura: quella soggettiva, cioè la soddisfazione, la gioia per-
sonale che sperimentava nel mettere a frutto la grazia e la
competenza sacerdotale.
Dice il Card. Ballestrero: "Appassionato della sua missione
e contento di essere prete, Don Bosco era profondamente con-
vinto dell'utilità e della necessità del ministero sacerdotale non
solo per la Chiesa, ma anche per la società civile".
Il senso secolare del sacerdozio! Esso è una forza che co-
struisce anche la comunità umana, che può svolgere, se eserci-
tato con creatività, un ruolo nella società, che immette in que-
sta tanta e forse più energia e risorse di qualsiasi altra profes-
sione.
I MB VIII, 534
124

13.5 Page 125

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Questa identità posseduta con g101a era frutto della grazia,
ma anche di un cammino peTsonalc di identificazione: quella
identificazione che avv iene con la med itaz ione, co n l'esercizio
del ministero, con la partecipazione cordiale alle preoccupazioni
della Chiesa.
Ci possiamo dunque domandare con quale figura di prete
si identificava Don Bosco. A questo proposito c'è un altro
commento del Card. Ballestrero. Don Bosco s'identifica con il
prete della migliore tradizione ecclesiale, non legata rigidamente
a nessuna delle figure che si vedevano allora: non a quella del
parroco, del prete che assume l'attenzione spirituale di un set-
tore di persone o la cappellania di una istituzione; non quella
del prete che svolge un ruolo diocesano, del professore di se-
minario o di università. Meno dipendente è ancora dalle collo-
cazioni di tipo politico o culturale: il prete integrista, il prete
liberale, il prete "moderno", il prete "sociale" .
Tutte queste figure erano diffuse e rappresentate da por-
zioni del clero di Torino. "San Giovanni Bosco si è sentito e
ha saputo essere in ogni momento semplicemente sacerdote",
con riferimento ai modelli che più sottolineavano il lavoro e la
carità pastorale tipo don Cafasso, risalendo però da questi mo-
delli direttamente a Cristo sacerdote e soprattutto al senso sa-
cerdotale della Chiesa.
Egli "si identifica in maniera perentoria e perfetta con la
figura del sacerdote di Cristo; e questa identificazione matura
nel corso della sua esistenza con una progressiva interiorizzazio-
ne del mistero e del ministero sacerdotale, per cui, sin da fan-
ciullo, si è sentito attratto da una vocazione tanto vivida
quanto sicura".
Don Pietro Braido, nel suo studio monografico sul Siste-
ma preventivo, riporta una discussione: in Don Bosco si è ma-
nifestato prima il desiderio di radunare i ragazzi per farli mi-
gliori e in funzione di questo è maturata l'idea del sacerdozio,
oppure il suo primo desiderio e vocazione fu il sacerdozio, an-
che se immaginato da lui in collegamento con un servizio ai
giovani?
Dopo aver riportato i diversi pareri, fa vedere che queste
due tensioni si intrecciano continuamente, quasi senza distin-
zione, nella esistenza di Don Bosco; ma che durante, e soprat-
125

13.6 Page 126

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tutto alla fine, del processo di maturazione, la vocazione sacer-
dotale fa da sorgente che genera atteggiamenti ed iniziative,
mentre la gioventù e l'educazione diventano il campo pastorale
in cui esercitare il sacerdozio.
Educatore
La scelta pastorale della gioventù e dell'educazione non è
stata facile. A Torino, nel 1838, c'era un prete per ogni 137
persone, cioè 851 sacerdoti per 117.000 abitanti. C'era il prete
che aspirava al ministero normale svolto a dovere nelle parroc-
chie. A Don Bosco è stato offerto un posto di vicario parroc-
chiale, un posto che comportava una rendita tre volte superio-
re a quella di un operaio, diciamo un posto economicamente
conveniente. C'era chi faceva il prete "di famiglia", e a Don
Bosco è stato offerto di fare l'istitutore, il maestro di una fa-
miglia ricca; c'erano i cappellani di istituti e anche a Don Bo-
sco è stato offerto questo lavoro. Erano lavori accettabili dal
punto di vista sacerdotale, degni dal punto di vista sociale e
"sicuri" dal punto di vista economico.
Intanto la città scoppiava per i nuovi fenomeni dell'immi-
grazione, povertà, lavoro minorile. La scelta di buttarsi non in
una parrocchia, non in una famiglia, non in un istituto, ma
sulla strada, dunque senza una rendita fissa e un lavoro rico-
nosciuto, è stata una scelta pastorale coraggiosa e nuova. Don
Bosco praticamente si è messo nelle nuove correnti pastorali
che nascevano nella Chiesa di Torino. Così, più che nel "fare
il prete" in un ruolo istituzionale definito, ha preferito "essere
prete" per la gente e i giovani nella comunione ecclesiale;
senza un'inquadratura di ruolo rigido, ma certamente in accor-
do con il suo vescovo che in un determinato momento lo de-
signò "direttore" o incaricato dell'opera degli oratori.
In questo contatto con i giovani poveri ebbe alcune espe-
rienze tipiche. Una è stata l'impatto della carità amorevole sui
giovani e quindi la comprensione della funzione di salvezza to-
tale che doveva avere il suo sacerdozio, diversa da quella fun-
zione più ridotta che consiste nell'iniziazione cristiana, l'inse-
gnamento del catechismo o l'attenzione religiosa tipica del mi-
nistero parrocchiale. Egli doveva occuparsi della vita e della fe-
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13.7 Page 127

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licità dei raga zzi , proprio salvarl i dal ca rcere , dalla miseria,
dall'ignoranza, da ll' incoscienza della propria vocazion e e destino.
L'altra esperienza è l'urgenza e l'efficacia di dare esp ress io-
ne umana, sensibile, comprensibile alla carità verso i giovani, in
modo da supplire all; affetto della famiglia facendo loro sentire,
in forma sensibile, la paternità di Dio.
2. La paternità tipica di Don Bosco
Era doveroso ricordare questi aspetti anche se conosciuti.
Dalla fusione di questi due tratti o, se si vuole, di queste due
energie della personalità di Don Bosco, scaturisce e si sviluppa
una sua caratteristica di educatore, fondatore e superiore, molto
commentata e molto desiderata oggi: la paternità.
Il sacerdozio ne è la fonte di alimentazione continua, da
dove la paternità sgorga come un getto potente ed ininterrotto;
la scelta dei giovani e l'incontro con essi per una loro pienezza
di vita, è come lo stampo, l'orma in cui la paternità ·riceve la
sua forma tipica, il suo tono e le sue espressioni.
Risulta vero, riguardo alla paternità, quello che dice l'arti-
colo 20 delle nostre Costituzioni a proposito del Sistema pre-
ventivo: essa viene dallo Spirito Santo attraverso la vocazione,
il carisma ed il ministero sacerdotale. "Lo Spirito formò in lui
un cuore di padre capace di donazione totale". Ma la stessa
paternità plasma i gesti e le espressioni tipiche, acqu1s1sce la
sua forma originale nell'incontro e nel tratt9 con i giovani.
.Semplificando e soltanto per spiegarci, si potrebbe dire: il
sacerdozio ne dà la sostanza; la pedagogia ne dà la modalità.
Non si può dire nulla di centrato e specifico della paternità di
Don Bosco se non si prendono in considerazione questi due
aspetti. Mancato o diminuito il primo, viene meno il "Da mihi
animas"; mancando il secondo cade il Sistema preventivo.
Così va maturando in lui una paternità che è
"spirituale": quella del prete che per il battesimo genera alla
grazia e attraverso il perdono riconduce misericordiosamente al
Padre. È quella paternità di cui parlava San Paolo ai Corinzi
quando diceva loro: "Potreste avere anche diecimila pedagoghi
127

13.8 Page 128

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in Cristo, ma non certo altri padri perché sono io che vi ho
generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo" 2•
Ma questa paternità ha una manifestazione quasi
"biologica": si prende responsabilità attenta e tenera di tutta la
vita, raggiunge in forma sensibile i giovani fino a provocare in
loro un desiderio e un entusiasmo di crescita, una nascita al
senso del proprio valore, una nuova capacità di capire la vita
che essi devono ancora imparare a sentire e ad interpretare.
3. Espressioni della paternità salesiana
'
Possiamo domandarci allora quali sono le manifestazioni
che sgorgano da questa paternità, dando per scontato che sa-
ranno analoghe, secondo che venga orientata verso i ragazzi o
verso i confratelli adulti.
In generale, quando parliamo della paternità di Don Bo-
sco, rileviamo e ci fermiamo sui suoi gesti di bontà rassicurante
ed incoraggiante, l'amore che faceva fiorire nei ragazzi un at-
teggiamento di figli verso di lui: un affetto e una bontà ispira-
ti all'amore di Dio e alla mitezza di Cristo.
Questo è un aspetto molto reale, caratterizza la sua fisio-
nomia di santo ed è molto presente nella nostra memoria e
nella nostra dottrina spirituale. Lo ha inciso con chiarezza
Giovanni Paolo Il nella lettera che ci ha inviato in occasione
del centenario: "Padre e maestro dei giovani".
C'è una collana di aneddoti inediti che ricamano questo
tema con ricordi di persone anziane, nelle quali l'immagine pa-
terna di Don Bosco era rimasta scolpita per sempre. Erano
stati accolti da una persona che aveva riempito senza svantaggi
il posto dei loro genitori.
C'è poi l'antologia di racconti di salesiani in difficoltà,
provati o inesperti, e di altri vivaci e geniali, che hanno lascia-
to disegnata la sua figura di responsabile di una famiglia, com-
prensivo e tollerante, capace di infondere pace e felicità
all'insieme di tale famiglia e di valorizzarne ogni suo membro,
chiudendo un occhio, accettando la spontaneità, proponendo
traguardi, ispirando ideali ed attese.
2 1 Cor 4,15
128

13.9 Page 129

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C'è anche un fl orilegio di tes ti in cui Do n Bosco
esprime i suo i sentimenti di co mpass io ne, di co mmozione e di
tenerezza di fronte ai ragazzi bisognosi e confratelli soffe renti.
Pensate a quelle parole a commento delle sue visite alle carceri:
"lo mi sentivo profondamente commosso vedendo quei giovani
oziosi, rosicchiati dagli insetti". Un uomo che non riesce a
passare indifferente di fronte a una situazione di infelicità. Ma
lo stesso sentimento esprime riguardo ai giovani dell'oratorio
che sono in una situazione più favorevole, quando è lontano
da loro. Abbiamo letto e riletto la lettera del 1884: "Sento,
miei cari, il peso della mia lontananza da voi.... e il non veder-
vi e non sentirvi mi cagiona pena quale voi non potete imma-
ginare".
Questa paternità non è solo sentimento, ma imp~gno ef-
ficace per la felicità dell'altro: "Voglio che siate felici'.'. E diffu-
sa in tutta la vita e non solo in momenti speciali. E presa in
considerazione nei programmi e non soltanto nei rapporti in-
terpersonali, produce quello che chiamiamo lo spirito di fami-
glia. Viene protetta ed evidenziata nell'ambiente attraverso una
organizzazione di ruoli che la liberano da interventi che la po-
trebbero compromettere. È sottolineata in una festa della grati-
tudine e della fiducia: due atteggiamenti essenziali nel Sistema
preventivo.
I tratti della bontà, dell'affetto, della tenerezza,
dell'accoglienza, da solo però non esplicitano sufficientemente
la paternità educativa di Don Bosco.
La paternità di Don Bosco, come ogni altra, è una com-
binazione giusta di affetto e responsabilità: è infatti tenera e
comprensiva, ma allo stesso tempo responsabile della "vita" dei
suoi figli; capace di chiarire, proporre ed esigere quello che
reggerà a lungo termine.
Non è dunque solo olio che lenisce momentaneamente,
ma energia che orienta verso gli aspetti ardui della vera vita:
una figura paterna allo stesso tempo affettuosa e autorevole.
"Del padre - dirà don Caviglia - ebbe tutto: l'amore tenero e
forte per i suoi figli di adozione, la resistenza alla fatica ed al
dolore, l'acuto senso di responsabilità del capo famiglia e la
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13.10 Page 130

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donazione senza limiti che ha un paragone nell'amore ma-
terno".
Don Bosco è un educatore che non soltanto accoglie, ma
propone; non soltanto perdona, ma guida allo sforzo. Non è
un "bonomo"; ha della vita un'idea ricca e realista. Basta pen-
sare a tutto il tema del lavoro, dello studio e del dovere. Le
conseguenze si estendono alla visione educativa, alla comunità
ed ai singoli.
È qui che si mnesta il carattere sacerdotale della sua pa-
ternità. Egli vuole aprire i giovani e i confratelli al mistero di
Dio; metterli a contatto con lui; rivelare loro il piano meravi-
glioso di salvezza che Dio ha per loro e aiutarli così a essere
felici in questo mondo e nell'eternità.
Questo modo di concepire e cercare la felicità del ragazzo
è l'espressione del suo sacerdozio. Se Don Bosco fosse stato
molto amico dei giovani, ma preoccupato solo di comunicare
loro i valori nobili della vita naturale, non sarebbe andato ol-
tre un buon pedagogo.
La sua amorevolezza, il suo stile di bontà era invece col-
legato alla "voglia", alla "brama" - direbbe San Paolo - di ge-
nerare i giovani alla vita di grazia che proviene dal sacerdozio
di Cristo, la cui funzione è la rivelazione del Padre.
La sostanza e il metodo di tale paternità, sono una peda-
gogia dell'anima. Don Bosco bada all'anima, alla grazia, alla vita
in Dio dei giovani e dei confratelli. L'impostazione di tutta
l'organizzazione educativa e di ciascuno dei suoi momenti è spi-
rituale. La finalità di tutto: rapporti, attività, ambiente, tende a
suscitare e coltivare la fede.
Per questo, il senso religioso non occupa soltanto un set-
tore delle sue attività (per es., la catechesi o le funzioni di
chiesa), ma permea tutti i momenti e tutto l'intervento educa-
tivo. La "buona educazione" non è soltanto perfezionamento
secolare; ma ha radici religiose, il dovere è ispirato alla fede,
l'ubbidienza ai superiori e l'amicizia con i compagni prendono
motivazione dal vangelo.
Di lì la fiducia assoluta (sottolineo assoluta!) nella forza
trasformante della "religione" così dice Don Bosco e io
prendo il suo termine - di cui il sacerdote è ministro e di-
130

14 Pages 131-140

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14.1 Page 131

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spensatore. Nel suo linguaggio la religione include la presenza
di Dio, prima appena percepita e poi riconosciuta e accettata,
l'illuminazione della mente attraverso la parola, la formazione
della coscienza e la purificazione del cuore mediante i sacra-
menti, l'accoglienza della grazia, la vita nella Chiesa. Insomma
tutto l'universo del mistero, percepito e accolto in un primo
momento, goduto poi, e dunque desiderato sempre in maggiore
misura.
Analogamente verso i suoi collaboratori, la paternità sa-
cerdotale educativa si esprimeva nella capacità di farli nascere
alla vocazione salesiana, aiutarli a crescère nel senso della con-
sacrazione, renderli sempre più aperti alla grazia fino alla san-
tità.
\\
Conseguenza di tutta questa impostazione è l'impiego con-
tinuo e fiducioso dei ministeri sacerdotali nel processo educati-
vo e nella guida della comunità religiosa: quello della parola,
quello della santificazione, quello dell'animazione.
Il ministero sacerdotale della "parola" ha, come caratteri-
stica paterna ed educativa, la capacità di parlare al cuore ed in
forma molto diretta sui punti che preoccupano il ragazzo o il
confratello, illuminandoli, in modo che essi abbiano uno stimo-
lo alla vita ed un incoraggiamento a crescere, proprio come fa
un padre, che estrae quello che dice non da un testo di teo-
logia o di pedagogia, ma dall'esperienza vissuta e dal rapporto
di affetto.
Questa forse è la differenza con le altre forme rituali del
ministero della parola. Don Bosco, sacerdote e uomo della pa-
rola, ha la capacità di parlare sulle cose che il ragazzo sente
come importanti e far risuonare nel cuore le parole del vange-
lo, tradotte in linguaggio comprensibile.
È un ministero che il sacerdote educatore esercita in ogni
momento, per il quale non ha bisogno di salire sul pulpito. La
sostanza del servizio della parola non è l'inquadramento rituale,
ma il fatto che porta la luce di Cristo e rende presente la sua
grazia.
Ministero della parola è la conversazione che si ha in un
incontro personale; è il consiglio che si anche di sfuggita.
131

14.2 Page 132

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In Don Bosco era la "parola all'orecchio", messaggio personaliz-
zato, diretto ed affettuoso.
Manifestazione tipica del ministero della parola è la "buo-
na notte". Essa costituisce il modello "salesiano" del parlare ai
giovani: collocata in un contesto comunitario "celebrativo" dal
punto di vista familiare, in un momento suggestivo al termine
del giorno, si basa sulla relazione padre-figlio e sul desiderio di
comunicare.
Il suo schema è quanto mai adeguato a toccare il cuore:
prende una situazione di vita, conosciuta o sofferta, cerca di
illuminarla attraverso il buon senso e la fede, infonde gioia ed
incoraggia anche per il tono facile e umoristico.
Sono queste le caratteristiche del parlare sacerdotale sale-
siano, paterno ed educativo. La "buona notte" è nel parlare
salesiano quello che l'omelia è nella predicazione: il prototipo,
quella che ne porta le caratteristiche fondamentali.
Don Bosco esprime la sua paternità sacerdotale educativa
nel e con il ministero della santificazione. Esso mira a mettere
giovani e confratelli in contatto diretto con Dio attraverso la
loro propria coscienza e le mediazioni della grazia che sono i
sacramenti. Una volta che si è riusciti a mettere un giovane a
contatto interiore con Dio, la funzione dell'educatore è secon-
daria e complementare. La grazia avrà percorsi propri.
Il momenti più tipici e personalizzati del ministero della
santificazione sono il sacramento della riconciliazione e la dire-
zione spirituale. Non sono però isolati né dagli altri momenti
religiosi né dalla vita.
Si può dire che Don Bosco era un mistagogo: iniziava e
introduceva nella celebrazione dei sacramenti e ne assicurava le
condizioni di efficacia attraverso la mediazione educativa. Non
c'era però un taglio netto di tematica o di stile tra la conver-
sazione del cortile e il momento in cui il giovane si inginoc-
chiava per riassumere la conversazione sulla sua vita in forma
più profonda e ricevere il perdono.
I Sacramenti, gli stimoli di cortile alla santificazione nel
comportamento personale e nel lavoro quotidiano portavano
alla reimpostazione degli atteggiamenti e della condotta, a una
illuminazione della coscienza e alla conversione progressiva. Al-
trettanto avveniva con i confratelli. Don Bosco era attento ed
incoraggiava la loro fedeltà e spingeva verso la santità.
132

14.3 Page 133

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Il terzo rnmistero sacerd ota le, q uello del reggere, è il po-
tere, la grazia cli racl urnire l:=i comu nit.'! cristian a e o rientarla
nell a fede , nella speranza e ne lla ca rità, affinché esprima la
presenza di Dio tra gli uomini e diventi così segno e strumen-
to di salvezza.
La paternità sacerdotale educativa di Don Bosco si mani-
festa nello sforzo di fare di tutto il complesso educativo una
famiglia, dove le figure del padre (il direttore) e dei fratelli
maggiori (gli assistenti) fanno sì che tutti si sentano "a casa",
all'ombra dei segni della presenza di Dio Padre; per questo la
cappella è a portata di mano dei giovani, si prega all'inizio di
ogni attività, si finisce il giorno con la preghiera, si celebra
comunitariamente l'Eucaristia e si risolvono, dalla prospettiva di
Dio e delle anime, i problemi di organizzazione e di lavoro.
C'è in tutto l'ambito educativo una caratteristica diffusa
che è la familiarità. Non è solo un atteggiamento del singolo
educatore, ma è un tratto dell'organizzazione, delle norme, del
governo, dei rapporti e del linguaggio. Si pensa proprio ad una
struttura di famiglia e non di istituzione.
C'è anche un clima, che noi abbiamo sottolineato molte
volte, di allegria e di fiducia. Si crea così l'ambiente educativo,
inteso non soltanto come atmosfera, ma anche come tessuto di
rapporti.
Tutto lo sforzo per creare un clima di famiglia proviene
non soltanto da una intuizione pedagogica di Don Bosco: il
giovane in un ambiente marcato dall'affettività è più disponibi-
le, assimila più facilmente atteggiamenti e proposte; ma viene
collegato alla sua grazia sacerdotale, cioè al progetto di far as-
similare e sentire la "bellezza" della vita cristiana e della stessa
santità che è pace interiore, gioia di vivere assieme, entusiasmo
per realizzare iniziative, speranza nel futuro.
4. Conclusione
Quanto abbiamo ricordato ci fa ritornare al senso che ha
l'indicazione delle Costituzioni: "gli ispettori... e direttori deb-
bono essere sacerdoti"3•
3 Cost. 121
133

14.4 Page 134

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Non è una condizione "previa", come un titolq di studio
che una volta avuto non si impiega poi nel lavoro. E la forma
interna di animare e governare la comunità salesiana e la co-
munità educativa pastorale. Il Superiore deve esercitare il sacer-
dozio nella e per la sua comunità e mettere a frutto il carisma
sacerdotale in ogni rapporto ed iniziativa. Ha il suo campo pa-
storale nell'opera educativa.
La paternità d'altra p\\ rte è una richiesta ricorrente nelle
consultazioni per la nomina degli ispettori e di direttori. Sem-
bra uno degli aspetti maggiormente messi a rischio dalla "men-
talità organizzativa" che a volte risulta "imprenditoriale o mana-
geriale", dalla molteplicità delle occupazioni ed anche dal nuovo
rapporto che intercorre tra comunità in quanto tale e singoli
confratelli, tra padri e figli e tra confratelli e superiori.
Bisogna dire che non è soltanto una richiesta di confra-
telli desiderosi di attenzioni ed affetto; ma è un tratto carisma-
tico che interessa la Famiglia salesiana perché costituisce la sua
originalità nell'esercizio dell'autorità, in consonanza con tutti gli
altri lineamenti della sua fisionomia.
Al superiore si chiede che governi e animi come l'ha
fatto Don Bosco: "Nelle parole, nei contatti frequenti, nelle
decisioni opportune è padre, maestro, guida spirituale"4.
Le manifestazioni della paternità di Don Bosco hanno
avuto luogo in un contesto segnato dal "familiarismo", cioè dal
modello della famiglia patriarcale, considerata come cellula e
prototipo di tutte le altre forme sociali.
·
Oggi ci sono valori da conservare e nuovi atteggiamenti
da assumere. La sorgente, lo stile sono invariati: l'amore re-
sponsabile che apre alla vita e cura questa vita. Le espressioni
in comunità di giovani possono variare. E tanto più nelle co-
munità di adulti dove si sottolinea la corresponsabilità.
Ed è proprio questo, cioè cogliere la sostanza e attualizza-
re l'espressione, uno dei compiti del nostro sforzo per appro-
fondire la spiritualità.
4 Cost. 55
134

14.5 Page 135

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19. I Icone mariane della spiritualità salesiana
1. L'annunciazione: appello e risposta: un dialogo da vi-
vere durante tutta la vita
Il racconto dell'annunciazione a Maria 1 è tra i più belli
del Vangelo di San Luca. Riporta un fatto reale e allo stesso
tempo ne propone il significato per noi e per la storia dell'u-
manità.
Non riguarda solo il passato, ma è una chiave per leggere
il presente. Il Vangelo infatti non è solo storia, ma è sempre
annuncio.
La narrazione è costruita con accenni della Bibbia che ri-
chiamano antiche speranze, esprimono attese attuali e anticipa-
no i sogni di salvezza dell'uomo. Maria, che impersona l'umani-
tà, risente in tutto ciò ed è chiamata a mettersi a disposi-
zione di Dio per realizzarlo.
"Rallegrati": è un saluto adoperato dai profeti quando si
rivolgono alla Figlia di Sion. Non è un convenevole per intro-
dursi, come il nostro ordinario "Buon giorno, salve". Assicura
invece l'attenzione particolare, lo sguardo di amore, la volontà
benevola di Dio per una persona e ne porta una prova che si
potrà poi verificare. Annuncia un'elezione che costituisce una
felicità senza pari. "Esulta! ti è toccata una stupenda fortuna."
"Il Signore è con te"2, appare sovente quando Dio chiama
a una missione; si ripete nelle narrazioni delle vocazioni che
avranno un compito importante per la salvezza. Indica che
l'attenzione e lo sguardo di Dio si traducono in presenza, assi-
stenza, compagnia, alleanza.
1 Le 1, 26-38
2 Le 1, 28
135

14.6 Page 136

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"Nulla è impossibile a Dio"3, è l'espressione detta a Sara, la
moglie di Abramo, nel momento disperato della sua sterilità,
all'inizio della generazione dei credenti. Esprime la decisione di
Dio di intervenire nella vicenda umana in favore dell'uomo,
superando qualsiasi limite di natura o di umana libertà. E di
farlo attraverso alcune persone che egli ha scelto. Dio può sal-
vare, diceva Bonhoffer, con la Sacra Scrittura o con un cane
morto. Gli strumenti sono secondari.
Siamo di fronte all'annuncio di un avvenimento di parti-
colare importanza per l'umanità. Siamo davanti a una "voca-
zione", una "chiamata" e alla risposta di colei che di tale
evento doveva essere strumento e mediazione umana.
Era dunque invitata, in primo luogo, a credere che
l'avvenimento fosse possibile ed a credere pure in sé stessa (ed
è la cosa più difficile!); poi ad accettare di impegnarsi e poi
ancora a mantenersi fedele nella collaborazione durante la sua
vita.
Tutto ciò però come un affidamento incondizionato a
Dio.
C'è, nell'Annunciazione, un'immagine di Dio. Un discusso
film ha cercato di esplorarla. È un Dio "personale" che segue
le vicende dell'uomo e lo salva con il suo amore attraverso in-
terventi riconoscibili. È interessante vedere se abbiamo qualche
immagine di Dio anche noi, formatasi attraverso il dialogo vo-
cazionale e se coincide con quella dell'annunciazione. O se
non ne abbiamo proprio nessuna!
Dio manda un angelo: cioè si comunica con noi e ci fa
conoscere i suoi disegni, non solo e forse non principalmente,
in momenti solenni o con modalità vistose, ma nella vita or-
dinaria: l'annunciazione avviene a Nazaret, in una casa privata,
a una giovane fidanzata, che fa l'esperienza umana dell'amore,
della famiglia e della responsabilità.
Sentiremo Dio in noi stessi nello scorrere della vita e
nello snodarsi degli impegni. Vedendo attorno a noi ragazzi e
3 Le 1, 37
136

14.7 Page 137

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ragazze, dovremo pensare che un a com unicazion e co n Dio sta
avvenendo nel loro cuore . Non solo Dio si comunica, ma at-
tend e il n ostro asco lto e la n ostra risposta.
Dio ha la misteriosa potenza di rendere fecondo quello
che, ad occhio umano, è sterile, limitato o perduto. E si tratta
di una fecondità non comune, ma pregiata, da cui hanno ori-
gine i figli di Dio.
È questo un invito a rivedere la nostra fede nell'azione e
nell'energia dello Spirito. Proprio come una vergine può conce-
pire un figlio, così il nostro mondo apparentemente sterile, è
fecondo per lo Spirito, di possibilità che non oseremmo sogna-
re.
Gli art1st1, soprattutto i pittori, ma non solo essi, hanno
mostrato una preferenza per questa scena dell'annunciazione. La
includono sempre quando presentano la storia della salvezza.
Molti ce l'hanno lasciata anche ingrandita e separata. Davanti
ai loro capolavori, come di fronte a qu~sta pagina, noi rima-
niamo estatici e pensosi.
Ci piacerebbe scrutare l'anima di Maria attraverso quel
contegno e quei lineamenti del volto, così delicatamente lavora-
ti, per scorgere qualcosa oltre le parole e la scena esterna: ca-
piamo che la cosa più importante e misteriosa avviene nel
cuore e nella mente di Maria, una ragazza, · in età nubile, che
all'epoca oscillava tra i tredici e quindici anni.
La sua conversazione con l'Angelo, si tratti di una rivela-
zione, visiçme, audizione o solo ispirazione interna, è privata e
nascosta. E certamente attenzione alla propria vita, ascolto at-
tento in forma di discernimento; è dialogo fiducioso con Dio
circa il suo destino; è disponibilità alla proposta di Dio; è af-
fidarsi a lui per la realizzazione di quello che ora le chiede,
per le tappe intermedie e per il risultato finale.
In ogni vita c'è un'annunciazione, anzi parecchie e colle-
gate: propongono una novità, danno una luce per comprendere
e invitano ad aprirsi ad una speranza.
Annunciazione è stata la nostra vocazione. Annunciazione
è stata l'ispirazione a fare la professione. Annunciazione sono
state le chiamate a responsabilità nelle quali bisogna affidarsi a
137

14.8 Page 138

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Dio e attendere con fiducia il futuro. Il princ1p10, la condizio-
ne ed il criterio di ogni cammino spirituale è: accogliere, affi-
darsi, partire.
L'annunciazione ci ricorda che la nostra risposta a Dio,
docile, fiduciosa e continua, è personale. Niente l'uomo o la
donna producono che non sia stato concepito e maturato inte-
riormente. Pensieri, sentimenti, desideri, progetti, avvenimenti
vengono elaborati nel nostro cuore. lvi c'è il santuario di Dio.
Da quel santuario · Maria confessa il suo proposito di verginità,
la sua disponibilità, il suo affidarsi.
operano la grazia e lo Spirito che rendono Maria inte-
riormente Madre del Ve~bo. Questo viene concepito nell'anima
prima che nel grembo. E bella quella rappresentazione dell'an-
nunciazione che presenta Maria con la scrittura sulle ginocchia
come in attenta lettura. Lei, serenamente concentrata, assorbe
la parola. Si vede nel volto che la accoglie e ne gode.
La nostra vita attiva, consacrata o laicale, si porta una
tensione: rapporto personale con Dio, vale a dire, attenzione,
dialogo, accoglienza affettuosa e grata del Signore; e, d'altra
parte, preoccupazione per i risultati della nostra attività. Que-
st'ultima ci sfida e sovente ci tenta. Vogliamo fare sempre di
più; e un po' alla volta mettiamo talmente la nostra fiducia
nei mezzi e nelle attività, che queste finiscono per svuotarci, a
meno che li colleghiamo continuamente al punto dal quale
prendono energia e significato: l'invito di Dio a collaborare
con lui.
Maria concepisce dallo Spirito Santo. Dà a Gesù non
solo il corpo, ma la natura umana. Se l'incarnazione doveva
essere reale, era inevitabile che Gesù ereditasse da sua Madre i
tratti fisici, il gesticolare, forse il tono della voce e la cadenza
nel parlare; ma anche la forma di pensare e il modo di reagi-
re di fronte alle persone, ai problemi e alle cose. "Ti somiglia
in tutto", dovevano dirle le sue compagne, madri giovani,
guardando Gesù.
Si sa che Gesù poi è cresciuto in età, sapienza e grazia.
Quando proclamò la sua missione affermò la sua libertà di
espressione e di azione anche di fronte a norme, tradizioni e
famiglia.
138

14.9 Page 139

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Perché Maria potesse trasmettere una natura umana capa-
ce di accogliere ed esprimere la persona divina, lo Spirito do-
vette lavo rare nel suo pensie ro , nella sua volontit , nei suo i sen-
timenti, nei suoi propositi, nei suoi rapporti, e renderli total-
mente aperti a Dio e quasi riempiti di Dio.
Non solo: lo Spirito rese umanamente pregevoli i tratti e
gli atteggiamenti di Maria, cioè capaci di manifestare il meglio
dell'umanità in rettitudine, bontà, energia, giustizia, bellezza di
parole e di gesti, sincerità. Infatti i discepoli e la gente arriva-
vano a riconoscere e confessare la divinità di Cristo attraverso
la sua umanità.
Così Maria divenne la Madre di Gesù come la s'intende-
va ieri e la si intende ancora oggi: non una incubatrice o un
seno imprestato, ma proprio la Madre, quella che concepisce e
alla luce comunicando la natura come essa la possiede.
Lo Spirito non opera per forza né meccanicamente; ma
per suggerimento, dialogo interiore, ispirazione: si prende tutto
il tempo necessario per fare con calma, a ritmo umano,
un'opera completa e ben combinata.
È anche il nostro percorso e la nostra storia: sentire in-
teriormente la chiamata, lasciarci prima fecondare interiormente
dallo Spirito e poi plasmare durante la vita e generare frutti
apostolici. ,
2. La visitazione: un servizio generoso per portare il Sal-
vatore
La v1s1ta di Maria a Elisabetta4 sembra un'istantanea di
vita quotidiana: il gesto di solidarietà e finezza femminile di
tutti i tempi. Maria si mette in viaggio per offrire i servizi che
una giovane donna può prestare ad una parente anziana in at-
tesa di un figlio .
La partenza pronta, il lungo viaggio, l'assistenza sollecita
ed affettuosa, sono gesti che la Chiesa ha conservato nella
memoria e ha offerto come modello. San Francesco di Sales
ha messo la Visitazione come icona della sua fondazione: una
4 Le 1, 39 -56
139

14.10 Page 140

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carità che va all'incontro, entra in casa e assiste con premurosa
sollecitudine.
Era ed è poi comune che in questi incontri le future
mamme parlino delle loro attese, dei loro timori e dei loro se-
greti. Maria ed Elisabetta ne avevano da raccontare! L'una per
via dell'esperienza singolare del suo concepimento, l'altra per la
lunga attesa di un figlio.
È un quadro delicato di intensa umanità che scrittori e
pittori ci hanno fatto gustare, completandolo, per nostro di-
letto, con dettagli pittoreschi dell'ambiente domestico.
Tutto ciò non è marginale nell'esperienza di Maria e
nella nostra spiritualità. Questi tratti domestici e popolari libe-
rano l'immagine della Madre di Gesù da quegli attributi
extraumani e portentosi con cui la concepisce la fantasia, ma
che sono lontani dalla narrazione evangelica.
Pure per noi è un'indicazione: la chiamata ci inserisce
nella vita della gente secondo i suoi bisogni e domande, anche
elementari e naturali, lette in una nuova chiave: l'amore, il
servizio, la compassione.
Ma se ci limitassimo a questi rilievi, non raggiungeremmo
il significato centrale di questo episodio. La visita viene raccon-
tata come una rivelazione, un intervento di Dio che diffonde
la notizia della sua presenza tra gli uomini e adempie la sua
promessa di alleanza attraverso il concepimento del Salvatore
nel seno di Maria.
Quello che era un segreto di Maria, viene riconosciuto
da coloro che attendono questo segreto, impersonati da Elisa-
betta, dal sacerdote Zaccaria e dal precursore Giovanni. La no-
tizia si diffonderà nella regione e sarà proclamata per tutto il
mondo attraverso il messaggio degli angeli e la rivelazione ai
magi. Tutto ha inizio ed awiene con e per la presenza di Ma-
ria, sempre ed in ogni passaggio, immagine della Chiesa.
La carità e il serv1z10 portano sempre all'uomo una
buona notizia, sia o no accompagnata da un discorso "reli-
gioso".
I fatti e personaggi dell'Antico Testamento che s1 intra-
vedono nell'episodio guidano a questa lettura. Maria viene rap-
140
/

15 Pages 141-150

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15.1 Page 141

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presentata come l'Arca dell'Alleanza, quando Davide la prende
dalla terra dei Filiste i per portarla so lennemente a Ge-
rusa lemme. L'es pressione che Elisabetta rivolge a Ma ria ripro-
duce quella di Davide: "Come potrebbe venire a me l'Arca del
Signore?"5. L'esultanza della casa di Zaccaria ricorda la g101a del
re che ballò, quasi fuori di sé, davanti all'Arca e la festa del
popolo all'arrivo del Signore.
Ora la presenza di Dio non è più attraverso segni, ma di
persona. Egli si è fatto uomo. Chi lo contiene e lo trasporta
non è un tabernacolo, una tenda o un tempio materiale: è
l'umanità, in particolare quella che crede, la Chiesa, nella per-
sona di Maria. D'ora innanzi non sarà più con l'oro, col legno
o con le pietre che si edificherà l'abitazione di Dio sulla terra,
ma con la fede, la carità e la speranza. La maternità che viene
lodata non è quella fisica, ma qu ella che viene dalla fede:
"Beata te, che hai creduto! 116•
Attorno a questo punto centrale di attenzione, che è la
venuta di Dio salvatore tra gli uomini, si costruiscono gli altri
elementi del quadro. L'umanità esulta in colui che sarà il te-
stimone più prossimo della manifestazione di Cristo, Giovanni
il Battista. Quando un bambino si agita nel seno, dicevano le
comari, vuol dire che sogna, prevede, presagisce. Questa gioia
di Giovanni nel seno della madre è anteriore al manifestarsi
della sua intelligenza. È dunque la voce dello spirito nelle vi-
scere dell'umanità che brama la presenza di Dio.
Elisabetta anziana raffigura la fine di un'epoca in esauri-
mento: che non si conclude però con la morte. Le è dato di
vedere l'aurora del tempo nuovo.
Il Vangelo ci porta ancora verso una terza prospettiva: co-
me questo evento trasformerà la vita dell'uomo. Il "Magnificat"
è il cantico con cui Maria raccoglie l'esperienza vissuta da lei e
la rilancia verso tutte le generazioni. È tutt'altro che una poe-
sia di cornice per coronare l'episodio. Al contrario, è un "cre-
do", la professione personale di fede di Maria che assume in
5 2 Sam 6,9
6 Lcl,45
141

15.2 Page 142

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l'intero popolo messianico; di questo popolo Maria diventa
voce e cuore. È l'inno dell'umanità credente di tutti i tempi.
Non dà una spiegazione razionale su Dio, ma contempla
le sue opere salvifiche nella storia degli uomini, iniziando dalla
sua concezione verginale e dall'annuncio della venuta del Salva-
tore: "Ha fatto in me cose grandi".
Egli interviene oggi in forma inaspettatamente efficace e
fa sorgere un mondo nuovo dove sono sconvolti gli schemi
consueti della storia mondana: coloro che contano per Dio, co-
loro che portano avanti il progetto di giustizia non sono gli
orgogliosi e i potenti, ma gli umili, gli affamati, che coinci-
dono con quanti sentono bisogno di Dio e degli altri.
Questo è il mistero gaudioso della Visitazione.
La Chiesa lo rivive come un fatto che si attualizza oggi
nella comunità ecclesiale e in tutti coloro che attendono, cer-
cano o hanno accolto Cristo.
Maria parte, ignara dell'avvenimento che sarebbe esploso
nella casa di Elisabetta. In quella partenza, apparentemente
spontanea, c'era l'ispirazione di Dio che preparava la sua mani-
festazione. La carità predispone alla manifestazione di Dio, la
esprime e la ~llumina: è preparazione, via, segno ed effetto
dell'annuncio. E diffusa nel nostro cuore dallo Spirito Santo e
si mette a disposizione degli altri secondo le loro urgenze
umane: come beneficenza, assistenza, educazione, accompagna-
mento verso Dio.
Per la carità ha luogo un fatto misterioso, oltre i nostri
gesti di vicinanza e di servizio: riveliamo il Signore, siamo
come l'Arca e come Maria portatori di Dio che è amore. Con-
sapevoli di questo, noi assumiamo personalmente la carità edu-
cativa e pastorale come forma di contatto e di presenza. Essa
mira a tutte le urgenze umane.
Di essa cerchiamo di informare le comunità, il luogo
dove esprimiamo quotidianamente l'amore fraterno. L'aspirazio-
ne di ogni comunità religiosa è poter divenire avvenimento cri-
stiano, realtà capace di annunciare la presenza del Signore, di
essere parola e messaggio.
Un'immagine riferita da San Paolo alla comunità cristiana
la vuole come una "lettera di Dio". "La nostra lettera siete voi,
142

15.3 Page 143

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conosciuta e letta da tutti gli uomm1. È noto infatti che voi
siete una lettera di Cristo, composta da noi, scritta non con
l'inchiostro , ma con lo spirito di Dio vivente: non su tavole di
pietra, ma sulle tavole di carne in cui si incide lo spirito di
Dio" 7.
3. La nascita di Gesù: interiorità
Siamo abituati ad ascoltare il racconto della nascita8 nel
clima del Natale. San Luca l'ha scritto quando ancora non esi-
stevano i presepi. E non avrebbe immaginato che le pecorelle,
le casette, le luci, le stelle potessero diminuire l'attenzione
verso i tre personaggi - Gesù, Maria, i pastori - attorno ai
quali egli costruisce la sua meditazione.
Maria nel Vangelo, oltre ad essere la Madre di Gesù,
rappresenta sempre anche la Figlia di Sion, cioè il popolo
eletto che genera il Messia nella storia umana. È pure figura
della Chiesa che porta Gesù nel proprio seno, lo fa nascere
nei popoli, lo fa crescere fino a renderlo visibile attraverso la
vita e testimonianza delle comunità. È il modello dell'essere
cristiano proposto ai discepoli di Gesù.
Il testo presenta il momento dell'incarnazione. Luca vuole
dare l'idea che si tratta di una nascita reale di un uomo vero:
per questo registra la data, l'epoca storica, il luogo, le circo-
stanze del parto, le cure della Madre.
È un awenimento, in apparenza insignificante, che accade
in una piccola nazione, nemmeno dentro ma nei dintorni di
una cittadina sconosciuta, fuori dagli ambiti dove awengono le
cose che contano e dove si prendono le decisioni che influi-
scono sulla gente. Betlemme è l'opposto di Roma, Gerusa-
lemme o Babilonia. La grotta è l'antitesi di una reggia, un
tempio o un palazzo.
E così il fatto sarebbe rimasto per sempre: nascosto e in-
significante. L'annuncio degli angeli, invece, lo fa diventare "no-
7 2 Cor 3, 3
8 Le 2, 1-20
143

15.4 Page 144

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tizia" per i pastori che ascoltano non solo il racconto dell'ac-
caduto, ma la sua interpretazione salvifica: il bambino nato
non è un uomo qualunque; è l'atteso, il Salvatore.
I pastori, rappresentazione di tutti coloro che attendono e
sono interiormente mossi da Dio, veng_ono alla grotta e lì rice-
vono la conferma dell'annuncio ricevUto dagli angeli. Poi dif-
fondono la notizia.
Luca riproduce così la natura dell'evangelizzazione. Essa
non è una teoria su Dio e sul mondo, né insegna soltanto ve-
rità religiose o etiche, ma riferisce avvenimenti veramente acca-
duti, evidenziandone il significato che hanno per l'uomo e il
messaggio che contengono. La luce che si sprigiona dall'annun-
cio viene da Dio, ma è contenuta e rivelata nei fatti della sto-
ria umana.
E qui Luca sottolinea la diversa conoscenza che i vari
personaggi hanno dell'incarnazione e del suo significato, che
sono come la chiave per vivere nella fede tutti gli altri eventi
della vita personale e sociale.
I pastori devono recarsi sul posto dove l'incarnazione ac-
cade e dove se ne può avere una testimonianza diretta. Si
fermano un po' di tempo e ascoltano Maria. Poi ritornano e
riferiscono quanto è stato detto loro sul bambino. Essi non
hanno esperienza personale di fatti precedenti, come l'annun-
ciazione e la nascita verginale e non hanno nemmeno assistito
all'apparire di Gesù.
La gente che ascolta i pastori si stupisce di quello che
essi raccontano. Non esprime ancora la fede, ma soltanto è
preda di quell'interesse iniziale, di quella curiosità per il mera-
viglioso in cui la fede può avere inizio.
"Maria, da parte sua, conserva tutte queste cose, medi-
tandole nel suo cuore"9. Maria nbn deve venire, come i
pastori, al luogo dove accade l'incarnazione. Essa è già lì, è
parte dell'avvenimento. Non deve sentire da altri come sono
andate le cose e quale significato hanno. Essa conserva
9 Le 2,51
144

15.5 Page 145

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memoria d i tutte le promesse fatte al l'umanità, come dimostra
il Magnificat, ed è consapevole che colui che è cresciuto nel
suo seno viene dallo Spirito Santo.
Maria non si allontana, una volta visto il bambino, come
i pastori, dal luogo dell'avvenimento. Rimane. Non può allon-
tanarsi. Dovunque Gesù si incarna, lei è indispensabile. Non
capisce ancora tutti i significati che si sprigionano, né può
enumerare tutte le energie che scaturiscono dall'incarnazione.
Significati ed energie si riveleranno lungo la vita di Cri-
sto e lungo tutti i secoli. Però Maria conserva nel cuore il ri-
cordo dell'avvenimento, lo tiene caro, lo medita, ne è attenta e
all'occasione lo sa ripensare per estrarne nuove conseguenze.
È la figura della Chiesa e del suo rapporto col nascere e
crescere di Cristo nel mondo e in ciascun popolo. Anch'essa,
la Chiesa, è parte dell'avvenimento dell'incarnazione e dimora
ovunque Cristo viene introdotto e diventa buona notizia. An-
ch'essa non sa ancora tutto quello che su Cristo i tempi rive-
leranno. Ha però nel cuore e nella memoria un avvenimento
che la illumina: Gesù, Parola di Dio che si è fatto uomo. Di
esso qualche cosa vede e qualcos'altro intravede appena, qual-
che cosa capisce e qualche cosa le è oscuro, perché si deve
ancora rivelare. Ciò le serve per gioire internamente, per rima-
nere serena, per lavorare, per orientarsi. Intanto non si allon-
tana da Cristo, riferisce su di lui, lo testimonia, lo annuncia.
Questa è la meditazione di Luca. E anche a noi può
suggerire alcuni spunti di meditazione sulla nostra spiritualità
pastorale.
Noi non possiamo essere solo visitatori, turisti della paro-
la e del mistero di Cristo. Sant'Agostino, paragonando i tre at-
teggiamenti di cui abbiamo parlato, domanda al cristiano: A
chi assomigli? a coloro che sentono l'annuncio e soltanto si
stupiscono? ai pastori che vengono alla grotta, prendono qual-
che notizia e partono per annunciarla, o a Maria che coglie
tutta la verità di Cristo, la serba nella mente e la medita con-
tinuamente? L'ammirazione dei primi si diluisce presto; l'infor-
mazione dei pastori, pur dettata dalla fede, è imperfetta e ger-
minale. Soltanto chi ricontempla e interiorizza il mistero di
145

15.6 Page 146

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Cristo può estrarne nuova luce e significati per tempi e per
popoli.
La storia della Chiesa annovera molte figure di evangeliz-
zatori di primo piano. Sono tutti "meditatori" pazienti della Pa-
rola. Quello che hanno approfondito nella preghiera e nello
studio lo esprimono nella predicazione, negli scritti, nella guida
della comunità cristiana, nell'orientamento delle anime.
Comunicare l'avvenimento di Cristo è la nostra profes-
sione e la finalità della nostra vocazione. Dobbiamo esserne
specialisti non tanto per l'uso dei mezzi tecnici, ma perché lo
avviciniamo con calma e tempo, ne ricaviamo luce per la no-
stra vita personale, lo confrontiamo comunitariamente con
quello che osserviamo nel nostro ambiente: questo si chiama
interiorità.
L'incarnazione, cioè la presenza salvifica di Dio nella vita
degli uomini attraverso Gesù, oltre che oggetto di meditazione,
sarà per noi anche criterio pastorale.
Ciò comporta tre cose: la nostra disponibilità ad assume-
re con prontezza la realtà che dobbiamo evangelizzare, inseren-
doci nel popolo a cui siamo inviati e comprendendo nella fede
la sua cultura; comporta la convinzione che in tutto quello che
cresce dal punto di vista umano c'è una misteriosa presenza e
azione di Dio e che ogni rivelazione di Dio produce una cre-
scita in umanità; comporta lo sforzo di individuare le attese e
le domande delle persone e dei popoli, per noi soprattutto dei
giovani, che sospirano per l'avvento del Redentore.
4. Le nozze di Cana: Cristo, chiave della vita, nostra e de-
gli altri
"Gesù manifestò la sua gloria ed i discepoli credettero in
Lui" 10. Così si conclude il racconto delle nozze di Cana 11 . Sia
San Giovanni che la Liturgia collocano queste nozze tra le
10 Gv 2, 11
11 Gv 2, 1-11
146

15.7 Page 147

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principal i manifestazioni d i Gesù: prima ai Magi, poi il Batte-
simo, ora le nozze di Cana.
Qucsm m:rn ifesta:i o nc ha però una particolari ri guard o
alle precedenti. Non avviene in un contesto miracoloso o in
una circostanza religiosa, come la nascita o il battesimo. Non
ci sono testimoni celesti: angeli, stelle, cantici misteriosi o voci
dal cielo. Non ci sono nemmeno predicatori o profeti.
Avviene in una festa di famiglia, nel contesto di una ce-
lebrazione popolare, nel cuore di un avvenimento gioioso:
l'amore tra due giovani, il loro desiderio di felicità, la loro
promessa di fedeltà, la loro volontà o istinto di prolungarsi at-
traverso i figli, la partecipazione gioiosa dei loro congiunti e
compaesani: una mensa in cui si sono fatti tutti gli sforzi per
soddisfare i commensali.
Ciò ci suggerisce già un pensiero: Gesù, Dio, si manifesta
certamente nei momenti di culto e di preghiera, ma non sol-
tanto: è presente in ogni nostra esperienza autentica di vita,
gioiosa o dolorosa. Accanto alle nozze di Cana possiamo met-
tere l'esperienza dell'amicizia, del lavoro, dello sforzo di realiz-
zare qualche cosa.
E ciò perché il Verbo si è fatto carne: è entrato nel cuore
delle nostre esperienze, assumendole e rendendosene partecipe
e solidale. Gesù è nelle nostre feste e nelle nostre tristezze.
L'amore che viene presentato a Cana è la principale delle
esperienza umane e come il prototipo di tutte le altre.
Abbiamo un'indicazione per la Chiesa e per ogni singolo
cristiano: essere solidali e compartecipi delle gioie e speranze
dei propri simili; non staccarsi, ma assumere le loro preoccupa-
zioni ed angosce; e non da "curiosi" o ricercatori; ma "compa-
tendo" e "congioendo", condividendo.
Nella festa però avviene un fatto: viene a mancare il vino.
La gioia è sul punto di esaurirsi; la compagnia sta per scio-
gliersi. Quello che gli incaricati della festa hanno predisposto,
secondo tutti i calcoli e previdenze che il caso richiedeva, non
ha retto.
Anche questo passaggio del racconto ha il suo corrispon-
dente nella nostra esperienza. Ogni gioia o impresa umana con-
segnata soltanto al suo dinamismo naturale, al calcolo e alle
147

15.8 Page 148

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forze umane, è esposta all'esaurimento e sovente anche alla
corruzione. In un certo momento sembra arrivare al capolinea
e non riesce a dare più niente di sé: capita con l'amore. Pen-
sate agli ardenti innamoramenti che si svuotano ed alle coppie
che, pur avendo incominciato il rapporto con sincerità e
buona volontà, finiscono per non trovare più né motivo né
gusto per stare insieme.
Capita anche con i propositi generosi e con la solida-
rietà. Spesso noi mettiamo in guardia i giovani su questo ri-
schio quando li vediamo spontaneamente generosi, ma incon-
sapevoli di quali siano le sorgenti perenni della generosità.
C'è nel racconto un particolare interessante : Gesù e' è, con
suoi discepoli, ma "mescolato" quas i "sommerso", "ignorato",
" a n o n i.m o " .
Non emerge: non è stato presentato come l'invitato famo-
so e non appare nemmeno come l'animatore della festa o il
centro, dei rapporti.
E uno dei tanti dunque: nessuno lo pensa come l'uomo
chiave, gli chiederebbe la soluzione del problema. C'è biso-
gno che qualcuno, che lo conosce già, lo tm fuori
dall'anonimato, lo indichi come colui che può risolvere
l'increscioso incidente di una festa che si sta guastando.
A questo punto entra in scena la dolcissima figura di Maria,
immagine della Chiesa e quindi di tutti noi. E che sia tale lo
indica il dettaglio, non solo narrativo, ma simbolico ed
allusivo, che Gesù era lì "con i suoi discepoli".
Essa avverte per prima la situazione, anche prima di Gesù.
Lei le situazioni umane le sente quasi d'istinto. Non le ha do-
vute assumere: è nata e vissuta dentro la condizione umana
proprio come noi. Lei non è un essere divino incarnato; è
una creatura umana, nata e vissuta nelle condizioni comuni.
Maria non fa critiche, neanche materne, a coloro che
hanno fallito il calcolo; non fa commenti da "esperta" dei
pranzi e delle feste familiari e non indica soluzioni tecniche su
come e dove nei dintorni si possa trovare una soluzione.
Essa indica e ricorre a Gesù. Alla risposta di Gesù che
dimostra di non voler essere dipendente dai legami di parente-
148

15.9 Page 149

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la, essa goca un'altra carta : la sua fede: "Fate quello che vt
dirà" 12•
Anche in questo caso c'è un 'indicazione di quello che la
Chiesa e noi cristiani, in particolare i consacrati, portiamo di
specifico e di risolutivo nella festa della vita: il senso della pre-
senza di Dio, l'esperienza di Cristo, la fiducia nel suo cuore e
nel suo potere.
Ed è anche un'indicazione per il nostro modo di agire:
non da critici della triste condizione umana, non principalmen-
te da "esperti" che dimostrano di avere una lista di soluzioni,
ma da persone solidali, disposte a condividere quello che ab-
biamo di fede e di conoscenza di Gesù.
Non sfuggirà certamente che il racconto è un intreccio di
simboli: ci sono le nozze, che una lunga ed ininterrotta tradi-
zione biblica vede come l'immagine dell'amore di Dio per l'u-
manità e dell'alleanza storica con il popolo eletto; ci sono le
giare per la purificazione secondo le abitudini dei giudei, sim-
bolo del giudaismo superato: sono di pietra come le tavole
della legge e pesanti, immobili; sono anche vuote, non conten-
gono niente; c'è una abbondanza favolosa di vino: 500 litri e non
del comune, ma pregiato, da intenditori esigenti. Per sot-
tolineare l'abbondanza, Giovanni ci dirà che i servi riempirono
le giare "fino all'orlo". C'è dunque aria di festa, di gioia, di
abbondanza senza limiti; ci sono le parole di Gesù: "La mia
ora".
Giovanni ha voluto mostrarci l'esaurirsi dell'esperienza re-
ligiosa ebraica e di tutte le altre esperienze simili, per ciò che
riguarda il senso della vita umana e il rapporto di Dio e con
Dio. In Cristo invece appare una possibilità ricchissima di co-
municazione e di grazia, più di quello che l'uomo possa atten-
dersi.
In lui sono iniziate le nozze di Dio con l'umanità e queste
nozze hanno la Chiesa come loro Cana, il luogo della loro fe-
sta: la comunità che si raduna attorno a Gesù, dove vi sono
12 Gv 2, 5
149

15.10 Page 150

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Maria e i discepoli. Come Maria, la Chiesa svela il mistero
della sua presenza perché ne .ha esperienza diretta: i discepoli
credono, cioè riescono a comprendere il significato del "segno"
perché hanno già incontrato il Signore e formano con lui una
famiglia; gli altri, anche se non sono consapevoli del miracolo,
ne ricevono i benefici: bevono il vino e continuano la celebra-
zione dell'amore e della solidarietà.
All'inizio ed in ogni momento del nostro cammino, al
centro della nostra attenzione c'è sempre Gesù. Lo conosciamo,
lo frequentiamo, lo prendiamo come chiave della gioia, lo mo-
striamo ai giovani come salvezza, lo annunciamo come colui
che può apportare la soluzione alle domande umane e oltre.
5. Ai piedi della Croce: la fecondità nello Spirito
Maria ai piedi della Croce 13 è una icona pasquale. La
rappresentazione "lacrimosa" è prevalsa soltanto negli ultimi se-
coli. Nel Vangelo invece non si fa cenno alle lacrime o alla
tristezza. Semplicemente "stava in piedi" 14, prendendo parte
consapevolmente a questo awenimento supremo dell'umanità.
La croce, per San Giovanni, coincide con la glorificazione
di Gesù; è il momento culminante della sua rivelazione, il suo
andare verso il Padre. "Quando sarò innalzato da terra attirerò
tutti a me" 15• Ed è anche il momento del dono dello Spirito.
Dalla Croce nasce la comunità dei credenti, rappresentata
dal piccolo gruppo fedele che è radunato attorno ad essa e
simboleggiata dall'acqua del Battesimo e dal sangue
dell'Eucaristia che emanano da Cristo. Sulla croce e su questo
gruppo si fonda la nuova unità del genere umano, che Cristo
deve realizzare secondo la promessa messianica.
In questa scena che rappresenta la Chiesa nascente si
trovano incastonate le parole rivolte a Maria, che suggeriscono
13 Gv 19, 25-27
14 Gv 19, 25
15 Gv 12, 32
150

16 Pages 151-160

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16.1 Page 151

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p un simbolo da decifrare, un mistero da svelare, ch e il rac-
conto di un gesto filiale .
11 gesto è al centro di quegli atti ultimi e suprem i che la
memoria cristiana della morte di Gesù si è preoccupata di
tramandare.. Lo precede l'accenno alla tunica "senza cucitura,
tessuta tutta di un pezzo" 16 che i soldati non dividono in
parti, che è il simbolo dell'umanità ricomposta, del popolo di
Dio definitivamente riunito per la grazia di Cristo. Ed è segui-
ta dall'espressione con la quale Gesù dichiara il compimento
del disegno del Padre. "Disse: compiuto" Abbassò il capo e
morì" 17.
Sotto questa luce Giovanni riporta il dialogo tra Gesù,
Maria e il discepolo .
Gesù si rivolge in primo luogo a Maria. Abbiamo l'im-
pressione, ed è proprio così, che non Maria venga affidata a
Giovanni, ma questi venga dato a lei come figlio.
Maria non viene chiamata col suo nome, ma sempre col-
l'appellativo di "sua madre". Ciò ricorda da vicino l'episodio di
Cana, del quale lo stesso Giovanni dice che in esso "Gesù
manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in Lui" 18• Cana
era la rivelazione iniziale della gloria del Messia, che ha il suo
punto più alto nella morte.
Fa pure pensare l'appellativo di "donna", che ci riporta
allo stesso episodio, simbolo delle nuove nozze di Dio con
l'umanità. E, più indietro nella storia, fa pensare alla donna
della creazione, della tentazione e della sentenza di Dio: Eva.
Siamo ad un nuovo inizio dell'umanità.
Del discepolo, d'altra parte, non viene mai detto il nome.
Rappresenta ogni seguace di Gesù, l'insieme dei discepoli, la
comunità dei suoi fedeli, che si caratterizzano perché sono
amici di Cristo, da lui amati, a lui fedeli.
16 Gv 19, 23
17 Gv 19, 28
18 Gv 2, 11
. 151

16.2 Page 152

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Siamo dunque nel momento non di un prowedimento di
famiglia, ma di un affidamento solenne e sacro, di un testa-
mento, di un punto di partenza.
Gesù chiama Maria a una nuova maternità che ha ong1-
ne dalla croce e per la croce diventa feconda. È una nuova
capacità di far nascere uomini dallo Spirito. Maria sarà Madre
di Cristo, non solo per averlo accolto nel suo seno, ma per-
ché, identificandosi dappertutto e totalmente con la comunità
che nasce dalla croce, lo concepirà continuamente nella storia
in milioni di persone lungo i secoli. È un'altra annunciazione;
per noi una rappresentazione dell'Ausiliatrice.
Maria raffigura la Chiesa universale e anche le singole
comunità locali. Tutte nascono ai piedi della croce, sono
chiamate a goderne le ricchezze significate dall'acqua e dal san-
gue e a renderne testimonianza con l'ardente fedeltà di quel
primo nucleo.
·
Per questo, la comunità dei discepoli prende Maria con
sé. Da allora è presente dovunque ci sia la comunità cristiana:
visibilmente per la venerazione ed i segni di devozione dei
credenti; più profondamente per la sua intercessione che
sempre segni nuovi e imprevedibili. È la compagnia che anche
noi sentiamo nelle nostre comunità e nelle nostre imprese.
Essa ci ricorda il valore dell'offerta di sé a Dio nella ca-
rità pastorale. Gli atteggiamenti e i gesti di Cristo, che sovente
ricordiamo come esemplari (accoglienza, ascolto, appoggio, illu-
minazione, misericordia), hanno nella croce il loro corona-
mento, la loro spiegazione, il loro prezzo.
Il Pastore, che Giovanni presenta al capo 10, è quello
che dà la vita. Se ciò venisse ignorato, la carità pastorale di-
venterebbe tecnica di approccio, pubbliche relazioni, forma di
beneficenza piuttosto che di salvezza.
Maria, incorporata interiormente per le parole di Gesù a
questa offerta, ci educa al senso della ~isteriosa fecondità del-
l'amore.
Anche per lei tutto ha compimento e tutto si rivela in
questo momento. La sua preoccupazione di far crescere il Fi-
glio di Dio prende un'altra dimensione rispetto a quella che
aveva a Nazaret e durante la vita terrestre del suo Figlio: passa
152

16.3 Page 153

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da Gesù alla Chiesa, q uella sto rica e co ncreta, fatta d i uo mini
e vicende: da lla fecond ità umana a quella de ll a grazia. Acce t-
tarlo fu una prova per la sua fed e, quasi un sa lto di qua lità .
Lo è anche per noi.
Maria ai piedi della croce ci ricorda la salvezza di cui vo-
gliamo essere segni e portatori: è quella che proviene dalla Re-
denzione di Cristo, che apre a Dio per ricevere da lui il com-
pimento della propria esistenza. Molte iniziative mettiamo in
atto in favore dei giovani e degli adulti. Tutte orientate verso
quell'una e principale, tutte lievitate da quell'una espressa nel
nostro motto "Da mihi animas": la salvezza in Dio, quella che
è al centro dell'opera di Gesù.
Con Maria, accanto alla croce, scopriamo quali sono le
energie per la trasformazione che Dio vuole operare in noi e
nelle nostre comunità: l'acqua e il sangue; la Riconciliazione e
l'Eucaristia. La liturgia che viviamo, è tutta improntata alla pe-
dagogia sacramentale. Le pagine evangeliche e gli itinerari litur-
gici propongono in mille modi questa pedagogia.
Maria, ai piedi della croce, ci rivela il valore della comu-
nità, nella quale si realizzerà il nostro servizio, di quella comu-
nità che è presente al sacrificio di Cristo in forma singolare e
diversa dagli altri spettatori. È portatrice della memoria e sola
ne capisce il senso . È più che un "gruppo". È lo spazio dove
Dio rivela la salvezza.
Lo pensiamo delle comunità educative che animiamo,
della Famiglia, del Movimento Salesiano, delle chiese. Ne cu-
riamo il riferimento a Cristo, l'unità nell'amore e nell'azione.
Con esse invochiamo e attendiamo lo Spirito, ci ren-
diamo attenti ai suoi segni e "partiamo" verso l'oltre.
6. Nel Cenacolo: la comunità con la forza dello Spirito
Il gruppetto che raffigurava la Chiesa accanto alla Croce
viene presentato in Atti cap. 1, al ritorno dal luogo dell'Ascen-
sione a Gerusalemme 19.
19 At 1, 14
153

16.4 Page 154

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Gerusalemme è il luogo degli awenimenti della salvezza, il
luogo dove ha il suo compimento la missione terrena di
Gesù20, il punto di partenza della missione universale degli
Apostoli21.
La comunità del Risorto si raduna al completo nel Ce-
nacolo, il luogo dove è stata proclamata e sigillata la nuova al-
leanza, dove la antica Cena Pasquale è stata riempita del suo
significato definitivo, dove è stata istituita l'Eucaristia, dove
Gesù è apparso diverse volte ai dodici insieme. È tutta
un'immagine della Chiesa!
C'è nel testo una successione stringata e rapida di accen-
ni agli awenimenti principali della vita di Gesù: la passione, le
apparizioni, i discorsi sul Regno, la promessa dello Spirito,
l'ascensione, l'annuncio dell'ultima venuta: ricordati dai discepo-
li, ma non ancora totalmente compresi nella loro portata sto-
rica.
In questo contesto, di una comunità radunata al com-
pleto, con un patrimonio di verità e con una missione affida-
ta, Luca annota: "Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera,
insieme con alcune donne e con Maria la Madre di Gesù e con i fratelli di
lui". 22
È l'unica volta che Maria viene nominata nel "periodo
postpasquale". Ed è pure l'ultima di tutto il Nuovo Testa-
mento. Si tratta di un accenno brevissimo e fugace .
Maria non sembra protagonista della scena! Prima di lei
vengono elencate "alcune donne". Sono quelle medesime che
Luca ha nominato nel racconto della crocifissione, la sepoltura,
la scoperta della tomba vuota, le apparizioni.
Tra queste donne però, Maria la Madre di Gesù, non
viene mai inclusa ne nominata. Impressiona che ora, presen-
tando ordinatamente e in forma completa la comunità del Ri-
sorto metta nella lista singolarmente col nome e il titolo la
Madre di Gesù.
20 cf. Le 24, 33
21 cf. At 1,8-12
22 At.l,14
154

16.5 Page 155

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Abbi amo qui un o di quei p;-issaggi che ervo no [ er fore
un rapido riassunto sulla vita della comunità. Infatti c'è qui,
co me negli altri brani simi li, l' accenn o alla co nco rd ia, ;-i l r;-idu-
narsi, alla preghiera. Non si tratta dunque soltanto di una no-
tiziola storica, congeniale alla narrazione, ma di una riflessione
teologica.
Le donne insieme agli Apostoli nel Cenacolo sono il se-
gno di una novità inaudita nel contesto giudeo e rappresenta-
no il capovolgimento che il passaggio di Gesù aveva già opera-
to: una comunità senza discriminazioni né separazioni per ge-
nere, condizione o razza. Quello che sostanzialmente conta e
unisce è l'essere stati oggetto della predilezione di Gesù e te-
stimoni confessanti della sua vita.
La menzione delle donne sottolinea il fatto e l'importanza
della presenza nella comunità di testimoni diretti e appassionati
della morte, sepoltura e Risurrezione di Gesù, dei quali pro-
prio queste donne erano state prime messaggere.
Concentriamo adesso lo sguardo su Maria, che è colloca-
ta dopo le donne, come in una categoria diversa, tutta sua. Il
testo esprime in primo luogo una convinzione di fede: dove
c'è la Chiesa, la comunità di Cristo, c'è sempre Maria e vice-
versa, come nella concezione e nella nascita del Messia, come
nelle prime rivelazioni (ai pastori e ai magi, a Zaccaria e Si-
meone, nel tempio e a Cana), come nel momento dell'offerta
totale.
È un'indicazione per la nostra vita personale, che ha in-
flusso determinante sul nostro agire pastorale. Nelle chiese e
comumta che noi formiamo e animiamo ci dev'essere Lei, con
un posto distinto, come compagnia, memoria, specchio e ispi-
razione.
La menzione di Maria poi è collocata sulla linea della te-
stimonianza diretta. Lei conosce, è stata parte attiva nei fatti
più nascosti e misteriosi, meno conosciuti, che sono alla radice
storica di quelli più visibili e meravigliosi che il gruppo ha vi-
sto: l'incarnazione, la nascita, la crescita a Nazaret, l'inizio della
vita pubblica. Lei è stata con Gesù per "per tutto il tempo in
155

16.6 Page 156

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cui egli è vissuto in mezzo a noi"23 , come si esigerà da Mattia,
scelto come sostituto di Giuda.
L'immagine di Maria che Luca sviluppa qui è la medesi-
ma che aveva tracciato nel suo Vangelo. Lei non faceva parte
visibile del gruppo formatosi attorno al Messia, neppure era tra
le donne che lo seguivano. Eppure era la perfetta discepola
spirituale, unica nella sua categoria, nella quale emergono la
disponibilità totale alla volontà di Dio e la fiducia negli inter-
venti di Dio per adempiere quello che ha promesso.
In tal senso Maria è come una roccia, un ancoraggio di
speranza nel tempo di attesa. I discepoli si sentono orfani della
presenza visibile di Gesù. Sono inviati ad una missione nel
mondo della quale hanno un'idea vaga: non sanno in che cosa
consiste, quali siano le vie più adeguate; non hanno esperienza
della sua forza nascosta.
Questa non è la condizione soltanto della prima comuni-
cristiana. Tutte le comunità, fino alle nostre e la stessa
chiesa universale sperimentano queste impressioni ed esitazioni.
La presenza di Maria dà senso all'attesa, la riempie di fiducia,
ne fa una serena esperienza spirituale che è stata proprio la
sua: attendere il tempo della maturazione senza decadimenti né
cedimenti.
Ma intanto, nell'attesa, la comunità dei discepoli, guidata
dall'autorità che Gesù aveva designato, si completa e si dispone
per la missione, scegliendo il membro mancante, alla luce della
volontà di Dio. Fa discernimento, si purifica da interessi per-
sonali e spirito di parte. Si apre sinceramente ai segni.
Inoltre persevera nella preghiera insieme. Le due parole
sono importanti: preghiera, insieme. Quest'ultima esprime il
proposito di mantenere l'unione, spirituale e visibile, della co-
munità in momenti di attesa, di dubbio, di incertezza. Se i
nostri tempi di attesa fossero come questi sarebbero sempre fe-
condi. E noi siamo permanentemente in attesa !
Da ultimo la comunità con Maria si dispone a ricevere
lo Spirito e di fatto lo riceve. Diventa così feconda e capace
23 Atl,21
156

16.7 Page 157

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di generare Gesù nei popoli. Maria aveva l'esperienza de ll o
Spirito e de ll a sua fecond ità perché era stata la prima ad esse-
re riempita d a esso e a da re alla luce il Figli o di D io nella
storia umana. Ella è garanzia e salvaguardia per riconoscere e
interpretare autenticamente l'azione dello Spirito nell'umanità.
Con la forza dello Spirito la Chiesa è chiamata a continuare
l'incarnazione di Cristo, a rendere concreto il suo amore per
l'uomo in molteplici forme, a rinnovare la sua capacità di ser-
vizio.
Il senso femminile e materno di Maria non consentirà
che le verità della fede diventino formulazioni astratte, ma le
tradurrà in gesti concreti di salvezza, di trasformazione delle
condizioni di vita, di amore a Dio, di riforma dei costumi.
Cosi pure lei, senza status particolare, ricorda agli apostoli
che il "privilegio" di ricevere lo Spirito non è per collocarsi
."sopra" gli altri o "fuori" della comune condizione, ma per
mescolarsi, condividere, lievitare, servire.
Don Bosco ci ha insegnato a sentire questa presenza.
L'ha awertita prima lui stesso e l'ha confessata nella sua vita e
opera. Ma l'ha data anche come ricordo ,ai missionari: "Fate
conoscere Maria e vedrete dei miracoli"24. E la consegna anche
per noi, nel nostro cammino spirituale, nel nostro impegno
pastorale, nel nostro compito di animazione comunitaria.
24 cf. MB XI, 395
157

16.8 Page 158

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16.9 Page 159

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Indice
* Una nota
pag. 5
1. Introduzione: gli esercizi spirituali
7
2. Chiamati ad essere buoni servitori di Cristo
16
3. Don Bosco: ispirazione, modello e manuale
della nostra spiritualità
29
4. Professione di vita secondo lo Spirito
51
5 . La spiritualità salesiana nel quotidiano
69
6. La spiritualità salesiana nella prassi pastorale:
il sistema preventivo
89
7. La comunità: scuola e segno della spiritualità
salesiana
1O5
8. La spiritualità salesiana nell'esercizio dell'autorità:
la paternità
12 2
9. Icone mariane della spiritualità salesiana
13 5
* Indice
159
159

16.10 Page 160

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17 Pages 161-170

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17.1 Page 161

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17.2 Page 162

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Edizione extracommerciale
Marzo 2000