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2. ORIENTAMENTI E DIRETTIVE

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2.1 LA FRAGILITÀ VOCAZIONALE

Avvio alla riflessione e proposte di intervento



Don Francesco CEREDA

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1.1 Consigliere generale per la Formazione

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Studiando le caratteristiche delle attuali vocazioni alla vita religiosa, oggi si parla spesso di fragilità psicologica; sembra però più corretto parlare di fragilità vocazionale. La realtà vocazionale infatti si riferisce all’esistenza nella sua totalità; essa non riguarda soltanto il vissuto e lo sviluppo psicologico della persona, ma anche la maturazione umana e la vita di fede, i processi formativi, le relazioni sociali ed ecclesiali, il contesto storico e culturale. D’altra parte occorre riconoscere che oggi normalmente le difficoltà nel vivere i valori vocazionali sorgono a livello psicologico; è importante quindi avere una specifica attenzione a questo tipo di fragilità. Nelle riflessioni che seguono si terranno allora presenti diversi punti di vista; senza trascurare la diversità dei contesti, la situazione della fragilità verrà analizzata soprattutto dalla prospettiva psicologica, spirituale, morale, pedagogica.

Le considerazioni che qui si svolgono si riferiscono alla formazione iniziale; ma per il prolungarsi della adolescenza e della giovinezza, esse riguardano in parte anche gli anni seguenti. Infatti se il periodo della formazione iniziale risulta connotato da fragilità, non lo è meno il tempo dell’assunzione delle prime vere responsabilità. C’è un fenomeno poi della nostra Congregazione ed in generale della vita religiosa, che spesso è segno di fragilità: i numerosi abbandoni durante la professione temporanea, che nell’ultimo sessennio per noi sono aumentati notevolmente (cfr. “Relazione del Vicario del Rettor Maggiore al CG25” 103). Non in tutte le Ispettorie però tale fenomeno si manifesta con la stessa intensità; anzi alcune di esse presentano solidità e perseveranza vocazionale. Lo stesso si dica per alcune Congregazioni che hanno fecondità e perseveranza vocazionale, nonostante lo stesso difficile contesto (ACG 382 pag. 24).

Questo scritto è rivolto prima di tutto agli Ispettori con i loro Consigli, ai Delegati ispettoriali di formazione con le loro Commissioni e alle équipes di formatori, perché si confrontino, prendano coscienza delle difficoltà e cerchino vie di aiuto alle nuove vocazioni; esso è indirizzato anche ai giovani in formazione iniziale ed interpella la vita delle comunità e delle Ispettorie. Parlare della fragilità significa fare una lettura parziale della realtà vocazionale odierna, che per altro è ricca di risorse; si corre infatti il rischio di evidenziare soprattutto carenze, debolezze e incapacità. Il servizio alla vocazione salesiana ci chiede una cura speciale dei nostri giovani confratelli, con un’attenzione alle loro difficoltà e una valorizzazione delle loro potenzialità. Senza un’azione formativa coraggiosa e intelligente, anche le più promettenti speranze possono svanire; si tratta anche oggi di offrire una proposta formativa, modellata sul sogno dei nove anni: “Renditi umile, forte e robusto”.


1. Radice della fragilità vocazionale


La fragilità vocazionale ha la sua radice nella cultura dominante di oggi. Viviamo in un tempo di postmodernità: esso è caratterizzato dalla complessità, che rende la vita come un labirinto senza indicazioni e provoca disorientamento nelle scelte; esso è inoltre segnato dalla transizione, che comporta mutamenti rapidi con l’abbandono di vecchi modelli e con la mancanza di nuovi riferimenti; esso infine è immerso nei processi della globalizzazione, che conducono all’omologazione delle mentalità e alla nascita di identità confuse. In questa situazione il nodo più problematico rimane il vistoso distacco tra la proposta di fede e la cultura in continua evoluzione, che produce un relativismo accentuato con riflessi sulla chiarezza e perseveranza vocazionale.

Tale cultura debole porta con sé alcuni effetti su mentalità e stili di vita: il consumismo, che si riflette nella ricerca di esperienze sempre nuove e coinvolge soprattutto la sfera emotiva del “mi sento” o del “mi piace”; il soggettivismo, che assume la propria visuale come l’unica misura valida della realtà; la fruizione dell’immediato, che rafforza la percezione del “tutto e subito”; la cura dell’effimero e dell’immagine, che esalta l’apparenza e l’efficientismo; la valorizzazione dell’antropologia dell’uomo secolarizzato, che emargina il modello dell’uomo religioso.

L’esperienza religiosa diventa perciò ricerca dello stare bene con se stessi ed esperienza di forti emozioni. In generale la formazione religiosa ha poca incidenza e non coinvolge la persona in profondità. Ognuno rimane centrato su se stesso, con la convinzione che tutto si può ottenere facilmente in base al prestigio personale ed ai mezzi economici, non invece con la fatica e la perseveranza. A causa del relativismo etico poi non esistono valori condivisi.

Ciò ha una ricaduta sulle istituzioni civili, ecclesiali e religiose, che oltre ad essere deboli e poco attraenti a causa del cambio epocale, non hanno più un indice di gradimento e di apprezzamento, di fiducia e di riferimento. Anche le famiglie, soprattutto quelle problematiche e disgregate, vengono influenzate da questo clima culturale; esse altalenano fra l’iperprotettività ansiosa nei riguardi dei figli e la vistosa assenza nella loro educazione, creando forti vuoti affettivi e mancanza di punti di riferimento. Le persone infine, in particolare i giovani, rivelano una persistente situazione, che porta a vivere in modo frammentato o condizionato dalle mode; tale debolezza diventa sempre più inconsistenza, incoerenza, insoddisfazione, instabilità, superficialità.

La nostra Congregazione opera in contesti diversificati. Ci troviamo in situazioni secolarizzate, pluriculturali e multireligiose, in cui si vive l’irrilevanza della fede cristiana o la sua condizione di minoranza ed in cui talvolta si cercano nuove forme di religiosità. Riscontriamo poi contesti in cui la globalizzazione genera gravi situazioni di povertà e stridenti esclusioni sociali, insieme a nuove opportunità di condivisione e solidarietà. Ci sono infine ambienti di complessità e frammentazione che provocano dispersione ed evasione, oltre che attenzione alle diversità (cfr. CG25 44). Pur essendoci oggi una visione culturale che tende a diventare omogenea, nei diversi contesti la radice della fragilità vocazionale può presentarsi però con accentuazioni diverse, che saranno da studiare nelle varie Ispettorie.


2. Espressioni della fragilità vocazionale


Le caratteristiche dell’attuale fragilità vocazionale si manifestano particolarmente in alcuni atteggiamenti, che si sviluppano sempre più nella persona. Qui si presentano solo alcune espressioni della fragilità delle giovani vocazioni; altre potranno e dovranno essere individuate a seconda della diversità dei contesti.

2.1. Incapacità di decisioni definitive

Si nota un ancoraggio al presente, senza prospettive di futuro e senza certezze. Si vive nel disagio, perché si sperimenta il vuoto, con una inevitabile apatia ed insicurezza. La vita di fede non motiva lo slancio verso il futuro, è marginale, non influisce sulla coscienza morale. Si è portati a riempire il vuoto con forti emozioni, dando sempre maggior importanza a interessi secondari. Significativa a questo proposito è la ricerca ansiosa di riconoscimenti: si desiderano affetto e stima, poi titoli di studio e identificazioni professionali, quindi valorizzazioni pubbliche e carriere ambiziose. Ci si sente chiamati per l’oggi e non si sa se anche per il domani. La vocazione nel suo impegno totale e definitivo appare irrealizzabile, per cui ci si sente fuori posto ed in frequente stato di confusione. Si vede allora la vocazione sempre di più come un fatto privato, che non sa andare oltre gli stati d’animo immediati. Si ha paura del futuro; non si ha il coraggio di guardare il passato; si temono scelte coerenti e definitive; diventa quindi debole la capacità progettuale della vita.

2.2. Incertezza di identità vocazionale

Un altro nucleo di immaturità dipende da una debole identità, dall’insicurezza e dalla non accettazione di sé. Anche nella vita consacrata non ci si sa definire ed allora ci si proietta sul “cosa fai” e sul “che cosa hai”, più che sul “chi sei”. Dopo anni di vita consacrata, si trovano ancora identità incerte. Le proprie debolezze e le alienazioni vissute prendono il sopravvento. Ci si abbandona allora alle emozioni. Si riducono poi drasticamente gli ideali della consacrazione: il primato di Dio, il dono di sé per i giovani, la sequela radicale di Cristo, la vita fraterna in comunità, la formazione. In particolare l’illusione pastorale di poter collezionare successi e la conseguente delusione hanno un notevole peso nella affermazione degli aspetti inconsci, che confluiscono facilmente in disinteresse, chiusura ed ambiguità, sovente di natura affettiva compensativa. Oltre la mancanza di un autentico senso di appartenenza alla persona di Gesù, alla Chiesa e alla Congregazione, permangono decisive immaturità personali mai prese sul serio, tacitate con varie coperture e mai affrontate.

2.3. Ricerca di sicurezze

Vi è la tendenza a cercare nella comunità un nido sicuro o rapporti gratificanti di amicizia, che colmino i vuoti personali e le insicurezze, ereditate dalla famiglia e dalle esperienze di gruppo. Si nota un bisogno di conferme e di approvazioni. C’è chi si appoggia all’istituzione in modo ligio e ossequioso, per ricevere riconoscimenti di identità, che non sa trovare in se stesso. C’è spesso una lotta sorda tra l’autonomia e la dipendenza, a cui si aggiunge una dose di competitività, di bisogno di stima, di culto dell’immagine. Vi sono numerose aspettative nei confronti della comunità e poca attenzione al dono di sé. Emergono così difficoltà relazionali, aggravate dalla crisi che sta attraversando la comunità, la quale dimostra sovente poca attenzione alla persona e prevalente preoccupazione per la gestione delle opere. Ne consegue un deprezzamento della vita fraterna, perché non sa soddisfare i bisogni di affetto, di riuscita, di realizzazione. Si giunge alla critica dura, che si allarga fino ad abbracciare ogni autorità, il proprio Istituto, la Chiesa, le istituzioni civili.

Queste espressioni di fragilità sono una invocazione e un appello. Esse sottendono una domanda formativa. I giovani confratelli vivono in una cultura pluralista, neutra, relativista; da un lato cercano autenticità, affetto, grandezza d’orizzonti; dall’altro sono fondamentalmente soli, attratti o feriti dal benessere, confusi dal disorientamento etico. Occorre così prendere coscienza che, insieme a disponibilità e risorse, la fragilità fa parte della vita dei giovani come elemento costante. Il problema non è la fragilità vocazionale, che risulta un dato costitutivo del giovane consacrato di oggi; è invece il fatto che non la si accetta come occasione di ulteriore maturazione e non la si sa integrare.


3. Cause della fragilità vocazionale


Le diverse e complesse manifestazioni della fragilità vocazionale ci hanno fatto individuare una fenomenologia della fragilità. Conviene ora approfondire l’argomento, facendo una lettura delle cause. Senza una comprensione e quindi una cura radicale delle cause, non si potranno superare gli effetti della fragilità. Le quattro fondamentali cause, che qui sono presentate, non possono essere prese in considerazione separatamente; come al solito è importante un approccio sistemico alla comprensione dei fenomeni e quindi alla ricerca dei rimedi.

3.1. Carenza di maturazione umana

Un primo nucleo di fragilità è da collegare con la superficialità, la trascuratezza e l’incapacità a prendere in mano con sincerità la propria storia, con le ricchezze ed i limiti che essa racchiude. Mancano ambienti e formatori che siano in grado di cogliere la complessa realtà della maturità umana e di aiutare i giovani a formarsi una nuova coscienza. Troppi problemi vengono tramandati e non seriamente affrontati; i giovani confratelli non hanno il coraggio di farsi aiutare o si illudono di poter realizzare con successo un cammino di maturazione senza accompagnamento.

Le aree più scoperte sembrano essere quella dell’identità, affettività e sessualità. Talvolta i giovani cercano la vita religiosa perché si sentono attratti, ma non sanno che cosa cercano. Spesso inoltre essi non sono più muniti dalla famiglia della maturità emozionale di base e della necessaria educazione affettiva. Non sono in grado di riconoscere i motivi inconsci della propria risposta vocazionale, sia nell’opzione fondamentale che nelle scelte quotidiane. Mancano loro dei punti di riferimento solidi. Talvolta hanno una storia di esperienze negative, che richiedono di essere integrate nella loro storia di vita.

È carente in loro la misericordia per poter accogliere la propria debolezza, consegnarla al Signore ed accettare il conseguente faticoso cammino di cambiamento. I giovani confratelli avvertono una grande sete di autenticità, che non riescono a trovare e realizzare in se stessi e che proiettano sulla comunità e sull’istituzione in modo idealistico; di conseguenza hanno forti delusioni e frustrazioni. Solo una chiara decisione, collegata con una coscienza trasparente della fragilità ed una motivazione solida, irrobustisce la vocazione.

3.2. Mancanza di motivazioni di fede

Strettamente collegata a questo è la debolezza nella fede, nella preghiera, nella vita interiore, nel combattimento spirituale, nella motivazione carismatica, nella capacità di testimonianza; in questo caso i giovani religiosi risultano di fatto incapaci di sostenere il senso della vocazione. Talvolta la famiglia oppure la cultura non hanno tradizioni cristiane. In alcune situazioni la scelta religiosa non ha vere motivazioni di fede, ma diventa occasione per uscire dalla condizione di povertà, per avere un riconoscimento sociale, per raggiungere una promozione culturale.

È difficile essere consapevoli delle vere motivazioni; ma se non si chiarificano le motivazioni e se non si verifica in che misura la fede è il movente fondamentale, qualunque difficoltà può fare abbandonare la scelta vocazionale. Ci si deve sinceramente domandare se i nostri giovani, a cominciare dalla prima formazione, hanno veramente una vita profonda, che implica il senso della libertà interiore, il rispetto per ogni persona, la cura della coscienza, la coerenza tra pensiero ed emozioni, l’autenticità dei comportamenti.

Ci si deve anche chiedere se i giovani confratelli fanno un’autentica esperienza del primato di Dio e della centralità fondante di Cristo o non nascondono piuttosto un vuoto spirituale, che nei momenti duri emerge. Ci si deve domandare se essi hanno fatto esperienza della gratuità e se hanno vissuto talvolta senza immediate ricompense. Ci si deve interrogare se essi sono avviati ad un serio processo di interiorizzazione, di personalizzazione, di maturazione delle motivazioni. Senza queste iniziali esperienze non fiorisce la maturazione nella fede.

3.3. Debolezza dei cammini formativi

I cammini della formazione iniziale di questi anni, così ricchi di contenuti, aiutano ad abbozzare l’identità della persona consacrata, ma non l’aiutano a giungere in profondità e a realizzare la maturazione. Allora l’identità viene dimenticata o continuamente discussa o fuorviata da esperienze dispersive. I cammini formativi sono discontinui; talvolta essi sono troppo lunghi e poco incisivi; possiamo quindi parlare di fragilità formativa.

La debolezza formativa più grave sta nella incapacità di attuare una personalizzazione che aiuti il giovane confratello ad appropriarsi dei valori della crescita umana, della fede e del carisma. Occorre riconoscere che spesso la formazione che diamo è debole, non cambia, non converte, non arriva al cuore. Tante volte non c’è tempo sufficiente per questo lavoro, perché ci si preoccupa maggiormente dell’acquisizione di conoscenze, dei titoli accademici, della qualificazione professionale che della maturazione personale.

Occorre prendere atto che in qualche parte della Congregazione, avendo messo da parte l’esperienza dell’aspirantato, non sempre si sono trovate altre esperienze che facciano raggiungere gli stessi obiettivi. Durante l’adolescenza l’aspirantato creava ambienti e rapporti educativi che offrivano cammini di vita cristiana e creavano una certa simpatia verso i valori della vita consacrata. In alcune situazioni l’esperienza dell’aspirantato, pur continuando ad essere proposta, non è stata rinnovata nelle metodologie.

Talvolta i formatori delle diverse fasi non utilizzano metodologie condivise; non sempre sono sufficienti o preparati. Mancano interventi per potenziare le équipes di formatori e per cambiare quelle comunità formatrici che risultano ancora spersonalizzanti. Per tutto questo la fragilità personale alla fin fine non è mai veramente messa in gioco.

3.4. Malessere delle comunità

Un altro nucleo di fragilità è determinato dalla vita reale delle comunità, che costituisce il cammino formativo implicito ed occulto. Lo scarso dinamismo spirituale e vocazionale delle comunità crea una cultura ispettoriale poco stimolante e talvolta incoerente con il clima delle comunità formatrici. Le carenze nella formazione permanente determinano motivazioni vocazionali povere. La mentalità, gli stili di vita, i modelli di comportamento deboli dell’Ispettoria generano per tutti, non solo per i giovani confratelli, una “vita religiosa debole”, a cui bisogna reagire andando contro corrente. Il modello di vita religiosa “liberale” è infatti origine di numerose fragilità (cfr. Lettera del Rettor Maggiore in ACG 382, pag. 13-14).

La mancanza di rapporti interpersonali vitali e stimolanti nelle comunità genera individualismo e disaffezione. Le appartenenze formali a comunità troppo proiettate sulle urgenze dell’attività e sui ritmi di vita stressanti, nel tentativo di fare fronte a tutti gli impegni nonostante le forze ridotte, incidono negativamente sull’inizio e sulla durata dei fenomeni di fragilità. Questo capita per i giovani, ma anche per i meno giovani. Sentendosi più impiegati di azienda che consacrati per una missione, si vive quotidianamente uno stato confusionale, che produce disorientamenti sempre più gravi.

Due sintomi emergono particolarmente in questi anni: il senso di solitudine in comunità e l’incapacità a comunicare a livello profondo. Si ha paura di condividere il proprio vissuto; si hanno al più dei rapporti funzionali e formali, soprattutto per il timore di presentare un’immagine di sé non degna della stima degli altri. Allora rapporti di vicinanza, dettati sovente dal bisogno di comprensione e sostegno affettivo, vengono cercati in relazioni esterne. Siccome poi in comunità si è spesso valutati per quello che si fa più che per quello che si è, da una parte ci si lascia coinvolgere nella missione in forme parziali e dall’altra si tende a gestire gelosamente il proprio compito.


4. Priorità di intervento


Consapevole del dono prezioso di ogni vocazione, la Congregazione s’impegna a curare ogni giovane che Dio le manda, aiutandolo a superare le inevitabili fragilità e a irrobustire la sua fedeltà. Per questo si suggeriscono ora alcune priorità di intervento.

4.1. Cura delle vocazioni alla vita religiosa salesiana

Si tratta innanzitutto di curare gli ambienti educativi in cui lavoriamo, in modo che siano sani e propositivi; da questo buon terreno possono nascere solide vocazioni. La famiglia ha bisogno di sostegno perché possa essere luogo di maturazione umana e di educazione cristiana dei figli. La comunità parrocchiale può aiutare a vivere significative esperienze di fede; spetta alla scuola offrire cammini culturali seri e stimolanti; il tempo libero può presentare momenti di crescita nel dono di sé. Per questo si auspica che la maggior parte delle vocazioni alla vita salesiana vengano dai nostri ambienti, proprio per le basi di cultura e di fede che là si pongono, per lo spirito salesiano spontaneamente accolto, per il senso di appartenenza vissuto.

Oggi la cura specifica delle vocazioni alla vita salesiana ci chiede di porre di nuovo e con modalità nuove il problema dell’aspirantato o della comunità proposta o di altre forme di accompagnamento vocazionale continuato e comunitario; si è consapevoli infatti che i gruppi vocazionali non sono sufficienti a tale scopo. Si tratta di avere ambienti aperti, offerti ai giovani durante gli anni della scuola secondaria o del college universitario, caratterizzati dal clima di discernimento sulla vocazione religiosa salesiana. In essi si può proporre una ricca esperienza umana, una seria preparazione culturale e linguistica, una forte vita cristiana, una vivace condivisione della missione salesiana; si può curare in modo particolare l’educazione all’amore, la formazione della coscienza, l’accompagnamento personale.

Tale esperienza è adattabile alla situazione scolastica di ogni paese; non si devono attendere e seguire i candidati solo al termine dei percorsi scolastici o accademici. Essa è tanto più necessaria per quei giovani che hanno già concluso i loro studi fuori dai nostri ambienti; nessuno dovrebbe iniziare il prenoviziato senza aver trascorso un congruo periodo come candidato. Qui c’è tutto lo spazio per la flessibilità e la varietà delle esperienze, a condizione che siano assicurati i formatori. Ovunque oggi si nota un’attenzione crescente a questa realtà dell’aspirantato o comunità proposta, che richiede di essere studiata in comune tra pastorale giovanile e formazione.

4.2. Prenoviziato

Se l’aspirantato o comunità proposta serve come preparazione, il prenoviziato è il momento fondante per la verifica e l’approfondimento della vocazione, particolarmente in termini di maturazione umana. In questo periodo il prenovizio acquisisce una sufficiente conoscenza e accettazione di sé; si rende consapevole del proprio vissuto; integra nel suo vissuto le esperienze del passato, anche le meno felici; irrobustisce la vita affettiva e sessuale; si rende conto dell’incidenza educativa della famiglia; verifica la sua situazione di salute fisica e psicologica. In questo modo prende in mano la propria storia personale: scopre risorse e punti deboli; assume un’immagine positiva di se stesso; costruisce un forte senso della propria identità.

Il prenoviziato è anche il tempo per un buon radicamento nella fede e nella vita cristiana, il che implica una solida catechesi con una iniziazione alla vita sacramentale, alla devozione mariana, alla vita di preghiera. Inoltre è il periodo in cui i prenovizi fanno esperienza della direzione spirituale e della vita di comunità, acquistando una buona capacità di rapporti umani e di comunicazione interpersonale. Il lavoro del prenoviziato domanda formatori preparati; esige un programma strutturato e non lasciato alla improvvisazione. Oggi un incaricato dei prenovizi ha bisogno della stessa preparazione ed esperienza di un maestro dei novizi.

Per questa tappa formativa oggi abbiamo una buona proposta, anche se la sua realizzazione rimane ancora un po’ vaga e poco definita. In certi casi, l’impostazione del prenoviziato rassomiglia ad un anticipo del tirocinio, realizzato senza la dovuta preparazione; in altri si dà un eccessivo peso allo studio accademico con scarsa possibilità di un lavoro serio su di sé; in altri ancora non ci sono programmi adeguati o c’è la dispersione dei prenovizi in diverse comunità. Il prenoviziato richiede di essere preceduto «da un serio cammino di pastorale vocazionale» (FSDB 349); «può trattarsi di una comunità autonoma … oppure di un gruppo all’interno di una comunità salesiana con uno o più confratelli responsabili» (FSDB 344); al prenoviziato viene ammesso il candidato solo quando «ha fatto l’opzione per la vita salesiana» (FSDB 330) e vuole prepararsi per andare in noviziato.

Senza voler minimizzare l’impatto delle tappe successive sullo sviluppo della vocazione, c’è una crescente presa di coscienza del ruolo cruciale giocato dalle tappe preliminari: serio cammino vocazionale e prenoviziato. Queste due tappe costituiscono la base della formazione. Molti abbandoni della vita religiosa e del presbiterato infatti si collegano ad una fede debole, ad una povera maturazione umana, ad una mancanza di vero discernimento, a problemi di affettività, relazionalità ed esercizio della libertà non risolti nelle tappe iniziali.

4.3. Metodologia formativa

Non solo nelle tappe preliminari ma soprattutto nelle successive, la strategia principale per superare la fragilità vocazionale è la personalizzazione. Si tratta di operare una vera e propria svolta metodologica, che la Ratio ha proposto in modo eccellente. Elementi essenziali sono: la cura di motivazioni, emozioni, affetti, sentimenti; il processo di identificazione con la vocazione salesiana; l’assunzione di responsabilità nella propria formazione e il progetto personale di vita; l’accompagnamento personale, la pratica del discernimento, l’inculturazione formativa. In questo modo la formazione riesce a raggiungere la persona in profondità. Certo non bisogna dimenticare che siamo in un campo che tocca il mistero della libertà della persona e della grazia dello Spirito.

Strumento privilegiato di tale lavoro è l’accompagnamento personale, ben equilibrato fra spiritualità e scienze umane, fatto di comprensione e di forte esigenza. Esso non è da limitare solo alla prima formazione. L’accompagnamento deve aiutare ad accorciare le distanze tra ideale e reale, portando ad accettare il piccolo passo quotidiano senza fare sconti sull’ideale. Non deve creare dipendenze, ma capacità di scelte autonome e responsabili; deve abituare all’autodisciplina, all’ascesi, allo spirito di sacrificio, alla rinuncia. L’accettazione di una guida spirituale è un elemento decisivo nel discernimento e nella crescita vocazionale. Infatti la libertà e la capacità di consegnarsi al confronto con una guida sono molto importanti in relazione all’autenticità della vocazione; mentre la chiusura e la paura di esporsi sono sovente indice di scarsa autenticità.

L’accompagnamento ha bisogno di continuità da una fase formativa ad un’altra, il che implica anche la comunicazione di adeguate informazioni in modo opportuno al responsabile della nuova fase. Ha anche bisogno di altre forme, come la correzione fraterna, fatta tempestivamente prima che sia troppo tardi. Importanti sono i momenti periodici di verifica personale, gli “scrutini”, nei quali si coinvolge il confratello, lo si aiuta a valutare la sua situazione formativa personale, lo si orienta e lo si stimola concretamente nel processo della sua maturazione, suggerendogli anche i passi concreti di un cammino di maturazione e di crescita (cfr. FSDB 261, 270, 296).

4.4. Personalizzazione dell’esperienza formativa

L’esperienza formativa è una realtà unitaria che riguarda la vita nello Spirito, la dedizione apostolica, l’esercizio intellettuale e la maturazione umana. È importante vivere questa esperienza come cammino di personalizzazione.

La vita nello Spirito, assunta personalmente con una efficace maturazione nella fede, un’appartenenza viva a Cristo, una configurazione reale alla sua forma di vita, fonda l’esperienza formativa. Si tratta di passare progressivamente dall’essere servi totalmente proiettati nelle opere, all’essere amici che stanno con il Signore Gesù nell’ascolto della sua Parola e nella celebrazione dell’Eucaristia, fino ad essere innamorati che assumono la croce nella fedeltà quotidiana. Cristo diventa concretamente il baricentro delle esperienze della vita e il punto di riferimento. È necessario favorire il cammino di interiorizzazione, attraverso la capacità di ritagliarsi tempi di silenzio, l’esperienza della preghiera personale, l’esercizio della lectio divina, l’adorazione eucaristica, la contemplazione della Croce. Occorre preparare ad una cultura dell’interiorità, rendendo più ampia, più profonda e più viva la sfera interiore di ciascuno, in modo da lasciare più spazio all’azione di Dio nel proprio cuore. Bisogna investire nella vita di fede, sia a livello intellettuale che a livello emozionale, soprattutto nel prenoviziato, noviziato e postnoviziato. Nella stessa linea occorre una formazione alla preghiera in tutte o quasi tutte le tappe della formazione.

La gioia per il Signore Gesù si traduce in un amore sacrificato al servizio dei giovani, specialmente dei più poveri. È importante che il giovane salesiano trovi personalmente uno slancio di dedizione apostolica. Quando il senso apostolico è debole e la missione tra i giovani non viene sentita come attraente, allora possono sorgere problemi d’identità vocazionale. Quando i rapporti con i giovani sono solo organizzativi, quando manca la gioia di incontrarli e di stare con loro, quando non si capisce il senso apostolico di ciò che si fa, è ovvio che si sta formando un vuoto nel cuore. I candidati e i giovani salesiani devono essere messi in grado di crescere nell’amore per i giovani, per Don Bosco, per la Chiesa e la sua missione evangelizzatrice. Per questo non sono necessarie molte attività pastorali; occorre invece l’accompagnamento pastorale. Se non si forma il cuore e la mente dell’evangelizzatore, mediante la riflessione sul lavoro apostolico, la condivisione e la preghiera, si corre il rischio di cadere nell’attivismo e nell’esagerazione.

Un contributo notevole nel consolidamento della vocazione è offerto dall’esercizio intellettuale: «Solo un approccio intelligente della realtà e una visione aperta alla cultura, ancorata nella Parola di Dio, nel sentire ecclesiale e negli orientamenti della Congregazione, conduce il salesiano ad una scelta e ad un’esperienza vocazionale solidamente motivata e lo aiuta a vivere con consapevolezza e maturità, senza riduzionismi né complessi, la propria identità e il suo significato umano e religioso. Diversamente c’è il pericolo di smarrirsi di fronte alle correnti di pensiero o di rifugiarsi in modelli di comportamento e forme di espressione superati o non coerenti con la propria vocazione» (FSDB 124). Questo significa che, accanto ad una serietà di studi, ci vuole altro. Spesso gli studi non assumono una valenza formativa; essi sono sbilanciati più sul versante “accademico” che sull’aspetto vitale; così non si aiuta a formare un sapere unificato e una fede che riflette. Continuiamo ad usare un modello neutrale: la formazione intellettuale non dialoga con il profondo della persona, non interagisce con il progetto di vita religiosa salesiana e con il progetto personale di vita, non diventa comprensione affettiva della realtà; occorrono per questo non solo insegnanti, ma veri maestri. Lo studio ha bisogno di essere integrato nella globalità del cammino formativo.

La maturazione umana infine è un processo che avviene quando la persona si confronta nel suo profondo. Là riflette sulle esperienze fatte nel suo passato, scorge l’azione di Dio nella propria vita e alla luce di Dio e delle sue esperienze progetta la sua strada per il futuro. Comincia cioè a prendere sempre più responsabilità per la propria vita; ciò richiede che sia disposta a lavorare su di sé. Impara a gestire il proprio mondo interiore, confrontando le motivazioni del suo agire, dominando le sue paure e controllando le sue emozioni. Sviluppa il senso critico per poter arrivare a giudizi obiettivi su persone ed eventi. Diventa capace di resistere alle pressioni familiari e sociali e di prendere decisioni motivate. Cerca di formarsi all’uso responsabile della propria libertà, riconoscendo che l’amore include sempre dedizione e sacrificio. Vede nell’accettazione dell’altro, nell’ascolto, nel dialogo, nella collaborazione, nella solidarietà con chi soffre, la via per crescere. Insomma la maturazione umana fa della persona un cantiere in cui, con l’aiuto della grazia divina e delle sue mediazioni umane, essa si costruisce secondo il disegno di Dio.

4.5. Consistenza delle équipes dei formatori

È ovvio che tale formazione personalizzata richieda la presenza di équipes qualificate di formatori, che in dialogo ed interazione con il giovane confratello sappiano confrontarsi con le sue idee e convinzioni e riescano ad aiutarlo a penetrare le proprie motivazioni e sentimenti. Purtroppo, l’attenzione alle scienze umane nell’accompagnamento è ancora disattesa e non è valutata nella sua importanza. Dappertutto si lamenta la difficoltà di trovare direttori spirituali, formatori e docenti preparati e disponibili. Diventa allora impellente il compito di trovare tempi e modalità per la formazione dei formatori.

Si impone poi la necessità di sinergie nella formazione, anche per utilizzare al meglio i confratelli di esperienza e per qualificarli. La Ratio insiste con ragione sulla necessità di assicurare la consistenza qualitativa e quantitativa delle comunità di formazione iniziale, e in primo luogo sulla presenza di équipes preparate, sufficienti e stabili, come condizione per un’adeguata esperienza formativa. Essa aggiunge: «Per evitare situazioni di inconsistenza sarà necessario in alcune situazioni operare scelte coraggiose e decise di collaborazione interispettoriale» (FSDB 230).

La moltiplicazione delle comunità formatrici e la loro fragilità non contribuiscono certo ad una buona formazione. È questo un ambito nel quale si deve procedere con visione e decisione, sia nelle zone di fioritura, dove ci si può lasciar portare da un ritmo di sviluppo non attento alle esigenze della qualità formativa; sia nelle zone nuove e a sviluppo lento, dove bisogna curare in primo luogo la qualità delle vocazioni; sia nelle zone storicamente consistenti e ora vocazionalmente fragili, dove si impone il ridimensionamento e la collaborazione nell’ambito formativo (cfr. “Relazione del Vicario del Rettor Maggiore al CG25” 103).

4.6. Vita significativa delle comunità

Per i giovani salesiani la comunità è un fattore importante nella decisione di abbracciare la vita salesiana, come anche nella decisione di abbandonarla. La testimonianza gioiosa di fraternità e di spirito di famiglia, lo zelo pastorale e il lavoro per i più poveri, la vita spirituale della comunità costituiscono una forte attrazione alla vita consacrata salesiana e una spinta per crescere in essa. In comunità significative i tirocinanti saranno stimolati a crescere; i giovani confratelli saranno aiutati ad assumersi le prime responsabilità; tutti troveranno slancio e gioia vocazionale. Ciò riguarda sia la comunità locale che la comunità ispettoriale; la vita ordinaria delle comunità determina fortemente i cammini di formazione iniziale e la fedeltà vocazionale. Il CG25 ci indica la via per crescere come comunità carismatica e profetica.

È importante quindi assicurare comunità vivibili, sia nei ritmi giornalieri, sia negli ambienti, sia soprattutto nei rapporti. Se occorre superare la frammentazione personale con un irrobustimento della maturità e identità della persona, altrettanto importante è arginare la frammentazione comunitaria, ridonando spazio e significatività alla vita fraterna, alla preghiera e all’impegno pastorale della comunità. Questo è possibile se il direttore di comunità privilegia il dedicarsi giornalmente ad incontrare singolarmente i fratelli, se crea un clima di fede e di amore per la vocazione, se anima la vita comunitaria con la proposta di cammini concreti di formazione, se coniuga i valori del Vangelo e del carisma con le sfide contemporanee, se sa creare apertura e interscambio tra la comunità e le realtà ecclesiali e civili del territorio.

Ciò è possibile ancora se il gruppo dei confratelli crede importante costruire la comunità, dedicando spazio e tempo ad accogliersi vicendevolmente, a conoscersi, ad ascoltare e comunicare ciò che si vive, ad amare appassionatamente la gente e i giovani. Questo è più agevole se ogni anno la comunità costruisce il suo progetto di vita e di missione. I direttori e i formatori diventino sempre più specializzati nell’accompagnamento; ma ancora prima di questo, costruiscano rapporti amichevoli con ogni singolo confratello, incontrandolo informalmente, mostrando interesse nella sua persona, nei suoi studi, nel suo lavoro, nella sua famiglia.


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I numeri delle uscite costituiscono un dato preoccupante. Non è sufficiente fermarsi alle statistiche; è importante la comprensione delle sfide che questi dati pongono alla prassi vocazionale e formativa. Lo stato attuale della documentazione delle dispense dalla professione perpetua e più ancora delle dispense dalla professione temporanea, che sono di gran lunga il numero più elevato, non offre elementi sufficienti per uno studio qualitativo a livello mondiale. In accordo con la Ratio si chiede ad ogni Ispettoria una valutazione attenta delle uscite e una verifica periodica della perseveranza.

Queste note scritte vengono offerte come avvio alla riflessione; perciò è importante fare una lettura formativa della radice, delle espressioni e delle cause della fragilità vocazionale nel contesto di ogni singola Ispettoria. Tale contributo poi individua gli interventi prioritari per superare le fragilità; occorre continuare la ricerca a livello ispettoriale, per offrire gli strumenti più adatti di fronte alla forte richiesta di aiuto, che giunge da tanti giovani confratelli in preoccupante situazione di fragilità. Senza una lettura contestualizzata del fenomeno della fragilità ed una ricerca locale dei suoi rimedi non sarà possibile un’opera di inculturazione della formazione e quindi una vera personalizzazione. A tal fine si chiede alle Ispettorie il seguente lavoro.



1. In ogni Ispettoria la Commissione ispettoriale di formazione e poi il Consiglio ispettoriale:

- studino la radice, le espressioni e le cause della fragilità vocazionale nel proprio contesto culturale e nella storia della propria Ispettoria;

- facciano una lettura formativa degli abbandoni durante il tempo della professione temporanea, ma anche delle fasi successive, a partire dall’anno 1990;

- ricerchino quali interventi si possano mettere in atto nell’azione formativa e nella vita dell’Ispettoria per affrontare la fragilità e per superare il fenomeno degli abbandoni;

- facciano una lettura formativa di ciò che favorisce la perseveranza all’interno dell’Ispettoria.

Si veda come coinvolgere in questo processo le comunità formatrici, le équipes dei formatori e i giovani formandi, ma anche i direttori e le altre comunità.


2. Ogni Delegato ispettoriale di formazione invii al Consigliere generale per la formazione una relazione scritta entro settembre 2005. Essa descriva il processo svolto e sia suddivisa in quattro parti, rispondendo alle domande sopra presentate. Si alleghino i dati statistici annuali di tale periodo con riferimento al numero di novizi, abbandoni durante la professione temporanea, abbandoni dopo la professione perpetua, richieste di dispensa dal celibato sacerdotale.


3. In ogni Regione può essere opportuno che la Commissione regionale di formazione con il suo coordinatore metta in comune i risultati raggiunti. È inoltre utile se tale condivisione può essere svolta anche dagli Ispettori della Regione insieme al Consigliere regionale.



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