06 Febbraio - Un paziente lavorio interiore


06 Febbraio - Un paziente lavorio interiore



Un paziente lavorio interiore



Giovanni Bosco entrò nel seminario di Chieri alla fine di ottobre 1835. Collocato nell’ex convento dei padri di san Filippo, il seminario era stato aperto sei anni prima. Voluto tenacemente dall’arcivescovo di Torino Colombano Chiaveroti, monaco camaldolese. Egli lo pensava come un’alternativa al seminario della capitale, frequentato da coloro che ambivano conseguire i gradi accademici nella facoltà di teologia dell’Università statale. L’ambiente cittadino era troppo dispersivo, con distrazioni d’ogni tipo, influsso di idee “nuove” e di atteggiamenti critici e ribelli che serpeggiavano nelle aule dell’Ateneo soprattutto dopo i moti del 1821. L’arcivescovo voleva creare un ambiente più raccolto e meno paludato.

L’apertura del seminario di Chieri rappresentava l’ultimo atto di un lungo impegno per la riforma del clero diocesano. Il vecchio monaco, attraverso lettere circolari, interventi disciplinari e formativi a vari livelli, visite pastorali, revisione e attento controllo dei meccanismi di reclutamento dei giovani aspiranti aveva insistito su un nuovo modello sacerdotale, caratterizzato da una travolgente passione pastorale.

Proprio nell’anno in cui Giovanni faceva il suo ingresso in seminario, venivano ristampate le lettere ai sacerdoti e i discorsetti ai seminaristi di monsignor Chiaveroti, morto quattro anni prima (1831). Il rettore del seminario di Chieri, ricevendone una copia dal suo superiore di Torino, lo ringraziava annunciando che se ne sarebbe fatta lettura in refettorio. Le esortazioni dell’ordinario diocesano riprendevano e rafforzavano temi che risuonavano sia nelle letteratura ascetica messa in mano ai seminaristi, sia nei settimanali “discorsetti morali” del giovedì, che in quegli anni a Chieri erano affidati ai frati francescani del convento della Pace.1

1 1. Rendersi adatti per la salvezza dei fratelli

▲back to top


L’identità del pastore, a giudizio dell’arcivescovo, andava definita unicamente dall’essere-per, quale ragione teologica della missione del Cristo pastore e dell’istituzione del ministero.

Il riflesso di questo tratto caratterizzante sulla spiritualità e sul vissuto concreto, secondo l’anziano prelato, doveva essere immediato: il prete, investito o no di una responsabilità pastorale all’interno di una comunità cristiana, vive essenzialmente per le persone a lui affidate e, come Gesù, offre la sua vita per il gregge. Un gregge che non è numericamente delimitato, ma potenzialmente universale. Tutta l’umanità e ogni singola persona è virtualmente affidata al prete per il fatto stesso della sua ordinazione. Dunque, non si entra in seminario solamente per «attendere a santificare se stesso», ma per rendersi atto (spiritualmente, moralmente, culturalmente, professionalmente) ad assumere la cura «della salute altrui», il ministero di salvezza del prossimo, affidatoci dal Signore. È in tale ministero che troviamo la via della nostra santificazione. Così lo zelo pastorale deve caratterizzare fin dai primi passi l’itinerario spirituale del seminarista e motivare ogni sua azione esteriore e interiore. Anzi, il desiderio della salvezza e della santificazione del prossimo costituisce un segno inequivocabile di autentica vocazione.2

In questo quadro, rivolgendosi ai seminaristi, l’arcivescovo insisteva particolarmente sulla purezza di intenzione, sulla semplicità della vita, sull’ubbidienza interiore, sulla docile sottomissione. «Dovete le vostre opere tutte fare con ispirito di vera religione e di sincera pietà ... Non sia dunque né il timore, né l’umano riguardo la guida delle vostre azioni, ma lo spirito di Dio, ch’é spirito di amore e di libertà». Colui che «opera per spirito», si mostra «diligente nell’adempimento dei suoi doveri», dovunque egli si trovi, anche lontano dallo sguardo dei superiori. «Non cerca d’accattarsi il favore di veruno. Non si assicura del segreto a fine di non essere scoperto, non istudia né l’ora, né l’occasione, né il mezzo ... Tranquillo egli sempre se ne vive e ad ogni cosa dà il suo tempo, alla preghiera, allo studio, al riposo, alla ricreazione ed ai particolari suoi uffizi. In una parola a Dio cerca di servire nel suo stato e non di fingere solo per evitar rimproveri ... Se le vostre opere saranno animate dallo spirito, ogni cosa vi diventerà più facile e piana, né lo studio vi parrà fatica, né schiavitù la disciplina e la soggezione, ma correrete agili e lesti nell’intrapreso cammino»3.

Nella prospettiva della corrispondenza alla divina chiamata i doveri, la disciplina, i ritmi e gli ambiti di impegno del seminario, venivano convogliati nell’alveo dell’ascesi, della purificazione e della liberazione del cuore da ogni legame.

L’arcivescovo fa risuonare continuamente la domanda: perché sei qui? perché hai rivestito quest’abito? Egli vuole che ci si renda consapevoli della assoluta priorità della chiamata di Dio e si percepisca interiormente il grido delle tante pecorelle smarrite e abbandonate. Il buon seminarista non può più vivere per se stesso. Unito in spirito al suo Signore, sull’esempio degli apostoli, è orientato a una donazione progressiva e molteplice, all’olocausto di sé, quale victima caritatis, nelle molteplici quotidiane circostanze: tempo, energie, doti, riposo e salute, fino alla morte se così piace a Dio. «Or via, dilettissimi, non perdete tempo. Il seminario è il luogo dove avete a provvedervi dei mezzi che vi sono necessari per ben adempiere le funzioni del sagro ministero. Lo studio, il ritiro, la frequenza de’ sagramenti e degli altri esercizi spirituali e l’esatta osservanza della interna disciplina, tutto deve concorrere a farvi acquistare quello spirito ecclesiastico che deve distinguervi dai secolari».4

Questo vigoroso modello, che riprendeva temi della spiritualità sacerdotale tridentina e si concretizzava nella proposta esemplare di figure affascinanti come quelle di Filippo Neri, Carlo Borromeo, Francesco di Sales, Vincenzo de’ Paoli e Luigi Gonzaga (particolarmente amato e venerato a Chieri per i suoi soggiorni nella casa dei nonni materni in palazzo Tana) era posto sotto gli occhi del seminarista Giovanni Bosco.



L’eco di tutto ciò si coglie nelle Memorie dell’Oratorio: «Il giorno 30 di ottobre di quell’anno 1835 doveva trovarmi in seminario ... Al mattino per tempo mi recai a Chieri e la sera dello stesso giorno entrai in seminario. Salutati i superiori e aggiustatomi il letto, coll’amico Garigliano mi sono messo a passeggiare pei dormitorii, pei corridoi, e infine pel cortile. Alzando lo sguardo sopra una meridiana lessi questo verso: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae. - Ecco, dissi all’amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo.

Il giorno dopo cominciò un triduo di esercizi ed ho procurato di farli bene per quanto mi fu possibile. Sul finire di quelli mi recai dal professore di filosofia, che allora era il teologo Ternavasio di Bra, e gli chiesi qualche norma di vita con cui soddisfare a’ miei doveri ed acquistarmi la benevolenza de’ miei superiori. - Una cosa sola, mi rispose il degno sacerdote, coll’esatto adempimento de’ vostri doveri.

Ho preso per base questo consiglio e mi diedi con tutto l’animo all’osservanza delle regole del seminario. Non faceva distinzione tra quando il campanello chiamava allo studio, in chiesa, oppure in refettorio, in ricreazione, al riposo. Questa esattezza mi guadagnò l’affezione de’ compagni e la stima de’ superiori, a segno che sei anni di seminario furono per me una piacevolissima dimora»5.

In questo testo, e nelle pagine seguenti, vengono delineati gli aspetti che il Don Bosco sperimentato riteneva qualificanti per una spiritualità giovanile. Li aveva già semplificati con il trinomio: Allegria, studio, pietà, enunciato nella vita di Francesco Besucco. Nella sua prospettiva spirituale essi venivano a caratterizzare sia il modello del buon chierico e quello del bravo religioso suggerito ai salesiani, sia la via pratica di santità proposta ai giovani. Ma in qualche modo qui ritroviamo, con gli adattamenti del caso, alcuni aspetti qualificanti di tutta la sua spiritualità.

2 2. Servite Domino in laetitia

▲back to top


Innanzitutto - e significativamente - Don Bosco ci riferisce il motto della meridiana del seminario, espressione del tono spirituale a cui doveva ispirarsi la comunità dei figli di san Filippo Neri che anticamente abitava tra quelle mura: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae - Le ore passano lente per chi è triste, veloci per chi è gioioso -. È una affermazione a prima vista disimpegnata. Chi non conoscesse lo spirito filippino, in quel gaudentibus potrebbe ravvisare un invito alla divagazione. Il commento del nostro Giovanni all’amico Garigliano, proprio nella formulazione («stiamo sempre allegri»), ne coglie l’essenza e rimanda a tanti altri passi simili nei quali si delinea la spiritualità della santa allegria, del servite Domino in laetitia, che gli è così congeniale, enunciata nel Giovane provveduto, esemplificata nelle vite dei suoi ragazzi e in tanti interventi formativi. Ma qui è descritto l’animo di chi accetta con gioia la condizione in cui si è venuto a trovare, come conseguenza del dono di sé al Signore, e affronta con generosità e ilarità la quotidianità con le sue fatiche e imperfezioni, nel proposito di guardare sempre oltre, al senso e al motivo di fondo sul quale sta orientando la vita.

Avremmo bisogno anche noi di una tale meridiana ben visibile sui muri delle nostre case. Donaci, Signore, la serenità interiore, la generosità, come un dono permanente, come caratteristica qualificante della nostra personalità salesiana. Fa’ che il quotidiano, abbracciato con fede, speranza e carità, sia da noi vissuto nell’ottimismo, con spirito di gioioso sacrificio, come espressione di consacrazione a te. Aiutaci a superare ogni tentazione di amarezza, di pessimismo, di sfiducia e di ribellione.



Successivamente è introdotto il tema del dovere. Il professore di filosofica gli aveva suggerito come programma: «Una cosa sola: l’esatto adempimento dei vostri doveri». All’accoglienza gioiosa egli aggiunge l’esattezza, il fare bene tutto ciò che si deve fare, a partire dalla lucida coscienza delle motivazioni interiori che hanno portato Giovanni in seminario. Nella biografia di Besucco questo legame è chiaramente tematizzato: «Besucco venne all’Oratorio con uno scopo prefisso: perciò la sua condotta aveva sempre di mira il punto a cui tendeva, cioè dedicarsi tutto a Dio nello stato ecclesiastico. A questo fine cercava di progredire nella scienza e nella virtù...»6.

In questa prospettiva il chierico Bosco ha «preso per base» e si è impegnato «con tutto l’animo» nell’osservanza delle regole, degli impegni e degli orari del seminario, senza fare distinzione tra aspetti piacevoli o sgradevoli. Ciò che importa, infatti, non sono i doveri in se stessi, ma la motivazione interiore con cui si affrontano e quell’osservanza operosa e fervida nella quale si esprime una donazione autentica al Signore. Narrando ai giovani la vita di Luigi Comollo, il nostro santo ha dato ampio risalto alla sua: «massima sollecitudine per i doveri di studio e di pietà», riportando pure una sentenza a lui cara: «Fa molto chi fa poco, ma fa quel che deve fare; fa nulla chi fa molto, ma non fa quello che deve fare»7. Questa espressione, come annota Alberto Caviglia, entrerà nel linguaggio salesiano e sarà ripetuta da Don Giulio Barberis, maestro delle prime generazioni, «per cinquant’anni ai chierici in formazione»8.

3 3. Il compimento dei doveri in prospettiva ascetica e mistica

▲back to top


Siamo di fronte a uno dei punti centrali della proposta formativa di Don Bosco, che caratterizza sia la spiritualità da lui insegnata ai giovani sia quella consegnata alla sua grande famiglia. Infatti la necessità dell’esatto adempimento dei doveri non è proposta a partire da un imperativo immanente, ma dall’orizzonte di trascendenza proprio di coloro che, vivendo di fede in Cristo, a lui si vogliono configurare in libera obbedienza d’amore. In questa ottica l’esattezza nel dovere è proiettata sia in una prospettiva ascetica che in un orizzonte mistico.

Dal punto di vista ascetico Don Bosco considerava un ventaglio molto vasto di doveri, come si legge nella vita di Francesco Besucco: tutti quelli derivanti dalla propria condizione: «doveri di pietà, di rispetto e di ubbidienza verso i genitori, e di carità verso tutti»9. Egli suggerì al pastorello delle Alpi «di considerare come penitenza la diligenza nello studio, l’attenzione nella scuola, l’ubbidire ai superiori», alla stessa stregua del «sopportare gli incomodi della vita quali sono caldo, freddo, vento, fame, sete», superando il loro imporsi come “necessità” e accogliendoli «per amor di Dio»10. Così anche per i doveri della carità e per i servizi che essa impone: «Il fare commissioni a’ suoi compagni, portare loro acqua, nettare le scarpe, servire anche a tavola quando gli era permesso, scopare in refettorio, nella camerata, trasportare la spazzatura, portare fagotti, bauli, purché il potesse, erano cose che egli faceva con gioia e colla massima sua soddisfazione»11. Ai giovani desiderosi di perfezione cristiana egli ricorda «che la vera penitenza non consiste nel fare quello che piace a noi, ma nel fare quello che piace al Signore, e che serve a promuovere la sua gloria. Sii ubbidiente, ... e diligente nei tuoi doveri, usa molta carità verso i tuoi compagni»12. La qualità ascetica viene garantita dall’intenzionalità e dalla finalizzazione: «Ciò che dovresti soffrire per necessità offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l’anima tua», ricorda a Domenico Savio.13

In quest’ordine devono pure collocarsi gli inviti alla santificazione che Don Bosco estendeva a tutti: «Operai, agricoltori, artigiani, mercanti, e servi, e giovani - scrive nella Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino -, si sono santificati, ciascuno nel proprio stato. E come si sono santificati? Facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempivano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a lui offerendo le loro pene, i loro travagli. Questa è la grande scienza della salute eterna e della santità»14. Egli insegnava a dare un significato superiore a quanto la vita richiede, assumendolo asceticamente con intenzione sacrificale e orientandolo ad un fine spirituale.

C’è un passo ulteriore, sul quale troppo facilmente oggi noi sorvoliamo: la prospettiva mistica nella quale Don Bosco ci propone l’adempimento dei doveri, che si radica ultimamente in quel «darsi a Dio per tempo», enunciato nel Giovane provveduto, sviluppato dal santo, sempre più insistentemente, in un «darsi tutto a Dio», con una decisione e uno slancio amoroso tali da segnare un punto di non ritorno per la persona. A ben guardare questa è la prospettiva che sottostà ad ogni suo intervento come obiettivo educativo primario e come punto di partenza per una riconfigurazione del vissuto in tensione oblativa. Essa infatti, nei termini in cui viene presentata, richiama, più che una scelta di religiosità consapevole e di coerenza morale, il suscipe che Ignazio di Loyola colloca al culmine della quarta settimana degli Esercizi e si presenta con i tratti evidenti dell’adesione irrevocabile alla «vita devota» e del fervore operativo prospettati da Francesco di Sales.

Sulla base di questa assoluta determinazione di dono, che fa entrare il cristiano nello stato di piena obbedienza al Padre proprio del Cristo, nella condizione di servo liberamente assunta per amore, il senso e il valore delle azioni quotidiane risulta transignificato e trasfigurato. Ne consegue una rinnovata modalità di esecuzione di esse che svela la qualità del vissuto cristiano in quanto forma che domina la vita della persona immergendola nel mistero di Cristo.

Esemplare in questo senso è l’esperienza di Michele Magone, per il quale la conversione «franca e risoluta» segna il passaggio da un precedente “andare rassegnato” dalla ricreazione bramata allo studio subìto15 ad un successivo “correre” «il primo in que’ luoghi ove il dovere lo chiamava», a un desiderio di regolarsi «costantemente bene ... con applicazione e diligenza». Si verifica in lui una trasfigurazione tale da proporlo «a modello di virtù»: un «totale cangiamento sì nel fisico che nel morale», come scrive Don Bosco, che fu interpretato quale segno evidente del suo «volersi dare tutto alla pietà ... spogliato dell’antico Adamo».16 In questo atteggiamento, appunto, viene proposto a modello dei giovani, come colui che «ascoltò l’amorosa chiamata» del Signore che «lo invitava a seguirlo ... e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero».17

Nella biografia di Francesco Besucco, Don Bosco esprime più consapevolmente e in forma più esplicita l’orientamento mistico. Egli vi delinea l’impegno del pastorello e la sua diligenza nei doveri come espressione della scelta di conformazione perfetta alla volontà divina nell’orientamento e ordinamento della propria vita: «Venne all’Oratorio con uno scopo prefisso; perciò nella sua condotta aveva sempre di mira il punto cui tendeva, cioè di dedicarsi tutto a Dio nello stato ecclesiastico. A questo fine cercava di progredire nella scienza e nella virtù».18 La modalità con cui è prospettata l’intenzionalità, l’intensità di impegno e la tensione alla perfezione (a fare sempre più e sempre meglio), che derivano da tale consapevole moto d’amore e si riversano sulla percezione di sé e impregnano il vissuto del giovane,19 configura quell’orientamento di distacco e di totalità amorosa, di kenosi e di estasi, che è descritto da Francesco di Sales, nel Trattato dell’amor di Dio, come «estasi della vita e delle opere» e costituisce il vertice del cammino di perfezione20.

4 4. Una radicale e generosa riforma interiore

▲back to top


Nel seguito delle Memorie vengono presentati altri aspetti dell’itinerario spirituale di Don Bosco: la vita di preghiera e la pietà sacramentale, le relazioni umane, ma soprattutto il paziente e faticoso lavoro ascetico su di sé, secondo il modello formativo proposto ai seminaristi.

Giovanni prosegue la riforma interiore con drastica radicalità. Si impone una rinuncia a tutto ciò che in precedenza costituiva il suo più grande divertimento. Negli anni di frequenza alla scuola pubblica, oltre allo studio, egli si era dedicato a «trattenimenti diversi, come sono canto, suono, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore». Aveva imparato anche vari giuochi: «carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti, corse [che] erano tutti divertimenti di sommo gusto». Gli piaceva poi «dare pubblici e privati spettacoli», essere ammirato e lodato21. Tutto questo è narrato con simpatia: Don Bosco descrive la vivacità febbrile di un vissuto giovanile intenso, quasi eccessivo, tuttavia impegnato nei doveri, anche se ammette: «non vi nascondo che avrei potuto fare di più», e constata che «spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione» lo obbligava ad impiegare «due terzi della notte» a studiare o leggere, con grave danno della salute («per più anni la mia vita sembrava ognora vicina alla morte»)22.

Ora, entrato in seminario, coerentemente con la scelta operata in occasione della vestizione, egli si impone una decisa purificazione del cuore. Nella Filotea di san Francesco di Sales poteva leggere che, a chi vuole abbracciare la vita spirituale, non solo è necessario l’abbandono dell’affetto al peccato mortale e veniale, ma è indispensabile staccare il cuore dall’amore a «giochi, balli, banchetti, feste e spettacoli, che in sé non sono cose cattive, ma indifferenti e possono essere vissute in bene o in male»; e che il dedicarsi ad esse costituisce un pericolo per la vita spirituale: «il male non è farle, ma affezionarsi ... Non soltanto sono inutili, ma inseguendole rischiamo di diventare degli originali e dei disordinati. Ecco perché ti dico che bisogna liberarsi da quegli affetti»23.

Giovanni sente in sé il bisogno di dare un taglio netto: rinuncia al gioco della bara rotta perché «si avvicinava molto a quello dei ciarlatani, cui aveva assolutamente rinunziato». Più tardi si interdice il gioco dei tarocchi, perché le sue vittorie amareggiavano i compagni e perché «nel giuoco io fissava tanto la mente che dopo non poteva più né pregare né studiare avendo sempre l’immaginazione travagliata dal Re da Cope e dal Fante da Spada, dal 13 o dal quindici da Tarocchi»24. Qui si sente l’influsso esplicito di san Francesco di Sales, il quale nel capitolo trentaduesimo del terzo libro della Filotea ricorda al lettore l’incompatibilità con la vita spirituale di un gioco come questo: la gioia che proviene della vittoria «è gioia perversa, giacché si può conseguire soltanto per mezzo della sconfitta e del dispiacere del compagno»; inoltre esso, invece di divertire, «tiene lo spirito caricato e teso da un’attenzione continua e agitato da insistenti inquietudini»25.

Le testimonianze degli antichi compagni confermano il drastico cambiamento di vita del chierico Bosco: don Giacomelli ricorda: «non lo vidi mai prendere parte a divertimenti anche leciti e permessi dai superiori». Teodoro Dalfi, personalità vivace, «capo fanatico di bara rotta», testimonia: «quante volte andava a strappare il povero Bosco per trascinarlo in ballo, tormentando quel poveretto, uso sempre a fare due passi su di una pianella. Ma non ci fu mai verso»26. Conoscendo la vivacità dei suoi anni precedenti possiamo immaginare quanto gli costasse una tale scelta.

Insieme a tutto ciò, egli curò la «ritiratezza», come dimensione interiore di uno spirito desideroso di raccogliersi tutto su Dio e di allontanarsi progressivamente da ogni superficialità e divagazione, secondo il consiglio ricevuto durante gli esercizi spirituali dal teologo Giovanni Borel27. Durante le vacanze estive, amici e parenti constatarono quanto egli mantenesse fede alla decisione di mutamento nello stile di vita. Egli stesso racconta le circostanze nelle quali la sua natura fervida prese, solo per un attimo, il sopravvento e che lo spinsero alla determinazione di non partecipare più ai banchetti popolari, prima tanto amati, a fare in mille pezzi il suo violino, ad abbandonare definitivamente la caccia: «Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione, e d’allora in poi mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani»28.

Si trattava per lui di attuare una reale progressiva spogliazione di sé in vista della totalità di comunione con Dio. Nessun tentennamento, nessuna mezza misura. Poco alla volta, garantitosi l’effettivo distacco del cuore, imparerà la valorizzazione equilibrata di quanto aveva caratterizzato e nutrito i suoi anni giovanili e che verrà a costituire uno strumento prezioso per le finalità primarie della sua missione giovanile.

La biografia di Luigi Comollo, pubblicata da don Bosco nel 1844, ci fa percepire il clima di fervore, gli aneliti interiori e le tensioni che animavano lo spirito di quel gruppo di amici zelanti: uso scrupoloso del tempo, impegno nello studio, correzione reciproca, amore alla pietà, frequenti visite in cappella durante le ricreazioni, venerazione e ardore emotivo per l’Eucaristia, rigorose mortificazioni dei sensi, lettura di libri di devozione durante la messa e le visite. L’incontro casuale con il libro dell’Imitazione di Cristo, durante il secondo anno di filosofia, gli schiuse ulteriori orizzonti spirituali e alimentò con «sublimità di pensieri» la sua devozione, portandolo anche all’abbandono «della lettura profana» e al gusto della cultura ecclesiastica29.

Ma i sei anni di seminario furono ricchi di molti altri frutti. I ricordi di Don Bosco anziano, confermati e completati dalle testimonianze raccolte da don Lemoyne tra i compagni di un tempo, ci fanno conoscere anche il suo spirito di carità nei molteplici servizi nella comunità, la sua arguzia ed allegria, una costante e moderata vivacità, il suo regolare contatto con i giovani amici della città, le sue abbondanti e fruttuose letture. I registri superstiti testimoniano i ritmi prima quindicinali e poi settimanali delle sue confessioni, la fedeltà al confessore scelto (il teologo Maloria), ma anche le costanti difficoltà economiche e la continua lotta contro l’indigenza. Sono venute alla luce recentemente tre commoventi lettere di quel periodo, con le quali il chierico Giovanni Bosco, «essendo privo di padre e quasi affatto di beni di fortuna, stretto dal bisogno tanto per pagare la pensione che per provvedersi abiti quali sono mantello, veste, etc.», «non potendo sperare alcun soccorso dai propri parenti mentrecché essi devono procacciarsi il vitto a servizio altrui», si fa mendicante e «supplica umilmente» il re «a volersi degnare di concedergli un caritatevole sussidio ...; al fine di poter perseverare nello intrapreso stato ecclesiastico a cui giudica essere unicamente da Dio chiamato»30.



Il seminario gli fornì una forte tempra spirituale e un’impronta che non rinnegherà: «Un giorno di vera costernazione era quello in cui doveva uscire definitivamente dal seminario. I superiori mi amavano e mi diedero continui segni di benevolenza. I compagni mi erano affezionatissimi. Si può dire che io viveva per loro ed essi per me ... Perciò mi tornò dolorosissima quella separazione»31.

L’amore per la sua condizione di seminarista - frutto dell’accettazione serena dei limiti contingenti e delle durezze quotidiane, unita all’accoglienza delle persone e alla valorizzazione di ogni opportunità offerta -, il paziente lavoro su di sé, hanno disposto il suo spirito per i successivi interventi della Provvidenza che progressivamente lo rendeva atto alla sua eccezionale missione.



1 Cfr. A. Giraudo, Clero, seminario e società. Aspetti della restaurazione religiosa a Torino, Roma 1993, p. 261.

2 Cfr ivi, pp. 250-251.

3 Da un discorsetto di mons. Colombano Chiaveroti ai seminaristi (ivi, pp. 248-249).

4 Ivi, p. 251.

5 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione, note e testo critica di A. da Silva Ferreira, Roma 1991, II,102-120.

6 G. Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, in [A. Caviglia,] Opere e scritti editi e inediti di don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti secondo le edizioni originali e manoscritti superstiti, vol. VI, Torino, SEI 1965, p. 57.

7 G. Bosco, Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo, in [A. Caviglia,] Opere e scritti, vol. V, pp. 81-82.

8 Cfr ivi, p. 117.

9 G. Bosco, Il pastorello delle Alpi, p. 66.

10 Ivi, p. 65.

11 Ivi, p. 66; sono tutti doveri derivanti dalla propria condizione: «doveri di pietà, di rispetto e di ubbidienza verso i genitori, e di carità verso tutti».

12 Ivi.

13 G. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di san Francesco di Sales, Torino 1859, p. 75. Troviamo espressioni quasi identiche nella biografia di F. Besucco (Il pastorello delle Alpi, p. 65).

14 [G. Bosco,] Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino, Torino 1853, pp. 7-8.

15 G. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino 1861, p. 15.

16 Ivi, pp. 33-39.

17 Ivi, p. 5.

18 G. Bosco, Il pastorello delle Alpi, p. 57: è la conclusione del capitolo XVIII, tutto dedicato all’impegno nei doveri affrontati con dedizione amorosa e «colla avidità di chi fa cosa di grande suo gusto» (p. 55).

19 Il desiderio del Besucco di compiere la volontà di Dio, tradotto in ardente invocazione, viene ravvisato da Alberto Caviglia come il definitivo «pensiero che dominava tutta la visione amorosa dell’anima sua, fattasi tutta di Dio e conformata totalmente alla divina volontà. Il che, a detta dei maestri di spirito, è il termine del cammino di perfezione, anche se vogliamo contenerci nelle misure possibili all’anima d’un adolescente» (A. Caviglia, La “Vita di Francesco Besucco”, p. 218).

20 Cfr Francesco di Sales, Trattato dell’amor di Dio, a cura di Ruggero Balboni, 1989, pp. 526-533: si tratta dei capitoli 7 e 8 del libro settimo, nei quali più esplicitamente si sviluppa il tema della vita estatica.

21 Cfr G. Bosco, Memorie dell’Oratorio, I,1043-1070.

22 Ivi, I,1200-1231.

23 Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, a cura di Ruggero Balboni, Milano 1993, pp. 67-69.

24 Cfr G. Bosco, Memorie dell’Oratorio, II,170-183.

25 Francesco di Sales, Filotea, pp. 230-231.

26 Le testimonianze, tratte dai processi di beatificazione, sono riprodotte in G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Giovanni Bosco, vol. I, S. Benigno Canavese 1898, pp. 407-408.

27 «Colla ritiratezza e colla frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma il vero ecclesiastico» (G. Bosco, Memorie dell’Oratorio..., II,479-480). Le Memorie collocano l’incontro con Giovanni Borel all’inizio del secondo anno di teologia, ma va anticipato all’anno precedente (novembre 1837), come risulta dalla documentazione conservata nell’archivio del seminario (cfr. A. Giraudo, Clero, seminario e società, p. 263).

28 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio, II,279-337.

29 Cfr ivi, II,485-509.

30 Il testo integrale delle lettere è pubblicato in A. Giraudo, «Sacra Real Maestà». Considerazioni su alcuni inediti di don Bosco, in “Ricerche storiche salesiane” 13 (1994) pp. 293-294.

31 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio..., II,569-576.