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Don Bosco - Vita de' sommi pontefici S. Aniceto, S. Sotero, S. Eleutero, S. Vittore e S. Zeffirino
VITA DE' SOMMI PONTEFICI S. ANICETO, S. SOTERO, S.
ELEUTERO, S. VITTORE E S. ZEFIRINO.
F
TORINO
TIP. DI G. B. PARAVIA E COMP.
1857. {1 [205]} {2 [206]}
INDEX
Capo I. Breve digressione............................................................................................................2
Capo II.Elezione di s. Aniceto. Concorso di Eretici a Roma.......................................................2
Capo III. S. Egisippo a Roma. Santità della religione cristiana...................................................3
Capo IV. S. Policarpo e s. Aniceto. Eresia di Montano...............................................................4
Capo V. Pestilenza.- Guerra contro ai Marcomanui. Si rinnova la persecuzione. Martirio di s
Felicita e de' suoi sette figliuoli...................................................................................................5
Capo VI. Decreti di s. Aniceto. Sue ordinazioni. Suo Martirio. Sue reliquie..............................6
Capo VII. Patria di s. Soterò. Sua elezione al pontificato. Sua beneficenza a tutte le chiese
della cristianità.............................................................................................................................7
Capo VIII. Il digiuno nella Santa Messa. - Le donne non tocchino i vasi sacri, nè offrano
incenso. - La comunione del Giovedì Santo. - La benedizione sacerdotale, e il consenso dei
parenti nel Matrimonio................................................................................................................8
Capo IX. La legione fulminante. - Rinnovamento della persecuzione. - Martirio di s. Fotino e
di s. Sotero. - Morte di Marco Aurelio........................................................................................8
Capo X. L'eresia di Marco. La confessione dei peccati...............................................................9
Capo XI. Elezione di s. Eleutero. Lettera dei martiri di Lione al Papa s. Ireneoa Roma..........10
Capo XII. Fine di Marcione e di altri eretici. Decreto di s. Eleutero ai vescovi delle Gallie....11
Capo XIII. S. Eleutero manda Missionari in Inghilterra. - Conversione di que' popoli alla fede.
- Ultime azioni di Eleutero e sua morte. - Misera fine di Commodo........................................12
Capo XIV. Prevaricazione di Tertulliano. - Pontificato di s. Vittore I. - Eresia di Tedoro
coriario e di Teodoro argentiere.................................................................................................13
Capo XV. Questione della Pasqua. Diversi concilii di Vescovi per tale questione...................14
Capo XVI. Atti del Concilio di Gerusalemme. Concilio Romano............................................14
Capo XVII. Il Battesimo solenne a Pasqua. - I catecumeni. - Benedizione del fonte
battesimale. - L'astinenza delle carni nel venerdì......................................................................16
Capo XVIII. Persecuzione di Severo. Ultime fatiche di s. Vittore. Suo martirio......................17
Capo XIX. Elezione miracolosa di s. Zefirino. Combatte i Teodoziani. Ravvedimento di
Natale, confessore......................................................................................................................18
Capo XX. La persecuzione è mitigata per la morte di Severo. Conversione di Cecilio............19
Capo XXI. La comunione pasquale. - Il calice nella Santa Messa. - La sacra ordinazione. -
Giudizio sui vescovi. - Assoluzione dei penitenti......................................................................19
Capo XXII. Martirio di s. Perpetua e di s. Felicita....................................................................21
Capo XXIII. Interrogatorio, condanna e supplizio dei Santi Martiri.........................................22
Indice.........................................................................................................................................24
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Capo I. Breve digressione.
Vi ricorderete, o lettori, di una misteriosa visione, con cui Iddio faceva conoscere le cose
future al Re Nabucodonosor. Apparve a quel monarca una statua di straordinaria grossezza e di
materia così robusta che sembrava dover durare per tutti i secoli. Ma mentre attonito stava
rimirando la statua maravigliosa ecco un piccolo sasso che staccatosi da un monte l'andò a
percuotere ne' piedi e la ridusse in polvere. Dipoi quel sassolino sui frantumi di quella statua
crebbe tanto che coprì tutta la terra.
Quella grande statua rappresentava le quattro più potenti monarchie del mondo; cioè
quella de' Persiani, degli Assiri, dei Greci, e specialmente il Romano impero. {3 [207]} Il
sassolino figurava la santa Religione di Gesù Cristo, che sotto umili sembianze portata dal Ciclo
in terra per mezzo del nostro divin Salvatore, fu per opera di s. Pietro dalla Palestina portata a
Roma. Questa Religione doveva abbattere ogni umana potenza, dilatarsi per tutto il mondo,
piantare la sua sede sul trono de' Cesari e durare in eterno. Noi abbiamo veduto quelle potenti
monarchie scomparire dalla faccia del mondo, senza che nemmeno più rimanga traccia di ciò che
furono. E la Chiesa? La Chiesa sussiste sempre pura e gloriosa; sempre trionfante del ferro, del
fuoco, della violenza e dell'eresia; sempre santa ed intemerata quale fu fondata da Gesù Cristo;
sempre governata da un capo stabilito da Dio a farne le veci sopra la terra. Noi abbiamo la serie
non interrotta di questi capi della Chiesa dal regnante Pio IX fino a s. Pietro, cui fu detto da Gesù
Cristo: «tu sei Pietro e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non la
potranno mai vincere». (Matt. c. 16). {4 [208]}
Capo II.Elezione di s. Aniceto. Concorso di Eretici a Roma.
Il Pontefice, di cui ora intraprendiamo a narrare le gesta, è s. Aniceto, che è il duodecimo
nella serie de' Papi. Questo nome significa invincibile, quasi che Iddio volesse col nome stesso
significare la fortezza ed il coraggio che egli avrebbe nel governo della Chiesa. Egli era nato in
Siria nella piccola città di Umisia. Suo padre chiamavasi Giovanni. La sua esemplare pietà e il
suo raro ingegno lo segnalarono fra' suoi compagni, e lo fecero conoscere dal proprio vescovo.
Quel santo Prelato vedendo Aniceto adorno delle virtù necessarie ad un pio, dotto e prudente
ministro del santuario, lo ordinò prete. La storia non ci dice in qual tempo e per qual motivo egli
siasi recato a Roma, ma si crede che abbia intrapreso quel viaggio per eseguire alcuni ordini del
suo vescovo presso la Santa Sede, ed anche per sostenere la fede in tante guise combattuta dagli
eretici accorsi in gran numero nella capitale della cristianità. {5 [209]} Per avere un mezzo onde
instruirsi vie più nelle scienze sacre e mettersi in un luogo sicuro dai pericoli del mondo egli si
ascrisse fra gli alunni del clero Romano, che era una specie di seminario esistente in Roma fin
dai tempi degli Apostoli. Ivi i giovani ecclesiastici erano coltivati nella scienza e nella pietà,
affinchè forti nella fede fossero disposti ad affrontare ogni sorta di pericoli per la fede. (V.
Aldeino in s. Aniceto).
S. Aniceto era in Roma quando s. Pio I riportò la palma del martirio. La Santa Sede
rimase vacante soli tredici giorni, dopo cui fu eletto Papa il nostro Santo, il 25 di luglio l'anno
167, essendo di circa settant' anni. La Chiesa aveva veramente bisogno di un Pontefice che alla
pietà e dottrina accoppiasse maturità di senno, fermezza e coraggio, qualità, che tutte univansi in
s. Aniceto, siccome il medesimo suo nome viene a significare, perciocchè Aniceto, come già
dissi, vuol dire invincibile.
L'eresiarca Valentino, venuto a Roma sotto al Pontificato di s. Igino, faceva tuttora grandi
sforzi per dilatare la sua eresia. Di più una misera donna, detta Marcellina, {6 [210]} della setta
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de' Gnostici, d'accordo con Valentino erasi pure di recente portata a Roma per sedurre coi vizii
quelli che non potevano sedursi coll'errore.
Marcione, che pure aveva cominciato a seminare i suoi errori sotto il pontificato di s. Pio
I, studiava eziandio di turbare la Chiesa già in tante guise combattuta. Tertulliano, che viveva a
que' tempi, nota di Marcione e di Valentino alcune particolarità, che sembrano degne della storia.
Dice egli adunque: «Questi due eretici, Marcione e Valentino, persuasi che se avessero potuto far
credere alle genti che essi erano uniti alla Chiesa Romana, sarebbero stati favorevolmente accolti
da tutte le chiese del mondo, studiarono di guadagnar l'animo del Pontefice. Simulando di essere
pentiti dei loro fatti, e facendo mille promesse di ravvedimento furono accolti fra i cristiani della
Chiesa Romana. Ma lasciando di poi trapelare la loro finzione furono una e più volle separati
dalla Chiesa e scomunicati. Marcione per dare un segno esterno di attaccamento alla Chiesa
Cattolica fece una oblazione di dugento sesterzi, che corrispondono circa a venticinque mila
franchi. Ma il pontefice di nome Eleutero, di cui {7 [211]} presto avremo a parlare, giunse a
scoprire che Marcione aveva fatto tale offerta con animo perverso al pari di Simon Mago, laonde
lo cacciò di nuovo dalla communione de' fedeli, restituendogli tutto il suo danaro». (Così Fert.
de præser. - cap. 30).
Contro agli eretici e contro ad altri vizii dominanti si levo con tutta forza s. Aniceto, e col
suo zelo infaticabile riuscì ad allontanare le dottrine contagiose dal suo gregge. Cosi Roma fu in
tutti i tempi centro della verità e della fede non meno che dell' unità. Questa è la testimonianza
che della Chiesa Romana fa s. Egisippo, il quale venne a Roma sotto il pontificato di s. Aniceto.
Capo III. S. Egisippo a Roma. Santità della religione cristiana.
Sant'Egisippo è il primo scrittore di storia ecclesiastica. Egli era nato ebreo; ma
conosciuta per tempo la santità della religione cristiana l'abbracciò con ardore e la praticò
costantemente. Più tardi fu insignito dell' ordine sacerdotale, e divenne {8 [212]} acerrimo
difensore del Vangelo. I suoi scritti erano specialmente diretti contro agli errori dei gentili e dei
pagani. A fine di instruirli bene nella dottrina del Salvatore egli fece diversi viaggi nelle
provincie del Romano Impero, e conferi cogli uomini più insigni per pietà e scienza, i quali
avevano conversato cogli Apostoli. Dopo aver trattato con molti vescovi della Cristianità si recò
a Roma ove dimorò parecchi anni, cioè dal principio del pontificato di s. Aniceto sino a quello di
s. Eleutero, che comprende lo spazio di circa vent'anni.
San Girolamo, facendo parola di s. Egisippo, si esprime cosi: «Questo Santo (Egisippo)
quasi contemporaneo agli Apostoli, scrisse la storia della Chiesa dalla morte del Salvatore sino a'
suoi tempi.
Questa storia è composta di cinque libri e contiene cose utili all'istruzione dei fedeli. Il
suo dire è semplice e pieno di unzione quale si conviene ad un Santo che scrive la vita dei Santi.
Egli è venuto a Roma sotto al pontificato di s. Aniceto e perseverò fino a quello di s. Eleutero,
che allora era diacono di Aniceto». (De scrip. Eccl. c. 22).
Eusebio di Cesarea accenna il motivo che {9 [213]} indusse s. Egisippo ad intraprendere
il suo lavoro, e dice cosi: «Egisippo scrisse la storia della Chiesa dalla passione del Signore fino
a' suoi tempi.
Questa Chiesa erasi fino a' suoi tempi conservata come una vergine che vive nella
solitudine, cioè intatta, incorrotta, sebbene non mancasse chi tentasse di spargere il veleno in
mezzo alla predicazione del Vangelo. Ma dopochè gli Apostoli terminarono la loro vita, sorse
una turba di falsi dottori che colla malizia, colla frode e colla empietà, quasichè la Chiesa fosse
senza capo, si adoperarono per depravare la dottrina di Gesù Cristo. Ma la Chiesa Cattolica che
sola è vera e sempre simile a se stessa, prendeva ogni giorno nuovo incremento. Ella univa in sè
la verità, la libertà, la gravità, la sincerità, la modestia e la santità di vita quale si conviene ad una
filosofia divina. In que' tempi la verità ebbe gloriosi difensori, che non solamente colla voce, ma
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anche cogli scritti combatterono contro alle empie eresie. Tra essi fu celebre Egisippo».
(Eusebio, lib. 4).
Il medesimo Egisippo scrive di aver visitato molte chiese mentre veniva a Roma. «Io
passai a Corinto, egli dice, e vidi che {10 [214]} quella Chiesa si manteneva salda nella fede
quale fu predicata dal suo vescovo. Io mi trattenni con esso parecchi giorni provando grande
consolazione, specchiandomi nel fervore de' cristiani e nella viva fede di quel santo pastore.
Essendo poi giunto a Roma dimorai presso al pontefice Aniceto, di cui Eleutero era diacono.
Dopo la morte di Aniceto succedette Sotero, cui succedette Eleutero. Ho poi grandemente
ammirato l'uniformità di fede e di dottrina che si mantiene in tutte le chiese. Nelle successioni
dei vescovi e per tutte le città si osservano scrupolosamente quelle cose che furono dai Profeti e
dal Signore predicate». Rincresce però grandemente che gli scritti di s. Egisippo siansi in gran
parte smarriti. Gli scrittori antichi però ce ne hanno conservato parecchi brani preziosi, che ci
fanno conoscere Egisippo come un modello di santità e di dottrina nella Chiesa di G. C.
Capo IV. S. Policarpo e s. Aniceto. Eresia di Montano.
S. Policarpo, vescovo di Smirne, discepolo di s. Giovanni Evangelista, essendo {11
[215]} stato informato degli assalti che l'eresia dava alla fede, venne a Roma sotto al pontificato
di s. Aniceto. La venuta a Roma di questo santo prelato fu molto opportuna, poichè avendo egli
conversato cogli Apostoli godeva grande stima e grande autorità presso a tutti. Perciò, come dice
s. Ireneo, molti di quelli che erano stati sedotti da Marcione e da Valentino furono da s.
Policarpo ricondotti alla Chiesa di G. Cristo. Il principale motivo che aveva indotto questo
vescovo a recarsi a Roma fu la questione sulla celebrazione della Pasqua. Ecco con quali
espressioni Eusebio di Cesarea racconta questa venuta di s. Policarpo.
«Mentre governava la Santa Sede Aniceto venne a Roma s. Policarpo. Esso conferi con
Aniceto intorno a più cose che riguardavano al bene della Chiesa; e le loro controversie furono
tutte terminate in pace e carità. Vennero anche a trattare della Pasqua, e non potendo andare
d'accordo, il Pontefice tollerò che tale disciplina fosse ancora nell'Asia praticata come
praticavano gli Ebrei venuti alla fede». (Eusebio lib. 4).
È bene di notare che fin dal tempo degli Apostoli solevasi celebrare la Pasqua nella
domenica che segue il plenilunio di {12 [216]} marzo, e che tale istituzione fu confermata con
un decreto di Papa Pio I. Ma non era stato definito come verità di fede; perciò il Papa poteva pel
bene della pace permettere a s. Policarpo e ad altri vescovi dell'Asia che giudaizzassero; cioè
celebrassero la Pasqua nel plenilunio di marzo siccome chiedevano e dimostravano di voler
osservare alcuni vescovi, alcuni sacerdoti e molti fedeli dalla religione giudaica venuti al
Vangelo.
Le relazioni di s. Policarpo con s. Aniceto furono tutte pacifiche, e il Pontefice volle dare
un segno di stima alla grande virtù, santità e dottrina di lui, permettendogli di celebrare
pontificalmente alla sua presenza e di amministrare ai fedeli la Santa Eucaristia.
Il pontificato di s. Aniceto è pure notevole per l'eresia di Montano, che cominciò a
manifestarsi mentre esso governava la Santa Chiesa. Montano era di Mizia, città della Frigia.
Nato ed educato nella religione cristiana egli desiderava ardentemente di essere fatto vescovo;
ma per la sua mala condotta essendogli negata tale dignità, si ribellò al proprio vescovo e diedesi
a predicare mille nefandità contro {13 [217]} alla fede. Le sue stranezze giunsero a tanto che
(come ci assicura la storia) si vendette al demonio, da cui fu realmente invaso. Gli si unirono due
donne dissolute e indemoniate al pari di lui, chiamata Prisca l'una, Massimilla l'altra.
Quando nascono questioni intorno a cose di religione, la Chiesa suole radunare i Vescovi
ed altri più illustri ecclesiastici, per conoscere la verità e proporla con maggior chiarezza ai
semplici cristiani. Cosi per meglio scoprire e confutare gli errori di Montano fu convocata
nell'Asia un'assemblea di Vescovi e di ecclesiastici, i quali dopo maturo esame condannarono
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Montano ed i suoi seguaci, e tutti li separarono dalla communione dei fedeli. Allora l'astuto
eretico si portò a Roma colle sue due profetesse e riuscì a sedurre varii incauti cristiani; anzi fu
abbastanza ardito di presentarsi al medesimo Santo Aniceto per farsi aggregare al clero Romano.
Ma il vigilante Pontefice ne conobbe presto la ipocrisia e lo scomunicò, siccome avevano fatto i
vescovi dell'Asia.
Allora Montano e le sue profetesse si abbandonarono a mille iniquità, e cedendo al
maligno spirito che li guidava si strangolarono colle proprie mani. I seguaci di {14 [218]}
Montano dal nome dell'autore furono detti Montanisti, nè i loro errori finirono colla morte di lui,
ma durarono ancora molti anni.
Capo V. Pestilenza.- Guerra contro ai Marcomanui. Si rinnova la
persecuzione. Martirio di s Felicita e de' suoi sette figliuoli.
Sebbene l'imperatore Marco Aurelio non fosse dichiarato nemico de' cristiani, tuttavia il
pazzo amore che portava alle sue divinità gli servì più volte di motivo per opprimerli. Due fatti
inoltre diedero pretesto alla persecuzione. Il primo è una micidiale pestilenza che fece strage in
tutto il Romano impero e specialmente in Roma. I sacerdoti idolatri interrogarono i loro Dei sulla
cagione di quelle calamità e ne ebbero o finsero di avere questa risposta: Tali calamità
avvengono perchè i nostri Dei non sono col dovuto decoro onorati, e finchè tutti i cristiani non
offriranno incenso agli Dei per la prosperita dell'impero, non cesseranno i flagelli. {15 [219]}
L' altro fatto che servi di pretesto alla persecuzione, è una guerra contro i Marcomanni
che sono antichi popoli della Germania, ora detti Moravi e Boemi. Questi popoli feroci
incutevano spavento in tutto il Romano impero. L'imperatore per avere propizie le sue divinità,
ne chiamò i sacerdoti da tutte le parti, dando ordine che si facessero i più solenni sacrifizi per
avere tutti gli Dei propizii in quella guerra tremenda.
I cristiani furono eziandio invitati a prendere parte a quei sacrifizi profani; al che
rifiutandosi eglino costantemente, si venne ad una aperta persecuzione contro di loro. Così la
quarta persecuzione eccitata da Marco Aurelio e cominciata nell'anno cento sessant'uno di Gesù
Cristo, la quale erasi già assai mitigata, fu riaccesa nel 174 e procurò a molti fedeli la palma del
martirio.
Uno dei più famosi martirii accaduti sotto questa persecuzione fu quello di s. Felicita e
de' sette suoi figliuoli. Felicita, vero modello delle madri cristiane, apparteneva ad una delle
prime famiglie di Roma. Perduto il marito, deliberò di occuparsi unicamente della santificazione
di sè e della sua famiglia. Col quale modo di vivere {16 [220]} quanto più edificava i cristiani,
altrettanto più irritava i pagani. Essa fu accusata e condotta davanti al prefetto della città, di
nome Pubblio, il quale adoperò ogni arte per farla prevaricare. «Lo spirito di Dio, la Santa
rispondeva, mi rende superiore ad ogni arte di seduzione, e finchè avrò vita, non mi potrai
vincere; che se tu mi togli la vita, la mia vittoria sarà ancora più gloriosa morendo.»
Il giorno appresso il prefetto comparve sul suo tribunale, e fattosi condurre innanzi
Felicita co' suoi figliuoli, disse alla madre: «Se a te poco importa la vita, abbi almeno pietà di
questi teneri tuoi figli» A cui ella tosto rispose: «La pietà che mi chiedi sarebbe dannosissima
crudeltà.» Indi volgendo la parola a' suoi figli, loro additando il cielo: «Guardate lassù, loro
disse, là vi aspetta Gesù Cristo co' suoi Santi, che a voi hanno aperta la strada. Mostratevi grati
verso di un sì magnifico rimuneratore, e combattete con coraggio degno del premio che vi è
promesso.»
Il prefetto la fece schiaffeggiare in castigo della sua temerità; poi fece chiamare i suoi
sette figli, e avendo tutti con eroica fermezza confessata la fede di Gesù Cristo, {17 [221]}
furono l'un dopo l'altro fatti morire nei tormenti. La madre assistette al supplizio de' suoi
figliuoli, incoraggiandoli a perseverare nella fede. In ultimo fu a lei medesima troncata la testa,
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mischiando cosi il proprio sangue con quello de' suoi figli in terra per andarli a raggiungere
colassù in Cielo.
Capo VI. Decreti di s. Aniceto. Sue ordinazioni. Suo Martirio. Sue
reliquie.
In mezzo agli assalti e alle burrasche da cui era gagliardamente scossa la navicella di
Gesù Cristo, s. Aniceto governò la Chiesa colla sollecitudine degna del capo della cristianità.
Oltre la vigilanza contro gli eretici e lo zelo con cui si adoperava per convertire i gentili al
Vangelo e per conservare nella fede quelli che avevano creduto, egli si occupò a stabilire molte
cose riguardanti al clero; perchè sapeva che la buona condotta degli ecclesiastici era un mezzo
{18 [222]} potentissimo per combattere l'errore. Fece un decreto nel quale conferma quello che
s. Paolo aveva raccomandato e che s. Anacleto aveva decretato, ne clericus comam nutriret (I.
Cor. 11), vale a dire che gli ecclesiastici non portassero i capelli lunghi e li coltivassero a modo
de' secolari. Ordinò nel tempo stesso che eglino portassero la corona ovvero la tonsura clericale.
S. Gregorio, vescovo di Tours, dice che la tonsura fu istituita da s. Pietro in memoria
della corona di spine del Salvatore.
Sono pure attribuiti a s. Aniceto altri decreti riguardanti ai vescovi, le quali cose per lo
più erano già praticate da' suoi antecessori. Ordinò che un sacro ministro dovesse essere
consacrato vescovo da tre altri vescovi per decoro della funzione che suole chiamarsi la pienezza
del sacro ordine. Volle pure che nascendo questioni fra vescovi, la causa non fosse portata
presso ai tribunali secolari, ma fosse deferita al primate de' vescovi, oppure alla Santa Sede;
perchè niuno devesi reputare più capace e più adattato a giudicare di tali cose quanto il primate e
la Santa Sede governata dal vicario di Gesù Cristo. {19 [223]}
S. Aniceto a fine di provvedere la chiesa di buoni ministri tenne egli stesso cinque volte
la sacra ordinazione nel mese di dicembre, in cui consacrò diciassette preti, quattro diaconi, nove
vescovi che mandò in varii luoghi della cristianità. Questo santo Pontefice da gran tempo
sospirava la palma del martirio. Il suo zelo per conservare in tutta la sua purezza il sacro deposito
della fede e dilatarla per tutto il mondo rendevalo degno di questo insigne favore. Fu coronato
del martirio e gli fu troncata la testa colla spada poco dopo s. Felicita, nella medesima
persecuzione di Marco Aurelio il 17 aprile l'anno 175 dopo aver governata la chiesa otto anni
otto mesi e ventitrè giorni. Fra i diaconi da lui ordinati vi fu s. Antero che dopo san Sotero gli
succedette nel pontificato. Questo affezionato discepolo vedendo morto il suo amato maestro e
pastore, si adoperò per dargli sepoltura e lo portò in una tomba che più tardi fu detta cimitero di
s. Callisto, così detto da un pontefice di questo nome, che in quelle tombe fece eseguire varii
magnifici lavori, di cui noi avremo più volte occasione di parlare.
Il capo di s. Aniceto l'anno mille cinquecento {20 [224]} novanta fu dal Papa concesso
all'arcivescovo di Monaco che lo portò in quella città ove è onorato con singolare divozione.
L'anno mille seicento quattro Papa Clemente VIII fece togliere tutti i corpi santi che
erano nel cimitero di s. Callisto per farli collocare in un sepolcro più onorevole e più conveniente
alla santità di quelle preziose reliquie. Il duca Daltemps avendo ottenuto dal Papa il corpo di s.
Aniceto gli fece fabbricare in Roma una sontuosa cappella, dove in superba tomba conservasi il
venerato deposito. Lo stesso Duca scrisse la vita di s. Aniceto e la fece stampare in latino ed in
italiano. Fra le molte cose egli ha le seguenti parole che formano un bello elogio di questo santo
Pontefice. «Se la perfetta intelligenza della scrittura, egli dice, se l'innocenza e la santità della
vita, se la gloria del martirio, come tutto il mondo lo confessa, considerate separatamente,
bastano per rendere un uomo grande ed immortale, che si deve pensare del merito e della gloria
di s. Aniceto, in cui tutte queste gloriose qualità si trovano unite?» {21 [225]}
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Capo VII. Patria di s. Soterò. Sua elezione al pontificato. Sua
beneficenza a tutte le chiese della cristianità.
In una parte del regno di Napoli, anticamente detta Campania, oggidì Terra di lavoro,
avvi una città detta Fondi: questa città fu la patria di s. Soterò, nome veramente glorioso e che
pare essergli stato imposto affine di pronunziare il bene che avrebbe fatto nella chiesa;
perciocchè Sotero è parola greca che significa Salvatore. Egli è il decimoquarto nella serie de'
sommi pontefici. Suo padre chiamavasi Concordio; la sua nascita avvenne sul principio di questo
secondo secolo della Chiesa. I suoi genitori erano cristiani, e si diedero tutta la cura per insinuare
nel tenero cuore del loro figliuolo i principii di scienza, pietà e timor di Dio. Andato a Roma per
fare i suoi studi si aggregò fra i chierici regolari. Il lungo soggiorno che egli fece in questa specie
di seminario, contribuì non poco a renderlo famoso per scienza e virtù, cosicchè eziandio prima
del Pontificato {22 [226]} consideravasi come santo, ed era ascoltato come un oracolo. Egli fu
ordinato sacerdote dal pontefice s. Pio I, e durante una parte del pontificato di questo Papa, e in
tutto quello di s. Aniceto, san Sotero lavorò con zelo infaticabile pel bene della Chiesa. (Vedi
Ciaconio in s. Sotero).
Dopo il martirio di s. Aniceto egli fu eletto a succedergli nel governo della Chiesa. La
qual cosa avveniva il giorno quattro di maggio l'anno cento settanta cinque mentre Marco
Aurelio da tredici anni reggeva il romano impero.
La suprema dignità non servì che a dare un nuovo lustro alla sua eminente virtù, e a far
risplendere quel carattere di carità e beneficenza che in ogni tempo ha sempre reso celebre la
Chiesa Romana. La persecuzione che continuava ad infierire contro ai cristiani somministrò
vasto campo alla sollecitudine del Pontefice. Sotero impiegò tutta la sua vigilanza nello scoprire i
bisogni spirituali e temporali dei fedeli. E perchè i suoi mezzi non erano proporzionati ai gravi
bisogni, egli ad esempio degli Apostoli si adoperò per raccogliere limosine e mandarle alle
chiese di diverse città, siccome avevano fatto i {23 [227]} suoi antecessori. Accompagnava le
limosine con istruzioni molto salutari esortando i cristiani a restar costanti nella fede, uniti tra
loro coi vescovi e coi sacerdoti che li governavano, e ad essere pronti a soffrire tutti i mali per la
gloria di Gesù Cristo che li attendeva in Cielo.
Mentre la sua carità provvedeva ai bisogni dei fedeli lontani, non trascurava coloro che
pativano nella vicinanza di Roma. Le persecuzioni costringevano il Pontefice a stare in certa
maniera sepolto nelle catacombe; tuttavia anche da que' sepolcri vigilava sui bisogni dei fedeli,
riceveva suppliche dai vescovi, loro rispondeva, condannava le eresie, fulminava scomuniche, e
col solo mostrarsi da sotto terra atterriva gli eresiarchi e facevasi rispettare dai medesimi
persecutori. (V. Bernini sec. II).
Benchè la carità di s. Sotero non escludesse il bisogno di alcuno, pare tuttavia che si
stendesse di preferenza a coloro che pativano per la causa di G. C. o nelle prigioni o nelle
miniere dove si trovavano sovente abbandonati e privi di ogni umano soccorso. Ciò apparisce
particolarmente dalla lettera che s. Dionigi vescovo di Corinto scrisse ai Romani. «Egli fu
sempre vostro {24 [228]} costume, egli scrive, di far sentire la vostra beneficenza ai vostri
fratelli, che sono in paesi lontani, e che patiscono la miseria. Qua voi soccorrete i poveri ne' loro
urgenti bisogni; là prestate assistenza a coloro che si affaticano nelle miniere; per tutto voi
rinnovate la generosa carità de' vostri antenati, assistendo coloro che soffrono per Gesù Cristo. Il
vostro beato vescovo Sotero non si è contentato di seguire gli esempi de' suoi antecessori, egli ha
ancora superata la loro carità. Non solo egli ebbe cura di cercar limosine e mandarle ai fedeli che
soffrono; ma ha ricevuto con paterna tenerezza tutti que' nostri fratelli che sono andati da lui.
Egli li ha consolati colle sue parole, li ha animati col suo esempio, soccorsi colle sue grandi
liberalità.» Fin qui la lettera di s. Dionigi. (V. Bar. anno 175).
La grande beneficenza che in ogni tempo il Sommo Pontefice ha esercitata verso i
cristiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi, l'hanno costantemente fatto chiamare anche per questo
titolo padre universale dei fedeli. E nel corso di questa storia noi vedremo come i Papi furono
ognora i più {25 [229]} grandi benefattori non solo de' cattolici, ma dei medesimi eretici ed
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anche degli infedeli. Anzi talora furono veduti insigni personaggi, principi e re, i quali, rovesciati
dalla fortuna nella miseria, andarono nella capitale della cristianità a trovar conforto e soccorso
presso il Pontefice di Roma.
Capo VIII. Il digiuno nella Santa Messa. - Le donne non tocchino i
vasi sacri, nè offrano incenso. - La comunione del Giovedì Santo. - La
benedizione sacerdotale, e il consenso dei parenti nel Matrimonio.
Alla grande beneficenza che s. Sotero esercitava, univa una grande erudizione e la più
attenta sollecitudine per la osservanza della disciplina ecclesiastica. Egli stabili che niuno dopo
aver bevuto o gustato cosa alcuna celebrasse la Santa Messa. Tale cosa praticavasi già prima, ma
solamente per rispetto e venerazione verso questo Augusto Sacramento, e non per comando della
Chiesa. Questo digiuno venne dipoi fatto obbligatorio per tutti i fedeli cristiani {26 [230]} ogni
qual volta si accostano alla Santa Comunione.
Confermò eziandio il decreto di s. Anacleto, con cui raccomandò che almeno due si
trovassero in chiesa quando il sacerdote celebra la Santa Messa; affinchè dicendo il sacerdote:
Dominus vobiscum, e orate fratres, possano avere il loro vero senso ed applicarsi a più persone,
come significano le parole medesime, che vogliono dire: il Signore sia con voi; pregate, fratelli.
Rinnovò pure il decreto già fatto dai suoi antecessori, che le sacre Vergini, cioè le
Diaconesse, che ora noi diciamo Monache, non toccassero i vasi sacri, nè offerissero incenso
nelle funzioni di chiesa. Questo decreto fu specialmente fatto contro all'eretico Montano, il quale
permetteva che le donne facessero le sacre funzioni nel modo medesimo che le compiono i sacri
ministri.
Si attribuisce pure al medesimo Pontefice un uso già osservato nella Chiesa fin dal tempo
degli Apostoli, e che egli pose in iscritto. Con questo egli stabilisce che tutti i cristiani nella cena
del Signore, cioè nel Giovedì Santo, si accostino tutti a ricevere la Santa Eucaristia, ad eccezione
di {27 [231]} quelli che per grave peccato ne fossero proibiti. Tale usanza è ancora praticata ai
nostri giorni, imperciocchè in tal giorno i più fervorosi cristiani si danno esemplare sollecitudine
per fare la Comunione Pasquale nel Giovedì Santo, che è il giorno, in cui il nostro Divin
Salvatore institui questo gran Sacramento. Gli ecclesiastici poi continuano ad esservi astretti per
precetto.
S. Sotero diede pure alcune utili disposizioni pel sacramento del Matrimonio. Sant'
Evaristo aveva già decretato che gli sposi dovessero ricevere la benedizione del sacerdote prima
della celebrazione del Matrimonio. S. Sotero stabilì che vi dovesse intervenire la benedizione del
sacerdote e il consenso dei parenti dello sposo e della sposa, affinchè fosse meglio rispettata la
santità di questo Sacramento, e si evitassero certi disordini che pur troppo potrebbero avvenire,
qualora il Matrimonio venisse capricciosamente celebrato all'insaputa dei parenti. (Vedi Burius
in s. Sotero). {28 [232]}
Capo IX. La legione fulminante. - Rinnovamento della persecuzione. -
Martirio di s. Fotino e di s. Sotero. - Morte di Marco Aurelio.
Mentre con zelo veramente apostolico s. Sotero lavorava per combattere l'eresia,
conservare la fede fra i fedeli e consolidare la disciplina ecclesiastica, Dio operò un miracolo che
fece prendere i cristiani in molto benigna considerazione dall'imperatore Marco Aurelio. Questo
principe guerreggiava contro ad alcuni popoli barbari, che lo avvilupparono fra le aride
montagne della Boemia. Il suo esercito trovavasi come bloccato, ed un'arsura orrìbile metteva
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ognuno a pericolo di perire di sete. Fortunatamente in quell'esercito trovavansi molti cristiani.
Essi instruiti dal Vangelo, che ci dice nei grandi pericoli doversi riccorrere a Dio coll'orazione, si
misero a pregare in faccia al medesimo nemico, che li motteggiava. Anzi i nemici vedendoli in
quell'atteggiamento divoto e fatti come immobili, giudicarono quello momento propizio per
appiccare la battaglia. Ma ben presto cangiarono {29 [233]} sentimento, perciocchè copertosi di
nuvole il cielo, un'abbondante pioggia cadde a fianco dei romani, mentre una grandine terribile e
ripetuti colpi di fulmine uccisero e dispersero interamente i battaglioni dei barbari. I Romani che
erano sul punto di cadere per la grande arsura che li divorava, quasi per rendere grazie al Signore
del favore ricevuto, alzarono la testa all'insù, ed accoglievano l'acqua colla bocca. Questo fatto è
raccontato da tutti gli scrittori contemporanei cristiani e gentili. (V. Capitolino, Dione,
Tertulleto).
L' imperatore riconobbe questo favore dalle preghiere dei cristiani, e in memoria di
questo prodigio fu fatta in Roma una iscrizione in basso rilievo nella colonna Antonina, che
conservasi ancora oggidì. Inoltre scrisse una lettera al senato in cui partecipava tale avvenimento,
e nel tempo stesso proibì con tutta severità di perseguitare i cristiani. Ma quell'imperatore
dimenticò in breve il grande favore che aveva dai cristiani ricevuto.
Alcuni anni dopo, la persecuzione si riaccese, e molti cristiani subirono il martirio. Fra
costoro è celebre il martirio di s. Fotino, vescovo di Lione. Egli era stato mandato {30 [234]}
dalla S. Sede con altri ecclesiastici a predicare il Vangelo nelle Gallie, e governava da
quarant’anni la sede di quella città come vescovo. Il suo zelo ed i progressi che faceva la parola
di Dio gli trassero adosso la gelosia e l'odio degli idolatri. Approfittando essi del tempo di
persecuzione, sfogarono tutta la loro rabbia contro al venerando pastore, che allora era in età di
circa novant' anni. Sebbene ammalato e sfinito di forze, lo costrinsero ad andare al tribunale del
prefetto. Dopo aver sostenuto con eroica fermezza un rigoroso interrogatorio, riportò un glorioso
martirio.
S. Solero riportò anch'egli la palma del martirio in questa persecuzione. Per provvedere ai
diversi bisogni della Chiesa, egli tenne tre ordinazioni nel mese di dicembre, in cui ordinò 18
sacerdoti, nove diaconi, undici vescovi, che mandò in varii paesi della cristianità. Il suo martirio
avvenne il 22 aprile l'anno 179, dopo di aver governata la Chiesa quattro anni meno dodici
giorni. Fu sepolto nel cimiterio di s. Callisto, vicino al corpo di s. Aniceto suo antecessore. (V.
Baronio, anno 179).
Il Papa Sergio II trasferì il corpo di questo Pontefice dal cimitero di s. Callisto {31 [235]}
in una chiesa dedicata a s. Silvestro, dove si venera tuttora con gran divozione.
L'imperatore Marco Aurelio sopravvisse poco alla morte di s. Sotero. Ne' suoi ultimi anni
egli provava i più gravi rimorsi pel sangue innocente che aveva fatto spargere tra i proprii
sudditi. Ritornava da una gran vittoria riportata sui Marcomanni, ma in mezzo a' suoi trionfi fu
assalito da una malattia che in breve lo tolse di vita. Provò dolorosissimi strazii senza aver mai
voluto ricevere alcun rimedio. Si dice comunemente che Commodo, suo figlio, lo abbia
avvelenato per poter presto egli medesimo salire sul trono. La morte di lui avvenne nell'anno
180, di sua età 59.
Capo X. L'eresia di Marco. La confessione dei peccati.
Fra i più famosi seguaci dell'eretico Valentino fu l'eretico Marco, uomo astutissimo nato
per ingannare i semplici cristiani e far del male alla religione. Tra le altre cose vantavasi di avere
con sè la potenza di Dio e potere liberamente dare agli altri il dono di far miracoli, comunicare lo
Spirito {32 [236]} Santo e di conoscere l'avvenire. Poichè egli teneva una vita apparentemente
austera e divota, si guadagnò la stima di molti, i quali lusingati dalle sue promesse si lasciarono
trascinare a cose le più vergognose. Molti gli furono fedeli seguaci, e lo imitarono nell'empietà e
ne' vizii, e finirono infelicissimamente. Ma per nostra consolazione sappiamo che molti avendo
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conosciuto il male in cui erano caduti, rinunciarono all' empietà di Marco, e ritornarono alla
Chiesa Cattolica. Ecco quello che dice s. Ireneo a questo proposito: «Quell'impostore, egli dice,
tento di sedurre alcune donne molto rinomate per pietà e timor di Dio. Egli proponeva loro i suoi
incantesimi comandando che profetizzassero in suo nome. Ma elleno sapevano che il dono di
profezia Viene da Dio e non dal mago Marco, epperciò si separarono immediatamente da lui.
Altre molte che erano state ingannate da quell'impostore ritornarono alla Chiesa di Gesù Cristo,
confessarono i loro peccati con cuore pieno di rincrescimento per essere state ingannate. Il
medesimo Marco riusci ad ingannare una donna molto avvenente; ma alcuni fedeli cristiani {33
[237]} poterono guadagnarla di nuovo al Signore, e quella, fedele alla grazia di Dio, fece la
confessione de' suoi peccati, e in tutto il tempo della sua vita non cessava di confessare le sue
colpe piangendo e lamentando il male che aveva fatto per inganno di quel mago.» (Vedi s.
Irenio, lib. 1, c. 8).
È questo uno de' molti fatti che noi abbiamo della Chiesa primitiva intorno alla
sacramentale confessione. Essa fu istituita da nostro Signor Gesù Cristo allorchè diede agli
Apostoli la facoltà di rimettere i peccati (S. Gio. XX). Fu parimente praticata ai tempi degli
Apostoli come appare dalla moltitudine di fedeli Efesini che venivano in folla a gettarsi ai piedi
dei sacri ministri confitentes ci annuntiantes actus suos, confessando e dichiarando le loro colpe.
(Atti degli Apostoli XIX).
Capo XI. Elezione di s. Eleutero. Lettera dei martiri di Lione al Papa
s. Ireneoa Roma.
In mezzo alle molte persecuzioni che la Chiesa di Gesù Cristo patì ne' tre primi {34
[238]} secoli, abbiamo il pontificato di s. Eleutero che fu di oltre quindici anni, e che passò quasi
immune dallo spargimento di sangue cristiano. Questo Pontefice era nato in Nicopoli, città della
Grecia (oggidì Prenesa) situata sopra un promontorio detto Azio. Suo padre chiamavasi
Abbondio. Venuto a Roma per coltivare lo studio e la pietà, fu consacrato prete da s. Pio I e da
lui medesimo aggregato al clero Romano. Durante il pontificato di s. Aniceto e di s. Sotero
prestò importantissimi servigi alla Chiesa. Undici giorni dopo il martino di s. Sotero fu eletto a
succedergli e intraprese il governo della Chiesa il giorno tre di maggio l'anno 179, ultimo dell'
imperatore Marco Aurelio.
Sul principio del suo pontificato ricevette una lettera scritta a luì dai martiri di Lione
mentre erano nelle catene. È questo un uso antichissimo della Chiesa, cioè di rendere partecipe il
Romano Pontefice delle azioni gloriose de' martiri. Così avevano fatto i martiri di Vienna
quando mandarono s. Attalo a Pio I portando lettere in cui erano descritti i trionfi riportati in
quella città dai confessori della fede. Affinchè la loro lettera fosse di maggiore {35 [239]}
aggradimento al Sommo Pontefice i martiri di Lione la mandarono per mano di un dotto e pio
sacerdote di nome Ireneo, discepolo di s. Policarpo e di s. Papia. Questi santi prelati lo avevano
mandato a predicare il Vangelo nelle Gallie, e specialmente in aiuto di s. Frotino. Noi abbiamo
descritto a parte le azioni di s. Policarpo e di s. Ireneo; qui riferiamo solamente quelle cose che
hanno relazione col Romano Pontefice.
La lettera adunque mandata dai martiri e portata da s. Ireneo comincia col pregare il Papa
di volersi adoperare per dar la pace alle chiese che in que' tempi erano messe sossopra da
Montano e da' suoi seguaci. Perciocchè era proprio del Supremo Pastore della Chiesa il far
conoscere l'errore che si andava spargendo nel gregge dei fedeli, affinchè fosse conosciuta la
verità, e ognuno potesse con sicurezza seguirla.
La lettera continua col raccomandare al Santo Padre s. Ireneo come sacerdote adorno di
rare virtù. Le loro parole sono queste: «Noi desideriamo che Tu, o Beatissimo Padre Eleutero,
goda sempre ottima salute in ogni cosa nel Signore, e {36 [240]} ti preghiamo di ricevere Ireneo
con quella cortesia e benevolenza che si merita un uomo che ha sofferto cose incredibili per la
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fede di Gesù Cristo. Che se sapessimo che il posto apporta giustizia a chi lo occupa, noi te lo
avremmo principalmente raccomandato qual prete della Chiesa, che tale è appunto il suo grado.»
Da questa sì calda raccomandazione che gli ecclesiastici e fedeli di Lione fanno di Ireneo al
Papa, noi abbiamo motivo di conchiudere che passato a miglior vita s. Frotino, loro vescovo, essi
desiderassero s. Ireneo per suo successore nell'episcopato, e lo mandassero a Roma pregando
Papa Eleutero ad approvare la loro elezione ed a consacrare egli stesso il nuovo vescovo. S.
Ireneo dimorò qualche tempo a Roma anche per consultare il Sommo Pontefice intorno a più
cose che riguardavano alcuni punti di dottrina malamente spiegati dagli eretici. Nè tale dimora fu
infruttuosa; imperciocchè prima dell'arrivo di questo Santo, il Pontefice aveva deposto due preti
della Chiesa Romana, di nome Biasio e Florino, i quali erano caduti nell' eresia di Simon Mago,
che insegnava una dottrina, la quale faceva Iddio autore del male. S. Ireneo {37 [241]} ebbe agio
di abboccarsi con quei due infelici e si adoperò in tutte le maniere per condurli a migliori
sentimenti. Ritornato di poi a Lione, scrisse una lettera in forma di libro, in cui confutando i loro
errori dimostra che Iddio, fonte di ogni santità, non può mai essere autore del male, secondo le
parole della Scrittura: non Deus volens iniquitatem tu es. Non sei un Dio che ami l'iniquità.
(Salmo V).
Capo XII. Fine di Marcione e di altri eretici. Decreto di s. Eleutero ai
vescovi delle Gallie.
La Chiesa trionfava in mezzo agli idolatri, ma l'eresia si levava più audace che mai.
L'eretico Marcione viveva ancora in Roma. Ora pentito, ora confuso, ora fingeva di ravvedersi,
ora ricadeva. Era invecchiato e la sua vita aveva passato parte da cattolico, parte da eretico e
parte da scomunicato, finchè Eleutero lo rigettò definitivamente dalla comunione de' fedeli, con
sentenza che non sarebbe stato mai più accolto nella Chiesa, se non avesse ricondotto a
pentimento quei Romani che {38 [242]} aveva pervertito. Dopo qualche tempo Marcione finse
di voler ritornare alla Chiesa e domandando perdono fece pubblica exomologesi, cioè pubblica
confessione de' suoi misfatti. Ma invece di portare al Pontefice anime convertite, portò seco in
Chiesa una grossa somma di danaro, che corrisponde circa a venticinque mila lire, che (siccome
abbiamo accennato nella vita di s. Aniceto) presentò ad Eleutero in pena del suo peccato. Il santo
Pontefice, vero seguace di s. Pietro, ricusò il danaro e lo allontanò da sè dicendo: io voglio
anime e non ricchezze. La proposta di Marcione se provenisse da vero pentimento o da solita
finzione, la morte che subito dopo lo colpì ne riserbò il giudizio a Colui, ai quali son noti i
segreti del cuore. Dalla medesima scomunica furono colpiti Valentino e Cerdone, i quali finirono
anche miseramente la loro vita. (V. Bernino, sec. 2).
Rimanevano ancora in Roma i seguaci di molti eretici. Quelli di Montano, che avevano
introdotto il superstizioso costume di tre quaresime; que' di Marcione, che rigettavano l'uso de'
cibi animali, e un altro eretico di nome Taziano, che proibiva l'uso del vino. S. Eleutero sciolse
ogni {39 [243]} dubbio rinnovando la condanna già fulminata da s. Aniceto, e definì che nessun
cibo si rifiutasse dai fedeli perchè tutti erano buoni o creati da Dio per soccorrere l'uomo e por
servirgli di delizia. Tal decreto fatto in forma di lettera fu specialmente diretto alle chiese di
Francia, che avevano mandato a Roma s. Ireneo per consultare la Santa Sede sopra i dubbii
mentovati. (V. Bernina, luogo cit.).
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Don Bosco - Vita de' sommi pontefici S. Aniceto, S. Sotero, S. Eleutero, S. Vittore e S. Zeffirino
Capo XIII. S. Eleutero manda Missionari in Inghilterra. - Conversione
di que' popoli alla fede. - Ultime azioni di Eleutero e sua morte. -
Misera fine di Commodo.
Durante il pontificato di s. Eleutero la Chiesa di Gesù Cristo godette vera pace sotto il
regno di Commodo. Questo imperatore sebbene fosse avverso ai cristiani, tuttavia si occupò di
altre cose riguardanti a' suoi stati senza mischiarsi in cose di religione. Per questo la religione
cristiana potè dilatarsi e portare i suoi benefici influssi ne' più lontani paesi. {40 [244]}
L' Anglia ovvero l' Inghilterra, o Gran Bretagna, ritornò in questo tempo alla fede. Si
crede comunemente che quel regno, che è un'isola vastissima del grande Oceano, abbia ricevuto i
primi semi del cristianesimo da Giuseppe d'Arimatea, ivi andato a predicare con alcuni
compagni. Ma la superstizione de' pagani e le lunghe guerre avevano fatto quasi interamente
dimenticare la fede di Gesù Cristo. Un re di quella nazione, di nome Lucio, maravigliato della
condotta che tenevano certi cristiani, che erano andati in quel regno, e richiamando alla memoria
quello che, i suoi antecessori avevano detto o lasciato scritto sulla Cattolica religione, risolse di
farsi anch' egli cristiano. A tale oggetto scrisse una lettera a s. Eleutero, pregandolo di volergli
mandare alcuni missionarii, che venissero a fare cristiani e sè ed i suoi sudditi. Mandò la lettera
per mano di due suoi dotti e pii personaggi di nome Elvano e Mediano. Il Sommo Pontefice
accolse con bontà gli inviati inglesi, e spedi con esso loro due preti della Chiesa Romana molto
rinomati per scienza e virtù, di nome Fugezio e Damiano.
I sacri ministri furono accolti dal Re {41 [245]} con trasporto di gioia, e benedicendo
Iddio le loro fatiche instruirono il Re, la Regina, la loro famiglia e i sudditi nella fede, e in breve
quasi tutti gli abitanti di quell'isola ricevettero il Battesimo. (V. Gildas ed il Ven. Beda. Hist.
Cal.).
Quando i santi missionarii entrarono in Inghilterra trovarono che la religione degli
idolatri era amministrata da ventotto Flamini, ovvero Pontefici degli idoli, ed alla testa di essi
eranvi tre Arciflamini, ossia tre capi dei Flamini. In luogo di costoro furono stabiliti ventotto
Vescovi, e in luogo degli Arciflamini, tre Arcivescovi. In simile guisa i templi prima dedicati
agli Dei dei gentili furono consacrati a Gesù Cristo, e cogli ornamenti e suppellettili profani
furono adobbati gli altari delle Chiese Cristiane. Così per opera e sollecitudine del Pontefice s.
Eleutero e per lo zelo de' suoi legati apostolici Fugozio e Damiano ed altri, che in appresso
mandò loro in aiuto, tutto il grande regno dell'Inghilterra si sottopose al soave giogo di Cristo e
divenne cattolico. Cosicchè Tertulliano, che viveva a quei tempi, ci lasciò scritto che molti
luoghi di quell'isola fino allora inaccessibili alle armi dei Romani vennero alla fede. Fra le altre
{42 [246]} cose è degno di annotazione quanto avvenne ad Elvano, inviato da Lucio a Roma.
Egli fu instruito nella fede e nelle scienze sacre, e quando S. Sotero lo vide adorno delle
necessarie virtù, lo ordinò prete, di poi vescovo; e questi fu il primo vescovo di Londra, e la
Chiesa lo venera come santo.
S. Eleutero non sopravvisse molto alla conversione dell'Inghilterra. Egli era in età di circa
94 anni, che aveva tutti impiegati nel promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime
lavorando indefessamente pel bene della Chiesa universale. Non si sa precisamente se egli abbia
terminato la sua vita fra i tormenti de' persecutori, oppure sia stato martire di carità e di fatiche.
Quello che è certo si è che le fatiche ed i patimenti sostenuti per la fede l' hanno fatto annoverare
fra i martiri, cioè fra quelli che diedero la loro vita per la fede.
Il libro pontificale conchiude la vita di questo Pontefice colle seguenti parole: «Questi, s.
Eleutero, tenne tre volte la sacra ordinazione nel mese di dicembre, in cui consacrò dodici
sacerdoti, otto diaconi, quindici vescovi chemandò in diversi luoghi. Egli fu sepolto sul monte
Vaticano vicino {43 [247]} al corpo di s. Pietro. La sua morte avvenne al 26 di maggio l' anno
194 dopo avere tenuta la Santa Sede 15 anni 23 giorni.»
L'ultimo giorno di quest'anno morì eziandio l' imperator Commodo. Sebbene questo
principe non abbia pubblicato alcun editto di persecuzione, tuttavia vi furono molti martiri. Egli
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Don Bosco - Vita de' sommi pontefici S. Aniceto, S. Sotero, S. Eleutero, S. Vittore e S. Zeffirino
pretendeva di essere divenuto Dio e come tale voleva essere adorato. Ma le persone dotte che
sapevano a quali vizii erasi dato in preda, ben lungi di riconoscerlo come Dio, gli
rimproveravano la pessima sua condotta, e questa fu la cagione che molti furono condannati a
morte. Ma in una sentenza di morte avendo eziandio compreso alcuni compagni de' suoi vizii,
questi se ne accorsero e lo fecero strangolare da un gladiatore. In simile guisa l' empietà cadde
sul capo di chi la esercitava, lasciando un terribile esempio di non abusare della nostra autorità,
di procurarci buoni amici e buoni compagni per fare il bene e fuggire il male. {44 [248]}
Capo XIV. Prevaricazione di Tertulliano. - Pontificato di s. Vittore I. -
Eresia di Tedoro coriario e di Teodoro argentiere.
Noi intraprendiamo un pontificato di 10 anni veramente celebre pei molti personaggi che
in questo tratto di tempo fiorirono. La sola Africa, che è una delle tre parti del mondo conosciuto
dagli antichi, diede i natali a tre uomini assai celebri, ma per ragioni assai diverse. Il primo, s.
Vittore, Pontefice grande per santità; il secondo, Severo, celebre imperatore per aver perseguitato
i Cristiani; il terzo, Tertulliano, illustre per ingegno, ma che macchiò il fine di sua vita coll'
apostasia. S. Vittore, primo di questo nome, era Africano, suo padre chiamavasi Felice. Egli fu
eletto a succedere a s. Eleutero nella Sede Apostolica l'anno 194 il giorno primo di giugno, che
in quell'anno correva in sabato. Il pontificato di questo gran Papa fu specialmente agitato da tre
cose: dagli eretici, dalla questione della Pasqua e dalla persecuzione che l'imperatore Severo {45
[249]} suscitò contro ai Cristiani. Sul principio del pontificato di s. Vittore portossi a Roma
Tertulliano, uomo di grande ingegno, e già conosciuto pe' suoi scritt ripieni di profonda dottrina.
Ma fosse che s. Vittore non gli accordasse il vescovado di Cartagine, siccome egli ardentemente
desiderava, o fosse perchè il Romano Pontefice condannasse l' eresia di Montano a cui egli
cominciava fin d'allora ad aderire, fatto sta che egli partì di Roma con animo esacerbato, e
ritornato in patria si pose a scrivere contro al Romano Pontefice perchè non lo aveva secondato
ne' suoi ambiziosi disegni. Tremiamo a questa caduta di Tertulliano, e persuadiamoci che non è
la dottrina che faccia i Santi, ma è l'umiltà, è la sommessione ai nostri legittimi superiori, e
specialmente al Vicario di G. C. Tertulliano, perchè privo di queste due virtù, divenne eretico e
morì senza dar segno di ravvedimento.
Altro eretico fu Teodoto, di professione coriario ovvero conciatore di pelli, nato nella
città di Bisanzio, che fu di poi detta Costantinopoli. Sebbene applicato nelle fatiche dell'arte sua,
era tuttavia molto istruito nelle sacre dottrine. Nella persecuzione di {46 [250]} Marco Aurelio
essendo anch'egli stato accusato come cristiano, si offerì arditamene pronto a soffrire il martirio;
ma l'infelice Teodoto non si sentì animo di sostenere coi fatti quanto diceva con parole, e
rinnegando la fede perde la corona del martirio, di cui furono cinti i suoi compagni. Per fuggire
l'obbrobrio in cui era caduto presso a' suoi patriotti venne a Roma, persuaso di vivere colà
sconosciuto. Ma l'ignominia accompagna sempre il suo autore. Riconosciuto dai Romani era
ovunque evitato e niuno voleva partecipare con lui in cose sacre. Un abisso conduce ad un altro
abisso, e Teodoto dopo aver rinnegata la fede si pose ad insegnare l'eresia dicendo, che Gesù
Cristo non era Dio. Il che era lo stesso come negare il Vangelo e tutte insieme le verità della
fede.
A questo eresiarca si unì un altro eziandio di nome Teodoto, di professione argentiere.
Come ben vedi, o lettore, due artigiani, uno coriario, argentiere l'altro, avrebbero dovuto aver
pochi seguaci, pure la novità attrae sempre gl'incauti e gl'ignoranti, epperciò i seguaci dei due
Teodoti furono molti, e dal nome de' loro autori vennero detti Teodoziani. {47 [251]}
S. Vittore volse tutte le sue sollecitudini contro ai mentovati eretici, e appoggiato alle
sacre scritture e alla tradizione condannò 1' eresia, scomunicò gli autori della medesima,
dichiarando che non avrebbero più appartenuto alla Chiesa di Gesù Cristo tutti quelli che
avessero seguito gli errori di quegli infelici ingannati. In questa guisa la Chiesa cattolica
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trionfava dell'eresia e faceva vedere al mondo tutto la verità di quelle parole dette da Gesù Cristo
a s. Pietro, e in esso a tutti i suoi successori: «Ho pregato per te, o Pietro, affinchè non venga
meno la tua fede». (V. Eusebio, lib. 5. Tert., de præscript.).
Capo XV. Questione della Pasqua. Diversi concilii di Vescovi per tale
questione.
Un affare grande e strepitoso occupò l'animo sì del Pontefice, sì dei vescovi, e mise in
movimento tutto il cristianesimo. Fu questo la questione della Pasqua. Abbiamo osservato nella
vita di s. Pio I come egli abbia stabilito che la Pasqua si dovesse celebrare la domenica seguente
al plenilunio della {48 [252]} luna di marzo. Tutti i vescovi del cristianesimo si sottomisero a
tale decisione pontificia, solamente alcuni vescovi dell'Asia fecero difficoltà, appoggiati sopra
alcune tradizioni, che dicevano aver ricevute da s. Giovanni Evangelista. Que' vescovi esitavano
a sottomettersi a tale dottrina, principalmente perchè nell' Asia eranvi molti Ebrei convertiti alla
fede, che con pena si risolvevano a certe pratiche dei Cristiani. I Papi o perchè oppressi dalle
persecuzioni, o perchè tale questione forma soltanto un punto di disciplina, da cui i Papi possono
in gravi casi dispensare, fatto sta che si lasciarono trascorrere parecchi anni senza che fosse presa
in seria considerazione. Di modo che, quando s. Policarpo venne a Roma e parlò di tale
osservanza con s. Aniceto, si lasciò la cosa come era prima, cioè fu tollerato che una parte de'
vescovi dell'Asia celebrassero la Pasqua nel decimoquarto giorno della luna di marzo.
Ma le pratiche non regolate dalla Santa Sede per lo più degenerano, e finiscono
coll'errore. Così Montano abusando dell'indulgenza del Romano Pontefice pretendeva di porre
obbligo a tutti i cristiani di celebrare la Pasqua cogli ebrei; e perciò s. Vittore {49 [253]} giudicò
di non più tacere, affinchè il suo silenzio non passasse in consenso, o la permissione venisse
giudicata un precetto. Si accinse pertanto con tutto vigore per venire ad una definitiva risoluzione
del giorno in cui si dovesse celebrare la Pasqua; e perchè tutto il mondo cattolico vi prendesse
parte, volle che tutti i vescovi della cristianità si radunassero in altrettanti sinodi, secondochè
tornava a maggior comodità di ciascheduno. Spedi pertanto ordini ai vescovi per la convocazione
di questi concilii particolari. Alle chiese di Francia prepose s. Ireneo. vescovo di Lione; alle
chiese di Corinto s. Bacchilo; a quelle del Ponto s. Palma; a quelle dell'Asia Minore s. Policrate;
ed altri molti sinodi in numero quasi infinito, aliorum pene infinitum, siccome dice lo storico
Eusebio (V. Eus. lib. 5, c. 2).
Ma con più inculcata rimostranza volle che si tenesse un sinodo in Gerusalemme,
acciocchè 1' affare fosse definito in quello stesso luogo, dove Gesù Cristo aveva preso umana
carne, e donde per mezzo de' suoi Apostoli aveva tramandata la tradizione ai posteri. A tal fine
deputò suoi legati s. Teofilo, vescovo di Cesarea e primate della {50 [254]} Palestina, e s.
Narcisso, vescovo di Gerusalemme con facoltà di convocare il Concilio e presiederlo in nome
del Papa (V. Bernini sec. 2°, cap. 11).
La grande venerazione che tutta l'antichità ebbe agli atti di questo concilio, e la vaghezza
di dottrine ivi contenute ci fanno sperare essere cosa cara al lettore il leggerli qui tradotti, quali
sono riferiti dal venerabile Beda (De æquinocti verni).
Capo XVI. Atti del Concilio di Gerusalemme. Concilio Romano.
Gli atti del concilio di Gerusalemme cominciano così: «Papa Vittore, vescovo di Roma,
diede autorità a Teofilo, vescovo di Cesarea, di convocare un concilio nel luogo medesimo dove
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il Signore, il Salvatore del mondo, aveva dimorato in carne, e questo concilio fosse per stabilire
il modo uniforme, con cui il giorno di Pasqua si debba da tutti i cattolici celebrare.»
«Quando tutti i vescovi e sacerdoti furono radunati, il vescovo Teofilo trasse {51 [255]}
fuori lo scritto con cui il Papa s. Vittore gli dava autorità di convocare il concilio, e presiederlo a
suo nome unitamente con s. Narcisso, vescovo di Gerusalemme, indicando in pari tempo quali
cose ivi dovessero trattarsi.
Allora i vescovi dissero unanimi: se prima non investigheremo come il mondo sia stato
da principio, non possiamo ordinare alcuna osa salutevolmente intorno all'osservanza della
Pasqua. In qual giorno noi crediamo aver Iddio cominciata la creazione del mondo se non in
giorno di domenica?
Teofilo disse: provate quello che avete detto.
I vescovi risposero secondo l'autorità della sacra scrittura: creato da Dio il mattino e la
sera si formò il primo giorno. quindi il secondo, di poi il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e il
settimo, in cui riposò il Signore dalle sue opere; e tal giorno settimo Dio chiamò sabato. Ora se
l'ultimo giorno è il sabato, quale può essere il primo se non il giorno di domenica?
Teofilo disse: va bene: avete provato che il primo giorno della creazione fu domenica; ma
intorno al tempo che dite? {52 [256]} Imperciocchè vi sono quattro tempi dell'anno: primavera,
estate, autunno, inverno. Quale di questi fu fatto il primo? cioè: Iddio creò il mondo in
primavera, in estate, in autunno, in inverno?
I vescovi risposero: certamente Iddio creò il mondo in primavera.
Teofilo disse: provate quello che dite.
I vescovi risposero: Ciò si prova dalla Sacra Scrittura: ivi si legge: la terra germogli e
metta fuori erbe secondo il suo genere e produca alberi fruttiferi secondo il proprio genere.
Gen. 1. Queste cose non avvengono certamente se non in primavera.
Teofilo disse: in qual punto di questo tempo credete che abbia avuto principio il mondo:
nel cominciare la primavera, sulla metà, oppure alla fine?
I vescovi risposero: Noi crediamo che il mondo abbia avuto principio nell'equinozio di
primavera, ai 22 di marzo.
Teofilo soggiunse: provate quello che dite.
I vescovi ripigliarono: Sta scritto: Dio fece la luce, e la luce chiamò giorno. Fece
eziandio le tenebre, e le tenebre chiamò notte, e divise la luce e le tenebre in parti uguali. {53
[257]}
Teofilo disse; Va bene; avete dimostrato in qual giorno e in quale stagione e in qual
punto Iddio abbia cominciata la creazione del mondo; e della luna che ve ne pare? Vi pare che
sia stata creata luna nuova, luna piena, o luna diminuita, cioè luna vecchia?
I vescovi risposero: Noi crediamo che sia stata creata in luna piena.
Teofilo soggiunse: Come lo provate?
I vescovi risposero: Lo proviamo colle parole del sacro testo: fece Iddio due grandi
luminari e, li collocò nel firmamento del cielo, affinchè risplendessero sopra la terra. Il
luminare maggiore che presiedesse al giorno; il luminare minore che presiedesse alla notte.
Perciò non poteva essere altrimenti che luna piena. Ora abbiamo investigato come sia stato fatto
il mondo in principio: cioè in giorno di domenica, in primavera, nell'equinozio ai 22 di marzo, in
luna piena.
Teofilo disse: Ora bisogna deliberare in qual tempo si debba celebrare la Pasqua?
I vescovi risposero: Si potrà forse celebrare tale solennità fuorchè in domenica? giorno
che fu santificato da tante e così grandi benedizioni? {54 [258]}
Teofilo soggiunse: Dite con quante e quali benedizioni sia stato santificato questo giorno,
affinchè possiamo mettere tali cose in iscritto.
I vescovi risposero: La prima benedizione è quella che in tal giorno furono allontanate le
tenebre, e apparve la luce. La seconda benedizione: che in tal giorno il popolo Ebreo fu liberato
dalla schiavitù d'Egitto come dalle tenebre dei peccati, e quasi per un fonte battesimale passò il
mare rosso a piedi asciutti. La terza benedizione, che in tal giorno fu dato agli uomini il cibo
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celeste della manna. La quarta benedizione si è, che Mosè fece questo comando al popolo: il
primo e l’ultimo giorno della settimana siano solennizzati. La quinta benedizione è quella che
accenna David con queste parole riguardanti la risurrezione del Salvatore: Rallegriamoci ed
esultiamo in questo gran giorno che ha fatto il Signore. La sesta benedizione, perchè in domenica
il Divin Salvatore risuscitò da morte. Ecco le ragioni per cui si deve celebrare la Pasqua in
giorno di Domenica». Così scrive il venerabile Beda intorno alla risoluzione presa nel concilio di
Gerusalemme. {55 [259]}
Gli atti di questo concilio furono inviati a Roma per essere sottoposti all'approvazione del
Papa, che provò grande consolazione al rimirare il pieno accordo di quei vescovi colla dottrina
della Chiesa Romana.
Mentre in tutta la cristianità si discuteva la questione della Pasqua, s. Vittore stabilì di
convocare in Roma un sinodo, a cui invito il medesimo Teofilo, primate della Palestina. come
testimonio presente dei vescovi di quella grande cristianità. Eusebio, vescovo di Cesarea,
riferisce il decreto delle chiese di Roma, di Francia, della Palestina, della Grecia, del Ponto e di
altre moltissime, con dire: Tutti di un solo sentimento, con unanime giudizio proferirono la
medesima sentenza intorno alla celebrazione della Pasqua. Cioè fu confermato quanto era stato
decretato da Pio I. e inculcato da s. Aniceto e definito da s. Vittore. La conclusione del concilio
Romano era espressa cosi: Per l'avvenire la Pasqua non sia più celebrata nel giorno decimo
quarto della luna di marzo, ma si dovrà celebrare nella domenica che seguirà il plenilunio della
medesima luna siccome fu insegnato dagli Apostoli. (V. L'abbé Tom., 1 concil.). {56 [260]}
È vero che alcuni vescovi dell'Asia Minore ricusarono di sottomettersi a questo decreto di
s. Vittore, ma il Pontefice fu fermo nel mantenere la tradizione degli Apostoli; e poichè quei
vescovi si mostrarono ostinati, s. Vittore, secondo l'autorità concessagli da Gesù Cristo, usata da
s. Pietro e da s. Paolo, da s. Clemente e da' suoi antecessori, cioè di separare i cristiani pericolosi
dalla società della Chiesa cattolica, non esitò di minacciare la scomunica a tutti quei vescovi. La
qual cosa avrebbe effettuata se s. Iriaco ed altri vescovi non avessero pregato il Papa a
sospendere quella grave pena ecclesiastica, ed esortato i vescovi dell'Asia a rispettare i decreti di
Roma. A poco a poco i vescovi d'Asia si unirono cogli altri di tutta la cristianità, e nel primo
concilio generale convocato in Nicea, l'anno 325, fu confermato quanto s. Vittore aveva definito,
siccome si osserva oggidì in tutta la cristianità. (V. Sandini, Disputatio quinta). {57 [261]}
Capo XVII. Il Battesimo solenne a Pasqua. - I catecumeni. -
Benedizione del fonte battesimale. - L'astinenza delle carni nel
venerdì.
In mezzo a queste gravi questioni che occupavano la Chiesa universale, s. Vittore non
dimenticò le cose che reputava utili alle anime dei fedeli e necessarie alla disciplina della Chiesa
ed all'amministrazione dei Santi Sacramenti. Stabilì più cose riguardanti il Sacramento del
Battesimo. Questo Sacramento fu instituito da N. S. Gesù Cristo con quelle parole: chi non è
rigenerato nell'acqua e nello Spirito Santo, non entrerà nel regno de' cieli. Andate, disse ai suoi
Apostoli, instruite tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito
Santo. Questo Sacramento nel principio della Chiesa si amministrava in ogni tempo dell' anno e
con qualsiasi acqua, purchè fosse acqua naturale, affinchè tutti potessero più facilmente venire in
seno della Chiesa cattolica. Ma cresciuto il numero dei fedeli, per decoro della religione e per
dimostrare la {58 [262]} grandezza di questo Sacramento, fu stabilito da s. Vittore che solamente
a Pasqua ed a Pentecoste, con acqua allora benedetta, fosse amministrato solennemente il
Battesimo. La cagione di questo decreto viene espressa così: «affinchè coloro i quali desiderano
di essere battezzati siano viemeglio instruiti nei misteri della fede. Tali instruzioni si facciano
specialmente nel tempo della quaresima, o se si può in tutto il corso dell' anno, e siano poi
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battezzati nelle solennità mentovate.» Coloro, che desideravano di essere instruiti nella fede
chiamavansi catecumeni oppure sitienti, cioè desiderosi di essere accolti nella Chiesa per mezzo
del Battesimo. Le instruzioni che loro si facevano chiamavansi catechismi, la quale parola vuol
dire instruzione fatta a viva voce intorno alle verità della fede.
La consuetudine di battezzare solamente a Pasqua ed a Pentecoste durò sino ai tempi di
Carlo Magno, quando fu ordinato che il Battesimo fosse conferito in ogni tempo dell'anno per
evitare molti inconvenienti. Tuttavia si ritenne l'antica consuetudine di benedire il fonte
battesimale nel Sabato Santo e nella vigilia di Pentecoste; siccome viene ancora ricordato nella
messa di quei {59 [263]} giorni, in cui s'invoca la misericordia di Dio per quelli che Iddio si
degnò di rigenerare coll’ acqua e collo Spirito Santo, concedendo loro la remissione di tutti i
peccati. Sebbene s. Vittore abbia stabilito che solamente a Pasqua ed a Pentecoste si dovesse
amministrare il Battesimo, nulladimeno eccettuò i casi di necessità in cui è permesso a tutti di
battezzare in qualsiasi tempo dell'anno facendo uso di qualsiasi acqua, purchè sia acqua naturale
e si usi la forma ordinata da Gesù Cristo, che è quella stessa che ha sempre usato ed usa tuttodì la
Chiesa cattolica.
Ai tempi di s. Vittore eravi pure un gran disordine fra i gentili. Costoro in giorno di
venerdì facevano molti giuochi e pranzi, e in queste gozzoviglie commettevano mille nefandità
in onore della dea Venere, a cui tal giorno era consacrato. Il santo Pontefice comandò ai cristiani
che avessero quel giorno come tempo di tutto e di tristezza, e per quanto a ciascuno era possibile,
si osservasse il digiuno in memoria della morte di Gesù Cristo in quel giorno avvenuta.
Presentemente questo digiuno è limitato all'astinenza delle carni; ma tutti i fedeli cristiani sono
dalla Chiesa invitati {60 [264]} a fare in tal giorno qualche opera di penitenza e darsi a qualche
esercizio speciale di cristiana pietà: la pratica più universalmente promulgata si è di recitare in tal
giorno cinque Pater e cinque Ave in onore della passione del Salvatore. In altri luoghi si pratica
la Via Crucis. (V. Burio in s. Vittore).
Capo XVIII. Persecuzione di Severo. Ultime fatiche di s. Vittore. Suo
martirio.
Abbiamo notato come poco dopo la elezione di s. Vittore alla Sede Pontificia moriva
l'imperatore Comodo. A costui succedeva un altro di nome Pertinace, nativo di Alba, in
Piemonte; ma dopo soli ottanta due giorni di ottimo governo fu ucciso dai suoi medesimi soldati,
che contro di lui si ribellarono. Morto Pertinace tenne le redini dell'impero sessantasei giorni
Didio Giuliano. A Giuliano succedeva Severo Africano che governò l'impero diciotto anni. Per
lo spazio di circa sedici anni i cristiani furono lasciati in pace. Che se ci furono martiri, ciò
avvenne per abuso de' magistrati senza {61 [265]} che avessero ordine dall'imperatore. L’anno
in cui cominciò la persecuzione di Severo, che si conta la quinta contro ai cristiani, fu nel 202.
L'origine dì questa persecuzione derivò dal non aver voluto i cristiani prendere parte ad una festa
che egli soleva fare onde rendere grazie agli dei per una grande vittoria. I gentili seppero subito
trarne pretesto per tribolare i cristiani, e portatisi dall'imperatore li accusarono come nemici
dell'impero e avversi alla maestà della sua persona. Ed esso troppo credulo, dando loro ascolto,
ordinò che tutti i cristiani dovessero giurare pel genio dell'imperatore, ed offerire a lui divini
onori. La qual cosa ricusando di fare i cristiani, si venne ad aperta persecuzione. Tertulliano
afferma che le croci, il ferro, il fuoco, l'acqua boliente, le spade, le fiere feroci erano ogni giorno
in opera contro ai cristiani.
In mezzo a tanti mali che agitavano la Chiesa s. Vittore lavorava indefesso per
combattere l'eresia, e sostenere nella fede que' cristiani che ogni giorno erano condotti al
martirio. Finalmente consumato dalle fatiche, dall' età e dalle penitenze di un pontificato di dieci
anni, un mese, ventotto giorni, s. Vittore riportò egli pure la palma {62 [266]} del martìrio.
Questo fatto compievasi in un giorno dai gentili dedicato al sole e dai cristiani chiamato
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domenica, il 28 del mese di luglio nel 203. Egli tenne due volte la sacra ordinazione nel mese di
dicembre, in cui creò quattro preti, sette diaconi, dodici vescovi da spedire in varie provincie. Il
suo corpo fu portato sul monte Vaticano vicino a quello di s. Pietro.
Capo XIX. Elezione miracolosa di s. Zefirino. Combatte i Teodoziani.
Ravvedimento di Natale, confessore
San Zefirino è il decimo sesto nella serie de' Sommi Pontefici: egli era romano; suo padre
si chiamava Abbondio. Egli era eletto a successore di s. Vittore il 2 di agosto dell'anno 203. Si
vuole che la elezione di lui fosse accompagnata da un prodigio avvenuto anche nella elezione di
altri Pontefici. Il prodigio fu che, mentre ognuno pensava chi dovesse eleggersi in quei tempi
infelicissimi, lo Spirito Santo in forma di colomba discese sopra di lui e tosto disparve. Talcosa
fu presa come segno manifesto della {63 [267]} volontà del Signore che lo chiamava al
pontificato. Questo Pontefice in simile guisa scelto da Dio, e dal suo potente aiuto confortato
potè resistere alla persecuzione dell'imperatore Severo, e combattere l'eresia che in mille modi
cercava di insinuarsi nella stessa città di Roma.
Era già stato dal Pontefice s. Vittore scomunicato l'empio Teodolo di Bisanzio, che tra le
altre cose negava la divinità di Gesù Cristo. Ora i suoi seguaci, detti Teodoziani, studiavano
sempre di accrescere il loro partito. Lo zelante pastore Zefirino loro si oppose con tutta la
vigoria, con tutta la forza della sua autorità, di maniera che gli stessi Teodoziani a sua grande
gloria gli rinfacciavano che con troppo ardore sostenesse la divinita di Gesù Cristo. Egli è allo
zelo di questo Pontefice che è dovuta in certa maniera la conversione dell'eretico Natale.
Natale avea già nel cospetto del giudice confessata coraggiosamente la fede cristiana
nella città di Roma; ma in seguito fu di nuovo messo in libertà. Un certo Teodoto, discepolo
dell'altro soprannominato coriario, lo invitò ad accettare la dignità di vescovo e di capo dei
Teodoziani, offrendogli la {64 [268]} somma di cento cinquanta danari ogni mese, che
formavano una sommi assai vistosa. Il misero Natale, che aveva saputo trionfare dei supplizi, si
lasciò vincere dall'interesse, e dall'ambizione. Egli accettò la carica di porsi alla testa di quell'
empia setta. Ma acciocchè non perisse fuori della Chiesa chi era già stato confessore della fede,
più e più volte gli apparve Gesù Cristo nel sonno riprendendolo del suo enorme misfatto. E
poichè Natale non faceva caso di quelle apparizioni gli avvenne che per tutta una notte fu
aspramente flagellato da una mano invisibile.
Questo castigo tornò per lui a medicina salutare. Imperciocchè alzatosi la mattina
seguente assai per tempo si vesti di sacco, e col capo coperto di cenere si andò a gettare ai piedi
di s. Zefirino, e versando un profluvio di lagrime, fece la confessione di tutte le sue colpe. Egli
abbracciava le ginocchia di quanti erano presenti chierici e laici; a tutti mostrava i segni delle
percosse con cui era stato punito e le cicatrici delle piaghe sofferte per la confessione, del nome
di Gesù Cristo, e intanto con grande umiltà implorava sopra di sè la clemenza della Chiesa e la
misericordia {65 [269]} divina. Questo spettacolo, che se fosse accaduto in Sodoma, dice
Eusebio di Cesarea, avrebbe forse potuto eccitare a penitenza gli abitanti di quelle infelici città,
mosse a compassione quanti erano astanti; onde Natale dopo molte preghiere e umiliazioni fu
con bontà accolto dal Pontefice, e assolto dalla scomunica venne nuovamente ricevuto nella
comunione della Chiesa.
Questo fatto ci fa ammirare la bontà di s. Zefirino e nel tempo stesso ci ammaestra come
fin dai primi tempi della Chiesa siasi creduto necessario di venire a Roma, riconciliarsi col Papa,
per appartenere alla Chiesa cattolica che in ogni tempo fu sempre giudicata la Chiesa di Gesù
Cristo.
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Capo XX. La persecuzione è mitigata per la morte di Severo.
Conversione di Cecilio.
Erano già trascorsi otto anni dacchè s. Zefirino governava la Chiesa, e la persecuzione
suscitata dall'imperatore Severo continuava ad infierire contro i cristiani; {66 [270]} quando la
divina Provvidenza, che veglia sopra la Chiesa e sopra i suoi figli, venne in suo soccorso in
maniera inaspettata. L'imperatore Severo, dopo diciott'anni di governo venne tolto di vita l'anno
211. Suo figliuolo, Autonino Caracalla, gli avea procacciata la morte. Costui come uccisore del
padre e di un suo fratello, dalla storia viene appellato obbrobrio del genere umano. Tuttavia egli
si occupò in altre cose, e non pensò a perseguitare i cristiani per motivo della loro religione.
Onde la Chiesa di Gesù Cristo vide restituita la pace, e s. Zefirino potè uscire dai nascondigli e
adoperarsi pubblicamente per la predicazione del Vangelo.
Questo Pontefice provò una grande consolazione per la conversione di un certo Cecilio,
che per opera di un dotto cristiano chiamato Ottavio venne alla fede. Questo Cecilio era un uomo
dotto e conosceva bene la religione pagana; ma quando si vide sciolte tutte le difficoltà egli
rinunziò a tutti gli errori che aveva fino allora professato, abbracciò la fede, visse santamente
fino ad un'eta avanzata ed è venerato per Santo.
Dal dialogo, ovvero dalla conferenza avuta {67 [271]} tra Ottavio e Cecilio, ricaviamo
parecchie notizie intorno alla vita che menavano i fedeli affidati alla cura di s. Zefirino, e che
esso medesimo praticava ed insegnava al popolo. Noi cristiani, dice Ottavio a Cecilio, siamo
pudici, non in apparenza, ma in verità e di cuore. I nostri conviti sono onesti e sobrii; perciocchè
non ci abbandoniamo alla crapula, nè ci immergiamo nel vino; ma temperiamo la nostra allegria
colla gravità, con discorsi casti e col corpo anche più casto. Se ogni giorno cresce il numero dei
cristiani, ciò deriva dal lodevole genere di vita che teniamo. L'unico segno che ci faccia
scambievolmente conoscere tra noi, è l'innocenza e la modestia. Ci amiamo gli uni gli altri, e non
odiamo alcuno; ci chiamiamo col nome di fratelli perchè ci riconosciamo tutti figliuoli dello
stesso unico Iddio, partecipando della stessa fede, ed eredi della medesima speranza. Le carceri
sono piene di voi, o gentili, per misfatti commessi; ma non vi troverete neppure un cristiano, ad
eccezione che egli sia un apostata o disertore della sua religione. La povertà non è per noi
un'ignominia, ma una gloria, perchè siccome l'animo si indebolisce per il lusso, cosi si {68
[272]} conferma e si rassoda colla frugalità. Sebbene come mai può essere povero chi non ha
nissun bisogno, chi non desidera la roba altrui, chi si reputa ricco di avere con sè la grazia di
Dio? Dirò piuttosto che è povero colui che possedendo molta roba desidera averne di più. E
siccome un pellegrino che fa viaggio tanto più è felice quanto più è scaricato; così fa meglio il
suo viaggio da questa vita verso alla celeste patria colui che si trova leggero e spedito per la sua
povertà, che non quello che geme sotto il peso delle ricchezze. Se noi credessimo utili le
ricchezze, le dimanderemmo al Signore, il quale essendo padrone di tutto, forse
accondiscenderebbe in qualche parte alle nostre dimanda. Ma noi vogliamo piuttosto disprezzare
le ricchezze che possederle, e invece di esse bramiamo l'innocenza, e con grande instanza
domandiamo a Dio la pazienza e le altre virtù, che conducono al possesso dell'eterna felicità. (V.
Ottavio ecc.). {69 [273]}
Capo XXI. La comunione pasquale. - Il calice nella Santa Messa. - La
sacra ordinazione. - Giudizio sui vescovi. - Assoluzione dei penitenti.
Calmato il furore della persecuzione s. Zefirino potè occuparsi con maggior libertà a
riordinare parecchie cose riguardanti alla disciplina della Chiesa. Il santo Pontefice
primieramente stabilì che i fedeli cristiani giunti alla pubertà, cioè all'età di anni dodici, tutti
facessero a Pasqua la Santa Comunione. Questo decreto che allora era un semplice invito ai
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fedeli cristiani a celebrare santamente questa grande solennità venne di poi confermato e posto
per obbligo ai fedeli cristiani, fino a giudicare scomunicato chi non adempie il precetto della
comunione pasquale.
È pure attribuito a s. Zefirino un decreto con cui ordina che il calice e la patena da usarsi
nella Santa Messa siano di vetro e non più di legno come era prima; e ciò fu fatto perchè la
porosità, ovvero i piccoli buchi del legno, assorbivano inconvenientemente il Sangue del
Salvatore {70 [274]} che lo toccava. Altri Pontefici però più tardi decretarono che i calici e le
patene fossero di oro, di argento, o almeno di stagno, non però di rame per la ruggine e per
l'ingrato e nocivo sapore che il rame produce. Il motivo per cui furono proibiti i calici di vetro fu
la fragilità dei medesimi, e il pericolo di spezzarli specialmente nell'atto che la patena va in
contatto col calice. (V. Burio in s. Zefirino).
Nel tempo delle persecuzioni il sacro ordine si conferiva per lo più ne' luoghi nascosti e
in quel tempo che si poteva. Essendo alquanto la Chiesa in pace il santo Pontefice stabilì che le
sacre ordinazioni fossero conferite in un tempo determinato e ciò pubblicamente, affinchè da
tutti fosse conosciuta la santità de' sacri ministri che erano scelti pel ministero della Chiesa.
Eravi altresì un disordine intorno al modo di giudicare i vescovi. Essi erano giudicati ora
dalle autorità civili, ora anche dalle autorità ecclesiastiche, le quali davano sentenza sopra
semplici relazioni, che spesso erano calunnie. Zefirino stabilì che non solo non si desse sentenza
contro ad un vescovo da alcun giudice laico, ma i medesimi Patriarchi, Primati e Metropolitani,
non potessero {71 [275]} proferire alcuna sentenza contro ad un vescovo, senza esserne
autorizzati dalla Sede Apostolica. La qual cosa fu di poi costantemente praticata nella Chiesa e
confermata nel Concilio Tridentino.
Una cosa poi che fa grande onore a questo Pontefice, si è la carità grande con cui
riceveva i peccatori a penitenza; che anzi condannò alcuni che insegnavano non doversi
concedere il perdono a quelli che cadevano nel peccato di disonestà. Questo genere di condotta
era derivato dall' idea orrenda che quei fedeli avevano di questo vizio, e dalla proibizione che lo
stesso imperatore Severo aveva fatto di tal peccato. Imperciocchè questo imperatore vedendo il
gran male che esso cagionava alla società, stabilì contro ai colpevoli la pena della morte. Cosi un
peccato proibito dalla santa legge di Dio e dalla medesima ragion naturale era eziandio punito
dalle leggi di un sovrano idolatra con tal rigore, che, come scrive un antico autore, in certi giorni
erano condannate a morte fino a tre mila persone pel peccato di macchia ovvero disonestà. (V.
Dione ecc.).
Sebbene s. Zefirino conoscesse la gravezza di questo vizio proibito dal sesto precetto {72
[276]} della legge di Dio, tuttavia ordinò che loro si desse l'assoluzione e che dovessero riceversi
a penitenza tutti coloro che dessero segno di sincero ravvedimento, e ne chiedessero perdono.
Siccome poi alcuni non volevano sottoporsi a questo decreto del Papa, egli colpì di scomunica
tutti quelli che avessero insegnato diversamente.
In fine questo Pontefice dopo di avere governata la Chiesa 18 anni ed altrettanti giorni
morì il 26 di agosto dell'anno 221. Egli è dalla Chiesa chiamato martire senza che la storia ci dica
se egli abbia terminata la vita nei tormenti o consumata dalle fatiche. Egli tenne quattro volte la
sacra ordinazione nel mese di dicembre, in cui creò 13 preti, 7 diaconi, 13 vescovi che mandò in
diversi luoghi. Egli fu sepolto nella via Appia, in un cimitero da lui preparato, poco distante dal
cimitero di s. Callisto.
Ogni volta che ci facciamo a considerare i pastori del primo secolo della Chiesa, non
possiamo a meno di ammirare il loro zelo per conservare il sacro deposito della fede, per vegliare
sulla purità della morale, e sulla santità della disciplina. Quanti combattimenti essi non hanno
sostenuto, per {73 [277]} questa giusta e santa causa! Con quanta fermezza e costanza non
resistettero al paganesimo, alle eresie ed alla corruzione del mondo! Per le fatiche loro noi
godiamo de' più preziosi vantaggi della grazia. Rendiamo pertanto un tributo di lode a Dio, il
quale nella sua misericordia ci ha voluto dare tanti segni di bontà creandoci e conservandoci
nella sua Chiesa. Dobbiamo ancora raccomandarci a Dio che ci aiuti a perseverare nel bene,
pregarlo che esalti la gloria del suo santo nome colla propagazione del Vangelo sopra tutta la
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terra, che susciti nella sua Chiesa modelli di virtù nella persona de' suoi ministri e pastori animati
dal suo spirito, ma soprattutto che inspiri sentimenti di fede ai popoli cristiani onde siano disposti
ad umiliare l'intelletto all'autorità della rivelazione, e sottomettere il cuore, al soave ed amabile
giogo della fede; e che i popoli siano sempre avversi alle novità profane in materia di dottrina, e
stiano sempre uniti al Supremo Pastore che Dio ha stabilito a governare la Chiesa sino alla fine
dei secoli. {74 [278]}
Capo XXII. Martirio di s. Perpetua e di s. Felicita.
L'anno terzo del pontificato di s. Zefirino, dugento cinque dopo la nascita del Salvatore,
avvenne un luminoso martirio sostenuto da due donne, una di nome Perpetua, l'altra Felicita.
Queste due sante, furono sempre tenute in grande venerazione in tutta l'antichità, e la Chiesa
cattolica fa ogni giorno speciale ricordanza di loro nel sacrifìcio della S. Messa; epperciò riescirà
assai cara la storia del loro martirio, tanto più che la maggior parte delle cose avvenute in tale
commovente racconto sono state scritte dalla medesima s. Perpetua.
Perpetua era una giovane vedova di illustre condizione in età d'anni ventidue. Aveva un
solo figlio che allattava essa medesima; ad esso rivolgevansi i suoi affetti e tutte le sue materne
sollecitudini. Felicita era pure di una casa illustre e sul fiore di sua età. Ecco come Perpetua
incomincia la storia del suo martirio: «Tostochè fummo arrestate ci tennero per {75 [279]}
qualche tempo sotto rigorosa guardia, prima di rinchiuderci in carcere. Mio padre, l'unico di mia
famiglia che non fosse cristiano, accorse tosto e si adoperò con ogni suo mezzo per farmi cangiar
proponimento. Fra le altre cose mi raccomandava particolarmente di non dirmi cristiana. Io gli
mostrai un vaso che a sorte là si trovava e gli dissi: padre mio, a questo vaso può darsi un altro
nome diverso da quello che gli conviene? No, riprese egli. Ebbene io nemmen posso prendere un
altro nome diverso da quello che esprime ciò che sono. A queste parole mi si avventò come per
strapparmi gli occhi di fronte, poi si ritirò confuso di questo suo trasporto. Passarono alcuni
giorni senza facesse a me ritorno ed in questo intervallo potei gustare qualche riposo. Frattanto
fummo battezzate e lo Spirito Santo m'inspirò allora di non dimandar altro che la costanza nel
soffrire i tormenti. Poco dopo fummo condotte in prigione e nell'entrarvi fui presa da terrore, non
avendo io mai veduto simili luoghi. Oh che penosa giornata! Che caldo! Eravamo soffocati, tanta
era la copia dei detenuti; a questo aggiugnete la brutalità dei custodi. Ma ciò che più mi
affliggeva era il non {76 [280]} aver con me mio figlio. Finalmente mi fu portato, e due diaconi,
Faustino e Pomponio, ottennero, pagando una somma, che fossimo collocati per qualche ora in
un luogo meno incomodo. Ognuno pensava a ciò che occupavali maggiormente. Quanto a me
non avea sollecitudine maggiore oltre quella di allattar mio figlio che moriva di fame. Io lo
raccomandai caldamente a mia madre, che era venuta a vedermi. Era io trafitta dal dolore al
vedere che la mia famiglia era immersa nell'afflizione per cagion mia, e questa pena mi durò più
giorni; ma andò a poco a poco dissipandosi, ed il carcere stesso mi divenne un piacevole
soggiorno. Un dì Saturo mio fratello mi disse: Voi avete molto credito presso Dio; pregatelo di
farci conoscere se soffrirete la morte o se verrete rimessa in libertà. Siccome aveva già
sperimentata la bontà del Signore, promisi a mio fratello che il giorno appresso gli avrei dato
risposta. Infatti dopo la mia preghiera vidi una scala d'oro che ascendeva fino al cielo, ma stretta
sì da non poter salirvi più d' una persona alla volta; da due lati era fiancheggiata di spade, di
lance, di pugnali, talchè senza una grande attenzione e senza guardar fissamente in {77 [281]}
alto era impossibile il non rimaner ferito per tutto il corpo. In fondo alla scala oravi un drago
terribile, pronto a lanciarsi su chiunque mostrasse di voler salire. Saturo eravi montato, e dall'alto
della scala mi disse: Perpetua, ti aspetto, ma guardati dal drago. Io risposi: non mi farò alcun
male, perchè spero nell'onnipotenza del nostro Signore. Mi avvicinai infatti, e allora il drago
declinò dolcemente la testa quasi che avesse avuto di me paura. Posi il piè sulla sua testa che mi
servì di primo scalino. Giunta alla cima della scala scoprii un immenso giardino e nel mezzo un
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vecchio venerabile in foggia di un pastore circondato da una moltitudine di persone vestite di
bianco. Egli mi disse: Figlia mia, benvenuta: e mi pose in bocca un cibo delizioso, che ricevei a
mani giunte. Tutti gli astanti risposero amen, alla qual voce mi svegliai e mi accorsi che
masticava tuttora qualche cosa d'una maravigliosa dolcezza. Il giorno dopo raccontai questo
sogno a mio fratello e ne concludemmo che fra poco avremmo amendue sostenuto il martirio.
Cominciammo adunque a staccarci interamente dalle cose di questa terra e rivolgere tutti i nostri
pensieri all'eternita.» {78 [282]}
E bene di far notare al lettole che la scala misteriosa di questa visione nella santa ha
qualche rassomiglianza con quella veduta da Giacobbe. Sì l' una come l'altro erano
violentemente divisi dalla propria famiglia, passavano dagli agi allo stato più miserabile, e tutto
questo rovescio di mondana fortuna gettavali in una terribile incertezza dell' avvenire, sicchè
solo in Dio rimaneva ogni loro speranza. Il cibo delizioso poi posto in bocca a Perpetua, allusivo
alle delizie interne che prova un' anima nelle tribolazioni quando le soffre per amor di Dio,
corrisponde alla famosa visione di Ezecchiello quando Dio chiamatolo in sogno, mostragli un
grosso libro dentro e fuora tutto scritto di lamentazioni, gemiti e guai, che appunto esprime la
carriera del Cristiano essere una serie non interrotta di interne ed esterne tribolazioni: comede
volumen istud ordinò Dio al profeta, il quale, appena appressatolo alla bocca tosto lo sentì
convertito in soavissimo mele: et factum est in ore meo sicut mel dulce. {79 [283]}
Capo XXIII. Interrogatorio, condanna e supplizio dei Santi Martiri.
S. Perpetua continua così la narrazione, del suo martirio: «Pochi giorni dopo si sparse la
vece che eravamo per essere interrogati. Mio padre tornò alla prigione ed oppresso di tristezza
mi disse: Figlia mia, abbi pietà della mia canizie; abbi pietà di tuo padre; se ti ho amata più degli
altri miei figli non coprir d' obbrobrio la mia vecchiezza; abbi riguardo per tua madre, pensa a
tuo figlio che non può viver senza di te, abbandona questa tua ostinazione che è cagione di
rovina per tutti noi. Così parlando mi prendeva la mano, baciandola e bagnandola di lacrime. Le
sue istanze mi passavano il cuore, e lo compativa, perchè egli solo di tutta la famiglia si
affliggeva del mio martirio. Nondimeno senza punto lasciarmi smuovere così gli risposi: sarà
nell'interrogatorio ciò che piacerà al Signore; {80 [284]} giacchè non siamo in poter nostro, ma
in sua mano; s si ritirò. Il giorno seguente allorchè prendevamo cibo, vennero inaspettatamente a
prenderci per condurci al tribunale del giudice. Tutta la città ne era informata, sicchè sulla piazza
era raccolto un popolo immenso. Fummo fatti ascender sul palco, e furon dapprima interrogati i
miei compagni, i quali tutti coraggiosamente confessarono Gesù. Quando si venne a me, mio
padre accostandosi col mio figlio in braccio mi tirò alcun poco in disparte e mi sollecitò più
vivamente che mai. Il giudice unì le sue alle istanze di mio padre. Risparmiate, diccami, la
vecchiezza di vostro padre e l'infanzia di vostro figlio, sacrificate per la prosperità dell' impero.
Io non sacrificherò, replicai. Voi siete dunque Cristiana? Si lo sono. Poichè mio padre faceva
ogni sforzo per trarmi via dal palco, il giudice comandò che ne fosse rimosso, e per farlo
ubbidire si giunse perfino a percuoterlo. Io risentii in me il colpo che gli fu dato come se l' avessi
ricevuto io stessa, e mi sentiva il cuore straziato alla vista dei mali trattamenti che per cagion mia
facevansi alla sua vecchiezza. Allora il giudice pronunziò la sentenza e ci {81 [285]} condannò
tutti alle fiere. Noi tornammo tutti contenti alla carcere. Frattanto il custode della prigione, per
nome Pudenzio, accortosi che Dio ci accordava frequenti favori, aveva molta attenzione per noi e
lasciava entrare liberamente tutti quelli che venivano a vederci. Pochi giorni avanti gli spettacoli
vidi comparir mio padre che veniva a tentare un ultimo assalto. Era in uno stato d'oppressione da
non potersi esprimere; si strappava pel dolore la barba, si gettava per terra e vi rimaneva boccone
mandando grida e lamenti, e maledicendo la sua vecchiezza. Io moriva d'affanno al vederlo in
quello stato; ma Dio mi sostenne anche questa volta contro un attacco sì violento.» Il racconto
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scritto da Perpetua giunge fin qui: quello che segue è ricavato dagli alti del suo martirio, descritto
da testimoni oculari. Eccone adunque la continuazione.
Giunto che fu il giorno degli spettacoli furono estratti dalla prigione i santi martiri per
esser condotti all'anfiteatro. La gioia era dipinta in quei volti, brillava loro negli occhi, appariva
nei loro gesti, si manifestava nei loro discorsi. Perpetua veniva l'ultima. La tranquillità di
quell'anima {82 [286]} scorgevasi nel volto e nel portamento, tenendo solo gli occhi bassi per
non farne conoscere la vivacità agli spettatori. Felicita per morire cogli altri mostrava non minor
contento. Saturnino e Saturo minacciavano della collera divina il popolo idolatra che gli
attorniava, e quando furon presso al giudice che aveali condannati gli dissero coraggiosamente:
Tu ci condanni oggi, ma fra poco Dio condannerà anche te. Il popolo irritato da questi rimproveri
domandò che fossero battuti con verghe. Tutti contenti di guadagnar questo nuovo tratto di
rassomiglianza col Divin Salvatore, i santi martiri ne esternarono singolare allegrezza. Iddio
accordò loro il genere di morte che ciascun di loro aveva desiderato; perocchè nel ragionare fra
loro dei diversi generi di supplicii che si facevano soffrire ai Cristiani, Saturnino mostrò
desiderio di combattere con tutte le fiere dell'anfiteatro; infatti dopo essere stato attaccato
insieme con Reciocato da un furioso leopardo vennero trascinati l'uno e l'altro da un orso. Saturo
al contrario non temeva tanto gli altri animali quanto l'orso e desiderava che un leopardo lo
uccidesse tosto che lo avesse azzannato. Nondimeno venne dapprima abbandonato {83 [287]} ad
un cignale; ma la bestia si rivolse contro il soprastante e lo ferì a morte. Fu esposto per secondo
ad un orso che non volle uscire dalla tana; così per allora Saturo rimase illeso. Le due sante,
Perpetua e Felicita, furono esposte in una rete alla furia di un toro, il quale attaccò Perpetua per
la prima, la sollevò con violenza e la lasciò ricadere sul suo dosso; Perpetua si alzò, rannodò i
suoi capelli, e visto che Felicita, attaccata essa pure dal furioso animale, era distesa sul suolo
tutta ammaccata e coperta di ferite, le stese la mano e l'aiutò ad alzarsi. Finqui non erasi ella
accorta di quanto era in lei accaduto, e dimandò: e quando dunque saremo lasciate in balia di
questa belva? A persuaderla che aveva già cominciato a soffrire bisognò mostrarle lacere le sue
vesti e le contusioni che aveva riportate nella persona. Allora avendo riconosciuto un
catecumeno chiamato Rustico, lo pregò di chiamar suo fratello Saturo, o quando si furono
entrambi fatti appresso esortò ambedue alla costanza nella fede. Saturo che si era ritirato sotto
uno dei portici dell'anfiteatro diceva al soprastante Pudenzio, che erasi convertito: Non ve lo
aveva io {84 [288]} detto, che le prime belve non mi avrebbero fatto alcun male e che avrei
ricevuto la morte da un leopardo. Un momento dopo esposto per la terza volta, un leopardo gli si
lanciò addosso e sì larga piaga gli fece con un morso che ne rimase tutto coperto di sangue. Il
popolo a tale vista esclamò: eccolo battezzato un'altra volta. Allora Saturo volgendo gli occhi
verso Pudenzio: Addio, caro amico, gli disse, sovvengavi della mia fede e imitatela; la mia morte
non vi smarrisca, ma vi raddoppi il coraggio. Poi dimandato al soprastante l' anello che teneva in
dito, glielo rendè intriso del suo sangue come pegno della sua fede e della sua amicizia, e in così
dire cadde morto; avverandosi per tal modo la visione di Perpetua, che Saturo sarebbe morto il
primo. Sul finire degli spettacoli il popolo dimandò che gli altri martiri fossero ricondotti in
mezzo all'anfiteatro per ricevervi il colpo mortale; questi vi si portarono da sè e lasciaronsi
scannare senza fare movimento veruno. A Perpetua toccò un poco esperto manigoldo che la fece
languire qualche tempo, e fu ridotta a porre ella stessa il ferro alla sua gola additando il punto
ove esser doveva {85 [289]} cacciato. Un tale eroismo in donne imbelli non può venir dalla
natura, conoscendosi che ella non arriva tant'oltre, ma conviene ricorrere alla Divinità, che sola
puo operare prodigi sì maravigliosi e stupendi.
Con approvazione della Revisione Ecclesiastica. {86 [290]}
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Indice
Capo I. - Breve digressione
Capo II. - Elezione di s. Aniceto. Concorso di Eretici a Roma
Capo III. - S. Egisippo a Roma
Capo IV. - S. Policarpo e S. Aniceto. Eresia di Montano
Capo V. - Pestilenza. Guerra contro ai Marcomanni. Si rinnova la
persecuzione. Martirio di s. Felicita
Capo VI. - Decreti di s. Aniceto. Sue ordinazioni. Suo martirio
Capo VII. - Patria di s. Sotero. Sua elezione al pontificato. Sua
beneficenza
Capo VIII. - Il digiuno nella Santa Messa. Le donne non tocchino i vasi
sacri, nè offrano incenso
Capo IX. - La legione fulminante. Martirio di s. Fotino e di s. Sotero
Capo X. - L'eresia di Marco. La confessione dei peccati
Capo XI. - Elezione di s. Eleutero. Lettera dei martiri di Lione al Papa s.
Ireneo a Roma
Capo XII. - Fine di Marcione e di altri eretici
Capo XIII. - S. Eleutero manda Missionari in Inghilterra. Conversane di
que' popoli alla fede. Sua morte. Misera fine di Commodo
Capo XIV. - Prevaricazione di Tertulliano. Pontificato di s. Vittore I
Capo XV. - Questione della Pasqua. Diversi concilii di Vescovi
Capo XVI. - Atti del Concilio di Gerusalemme. Concilio Romano
Capo XVII. - Il Battesimo solenne a Pasqua. I catecumeni. Benedizione
del fonte battesimale. L'astinenza delle carni nel venerdì
Capo XVIII. - Persecuzione di Severo. Martirio di s. Vittore
Capo XIX. - Elezione miracolosa di s. Zefirino. Combatte i Teodoziani.
Ravvedimento di Natale, confessore
Capo XX. - La persecuzione è mitigata
Capo XXI. - La comunione pasquale. Il calice nella Santa Messa. La
sacra ordinazione
Capo XXII. - Martirio di s. Perpetua e di s. Felicita
Capo XXIII. - Interrogatorio, condanna e supplizio dei Santi Martiri
Pag. 3
5
8
11
15
18
22
26
29
32
34
38 {87 [291]}
Pag. 40
45
48
51
58
61
63
66
70
75
80 {88 [292]}
{89 [293]}
{90 [294]}
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