Don_Bosco-Il_Galantuomo_pel_1856


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Don Bosco - Il Galantuomo pel 1856
IL GALANTUOMO. ALMANACCO NAZIONALE PEL 1856
Coll'aggiunta di varie utili Curiosità.
Anno III.
Torino, 1855
Tipografia dir. da P. De-Agostini
Via della Zecca, N. 23. {39 [487]} {40 [488]}
IL GALANTUOMO A' SUOI AMICI
[è premesso alle opere ristampate solo parzialmente; è premesso agli scritti attribuiti o attribuibili
a Don Bosco]
INDEX
Il principio del 1855.....................................................................................................................2
La vista del mare..........................................................................................................................2
La Crimea....................................................................................................................................4
Il colera in Crimea.......................................................................................................................5
I futuri destini della patria............................................................................................................6
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Il principio del 1855.
È questa la terza volta che ho l'onore di presentarmi a voi, o venerati amici, per parlarvi
di nuove vicende. Quest'anno ho tante cose gravi a raccontarvi, e di tale importanza, che mi vedo
costretto a dividere la materia in alcuni capitoli. Comincerò ad accennarvi ciò che avvenne sul
principio di quest'anno per farmi strada al rimanente.
Mentre si cominciava il mille ottocento cinquantacinque era in discussione la legge
contro ai frati, alle monache ed ai preti. Poveri frati, che hanno dato tante scodelle di minestra a'
miei ragazzi, e vennero tante volte a vedermi quando era stato ammalato! Ma! sia che il Signore
volesse punirci con questa legge, o per altri motivi a noi sconosciuti, fatto sta che i mali si
moltiplicarono. La nostra cara regina madre, Maria Teresa, cade {41 [489]} ammalate, e dopo
alcuni giorni di malattia cede al fatale destino, e muore. Passano pochi giorni, e la regina
regnante, Adelaide, segue sua suocera nella tomba. Oh! povere Regine, erano così buone,
facevano tanta limosina! Io ho pianto molto, e parecchi altri piansero al par di me. Al giorno
della loro sepoltura io non ho fatto altro che recitare dei Pater noster e dei Requiem aeternam per
le anime loro. È vero che molti si consolavano dicendo: abbiamo perduto due benefattrici in
terra, ma avremo due protettrici in cielo: tuttavia era voce unanime che diceva: Sono morte le
madri dei poveri; il mondo diveniva troppo perverso, e non meritava di avere dite Regine tanto
buone. Iddio le tolse, affinchè non fossero testimoni di mille iniquità, che si sarebbero fra breve
commesse.
Si piangevano ancora le morti delle due Regine, quando ci assalì nuovo malanno. Il Duca
di Genova, quel valoroso che aveva tanto combattuto per l'onore della patria, e che aveva
affrontato tanti pericoli nella Lombardia e nella campagna di Novara, sul fiore di sua età cessò di
vivere. Poco tempo dopo un figlio del Re era pure portato alla tomba. Tutti {42 [490]} questi
mali avvennero, mentre si andava discutendo la legge contro ai frati e contro ai preti. Io non
voglio dire che Iddio abbia fatto morire tutte queste brave persone a motivo di quella legge: ma
molti l'hanno detto e lo dicono ancora, e si diceva perfino che Dio voleva chiamare a sè i buoni
per punire debitamente i malvagi.
In mezzo a tutti questi mali, avvenne che il nostro governo, vedendo la Francia e
l'Inghilterra a mal partito nella guerra contro ai Russi, pensò di venire in suo soccorso, e ciò mi
pare ben fatto, perchè l'aiutare il prossimo è un'opera di carità, e le opere di carità sono sempre
lodevoli.
Tra que' matterelli, che avevano il prurito di andare a combattere contro ai Russi, ci fui
anch'io. Ma la mia posizione non mi permetteva di arruolarmi, perchè, come è noto a tutto il
mondo, ho quarant'anni, zoppico da un piede, sono alquanto gobbo, sordo da un orecchio, cieco
da un occhio, cose che impediscono assolutamente di fare il militare. Pure ci voleva andare: non
per la smania che avessi di ammazzare soldati, no, perchè mi sento commosso al solo dover
uccidere {43 [491]} una pulce; ma desiderava di andare per guadagnare qualche cosa da
mangiare per me, per i miei ragazzi.
Io mi trovava ridotto alle più gravi strettezze, e non sapeva più dove voltarmi per aver
soccorso, perchè Monsignor Arcivescovo, finchè era qui a Torino, mi dava quasi tutte le
settimane qualche sussidio, e l'hanno mandato in esilio; i frati mi davano qualche piatto di
minestra, e trattavasi di mandarli tutti a casa. Che fare adunque? Io mi sono aggiustato da cuoco
con un locandiere delle nostre truppe, che doveva partire per la Crimea.
La vista del mare
Voi, o amici, sarete ansiosi di sapere notizie del mio viaggio, ed io vi voglio appagare.
State attenti: sebbene io non sia per raccontarvi fatti atroci e sanguinosi, tuttavia avrete di che
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ricrearvi. - Sono partito per la ferrovia di Porta Nuova, e in poche ore sono giunto a Genova. Qui
abbiamo messo un milione di arnesi di ogni genere sopra un bastimento, e poi ci siamo
imbarcati. Finchè fui vicino alle rive del mare, tutto andò bene, ma quando mi vidi scomparire
dinanzi {44 [492]} città, rive, colline e montagne, allora fui vivamente costernato, e dissi:
Povero galantuomo! Chi sa se rivedrai ancora questi paesi!
Quando mi trovai in mezzo al mare, cominciai a considerare la forma dei bastimenti. Essi
sono fatti come le barche, quali voi avrete già più volte veduto a galleggiare sul Po. Ma sono più
di cinquanta volte più grosse. Colà ci sono molte camere, ove si può mangiare, dormire,
passeggiare, fumare sigari, ed altre cose simili, che si danno gratuitamente a chi ha danaro per
pagarle.
Il mare! O quanto mai è grande il mare! Immaginatevi una vastissima pianura non
circondata nè da monti, nè da montagne; ove non vi siano nè strade, nè case, nè vigne, nè prati,
nè piante, nè selve, e che il confine di quella vastissima pianura vada a perdersi nella pianura
medesima, voi avrete cosi una qualche idea del mare.
Andava eziandio rimirando con maraviglia le onde, in mezzo a cui passava il nostro
bastimento. Provava il più gran piacere in rimirare i pesci or grossi, or piccoli, che mettevano
sempre il loro musetto {45 [493]} vicino alle sponde del bastimento. Pareva proprio che quegli
animali sapessero che io sono un Galantuomo, e nulla avessero a temere di me. Intanto io mi
accorsi che si avvicinava la notte, perciò deponendo ogni pensiero, ed ogni sollecitudine pel
passato e per l'avvenire, andai in cantina, mangiai un tozzo di munizione con una fetta di salame,
bevetti un mezzo litro di vino, dopo andai a coricarmi sopra un pagliariccio per riposare.
Dormiva saporitamente, quando, o apposta o per isbaglio, un mio compagno, credendo
forse di prendere un pezzo di legno da fuoco, prese una mia gamba. Adagio, mi posi a gridare,
questa gamba è mia. Non è vero, è un legno, debbo bruciarlo. Coglione che siete, gridai forte,
bruciate le vostre gambe, e non le mie. Io pago per esse le imposte, e non voglio che alcuno me
le tocchi. L'altro fece i fatti suoi, e lasciò per me le mie gambe.
Tuttavia essendomi stato interrotto il sonno, non lo potei più ripigliare. Quasi per
prendere un po' di fresco, uscii allo scoperto sopra al bastimento. Allora mi apparve uno
spettacolo, che pari non {46 [494]} vidi mai in vita mia. Alzo lo sguardo all'insù, e vedo
un'immensa quantità di stelle; guardo attorno a me, e vedo lo stesso; abbasso gli sguardi, e
quante stelle rimirava sopra e attorno di me, altrettante ne scorgeva sotto a' piedi miei. Mi
sembrò in quell'istante di essere divenuto un granello di polvere disperso nell'universo.
Più alzava gli occhi e li abbassava rimirando l'immensa quantità di stelle che mi
circondavano, più mi sembrava di divenire piccolo. Colpito da questa immaginazione, mi misi a
gridare: povero Galantuomo, tu ritorni al nulla! Ma intanto mi accorgeva che aveva ancora la
testa sopra le spalle, che il mio cuore palpitava, che la mia lingua parlava. Onde compreso dalla
mia picciolezza, dissi a me stesso: vedi, o Galantuomo, quanto sei piccolo in confronto di tante
stelle, così grosse e così distanti l'una dall'altra! quanto mai è grande questo universo! quanto
bisogna che sia grande Colui che ha fatto tutte queste cose!
Continuando il cammino da Genova, siamo passati per un mare detto Tirreno, ed è tra
l'isola di Sardegna e la Toscana. Poi ci siamo trovati in Malta, {47 [495]} dove abbiamo fatto
alcune provviste di acqua; perciocchè voi certamente sapete, che l'acqua del mare, essendo molto
salata, non si può bere, epperciò bisogna far provvista di acqua non tanto salata, per servirsene
poi in alto mare. Dopo abbiamo sempre camminato per acqua da un mare in un altro, finchè siam
giunti a Costantinopoli, che è una grande città; più grande di Torino, ma non tanto bella. Ho
voluto fare un giro per le vie di quella capitale, che sono molto storte e poco pulite. Ho veduto
per la prima volta i Turchi, i quali si dicono valorosi in guerra, ma che a vista paiono altrettanti
commedianti. Portano due sacchi per calzoni, una camiciaccia loro cuopre le spalle, in capo poi
hanno un berrettone, che contiene tre emine di meliga. Sono poi ignorantissimi; sanno nemmeno
il piemontese; cosa che sanno i nostri ragazzi più piccoli. Ho dimandato ad uno di loro, che mi
dicesse le ore: l'altro mi rispose: Rachid - Rachid. -
Io: Non dimando Rachid: dimando quante ore sono.
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L'altro: Rachid - Rabadam - Rabadam. -
Io: Va, va col tuo Rachid e col tuo {48 [496]}
Rabadam: ce ne son già tanti Rabadam al mio paese, che non occorre più cercarne qui. -
Ciò fatto, io mi portai tosto al bastimento, e giunsi al momento che i nostri si radunavano
per ripigliare il cammino pel mar Nero. Io era ansioso di vedere quel mare, e mi pensava proprio
che fosse nero; ma ho veduto che l’acqua è simile a quella degli altri luoghi, e mi fu detto, che si
dice mar Nero per la grande oscurità che rappresenta nella sera, ed anche per le dense ed oscure
nebbie, da cui è coperto buona parte dell'anno.
La Crimea
Dopo quattordici giorni di viaggio, un mattino sul fare del giorno sento a gridare:
Crimea! Crimea! Esco anch'io in manica di camicia per vedere la Crimea; e di lontano vidi una
punta, che sembrava quasi un uomo immerso nell'acqua col naso fuori. Più mi avvicinava, più
diveniva grosso; e infine comparve un paese, dove abitano uomini, che hanno corpo ed anima
come abbiamo noi.
Io ci ho trovato poca diversità dai {49 [497]} nostri paesi. Colà il sole spunta il mattino,
tramonta la sera; di giorno è chiaro, di notte è oscuro, ad eccezione quando splende la luoa. La
gente poi cammina coi piedi, lavora colle mani, mangia colla bocca, parla colla lingua, vede
cogli orchi, sente colle orecchie. Colà c'è anche l'uso, che per mangiare bisogna lavorare; ad
eccezione di quelli, e non sono pochi, i quali si danno a fare il ladro.
La diversità di questo paese dai nostri sta qui: tra noi le cose di cibo sono care; colà sono
carissime. Un piatto di minestra dieci soldi, una limonata fatta colla massima economia otto
soldi: il pane due franchi e cinquanta centesimi il chilogramma, un litro di vino alquanto buono
tre franchi, la coscia di un cappone un franco e così del resto. Queste cose erano care, ma per me
e per il mio padrone andavano bene, perchè contribuivano a far danaro.
Però in mezzo a queste prosperità non mancavano cose che venissero a recarci grave
molestia. Un caldo eccessivo ci opprimeva di giorno e un freddo incredibile ci gelava di notte. Di
giorno ci sono tafani e mosche impertinentissime, che ci {50 [498]} pungono senza riguardo; di
notte ci sono zanzare, farfalle ed una specie di pulci che non lasciano riposare. Più volte ho udito
capitani e generali ad esclamare, che non temevano per nulla i cannoni dei Russi, ma che
bisognava cedere a questi animaletti, contro di cui valgono più le unghie di un povero contadino,
che la forza e la spada dei più coraggiosi militari.
Per avere una giusta idea di quel paese ho interrogato un capitano, che con bontà e
cortesia un dopo pranzo m'invitò a passeggiare con lui, e per appagarmi prese a parlare così:
«Tu, o Galantuomo, desideri di avere notizie esatte della Crimea, ed io di buon grado ti
darò un cenno di quelle cose che sono adattate alla tua capacità e condizione.
«La Crimea, auticamente chiamata Chersoneso Taurico, è una penisola circondata dal
mar Nero, dal mare Azoff, e mar Putrido. È unita agli Stati di terra della Russia dall'istmo di
Perekop, che è una lingua di terra larga circa quattro miglia.
I luoghi a te già alquanto noti sono Balaklava, Alma, Inkermann, Eupatoria, {51 [499]}
dove gli alleati l'anno scorso riportarono grandi vittorie contro ai Russi. - Sulla punta dell'isola,
verso il mezzodì, havvi una montagnetta molto fortificata, detta torre di Malakoff. Da quella
montagnetta si scuopre la città di Sebastopoli, e dietro alla città vi sono altri forti, che presto
cadranno nelle mani degli alleati.
«Ci sono pochi laghi e pochi fiumi.
«Un torrente considerevole è la Cernala, che presentemente divide gli alleati dalle truppe
russe, che noi presto andremo ad assalire.
«La popolazione della Crimea monta appena a dugento mila abitanti, quasi tutti tartari, i
quali seguono la religione di Maometto.
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«La capitale della Crimea è Simferopoli. I principali porti sono Atmeschetta, Balaklava, e
Sebastopoli, che è il meglio fortificato.
«Tutto questo paese è poco coltivato. Ci sono molti sabbioni: perciò un caldo
insopportabile di estate, con un freddo terribile nell'inverno.
«I principali prodotti sono le biade in abbondanza, olio, lino, canapa, tabacco: si
coltivano le viti con ottimo successo. Dà pure un buon racolto il {52 [500]} fico, l'olivo, il
melagrano; i quali frutti però vanno molto soggetti al guasto delle locuste. Ci sono pure
numerose mandre di buoi, di cammelli, di capre, di montoni, di cavalli, e di asini grossi al par di
quelli che vivono nei nostri paesi. - Non intendo di parlare di te!
«Ci sono pure molte città, montagne, fiumi, laghi, riviere, che io ti voglio nominare: -
Karabi-Jaila, Tkhadyzdugh ...»
Quel cortese capitano voleva continuare a recitarmi una fila di nomi, che io non solo non
poteva tenere a memoria, ma nemmen pronunciare. Però l'ho ringraziato della bontà usatami, e
sono andato ad eseguire gli ordini del mio padrone, che appunto in quel momento abbisognava
dell'opera mia.
Il colera in Crimea
Appena giunti in Crimea, parecchi dei nostri soldati andarono soggetti a diverse malattie.
La più fatale, e che menò maggiore strage fu il cholera-morbus. Da principio si pretendeva che
fosse una malattia ordinaria e cagionata dalla stanchezza del viaggio. Ma presto ognuno potè
convincersi {53 [501]} che era veramente il colera., in tutto simile a quello che l'anno scorso
avea flagellato i nostri paesi. Io medesimo ne fui spaventato, ma, entrato alquanto in me stesso,
dissi tra me: Coraggio, Galantuomo: la fortuna aiuta i coraggiosi: fa quello che puoi pel tuo
prossimo, e confida nella divina Provvidenza. Pertanto mi sono messo di buona volontà a servire
il mio padrone, ed anche a prestare agli infermi quell'aiuto che a me era possibile.
Ma le cose presero un aspetto formidabilissimo. I casi e le morti di colera moltiplicavansi
ogni giorno più. Non vi erano più posti negli ospedali; mancavano medici e medicine.
Immaginatevi! Da quella parte dove era io, non si avea altro rimedio, che sale di canale. Un
ufficiale prese un'oncia di questa medicina: ma invece di essere sollevato fu sorpreso da un tal
male di pancia, che, come furioso, balzò di letto, e corse disperatamente, finchè cadde morto. Io
non voglio dirvi di più, perchè tali cose rinnovano grave afflizione a me, e cagionano certamente
dolore a voi, che avete tutti un cuor buono e sensibile. Vi basti il sapere, che tutto inspirava
terrore e spavento, {54 [502]} Mi assicurano, che in due mesi; dei nostri morirono circa due mila
e cinquecento.
Quello poi, che porse il colmo alla mia desolazione, fu la morte del mio padrone. Io lo
amava molto, ed egli mi voleva molto bene. L'ho assistito fino agli ultimi momenti. Quando si
accorse che cominciava mancargli la parola, mi chiamò vicino a lui, e mi disse: «Galantuomo, io
ti ringrazio della tua assistenza: io non ritornerò più in Piemonte: sono agli ultimi respiri di mia
vita. Quivi c'è un sacchetto di scudi, che forma il capitale portato dai nostri paesi; tu li porterai
alla mia famiglia. Qua c'è il denaro guadagnato colle nostre fatiche: metà di esso è tua; l'altra
metà la darai a que' soldati che tu conoscerai trovarsi in maggior bisogno. Vendi quel tanto che
abbiamo qui, il prodotto è pure per te. Tutti i crediti registrati nel libro siano condonati. - Io
muoio rassegnato, perchè ho ricevuto i conforti della religione. Continua ad assistermi, finchè io
sia spirato. Quando poi mi avrai fatta la sepoltura, partiti e ritorna in Piemonte per dare notizia di
mia morte a' miei parenti ed amici. Siccome qui non posso fare testamento, {55 [503]} perciò la
mia roba se la prenda chi ne ha diritto secondo le leggi. Galantuomo! Non abbandonarmi in
questi ultimi momenti: il Cielo te ne ricompenserà: raccomanda l'anima mia al Signore ...».
Non potè più continuare. Un violento calore interno congiunto ad una grave oppressione
di stomaco in mezzo alle più dolorose agitazioni il tolse di vita. Immaginatevi trista condizione!
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Io era solo di servizio, due compagni erano già morti per la medesima malattia; dovetti
acconciare il cadavere del mio padrone; e poi senza preti, senza accompagnamento alcuno, me lo
presi tra le braccia e avviluppatolo in una grossa coperta, lo sotterrai io medesimo in una fossa
scavata a poca distanza dalla nostra tenda. Ciò fatto, per dare un qualche conforto all'afflitto mio
cuore, mi inginocchiai sopra quella povera tomba e recitai cinque pater, cinque ave, cinque
requiem aeternam pel riposo dell'anima di mio padrone.
I futuri destini della patria
Aveva eseguito gli ordini lasciatimi dal mio povero padrone; la partenza era fissata al 2
luglio, ed eravi favorevole congiuntura {56 [504]} per un bastimento che veniva in Piemonte.
Quando alla vigilia dell'imbarco a notte avanzata si presentò da me un uomo sconosciuto, che
parlava in maniera da farsi intendere. I suoi modi erano cortesi, il suo parlare inspirava
confidenza. - Galantuomo, prese a dirmi, domani tu devi partire per la patria; prima che tu parta
di qui, voglio farti vedere cosa, che tu certo non vedi in nessun paese del mondo. Vieni meco. -
Io: dove volete condurmi, e qual cosa volete farmi vedere? - Sconosciuto: io ti voglio condurre
da un Mosul (Direttore), che ci svelerà i futuri destini della guerra e della nostra patria. - La
curiosità della promessa, il suo parlare piemontese, l’invito grazioso, e la sua fisionomia non mi
davano indizio di dover temere cosa alcuna. Io lo seguii. Mi prese egli per mano, mi fece
percorrere varie strade; di poi mi condusse in una casa. Oh! là non si finiva più: entro in una
camera, traverso un corridoio, poi altre camere, altre sale, altre gallerie, altri corridoi, monta e
cala, finchè, dopo di avere camminato due ore all'oscuro, mi trovai in una grotta bellamente
addobbata e risplendente. {57 [505]}
Al primo giungere non mi accorsi, che colà abitasse uomo mortale; già pensava che
quello fosse un alloggio destinato per me in quella notte. Ma la mia guida mi trattenne
dall'inoltrarmi dicendo: - Non vedi colui che è assiso a quel tavolino? Volsi colà il mio sguardo,
e vidi un vecchio venerando assiso ad un tavolino. Egli aveva i capelli bianchi come neve: la
faccia alquanto rugosa, ma vegeta, vivace e maestosa: leggeva attentamente in un libro sul cui
dorso ho potuto vedere scritto; Esperienza, gran maestro.
Come si accorse del nostro arrivo, alzò lentamente lo sguardo, e rimanendo tuttora
seduto, cominciò a parlare così: - Quale desiderio vi spinse a venire in questo luogo separato
dalle abitazioni dei mortali?
La mia guida rispose: - Noi veniamo qui per offerirli i nostri ossequi e pregarti di svelarci
i destini della guerra e di nostra patria.
Il vecchio: - I destini della guerra e della vostra patria sono solamente noti a Dio, e a chi
egli si degna rivelarli. -
State bene attenti, io vi dirò quel tanto che si può già manifestare agli {58 [506]} uomini.
La guerra è ancora lunga e sarà accanita. Grandi combattimenti, grande spargimento di sangue.
Le stragi ed i danni saranno uguali: la vittoria degli alleati. La guerra sta per finire in Crimea: il
suo teatro sarà altrove e sempre sanguinoso; finchè verrà portato ne' paesi degli alleati. Finchè il
genere umano non sarà nel tempo stesso travagliato dalla fame, guerra e peste, il mondo non avrà
pace.
Tu, Galantuomo, ritornerai in patria. Essa in quest'anno sarà orribilmente flagellata dalla
mortalità, e poichè gli uomini attribuiranno al caso questo flagello, così terranno dietro mali
estremi. Grandini, siccità, terremoti, carestia, fallimenti di commercio seguiranno. A questi colpi
della mano Divina gli uomini corrisponderanno con furti sacrileghi, con suicidii, omicidii,
bestemmie e con empietà.
Perciò sarà sempre peggiore il destino della tua patria. Partecipa a' tuoi amici, che colà si
vuol distruggere trono e religione; crollerà il primo, ma nulla varranno contro alla seconda. Se il
ravvedimento degli uomini non fa cangiare i decreti di Dio, si vedranno cose inudite {59 [507]}
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in tutti i tempi andati. La religione sarà difesa col capo e col sangue de' suoi ministri e de' suoi
fedeli; molti prevaricheranno, molti saranno costanti fino alta morte. Dopo ciò cesserà il
comando degli uomini, Iddio solo comanderà. Allora i malvagi amerebbero meglio di non
esistere, ma non è più tempo. Bisogna che Iddio sia glorificato, i malvagi puniti, i buoni
sollevati. Dopo vi sarà pace universale.
Io voleva parlare, ma il vecchio soggiunse tosto: - Taci, io non debbo mai essere
interrotto quando parlo: tu volevi dimandarmi quando avverranno tutti questi mali. Sappi, che
sono già cominciati: vari si effettueranno in quest'anno medesimo, gli altri di poi. E se gli uomini
continueranno, a disprezzare la divina legge, i flagelli saranno assai più tremendi di quel che
sono stati predetti. L'unico mezzo per mitigarli ed ottenere miglior destino si è l'abbandono
dell'empietà.
Io sentendo tali cose io andava tra me riflettendo se sognassi, oppure fosse reale quanto
vedeva cogli occhi e sentiva colle Orecchie; non sapeva se dovessi credere o non credere. Voleva
fargli anche qualche {60 [508]} dimanda, ma fui così sbalordito dalle disgrazie che annunziava
ai nostri paesi, che non ho più osato parlare. Lo ringraziai, gli feci profondo inchino, e partii. La
mia guida fecemi fare il medesimo cammino di prima. Chiesi più volte che mi dicesse il nome, il
luogo della persona, con cui avevamo parlato, ci nulla mi volle rispondere in proposito.
Io non so, amici, se voi crediate a queste cose, che vi ho raccontato del vecchio. Voi fate
come volete; io ci crederò di mano in mano che le vedrò avverate. Vi noto solamente, che in
generale i vecchi ne sanno più de' giovani; e quelli che parlano appoggiati sopra l'esperienza,
raramente s'ingannano.
Allora accelerai la mia partenza dalla Crimea, e senza alcun incidente particolare giunsi
in patria, dove pur troppo veggo, che si vanno avverando le cose, che quel vecchio mi aveva
predetto; e fosse vero che il rimanente andasse fallito. Ma io che sono Galantuomo, e che temo
sempre male per me e per gli altri, pavento per l'avvenire. L'anno venturo, se avrò vita, avrò
molte cose gravi, curiose e di massima importanza a raccontarvi. {61 [509]}
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