ITA - Salesiani Cap Gen Valdocco 2020


ITA - Salesiani Cap Gen Valdocco 2020



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Ai partecipanti al Capitolo Generale dei Salesiani
Valdocco, 16 febbraio – 4 aprile 2020
Cari fratelli!
Vi saluto con affetto e ringrazio Dio di poter, pur a distanza, condividere
con voi un momento del cammino che state percorrendo.
È significativo che, dopo alcuni decenni, la Provvidenza vi abbia
condotto a celebrare il Capitolo Generale a Valdocco – il luogo della memoria
– dove il sogno fondativo si concretizzò e fece i primi passi. Sono sicuro che
il rumore e il vociare degli oratori sarà la musica migliore, la più efficace
perché lo Spirito ravvivi il dono carismatico del vostro fondatore. Non
chiudete le finestre a questo rumore di sottofondo… Lasciate che vi
accompagni e che vi mantenga inquieti e intrepidi nel discernimento; e
permettete che queste voci e questi canti, a loro volta, evochino in voi i volti
di tanti altri giovani che, per varie ragioni, si trovano come pecore senza
pastore (cfr Mc 6,34). Questo vociare e questa inquietudine vi terranno
attenti e svegli davanti a qualunque tipo di anestesia autoimposta e vi
aiuteranno a rimanere in una fedeltà creativa alla vostra identità salesiana.
Ravvivare il dono che avete ricevuto
Pensare alla figura di salesiano per i giovani di oggi implica accettare
che siamo immersi in un momento di cambiamenti, con tutto ciò che di
incertezza questo genera. Nessuno può dire con sicurezza e precisione (se
mai qualche volta si è potuto farlo) che cosa succederà nel prossimo futuro
a livello sociale, economico, educativo e culturale. L’inconsistenza e la
“fluidità” degli avvenimenti, ma soprattutto la velocità con cui si susseguono
e si comunicano le cose, fa sì che ogni tipo di previsione diventi una lettura
condannata ad essere riformulata al più presto (cfr Cost. ap. Veritatis
gaudium, 3-4). Tale prospettiva si accentua ancor più per il fatto che le vostre
opere sono orientate in modo particolare al mondo giovanile che in sé stesso
è un mondo in movimento e in continua trasformazione. Questo ci chiede
una doppia docilità: docilità ai giovani e alle loro esigenze e docilità allo
Spirito e a tutto quello che Egli voglia trasformare.
Assumere responsabilmente questa situazione – a livello sia personale
sia comunitario – comporta l’uscire da una retorica che ci fa dire
continuamente “tutto sta cambiando” e che, a forza di ripeterlo e ripeterlo,

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finisce col fissarci in un’inerzia paralizzante che priva la vostra missione della
parresia propria dei discepoli del Signore. Tale inerzia può anche
manifestarsi in uno sguardo e un atteggiamento pessimistici di fronte a tutto
ciò che ci circonda e non solo rispetto alle trasformazioni che avvengono nella
società ma anche in rapporto alla propria Congregazione, ai fratelli e alla vita
della Chiesa. Quell’atteggiamento che finisce per “boicottare” e impedire
qualunque risposta o processo alternativo, oppure per far emergere la
posizione opposta: un ottimismo cieco, capace di dissolvere la forza e novità
evangelica, impedendo di accettare concretamente la complessità che le
situazioni richiedono e la profezia che il Signore ci invita a portare avanti. Né
il pessimismo né l’ottimismo sono doni dello Spirito, perché entrambi
provengono da una visione autoreferenziale capace solo di misurarsi con le
proprie forze, capacità o abilità, impedendo di guardare a ciò che il Signore
attua e vuole realizzare tra di noi (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 35).
Né adattarsi alla cultura di moda, né rifugiarsi in un passato eroico ma già
disincarnato. In tempi di cambiamenti, fa bene attenersi alle parole di San
Paolo a Timoteo: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che
è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito
di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (2 Tm 1,6-7).
Queste parole ci invitano a coltivare un atteggiamento contemplativo,
capace di identificare e discernere i punti nevralgici. Questo aiuterà ad
addentrarsi nel cammino con lo spirito e l’apporto proprio dei figli di Don
Bosco e, come lui, sviluppare una «valida rivoluzione culturale» (Enc.
Laudato si’, 114). Questo atteggiamento contemplativo permetterà a voi di
superare e oltrepassare le vostre stesse aspettative e i vostri programmi.
Siamo uomini e donne di fede, il che suppone l’essere appassionati di Gesù
Cristo; e sappiamo che tanto il nostro presente quanto il nostro futuro sono
impregnati di questa forza apostolico-carismatica chiamata a continuare a
permeare la vita di tanti giovani abbandonati e in pericolo, poveri e bisognosi,
esclusi e scartati, privati di diritti, di casa… Questi giovani attendono uno
sguardo di speranza in grado di contraddire ogni tipo di fatalismo o
determinismo. Attendono di incrociare lo sguardo di Gesù che dice loro «che
in tutte le situazioni buie e dolorose […] c’è una via d’uscita» (Esort. ap.
postsin. Christus vivit, 104). È lì che abita la nostra gioia.
Né pessimista né ottimista, il salesiano del sec. XXI è un uomo pieno
di speranza perché sa che il suo centro è nel Signore, capace di fare nuove
tutte le cose (cfr Ap 21,5). Solo questo ci salverà dal vivere in un
atteggiamento di rassegnazione e sopravvivenza difensiva. Solo questo
renderà feconda la nostra vita (cfr Omelia, 2 febbraio 2017), perché renderà

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possibile che il dono ricevuto continui ad essere sperimentato ed espresso
come una buona notizia per e con i giovani di oggi. Questo atteggiamento di
speranza è capace di instaurare e inaugurare processi educativi alternativi
alla cultura imperante che, in non poche situazioni – sia per indigenza e
povertà estrema sia per abbondanza, in alcuni casi pure estrema –, finiscono
con l’asfissiare e uccidere i sogni dei nostri giovani condannandoli a un
conformismo assordante, strisciante e non di rado narcotizzato. Né
trionfalisti né allarmisti, uomini e donne allegri e speranzosi, non
automatizzati ma artigiani; capaci di «mostrare altri sogni che questo mondo
non offre, di testimoniare la bellezza della generosità, del servizio, della
purezza, della fortezza, del perdono, della fedeltà alla propria vocazione, della
preghiera, della lotta per la giustizia e il bene comune, dell’amore per i poveri,
dell’amicizia sociale» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 36).
L’“opzione Valdocco” del vostro 28° Capitolo Generale è una buona
occasione per confrontarsi con le fonti e chiedere al Signore: “Da mihi animas,
coetera tolle”.1 Tolle soprattutto ciò che durante il cammino si è andato
incorporando e perpetuando e che, sebbene in un altro tempo è potuto essere
una risposta adeguata, oggi vi impedisce di configurare e plasmare la
presenza salesiana in maniera evangelicamente significativa nelle diverse
situazioni della missione. Questo richiede, da parte nostra, di superare le
paure e le apprensioni che possono sorgere per aver creduto che il carisma
si riducesse o identificasse con determinate opere o strutture. Vivere
fedelmente il carisma è qualcosa di più ricco e stimolante del semplice
abbandono, ripiego o riadattamento delle case o delle attività; comporta un
cambio di mentalità di fronte alla missione da realizzare.2
L’ “opzione Valdocco” e il dono dei giovani
L’Oratorio salesiano e tutto ciò che sorse a partire da esso, come
racconta la biografia dell’Oratorio, nacque come risposta alla vita di giovani
con un volto e una storia, che misero in moto quel giovane sacerdote
incapace di rimanere neutrale o immobile davanti a ciò che accadeva. Fu
molto più di un gesto di buona volontà o di bontà, e persino molto più del
risultato di un progetto di studio sulla “fattibilità numerico-carismatica”. Lo
1 Motto impresso a fuoco nei primi missionari. Ricordo la lettera di don Giacomo Costamagna a Don Bosco
dove, dopo avergli raccontato le difficoltà del viaggio e i diversi fallimenti che dovettero affrontare, conclude
dicendo: “Dimandiamo unanimi una cosa sola: poter andare presto nella Patagonia per salvare innumerevoli
anime”. La consapevolezza di essere inviati a cercare anime nelle periferie e a rimanere superando qualsiasi
apparente fallimento è una nota d’identità in base alla quale confrontare e misurare il carisma: “Da mihi
animas, coetera tolle”.
2 Ricordiamo l’ammonimento del Signore: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione
degli uomini» (Mc 7,8).

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penso come un atto di conversione permanente e di risposta al Signore che,
“stanco di bussare” alle nostre porte, aspetta che andiamo a cercarlo e a
incontrarlo… O che lo lasciamo uscire, quando bussa da dentro. Conversione
che implicò (e complicò) tutta la sua vita e quella di coloro che gli stavano
attorno. Don Bosco non solo non sceglie di separarsi dal mondo per cercare
la santità, ma si lascia interpellare e sceglie come e quale mondo abitare.
Scegliendo e accogliendo il mondo dei bambini e dei giovani
abbandonati, senza lavoro né formazione, ha permesso loro di sperimentare
in modo tangibile la paternità di Dio e ha fornito loro strumenti per
raccontare la loro vita e la loro storia alla luce di un amore incondizionato.
Essi, a loro volta, hanno aiutato la Chiesa a re-incontrarsi con la sua
missione: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo» (Sal
118,22). Lungi dall’essere agenti passivi o spettatori dell’opera missionaria,
essi divennero, a partire dalla loro stessa condizione – in molti casi “illetterati
religiosi” e “analfabeti sociali” – i principali protagonisti dell’intero processo
di fondazione.3 La salesianità nasce precisamente da questo incontro capace
di suscitare profezie e visioni: accogliere, integrare e far crescere le migliori
qualità come dono per gli altri, soprattutto per quelli emarginati e
abbandonati dai quali non ci si aspetta nulla. Lo disse Paolo VI:
«Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Ciò vuol
dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se
vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo» (Esort.
ap. Evangelii nuntiandi, 15). Ogni carisma ha bisogno di essere rinnovato ed
evangelizzato, e nel vostro caso soprattutto dai giovani più poveri.
Gli interlocutori di Don Bosco ieri e del salesiano oggi non sono meri
destinatari di una strategia progettata in anticipo, ma vivi protagonisti
dell’oratorio da realizzare.4 Per mezzo di loro e con loro il Signore ci mostra
la sua volontà e i suoi sogni.5 Potremmo chiamarli co-fondatori delle vostre
case, dove il salesiano sarà esperto nel convocare e generare questo tipo di
dinamiche senza sentirsene il padrone. Un’unione che ci ricorda che siamo
3 Grazie all’aiuto del saggio Cafasso, Don Bosco scoprì chi era agli occhi dei giovani detenuti; e quei giovani
detenuti scoprirono un volto nuovo nello sguardo di Don Bosco. Così insieme scoprirono il sogno di Dio, che
ha bisogno di questi incontri per manifestarsi. Don Bosco non scoprì la sua missione davanti a uno specchio,
ma nel dolore di vedere dei giovani che non avevano futuro. Il salesiano del sec. XXI non scoprirà la propria
identità se non è capace di patire con «la quantità di ragazzi, sani e robusti, di ingegno sveglio che stavano in
carcere tormentati e del tutto privi di nutrimento spirituale e materiale… In loro era rappresentato l’obbrobrio
della patria, il disonore della famiglia» (Memorie dell’Oratorio di san Francesco di Sales, 48); e noi potremmo
aggiungere: della nostra stessa Chiesa.
4 Oggi vediamo come in molte regioni sono i giovani i primi a sollevarsi, organizzarsi e promuovere cause giuste.
Le vostre case salesiane, lungi dall’impedire questo risveglio, sono chiamate a diventare spazi che possano
stimolare questa coscienza di cristiani e cittadini. Ricordiamo il titolo della strenna di quest’anno del Rettor
Maggiore: “Buoni cristiani e onesti cittadini”.
5 Vi invito a tener sempre presenti tutti coloro che non partecipano di queste istanze ma che non possiamo
ignorare se non vogliamo diventare un gruppo chiuso.

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“Chiesa in uscita” e ci mobilita per questo: Chiesa capace di abbandonare
posizioni comode, sicure e in alcune occasioni privilegiata, per trovare negli
ultimi la fecondità tipica del Regno di Dio. Non si tratta di una scelta
strategica, ma carismatica. Una fecondità sostenuta in base alla croce di
Cristo, che è sempre ingiustizia scandalosa per quanti hanno bloccato la
sensibilità davanti alla sofferenza o sono scesi a patti con l’ingiustizia nei
confronti dell’innocente. «Non possiamo essere una Chiesa che non piange
di fronte a questi drammi dei suoi figli giovani. Non dobbiamo mai farci
l’abitudine, perché chi non sa piangere non è madre. Noi vogliamo piangere
perché anche la società sia più madre» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 75).
L’ “opzione Valdocco” e il carisma della presenza
È importante sostenere che non veniamo formati per la missione, ma
che veniamo formati nella missione, a partire dalla quale ruota tutta la
nostra vita, con le sue scelte e le sue priorità. La formazione iniziale e quella
permanente non possono essere un’istanza previa, parallela o separata
dell’identità e della sensibilità del discepolo. La missione inter gentes è la
nostra scuola migliore: a partire da essa preghiamo, riflettiamo, studiamo,
riposiamo. Quando ci isoliamo o ci allontaniamo dal popolo che siamo
chiamati a servire, la nostra identità come consacrati comincia a sfigurarsi
e a diventare una caricatura.
In questo senso, uno degli ostacoli che possiamo individuare non ha
tanto a che vedere con una qualsiasi situazione esterna alle nostre comunità,
ma piuttosto è quello che ci tocca direttamente per un’esperienza distorta
del ministero…, e che ci fa tanto male: il clericalismo. È la ricerca personale
di voler occupare, concentrare e determinare gli spazi minimizzando e
annullando l’unzione del Popolo di Dio. Il clericalismo, vivendo la chiamata
in modo elitario, confonde l’elezione con il privilegio, il servizio con il
servilismo, l’unità con l’uniformità, la discrepanza con l’opposizione, la
formazione con l’indottrinamento. Il clericalismo è una perversione che
favorisce legami funzionali, paternalistici, possessivi e perfino manipolatori
con il resto delle vocazioni nella Chiesa.
Un altro ostacolo che incontriamo – diffuso, e perfino giustificato,
soprattutto in questo tempo di precarietà e fragilità – è la tendenza al
rigorismo. Confondendo autorità con autoritarismo, esso pretende di
governare e controllare i processi umani con un atteggiamento scrupoloso,
severo e perfino meschino di fronte ai limiti e alle debolezze propri o altrui
(soprattutto altrui). Il rigorista dimentica che il grano e la zizzania crescono

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insieme (cfr Mt 13,24-30) e «che non tutti possono tutto e che in questa vita
le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla
grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare
quello che puoi e a chiedere quello che non puoi» (Esort. ap. Gaudete et
exsultate, 49). San Tommaso d’Aquino con grande finezza e sottigliezza
spirituale ci ricorda che «il diavolo inganna molti. Alcuni attirandoli a
commettere i peccati, altri invece all’eccessiva rigidità verso chi pecca, così
che se non può averli con il comportamento vizioso, conduce alla perdizione
quelli che ha già, utilizzando il rigore dei prelati, i quali, non correggendoli
con misericordia, li inducono alla disperazione, ed è così che si perdono e
cadono nella rete del diavolo. E questo capita a noi, se non perdoniamo ai
peccatori».6
Coloro che accompagnano altri a crescere devono essere persone dai
grandi orizzonti, capaci di mettere insieme limiti e speranza, aiutando così a
guardare sempre in prospettiva, in una prospettiva salvifica. Un educatore
«che non teme di porre limiti e, al tempo stesso, si abbandona alla dinamica
della speranza espressa nella sua fiducia nell’azione del Signore dei processi,
è l’immagine di un uomo forte, che guida ciò che non appartiene a lui, ma al
suo Signore»7. Non ci è lecito soffocare e impedire la forza e la grazia del
possibile, la cui realizzazione nasconde sempre un seme di Vita nuova e
buona. Impariamo a lavorare e a confidare nei tempi di Dio, che sono sempre
più grandi e saggi delle nostre miopi misure. Lui non vuole distruggere
nessuno, ma salvare tutti.
È urgente, pertanto, trovare uno stile di formazione capace di assumere
in modo strutturale il fatto che l’evangelizzazione implica la partecipazione
piena, e con piena cittadinanza, di ogni battezzato – con tutte le sue
potenzialità e i suoi limiti – e non solo dei cosiddetti “attori qualificati” (cfr
Esort. ap. Evangelii gaudium, 120); una partecipazione dove il servizio, e il
servizio al più povero, sia l’asse portante che aiuti a manifestare e a
testimoniare meglio nostro Signore, «che non è venuto per farsi servire, ma
per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Vi incoraggio
a continuare a impegnarvi per fare delle vostre case un “laboratorio
ecclesiale” capace di riconoscere, apprezzare, stimolare e incoraggiare le
diverse chiamate e missioni nella Chiesa.8
6 Super II Cor., cap. 2, lect. 2 (in fine). Il passo commentato da san Tommaso è 2 Cor 2,6-7 dove, riguardo a chi
lo ha rattristato, san Paolo scrive: «Dovreste usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto
un dolore troppo forte».
7 J. M. BERGOGLIO, Meditazioni per religiosi, 105.
8 Una vocazione ecclesiale, prima di essere un atto che differenzia o che rende complementari, è un invito ad
offrire un dono particolare in funzione della crescita degli altri.

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In questo senso, penso concretamente a due presenze della vostra
comunità salesiana, che possono aiutare come elementi a partire dai quali
confrontare il posto che occupano le diverse vocazioni tra di voi; due presenze
che costituiscono un “antidoto” contro ogni tendenza clericalista e rigorista:
il Fratello Coadiutore e le donne.
I Fratelli Coadiutori sono espressione viva della gratuità che il carisma
ci invita a custodire. La vostra consacrazione è, innanzitutto, segno di un
amore gratuito del Signore e al Signore nei suoi giovani che non si definisce
principalmente con un ministero, una funzione o un servizio particolare, ma
attraverso una presenza. Prima ancora che di cose da fare, il salesiano è
ricordo vivente di una presenza in cui la disponibilità, l’ascolto, la gioia e la
dedizione sono le note essenziali per suscitare processi. La gratuità della
presenza salva la Congregazione da ogni ossessione attivistica e da ogni
riduzionismo tecnico-funzionale. La prima chiamata è quella di essere una
presenza gioiosa e gratuita in mezzo ai giovani.
Che ne sarebbe di Valdocco senza la presenza di Mamma Margherita?
Sarebbero state possibili le vostre case senza questa donna di fede? In alcune
regioni e luoghi «ci sono comunità che si sono sostenute e hanno trasmesso
la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse da quelle parti,
anche per decenni. Questo è stato possibile grazie alla presenza di donne
forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a
pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito
Santo. Per secoli le donne hanno tenuto in piedi la Chiesa in quei luoghi con
ammirevole dedizione e fede ardente» (Esort. ap. postsin. Querida Amazonia,
99). Senza una presenza reale, effettiva ed affettiva delle donne, le vostre
opere mancherebbero del coraggio e della capacità di declinare la presenza
come ospitalità, come casa. Di fronte al rigore che esclude, bisogna imparare
a generare la nuova vita del Vangelo. Vi invito a portare avanti dinamiche in
cui la voce della donna, il suo sguardo e il suo agire – apprezzato nella sua
singolarità – trovino eco nel prendere le decisioni; come un attore non
ausiliare ma costitutivo delle vostre presenze.
L’ “opzione Valdocco” nella pluralità delle lingue
Come in altri tempi, il mito di Babele cerca di imporsi in nome della
globalità. Interi sistemi creano una rete di comunicazione globale e digitale
capace di interconnettere i vari angoli del pianeta, col grave pericolo di
uniformare monoliticamente le culture, privandole delle loro caratteristiche
essenziali e delle loro risorse. La presenza universale della vostra famiglia

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salesiana è uno stimolo e un invito a custodire e a preservare la ricchezza di
molte delle culture in cui siete immersi senza cercare di “omologarle”. D’altra
parte, sforzatevi affinché il cristianesimo sia capace di assumere la lingua e
la cultura delle persone del luogo. È triste vedere che in molte parti si
sperimenta ancora la presenza cristiana come una presenza straniera
(soprattutto europea); situazione che si riscontra anche negli itinerari
formativi e negli stili di vita (cfr ibid., 90).9 Al contrario, agiremo come ci
ispira questo aneddoto che Don Bosco, alla domanda in quale lingua gli
piacesse parlare, rispose: “Quella che mi ha insegnato mia madre: è quella
con cui posso comunicare più facilmente”. Seguendo questa certezza, il
salesiano è chiamato a parlare nella lingua materna di ognuna delle culture
in cui si trova. L’unità e la comunione della vostra famiglia è in grado di
assumere e accettare tutte queste differenze, che possono arricchire l’intero
corpo in una sinergia di comunicazione e interazione dove ognuno possa
offrire il meglio di sé per il bene di tutto il corpo. Così la salesianità, lungi dal
perdersi nell’uniformità delle tonalità, acquisterà un’espressione più bella e
attrattiva… saprà esprimersi “in dialetto” (cfr 2 Mac 7,26-27).
Nello stesso tempo, l’irruzione della realtà virtuale come linguaggio
dominante in molti dei Paesi in cui voi svolgete la vostra missione esige, in
primo luogo, di riconoscere tutte le possibilità e le cose buone che produce,
senza sottovalutare o ignorare l’incidenza che possiede nel creare legami,
soprattutto sul piano affettivo. Da ciò non siamo immuni neppure noi adulti
consacrati. La tanto diffusa (e necessaria) “pastorale dello schermo” ci chiede
di abitare la rete in modo intelligente riconoscendola come uno spazio di
missione,10 che richiede, a sua volta, di porre tutte le mediazioni necessarie
per non rimanere prigionieri della sua circolarità e della sua logica
particolare (e dicotomica). Questa trappola – pur in nome della missione – ci
può rinchiudere in noi stessi e isolarci in una virtualità comoda, superflua e
poco o per niente impegnata con la vita dei giovani, dei fratelli della comunità
o con i compiti apostolici. La rete non è neutrale e il potere che possiede per
creare cultura è molto alto. Sotto l’avatar della vicinanza virtuale possiamo
finire ciechi o distanti dalla vita concreta delle persone, appiattendo e
impoverendo il vigore missionario. Il ripiegamento individualistico, tanto
diffuso e proposto socialmente in questa cultura largamente digitalizzata,
richiede un’attenzione speciale non solo riguardo ai nostri modelli pedagogici
9 Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 116: «Come possiamo vedere nella storia della Chiesa, il cristianesimo non
dispone di un unico modello culturale, bensì, restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all’annuncio
evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è
accolto e radicato».
10 Oggi, infatti, «si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con
gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi
racconti e paradigmi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 74).

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ma anche riguardo all’uso personale e comunitario del tempo, delle nostre
attività e dei nostri beni.
L’ “opzione Valdocco” e la capacità di sognare
Uno dei “generi letterari” di Don Bosco erano i sogni. Con essi il Signore
si fece strada nella sua vita e nella vita di tutta la vostra Congregazione
allargando l’immaginazione del possibile. I sogni, lungi dal tenerlo
addormentato, lo aiutarono, come accadde a San Giuseppe, ad assumere un
altro spessore e un’altra misura della vita, quelli che nascono dalle viscere
della compassione di Dio. Era possibile vivere concretamente il Vangelo… Lo
sognò e gli diede forma nell’oratorio.
Desidero offrirvi queste parole come le “buone notti” in ogni buona casa
salesiana al termine della giornata, invitandovi a sognare e a sognare in
grande. Sappiate che il resto vi sarà dato in aggiunta. Sognate case aperte,
feconde ed evangelizzatrici, capaci di permettere al Signore di mostrare a
tanti giovani il suo amore incondizionato e di permettere a voi di godere della
bellezza a cui siete stati chiamati. Sognate… E non solo per voi e per il bene
della Congregazione, ma per tutti i giovani privi della forza, della luce e del
conforto dell’amicizia con Gesù Cristo, privi di una comunità di fede che li
sostenga, di un orizzonte di senso e di vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium,
49). Sognate… E fate sognare!
Roma, San Giovanni in Laterano, 4 marzo 2020