Esercizi spirituali meditazione 5 Gratuità, Grazia Eucaristia

GRATUITÀ - GRAZIA - EUCARISTIA



La nostra riflessione si centra su uno dei termini più utilizzati nella fede cristiana e nella teologia: la GRAZIA. È una di quelle parole che, come d’altra parte è anche epifania, abbracciano la totalità del Mistero Cristiano da una prospettiva specifica. Purtroppo è anche, infelicemente, una delle utilizzate in modo peggiore: anche perché corruptio optimi, pessima. Anzitutto perché viene dimenticato molto sovente che la Grazia non è “qualcosa”, ma Qualcuno: Dio stesso. Questo ci porta a considerarla quasi come un oggetto, una cosa (così parliamo delle “diverse grazie”). D’altra parte, abbiamo anche dimenticato molte volte il suo carattere di gratuità, considerandola persino, nel nostro rapporto con Dio, come dipendente più da noi che da Lui: in concreto, “l’essere” (o non-essere) “in Grazia”, conservarla, farla crescere o perderla; quando, in realtà, possiamo perdere tutto… tranne la Grazia, intesa come quell’amore gratuito e incondizionato con cui Dio si dona a noi.



1. La perdita del senso della Gratuità


Dopo questa motivazione teologica iniziale, un po’ provocatoria, vorrei invitarvi a prendere come punto di partenza la realtà umana che sta alla base della gratuità, non perché possiamo costruirla prima “dal basso”, e poi soltanto “battezzarla” assumendola cristianamente. Piuttosto, al contrario, è soltanto dalla fede possiamo comprendere e scoprire tutta la profondità, anche umana, della gratuità. Nonostante ciò, come salesiani che vogliamo mettere in pratica la nostra convinzione, che non esiste separazione tra natura e grazia, vogliamo approfondire la sua “infrastruttura antropologica” anche per constatare il “deficit di gratuità” nel quale vive oggi il nostro mondo.


Ci sarebbero molti segni che indicano questa carenza; tra di essi, farò una piccola allusione a tre, particolarmente significativi per noi.


1. Nella cultura occidentale, in proporzione non irrilevante, il modello di “uomo riuscito” è quello che può dire, con orgoglio: “tutto quello che ho, io l’ho potuto ottenere da me stesso”; “non mi hanno regalato niente”… In conseguenza, molte persone che sono state capaci di costruire con successo la loro vita “dal basso” diventano poi i nemici più accaniti contro la promozione dei più bisognosi, considerando (forse un po’ pelagianamente) che “tutti hanno le stesse opportunità; se non hanno saputo sfruttarle, peggio per loro; perché si dovrebbe ‘regalare’ loro qualcosa?” In questa prospettiva, la gratuità non trova posto; anzi, non è considerata neanche una virtù. A questa tendenza naturale dell’essere umano viene aggiunto nella mentalità odierna, per disgrazia, un paradigma di “realizzazione umana” ridotto, abitualmente, alla produttività economica o materiale.


2. Nell’ambito familiare è significativo il trattamento che diamo alle persone anziane o malate, a quelli, cioè, che non possono più “produrre”. Diversamente dalle culture ancestrali, nelle quali le persone anziane erano valutate come l’asse del gruppo familiare e persino come il “saggio” la cui parola era norma di condotta e giudizio inappellabile, nella cultura attuale molte volte sono viste purtroppo come un intralcio, e nel migliore dei casi sono inviate in centri assistenziali o case di cura. Se non ci sono queste risorse istituzionali, si deve “sopportarle” in casa, senza valutare quello che hanno dato, e anche quello che potrebbero dare, se i criteri di valutazione fossero più umani e meno consumistici. Purtroppo, queste situazioni talvolta si fanno presenti anche nella vita religiosa.


3. A livello mondiale, la situazione di disuguaglianza tra i paesi così chiamati di “primo mondo” e i paesi “di terzo mondo” è inaccettabile, ma in alcuni aspetti continua a crescere. La proposta di un “condono del debito” che hanno i paesi poveri, tranne qualche eccezione, non ha avuto ascolto; frequentemente, dobbiamo anche dirlo, questo non è tanto un problema economico da parte dei paesi “ricchi”, ma soprattutto politico: serve per conservare la situazione di dipendenza provocata dallo stesso debito. Lo stesso concetto di “giustizia” inteso come “dare a ognuno quello che si merita” non lascia spazio alla gratuità; anche se, indubbiamente, molte cose potrebbero migliorare nel nostro mondo se almeno ci fosse questo tipo di giustizia, se la norma di condotta tra le persone e le nazioni fosse… la legge del taglione. Questo indica che manca ancora molta strada da percorrere per arrivare alla civiltà dell’amore; concretamente, questa sarà impossibile se non cerchiamo di svegliare e sviluppare un senso e una cultura della gratuità.



2. La Gratuità, realtà umana fondamentale


Dopo quello che è stato detto, si potrebbe pensare di fare un passaggio immediato verso la prospettiva cristiana e teologica, lasciando a livello antropologico un vuoto totale, dando così l’impressione che la proposta di fede è soltanto risposta a un problema umano insolubile. Forse in fondo così accade, ma non dobbiamo ignorare quello “spazio intermedio” dove tutti gli esseri umani (anche i non cristiani!) possono e devono fare esperienza di gratuità, in maniera che la fede cristiana possa poi sviluppare tutta la sua ricchezza, come pienezza di qualcosa che ogni essere umano vive e spera.


La gratuità è intimamente connessa con l’esperienza del dono, del regalo. Nonostante ciò, ha connotazioni leggermente diverse. La gratuità sottolinea l’assenza di meriti da parte di chi riceve: altrimenti, non è gratuito. Lo stipendio che riceve un lavoratore alla fine della settimana, lo ha guadagnato con il sudore della sua fronte: non lo riceve gratis.

Invece, il dono sottolinea il carattere positivo di quello che vi viene dato. Un colpo, per esempio, è possibile che ci venga “dato” senza meritarlo: ma non è in assoluto un regalo. Purtroppo, abitualmente, senza quasi renderci conto, attribuiamo un’altra caratteristica al dono: quella di essere selettivo; viene concesso ad alcuni, e non ad altri (almeno, non a tutti). Un “regalo universale” sembra quasi contraddittorio, perché ci sembra che non sia più regalo 1.


Fatte queste precisazioni, analizziamo, ancora a livello umano, le due esperienze fondamentali di gratuità.


1. Quella difficoltà menzionata appena sopra impedisce, molte volte, di percepire che alla base stessa della nostra esistenza c’è un dono che, proprio per quello, è allo stesso tempo gratuito, positivo e universale: la vita. Si tratta del dono per eccellenza, per due motivi:


  • nessuno può fare niente per meritarla, perché, per meritare qualche cosa, è necessario prima esistere, per poterla ottenere;

  • qualsiasi altro dono che possiamo ricevere è posteriore, perché presuppone ormai la vita stessa.


E finalmente, conviene sottolineare la sua universalità, perché é carente di essa solo chi non vive (dunque, nessuno).


Per questo, diventa molto interessante e significativo l’atteggiamento che abbiamo riguardo alla domanda che, molte volte, sorge di fronte a situazioni particolarmente negative della vita e della storia: ci sono persone che non meritano di vivere?


M’immagino che la nostra risposta, unanime, sia: no! Ed è una risposta corretta, ma forse per la ragione opposta a quella a cui siamo abituati a pensare: non perché tutti abbiamo il diritto alla vita, ma in realtà perché nessuno “merita” la vita: proprio per quello nessuno può disporre della vita di un’altra persona… Forse nel caso di un diritto che “si ha”, si potrebbe perdere; ma nel caso contrario?


Troviamo, dunque, alla base di ogni essere umano, senza eccezione, il dono per eccellenza. Un’altra questione, indubbiamente, molto rilevante per noi, come cristiani e come salesiani, è quella se ogni essere umano percepisce la propria vita come un dono, cioè come un regalo - qualcosa di positivo. Purtroppo, molte volte non è così: a cominciare da tanti giovani che, per diverse ragioni, non trovano motivi per vivere, forse perché non si sentono amati da nessuno…


2. Questo ci porta alla seconda esperienza di gratuità. Se la vita è il dono gratuito per eccellenza, lo è in quanto fondamento, non in quanto pienezza, perché la domanda che sorge spontanea è: perché ho questo dono, la vita? Che cosa può dare senso alla mia vita? E qui la risposta è immediata e universale: l’amore. Cediamo la parola a san Tommaso, in un’espressione straordinaria, entro una insuperabile concisione: “La ragione di ogni donazione gratuita è l’amore: infatti diamo gratuitamente qualcosa a qualcuno perché desideriamo per lui il bene. Da questo vediamo chiaramente che l’amore è il dono per eccellenza, per il quale viene regalato ogni dono gratuito” (un triplo pleonasmo!) 2. Josef Pieper colloca questa frase come epigrafe del suo straordinario libro sull’amore 3.


La gratuità dell’amore è un tema inesauribile, anche dal punto di vista umano. In primo luogo, questa gratuità può confondersi con la mancanza di motivazione e, in conseguenza, con la sua incomprensibilità. Perché amo questa persona? È una domanda che rimane sempre, in fin dei conti, senza una risposta adeguata (meno male: se ci fosse quella risposta, forse non sarebbe più autentico amore). È stato detto genialmente da Montaigne, il quale, per spiegare la sua amicizia con Étienne de La Boétie, scrive: « Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut exprimer qu’en répondant : Parce que c’était lui, parce que c’était moi »4.


Una seconda caratteristica nell’esperienza dell’amore é l’incondizionalità. Ci possono essere altre forme di rapporto interpersonale che si fondano in diverse qualità: bellezza fisica, intelligenza, abilità, ecc. (alle volte, stranamente, in altri fattori quasi contrari a questi); ma l’amore autentico, senza essere insensibile o indifferente a tutto questo (ubi amor, ibi oculus, diceva Ricardo di san Vittore), trascende tutte queste condizioni.


Nonostante ciò, come ogni esperienza umana, non è carente di ambiguità: potrebbe condurre o a una accettazione incondizionata, tipica del vero amore, o a uno “svuotamento” tale dell’altro (proprio perché non dipende questo rapporto da nessuna delle sue caratteristiche personali proprie) che sarebbe semplicemente una caricatura dell’amore: infatti chi ama così non lo fa veramente, né l’altra persona si sente amata come persona. In molti casi, può essere un sottile stratagemma dell’egoismo. In qualche maniera, sarebbe quello che sant’Agostino esprimeva genialmente nelle sue Confessioni: “Ancora non amavo, ma amavo l’amare” - Nondum amabam, et amare amabam 5.


Si potrebbe continuare questa analisi. Invece, in maniera analoga al tema della manifestazione, è conveniente qui rendere esplicita l’altra dimensione nell’elisse dell’amore. Fin qui l’abbiamo visto come abitualmente si fa, cioè: dall’atteggiamento di chi ama. Come si vive dall’altra parte di questa esperienza?


E qui troviamo qualcosa di straordinariamente paradossale. Il Rettor Maggiore, nella sua Lettera sull’Eucaristia, fa una allusione a questo riguardo (ACG 398, p. 14). Su questa pagina ritorneremo alla fine. Quello che egli qui afferma penso che possiamo arricchirlo con il suo fondamento antropologico.


A prima vista, sembra evidente che tutti vogliamo essere amati, e soprattutto essere amati in maniera gratuita e incondizionata. Nonostante ciò, le cose non sono così semplici. Cedo di nuovo la parola a J. Pieper:


Ogni amore è fondamentalmente gratuito. Non lo si può né meritare né esigere; è sempre puro dono (…) Ma pare che nell’uomo vi sia qualcosa come un’avversione all’essere fatto oggetto di dono. Non vi è nessuno a cui non sia un po’ familiare l’espressione: Non voglio regali! E questo sentimento confina terribilmente con l’altro: non voglio essere ‘amato’, meno che meno poi senza motivo! (…) E C. S. Lewis dice che l’amore, di cui abbiamo veramente bisogno, è proprio quello gratuito, e non già il tipo di amore che noi desideriamo. ‘Noi desideriamo essere amati per la nostra intelligenza, bellezza, generosità, gentilezza, abilità’ 6.


Anche qui percepiamo l’ambiguità di cui parlavamo, soltanto che dall’esperienza passiva dell’essere amati; in questa esperienza, la persona amata potrebbe chiedersi: voglio lasciarmi ‘spogliare’ di tutto quello che mi costituisce come ‘io’ unico e irripetibile? Anche se, in fondo, non è così, o meglio non dovrebbe essere così. Se qualcuno mi dice: “Ti amo, non mi interessa come sei”: è espressione di incondizionalità, o di disinteresse e indifferenza? Basti pensare che dire a un confratello della nostra comunità: ‘sei l’oggetto privilegiato del mio agape’, è una delle forme più sottili e incisive per offenderlo. È molto difficile lasciarsi amare incondizionatamente dagli altri, e persino dallo stesso Dio…


Oltre a questo malinteso, forse c’è un altro motivo che spiega, in qualche maniera, questo rifiuto ad essere amati incondizionatamente: la apparente inutilità della risposta dell’amato. Può sembrare che alla persona che ama non interessi se noi corrispondiamo al suo amore, o meno; e questo la colloca in una situazione innegabile di inferiorità. Ha molta ragione Nietzsche, quando afferma: “A chi si abitua soltanto a dare, si formano calli nelle mani e nel suo cuore”. Dobbiamo affermarlo chiaramente: all’essenza dell’amore corrisponde il dare… e il ricevere, anche in Dio. Questa ultima affermazione sarà posteriormente sviluppata.



3. “La Grazia e la Verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17b)


Ricordando la differenza tra l’espressione e la manifestazione, diventa più chiaro indicare come tutto quello detto sopra diventa, nella vita di ogni essere umano, l’espressione della gratuità dell’Amore di Dio. Nonostante ciò, per essere percepita come tale, è necessaria la sua manifestazione, in Gesù Cristo.


Se presupponiamo questa distinzione, possiamo indicare tre caratteristiche fondamentali dell’Amore divino dalla prospettiva della gratuità:


- l’universalità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1 Tim 2, 4). Da qui nasce il carattere missionario della Chiesa in senso stretto, e, con sottolineature proprie, della missione salesiana in essa. Personalmente, credo che uno degli elementi che meglio possono aiutare a capire la “necessità” dell’appartenenza alla Chiesa in rapporto alla salvezza è il suo carattere di comunità: dobbiamo prendere sul serio che, fuori dalla Chiesa attuale, non c’è attualmente esperienza piena di salvezza, proprio perché manca la manifestazione concreta, percettibile, storica dell’Amore di Dio in Gesù Cristo, vissuta nella Chiesa come Famiglia di Dio.


- l’iniziativa di Dio: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1 Gv 4, 10). La Grazia, in quanto espressione gratuita dell’Amore divino, è sempre pre-veniente: precede sempre la risposta umana, la quale, in certa maniera, è anche dono di Dio, ma non esclude in assoluto la libertà umana. In questo senso, diciamolo ancora una volta, il Sistema Preventivo di Don Bosco affonda le sue radici nel midollo della nostra fede: “Don Bosco visse (…) un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò ‘sistema preventivo’. Era per lui un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua Provvidenza” (Cost. 20). Nella semantica di questa parola, pre-venire, mi sembra che possiamo trovare due sensi: uno, la pre-cedenza; e un altro, lo sforzo per evitare qualcosa di negativo. Nel primo senso, parliamo dell’amore che antecede sempre; nel secondo, della preoccupazione per impedire l’esperienza dell’allontanamento da Dio, il peccato (perciò, possiamo utilizzare tutti e due termini: pre-veniente, pre-ventivo).


- in fine l’incondizionalità. L’Amore di Dio, in quanto Grazia, non presuppone niente per poter amare, ma mostra persino una predilezione - sconcertante, secondo i criteri umani - per quello che non è “amabile”, per chi non “ha nessun diritto” di pretendere di essere amato. “I peccatori, infatti, sono belli perché sono amati (da Dio), non sono amati perché sono belli” 7.


Non resisto la tentazione di citare un bellissimo testo di Dostoevskij, pronunciato da un personaggio per niente “esemplare”, l’ubriacone Marmeladov:


E tutti giudicherà e perdonerà, e i buoni e i cattivi, e i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti gli altri, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite’ dirà ‘anche voi! Uscite, ubriaconi, uscite, deboli, uscite, uomini senza onore!’ E noi usciremo tutti, senza vergogna, e ci metteremo ritti dinanzi a Lui. E dirà: ‘Porci siete! Con l’effigie della bestia e la sua impronta; ma venite anche voi!’ E l’apostroferanno i saggi, l’apostroferanno coloro che hanno giudizio: ‘Signore! Perché mai accogli anche costoro?’ E dirà: ‘Li accolgo, saggi, li accolgo, voi che avete giudizio, perché non uno di loro s’è ritenuto degno di ciò…’ E tenderà verso di noi le braccia Sue, e noi cadremo in ginocchio… e scoppieremo in pianto… e tutto capiremo!”8



4. L’Amore di Dio, Agape e Eros


L’esperienza che l’uomo fa dell’amore, anche dell’Amore di Dio, è un’esperienza umana. In quanto tale, non può liberarsi dell’ambiguità inerente ad ogni captazione dell’amore. Per disgrazia, molte volte accade questo: l’universalità dell’Amore di Dio può essere considerata genericismo, la sua precedenza può essere così lontana che passa inavvertita, e la sua incondizionalità può confondersi con l’indifferenza. L’evangelizzazione e la catechesi, proprio in quanto annuncio della manifestazione dell’Amore divino, devono fare il possibile per dissipare questi malintesi, perché possa essere percepito, in tutta la sua bellezza ed efficacia, nella vita di ognuno di noi e dei giovani che il Signore ci affida.


Di tutti questi malintesi, vorrei approfondirne uno, che mi sembra un campo praticamente inesplorato. Da quello che io conosco, l’unico che ha osato penetrare in esso è stato Joseph Ratzinger, ed è consolante che lo abbia fatto essendo il Pastore supremo della Chiesa Universale. Purtroppo, anche i grandi trattatisti hanno dato per supposto che l’Amore di Dio è diverso dall’amore umano, tra altri tratti, per la sua totale ed assoluta gratuità, in maniera tale che non aspetta niente in cambio. J. Pieper afferma, senza pensare che ci sia bisogno di dimostrarlo, che “si dovrebbe essere Dio per essere capaci soltanto di amare, senza esser costretti a ricorrere all’essere amati”9.


Da parte sua, S. C. Lewis scrive: “Dio è Amore (…) Questo Amore originario è un ‘amore-dono’: in Dio non vi è fame che debba essere saziata, ma solo pienezza che desidera donare (…) Gli ‘affetti-bisogno’, per quanto ho potuto sperimentare, non assomigliano a Colui che è l’amore stesso” 10.


Quasi in maniera letterale vengono contraddetti dal Papa Benedetto XVI, con termini teologicamente insoliti: “L’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa (…) Sulla Croce è Dio stesso che mendica l’amore della sua creatura: Egli ha sete dell’amore di ognuno di noi” (Messaggio per la Quaresima 2007).


Continuando questo sforzo per “imparare” cos’è l’Amore, nella contemplazione della sua manifestazione piena e definitiva in Gesù Cristo, ci domandiamo: Qual è il “caso ottimo” (“figura piena” lo chiama Eberhard Jüngel 11) nell’esperienza dell’amore, riguardo alla gratuità?


Se vogliamo rispondere schematicamente, possiamo stabilire le diverse possibilità:


- Chi ama senza aspettare/sperare nessuna risposta dalla persona amata: è chiaro che non si tratta del “caso ottimo” dell’amore (anche se Jüngel apre una porticella: “Naturalmente, non è da escludersi che l’essenza dell’amore venga in luce ancora più nitidamente dal punto di vista ermeneutico quando il ‘tu’ amato non ama ‘l’io’ amante” 12).


- Chi ama per essere ricambiato: anche qui è evidente che non si dà il “caso ottimo”, e forse neanche si tratti di un vero amore, ma di egoismo mascherato.


- Chi ama in maniera disinteressata, ma aspettando una risposta della persona amata, per il bene di essa stessa: io voglio che la persona amata corrisponda al mio amore, non per il mio bene, ma per il suo: per uscire da se stessa e realizzarsi come persona, attraverso l’amore. È una posizione molto “nobile”, ma dobbiamo riconoscere, se siamo sinceri, che non è umanamente soddisfacente.


- Chi ama in maniera disinteressata, ma aspettando una risposta della persona amata, per il bene di essa stessa, in quanto corrisponde a chi la ama: è apparentemente uguale al precedente, ma c’è una differenza essenziale: la convinzione che la persona amata soltanto potrà trovare la felicità nell’ “amante”. Questo caso sarebbe inaccettabile nelle relazioni umane (“chi ti credi di essere?”) ma, curiosamente, sembrerebbe il caso tipico della relazione con Dio: in quel caso, si tratterebbe della salvezza, bene intesa: soltanto Dio può essere la felicità di chi corrisponde al suo Amore.


- Purtroppo, non siamo ancora nel “caso ottimo”. È necessario aggiungere, alla luce di tutto quello che abbiamo riflettuto, che questa risposta dell’uomo all’Amore di Dio costituisce la piena felicità dell’amato… e anche dell’Amante, Dio stesso. Prendere questo sul serio, mi sembra che ci porti a intravedere, nella penombra del Mistero del Dio-Amore rivelato in Cristo, prospettive insospettabili…

Lo stesso Dostoevskij ha un testo straordinario, a proposito di una giovane madre, che si fa il segno della croce davanti al primo sorriso del suo bambino; la semplice donna lo spiega così: “La gioia che prova la madre quando osserva il primo sorriso della sua creatura, la stessa gioia esattamente la prova anche Dio ogni volta che vede dal cielo un peccatore inginocchiarsi davanti a Lui per pregare di tutto cuore” 13.



5. “Fate questo in memoria di Me”: il dono dell’Eucaristia


Tutto questo ci permette di capire molto meglio l’affermazione del Rettor Maggiore nella sua lettera sull’Eucaristia:


L’Eucaristia è mistero perché in essa ci è svelato tanto amore (cfr. Gv 15, 13), un amore così divino che, oltrepassando le nostre capacità, ci sopraffa e ci lascia sbalorditi. Anche se non sempre ne siamo consapevoli, di solito troviamo difficoltà a ricevere il dono dell’Eucaristia, l’Amore di Dio reso manifesto nella consegna del corpo di Cristo (cfr. Gv 3, 16), che eccede la nostra capienza e sfida la nostra libertà; Dio è sempre più grande del nostro cuore ed arriva dove non possono i nostri migliori desideri (…) Un amore tanto estremo ci spaventa, svela la povertà radicale del nostro essere; il bisogno profondo di amare non ci lascia tempo, né energie, per lasciarci amare. E, così, preferiamo essere indaffarati, rifugiarci nel fare tanto per gli altri e dare loro tanto di noi, e ci priviamo dello stupore di saperci tanto amati da Dio (ACG 398, p. 14).


Evidentemente, il Rettor Maggiore riprende qui alcuni contenuti ed espressioni dell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, che tutti noi, senz’altro, conosciamo ed abbiamo meditato.


Tra molte altre riflessioni possibili, vorrei centrarmi anzitutto nella radice stessa della parola Eucaristia: troviamo qui di nuovo la ς, che sottolinea al massimo il suo senso di gratuità, in quanto non troviamo qui “un” dono di Dio, ma lo stesso Dio fatto Dono per noi. Quello che il Papa afferma, all’inizio della sua prima enciclica, Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (DCE, n. 1), si concretizza nell’Eucaristia (cfr. Sacramentum Caritatis n. 86 et passim): “Gesù nel Sacramento eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue. Quale stupore deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico!” (SC, n. 1).


In secondo luogo, conviene ricordare che l’ultima Cena, in quanto tale, si vede preceduta da molte altre (altrimenti, non sarebbe “l’ultima”). Il Rettor Maggiore ci ricorda questo senso di “convivio” che è l’Eucaristia, prendendo come punto di partenza il “mangiare insieme” da parte di Gesù, in particolare con i peccatori. Basta ricordare, tra altri testi evangelici, Mt 9, 9-13; Lc 5, 29-30; 15, 1ss. (ACG 398, p. 33-35).


Sorge una domanda interessante: quale Sacramento della Chiesa trova qui il suo “fondamento cristologico”: l’Eucaristia o la Riconciliazione? Penso che la risposta dovrebbe essere: tutte e due, in maniera inseparabile. Non si può dimenticare che il perdono costituisce un elemento centrale nella vita e nella missione di Gesù, come espressione privilegiata dell’Amore misericordioso di Dio. Anzi, soltanto nell’Amore può avere la sua autentica radice. Questo lo possiamo vedere anche attraverso l’analisi etimologico della parola; almeno nelle lingue occidentali, la sua radice è semplicissima: donare, regalare, con un prefisso intensivo per (anche nel campo linguistico anglosassone: for-give, ver-geben). In altre parole, non c’è un dono più grande e più gratuito che il per-dono; e, ricordando la frase di san Tommaso, non c’è autentico perdono che non nasca dall’amore.


Tutto questo può avere, tra molte altre concretizzazioni, una che si riferisce alla nostra vita comunitaria. Nell’Eucaristia “la comunità vi celebra il mistero pasquale (…) per costruirsi in Lui come comunione fraterna e rinnovare il suo impegno apostolico” (Cost. 88). Prendere sul serio l’Eucaristia dovrebbe portarci a crescere nella fraternità comunitaria (includendo la realtà quotidiana del perdono) e accettando il comandamento di Gesù: Fate questo in memoria di Me: essere, anche noi, corpo che si dona, sangue che si versa per la salvezza dei nostri giovani.


Infine, vorrei invitarvi a contemplare la Madonna. Non c’è bisogno di “inventarci” presenze apocrife nell’Ultima Cena (neanche, ugualmente, apparizioni pasquali): Giovanni Paolo II allude a questo, indicando che, “nel racconto dell’istituzione, la sera del Giovedì Santo, non si parla di Maria” (EdE, n. 53). Non c’è bisogno. “Al di là della sua partecipazione al Convito eucaristico, (…) Maria è donna ‘eucaristica’ con l’intera sua vita” (ibidem). “Da Lei dobbiamo imparare a diventare noi stessi persone eucaristiche ed ecclesiali” (SC, n. 96).

Dopo l’esplicitazione di questa affermazione nei diversi testi neotestamentari, il Servo di Dio conclude: “Se il Magnificat esprime la spiritualità di Maria, nulla più di questa spiritualità ci aiuta a vivere il Mistero eucaristico. L’Eucaristia ci è data perché la nostra vita, come quella di Maria, sia tutta un Magnificat!” (EdE, n. 58).

1 Forse potrebbe persino vedersi, da questo punto di vista, il midollo della discussione teologica degli anni 50 sul tema - indubbiamente, centrale nella teologia cattolica - del Soprannaturale.

2 S. Th., I, q. 38, a. 2, resp. Il testo originale é: “Ratio autem gratuitae donationis est amor, ideo enim damus gratis alicui aliquid, quia volumus ei bonum. Primum ergo quod damus ei, est amor quo volumus ei bonum. Unde manifestum est quod amor habet rationem primi doni, per quod omnia dona gratuita donantur”.

3 J. PIEPER, L’Amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 8.

4 « Se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo : Perché era lui e perché ero io », citato da: M. WIRTH, François de Sales et l’Éducation, Paris, Éditions Don Bosco, 2005, p. 92.

5 SAN AGUSTÍN, Confesiones III/1, Madrid, BAC, 1991, p. 131.

6 JOSEF PIEPER, Sull’Amore, pp. 58-59 (la citazione de Lewis si trova in: C. S. LEWIS, Los Cuatro Amores, Madrid, Rialp, 2002, 145).

7 J. MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Brescia, Queriniana, 2002, pp. 248-249.

8 F. M. DOSTOYEVSKI, Delitto e Castigo, Milano, Mondadori, 2004, p. 30.

9 J. PIEPER, Sull’Amore, p. 65.

10 S. C. LEWIS, I quattro Amori, Milano, Jaca Book, 2006, 115-116. Los Cuatro Amores, pp. 140-141.

11 Cfr. EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, p. 414.

12 Ibid.

13 F. M. DOSTOEVSKIJ, l’Idiota, Torino, Einaudi, 2004, p. 220.

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