Bollettino_Salesiano_201208

Bollettino_Salesiano_201208



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IL
LUGLIO
AGOSTO
2012
Noi & loro
Tutti al mare
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
Giubileo
Il beato
Bronislao
Markiewicz
Salesiani
nel mondo
Pasil
Ricordiamo
Don Giuseppe Kowalski
Le case di
don Bosco
Genova
L’invitato
Suor Piera Cavaglià

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LE COSE DI DON BOSCO
JOSÉ J. GÓMEZ PALACIOS
Il granaio
La storia
«Nell'anno 1817», racconta don Bosco, «i raccolti dell'an-
nata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile
siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi. Ognuno
può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare
mia madre in quella calamitosa annata» (Introduzione alle
Memorie dell’Oratorio).
Sono il granaio della
casetta dei Becchi.
Sono nato piccolo e
umile, sempre disposto
a offrire il meglio di
me stesso.
Ero formato da tre scompar-
timenti. Il più grande per le
pannocchie di granoturco, i
sacchi di frumento; gli altri per
la paglia e il fieno.
Noi granai impariamo un’unica
lezione che guida tutta la nostra
esistenza: ricevere e donare.
Fino al termine dell’estate acco-
gliamo e custodiamo il miracolo
del raccolto. Durante l’inverno
restituiamo tutto: un anticipo di
pane e latte profumati.
Ho sempre compiuto il mio
dovere con generosità. Finché
non arrivarono i giorni terribili
della carestia: «Il tempo della
grande paura».
Brinate in primavera, poi una
lunghissima siccità. I raccol-
ti andarono perduti. Le mie
riserve si assottigliarono pau-
rosamente. Dal mio punto di
osservazione, vidi che nei paesi
intorno c’era la fame, la fame
vera, quella che faceva trovare
i mendicanti morti nei fossi.
Ogni giorno incrociavo gli occhi
pieni di apprensione di Mamma
Margherita. Era rimasta vedova
da pochi mesi e si trovò sulle
braccia la famiglia proprio in
quella stagione stregata. In casa
aveva la suocera inchiodata su
una poltrona, Antonio, 9 anni,
figlio di un matrimonio prece-
dente di suo marito, e i suoi due
bambini, Giuseppe e Giovanni
di 4 e 2 anni.
Assistetti al giorno terribile,
quando i sacchi di frumento
e granoturco si afflosciarono
completamente vuoti. Quel
giorno i bambini non avevano
mangiato nulla. Margherita,
senza sgomentarsi, disse: «Vo-
stro padre, morendo, mi disse
di avere confidenza in Dio.
Inginocchiamoci e preghiamo».
Anche il mio vecchio cuore di
legno e mattoni pregò con tutta
la sua forza. Perché un granaio
vuoto non merita di vivere. È
una cosa inutile. Piombai nel
buio e nel silenzio. Nessuno
saliva da me sulla traballante
scala di legno.
Dopo una breve preghiera,
Margherita si alzò e disse:
«Nei casi estremi si devono usare
mezzi estremi». Con l’aiuto di un
vicino andò nella stalla, uccise
un vitellino, ne fece cuocere una
parte e sfamò la sua famiglia.
Dio pensò anche a me, in qual-
che modo. Mamma Margherita
fece venire da paesi lontani dei
cereali a carissimo prezzo che
furono accuratamente immagaz-
zinati dentro di me. Quanto fui
fiero e attento di custodire tutta
la speranza della famiglia Bosco.
Sono passati tanti anni e il
mio vecchio coro scricchiola da
tutte le parti.
Anche se sono solo un umile
granaio non riesco a dimenti-
care le parole di quella donna
coraggiosa. Anche perché il
marmocchio di casa, Giovan-
nino, diventato don Bosco,
le ripeteva ogni autunno ai
ragazzi che portava qui da To-
rino: «Vostro padre, morendo,
mi disse di avere confidenza
in Dio. Inginocchiamoci e
preghiamo».
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Luglio/Agosto 2012

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IL
IL
LUGLIO
AGOSTO
2012
Noi & loro
Tutti al mare
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
Giubileo
Il beato
Bronislao
Markiewicz
LUGLIO/AGOSTO 2012
ANNO CXXXVI
Numero 7
Salesiani
nel mondo
Pasil
Ricordiamo
Don Giuseppe Kowalski
Le case di
don Bosco
Genova
L’invitato
Suor Piera Cavaglià
2 LE COSE DI DON BOSCO
4 CONOSCERE DON BOSCO
Un nuovo modello di missione
e di missionario
6 LETTERE
8 EVENTI
Dio prima di tutto!
12 SALESIANI NEL MONDO
Pasil
14 Dall'Africa giovane
alla vecchia Europa
16 L’INVITATO
Suor Cavaglià
19 RISPOSTA, NON PROBLEMA
20 RICORDIAMO
Don Giuseppe Kowalski
24 FINO AI CONFINI DEL MONDO
26 LE CASE DI DON BOSCO
Genova
29 ANNO DELLA FEDE GIOVANE
30 COME DON BOSCO
32 A TU PER TU
Don Ernesto Sirani
34 ESPERIENZE SALESIANE
Spugna
36 NOI & LORO
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 RELAX
42 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
43 LA BUONANOTTE
16
20
32
Mensile di
informazione e
cultura religiosa
edito dalla
Congregazione
Salesiana di San
Giovanni Bosco
In copertina :
Il periodo delle
vacanze può
essere il momento
privilegiato per
ritrovare tutto ciò
che alimenta la vita
spirituale, familiare
e sociale (Foto
Shutterstock).
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 57
edizioni, 29 lingue diverse e
raggiunge 131 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via della Pisana, 1111 - 00163 Roma
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Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Jan Marian
Bogacki, Teresio Bosco, Pierluigi
Cameroni, Maria Antonia Chinello,
Luca Crivellari, Roberto Desiderati,
Paolo Galdiero, Tonino Lasconi,
Cesare Lo Monaco, Natale Maffioli,
Alessandra Mastrodonato, France-
sco Motto, Marianna Pacucci, José
J. Gomez Palacios, Pino Pellegrino,
O. Pori Mecoi, Alberto Rinaldini,
Silvio Roggia, Fabrizio Zubani.
Diffusione e Amministrazione:
Luciano Alloisio (Roma)
Fondazione
DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
Via della Pisana 1111 - 00163 Roma
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n. 403 del 16.2.1949
Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana

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CONOSCERE DON BOSCO
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
UdinMnuiosvosimoondeello
e di missionario tandotaloraglisguardisuqualchecartadelmap-
pamondo, sospirava nel vedere come tante regioni
ancora giacessero nell’ombra della morte, e mo-
strava ardente desiderio di poter un giorno portar
la luce del Vangelo in luoghi non raggiunti da altri
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Oba-
ma, in visita in Brasile il 19 e il 20 marzo per
ampliare e ottimizzare le relazioni politiche
e commerciali tra i due paesi, durante il di-
scorso agli imprenditori ha ricordato il sogno
di don Bosco sulla città di Brasilia: “Brasilia
missionari” (Memorie Biografiche III, 546).
Lo stesso ardore apostolico attinto alla scuola del
Cafasso, che aveva spinto don Bosco a identificare
come campo d’azione il mondo dei giovani poveri e
abbandonati, di sviluppo in sviluppo, sarà alla base
della decisione di aprire la Famiglia Salesiana alle
è una città giovane, con solo 51 anni, ma che ha missioni ad gentes. Lo ribadì don Rua: «fu questo bi-
avuto inizio da oltre un secolo; nell’anno 1883 sogno di salvar delle anime che gli fece parere angu-
don Bosco ebbe la visione che un giorno la capi- sto l’antico mondo e lo spinse ad inviare i suoi figli
tale di una grande nazione sarebbe stata costruita nelle lontane Missioni d’America» (BS 21 [1897] 4).
tra i paralleli 15 e 20 e che sarebbe stata il model- Negli anni del Convitto, influenzato dalla lette-
lo del futuro e che avrebbe garantito opportunità ratura missionaria, don Bosco aveva vagheggiato
per ogni cittadino brasiliano”.
di unirsi agli Oblati di Maria Vergine per le mis-
Un piccolo mappamondo scuro
sioni tra gli indiani del Nord America. Fu assiduo
lettore degli Annali della Propagazione della fede fin
L’oggetto più commovente delle camerette di don dal 1848. Ma l’impatto decisivo nell’accelerare la
Bosco a Valdocco è un piccolo mappamondo scuro vocazione missionaria della giovane congregazio-
e piuttosto approssimativo. Quasi non si vedono i ne gli venne in occasione del Concilio Vaticano I
confini tra gli stati e il mondo stranamente fuso (1869-70): molti vescovi d’America, Africa e Asia,
in una compatta solidarietà. Quante volte l’hanno profittavano della venuta a Roma per arruolare
accarezzato gli occhi di don Bosco? Si può vedere clero e suore; entrarono in rapporto con don Bo-
il mondo con gli stessi occhi di Dio? Una umanità sco, visitarono Valdocco e fecero proposte di fon-
che sogna, senza confini, senza barriere.
dazioni. Egli lo sentì come un segno della volon-
“Sovente il giovane Michele Rua l’udì esclamare: tà di Dio e si infervorò. In questo contesto, tra il
«Oh se avessi dodici sacerdoti a mia disposizione, 1871/72 si colloca il primo sogno missionario.
quanto bene si potrebbe fare! Vorrei mandarli a «Mi parve di trovarmi in una regione selvaggia ed
predicare le verità di nostra santa Religione non affatto sconosciuta. Era un’immensa pianura, tutta
solo nelle chiese, ma persino nelle piazze!» E get- incolta, nella quale non scorgevansi né colline né
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monti. Nelle estremità lontanissime
però si profilavano scabrose montagne.
Intanto vedo in lontananza un drap-
pello di missionari che si avvicinavano
ai selvaggi con volto ilare, preceduti da
una schiera di giovinetti. Io tremavo
pensando: – Vengono a farsi uccidere.
– E mi avvicinai a loro: erano chierici
e preti. Li fissai con attenzione e li ri-
conobbi per nostri Salesiani. I primi mi
erano noti e sebbene non abbia potuto
conoscere personalmente molti altri
che seguivano i primi, mi accorsi essere
anch’essi Missionari Salesiani, proprio
dei nostri».
L’avanguardia
di una grande armata
Tra le varie, la sua concretezza gli fece preferire la
proposta argentina: là si dirigevano migliaia di im-
migrati e i suoi missionari non si sarebbero trovati
isolati; là c’era una società civile pronta a sostene-
re l’opera; e là si trovavano anche i “selvaggi” dei
suoi sogni. Le lettere e le informazioni di Cagliero
e degli altri sulla Patagonia reale avrebbero mo-
dificato radicalmente la visione romantica di don
Bosco, pronto sempre ad adattarsi alle situazioni e
a vedervi la voce del Signore. La strategia cambiò:
fondare opere come quella di Valdocco (collegi,
parrocchie e oratori), che fossero luoghi di for-
mazione per la fermentazione delle nuove nazioni
dell’America Latina e di lì far partire per il servizio
missionario missioni tra le popolazioni indigene.
Così il modello tradizionale di missione fu rin-
novato con elementi tratti dal carisma oratoriano,
che dà grande importanza all’istruzione e alla
cura della gioventù. Anche gli aspetti organizza-
tivi cambiarono: i missionari salesiani non erano
solo testimoni e apostoli che lasciavano tutto per
annunciare il Vangelo; essi, come la punta di un
iceberg, come l’avanguardia di una grande arma-
ta, si sentivano espressione dell’intera Famiglia
Salesiana che li sosteneva spiritualmente e mate-
rialmente e che partecipava alle loro gioie e dolo-
ri, ai loro successi e difficoltà.
Don Rua lo ricordò ai Cooperatori: «I Salesiani e
le Figlie di Maria Ausiliatrice, come schiere di un
esercito in campagna, faranno la parte loro, met-
tendo a disposizione di Dio e del prossimo la loro
volontà, la loro sanità, la loro vita; i Cooperatori e
le Cooperatrici facciano dal loro canto quello, che
i buoni padri e le buone madri di famiglia prati-
cano pei loro figliuoli, quando sono in battaglia»
(BS 14 [1890] pp. 4-5).
Le lettere dei missionari pubblicate sul Bollettino
comunicavano ogni particolare, ogni progetto, ogni
realizzazione, ogni successo, ogni sofferenza, ogni
difficoltà. Tutti potevano conoscere e partecipare
alle loro fatiche apostoliche, gioirne, esserne fieri,
soffrire con loro lutti, sostenerli con la preghiera,
collaborare economicamente. E i missionari, che si
sentivano parte della grande famiglia di don Bosco,
apprezzati, sostenuti, incoraggiati e amati, seppero
innestare efficacemente il carisma salesiano in ogni
parte del mondo.
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LA POSTA
I NOSTRI ESPERTI RISPONDONO
Il nostro papà
defunto è in
comunione con noi?
Caro Bollettino,
il mio nome è Damiana e sono un’ex
allieva delle Figlie di Maria Ausiliatri-
ce residente a Taranto. Oggi ho ormai
29 anni ed ho una laurea in scienze
psicologiche ed al termine della spe-
cialistica in Psicologia Clinica.
Scrivo per avere alcuni chiarimenti, se
possibile. Lo scorso 23 Marzo il mio
papà è salito al Cielo a causa di un
arresto cardio-circolatorio irreversibi-
le all’età di 52 anni. La mia famiglia
è composta da 4 figli, 3 sorelle ed un
fratellino di 5 anni, oltre a mia madre.
Stiamo affrontando questo tempo
nella Pace e nella preghiera, anche
grazie ad un cammino di fede che da
anni frequentiamo. Il 29 settembre
io ed il mio fidanzato ci sposiamo,
quindi la gioia si è trasformata in
dolore, ma dal punto di vista umano
perché noi proviamo a restare nella
gioia vera... quella di Dio. Mio pa-
dre ci ha trasmesso la Fede e noi
crediamo in Dio Padre, anche se
oggi è difficile affidarsi. Pensi che il
mio papà è salito al Cielo al termine
della preparazione eucaristica della
domenica (il nostro è il cammino
neocatecumenale) e l’ultima frase
scritta sul suo quaderno ed a noi
lasciata in eredità dice “Se il chicco
di grano caduto in terra non muore
non produce frutto, se muore porta
molto frutto”.
Io e la mia famiglia ci vogliamo
credere, crediamo nella comunio-
ne dei Santi, ma quello che io oggi
le chiedo è: cosa la Chiesa dice in
merito alla comunione dei defunti?
Il nostro papà come e quando è in
comunione con noi? Ci ascolta?
Abbiamo bisogno di queste rispo-
ste... noi lo sentiamo presente ed è
questa speranza che ogni giorno ci
dà la forza di procedere, ma vorre-
mo sapere cosa la Chiesa recita in
merito. Ho acquistato il testo esca-
tologico di Benedetto XIV e spero di
avere chiarimenti anche da esso.
Cos’è la vita eterna?
Damiana
OGNI MESE
DON BOSCO
A CASA TUA
Il Bollettino Salesiano vie-
ne inviato gratuitamente a
chi ne fa richiesta.
Dal 1877 è un dono di don
Bosco a chi segue con sim-
patia il lavoro salesiano tra
i giovani e le missioni.
Diffondetelo tra i parenti e
gli amici. Comunicate su-
bito il cambio di indirizzo.
Possiamo immagi-
narci l’aldilà?
Qualche anno dopo la scomparsa
di mio padre, sul letto di morte mia
madre mi domandò se noi tutti ci
saremmo rivisti in cielo. Ho cercato
in tutti i miei ricordi di catechismo e
ho balbettato le solite cose di circo-
stanza, ma più parlavo più mi con-
vincevo di saperne poco e di non
riuscire ad esprimere nulla di certo
e di persuasivo su un argomento
È uscito il quattordicesimo
libro delle
piccole storie
per l’anima
così importante. Che cosa sappia-
mo di sicuro sull’aldilà?
Luigi F., Milano
Due lettere, le stesse fon-
damentali e insopprimi-
bili domande. Che cosa
c’è dopo? La risposta ha
solo un’alternativa: o un
buco nella terra o il cielo
di Dio. Il nulla o la vita eterna.
La Chiesa e i cristiani hanno ere-
ditato da Gesù idee molto chiare in
merito.
Primo. «Credo la vita eterna» af-
fermano con decisione. La morte fa
parte della vita. I cristiani non dico-
no «la vita è bella ma poi purtroppo
si muore», ma «la vita è bella e poi
finalmente si muore». Quel “final-
mente”, anche se umanamente è
difficile da pronunciare, significa
che sapere che la vita continua no-
nostante le apparenze cambia tutto.
Questa vita è una sala d’aspetto
molto affollata dell’atrio partenze.
L’umore delle persone dipende dal-
la meta verso cui si sta partendo,
da chi o che cosa le sta attenden-
do. Chi è convinto che tutto finirà
in una scatola di legno o un forno
crematorio vive indubbiamente in
un modo diverso da chi sa di esse-
re solo all’inizio, talvolta tribolato,
di una bellissima avventura.
I cristiani amano follemente la vita,
per questo vogliono a tutti i costi la
vita eterna. D’altra parte, secondo
logica, se la vita a cui siamo de-
stinati è eterna, quella che stiamo
vivendo è già la vita eterna.
Secondo. Coloro che si sono amati
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e sono stati vicini in questa vita lo
saranno certamente anche nell’altra.
Il prototipo di questa verità è uno
dei malfattori, appeso alla croce
insieme a Gesù, che disse: «Gesù,
ricordati di me quando entrerai nel
tuo regno». Gli rispose: «In verità io
ti dico: oggi con me sarai nel para-
diso» (cfr Lc 23,42-43). Sarai con
me, cioè noi due ci incontreremo,
ci riconosceremo, staremo insieme.
Come concretamente si realizzerà
non riusciamo a immaginarlo. Cre-
diamo che dopo la morte ci rivedre-
mo tutti, ma dobbiamo rinunciare
alla pretesa di immaginarci il modo.
Non dobbiamo temere di lasciare
spazio al “mistero”. E alla sorpresa.
Il cristiano crede nella risurrezione
e nella propria sopravvivenza in
corpo e anima presso Dio. Dicendo
“corpo e anima” s’intende l’intera
persona umana con la sua storia
concreta, con la sua inconfondibile
identità. Saremo dunque tutti una
cosa sola in Dio e ci riconosceremo
gli uni gli altri. La morte non ci fa
cadere fuori dall’amore di Dio, né
dall’amore di coloro che abbiamo
amato nel corso della nostra esi-
stenza terrena. Il filosofo francese
Gabriel Marcel ha scritto: «Amare
significa dire all’altro: “Tu non mo-
rirai”». Alcune persone prossime
alla morte hanno l’impressione che
i loro cari, quelli che le hanno pre-
cedute, stiano per venirle a prende-
re. Non è ovviamente una prova che
noi ci rivedremo, ma può servire
come conferma della nostra fede.
Il cristiano riesce a rappacificarsi con
il grande nemico, l’ombra nera che
incombe su tutto ciò che esiste. Una
persona anziana ha scritto: «La mor-
te di una persona amica è sempre
una grossa perdita in qualsiasi età
e forse nella vecchiaia lo è ancora di
più, perché molti amici se ne sono già
andati e uno resta sempre più solo,
eppure ho notato di avere sofferto di
più per la scomparsa di quegli amici
che sono morti quando ero giovane
che per quelli che se ne sono andati
quando ero più anziano. A qualcu-
no potrebbe sembrare un segno di
insensibilità. Si potrebbe pensare
che, negli anni, io abbia sviluppato
una scorza difensiva nei confronti
del dolore. Sono ipotesi plausibili.
Io però, che mi conosco bene, so
che non si tratta di questo ma di un
modo di guardare alla vita che nel
tempo si è modificato. Man mano,
senza accorgermene, ho cambiato
filosofia, guardo le cose con un’ottica
differente. Quando ero più giovane
mi ribellavo all’idea della morte, la vi-
vevo come un’ingiustizia che toccava
alcuni e non altri. Oggi, che tanti miei
conoscenti e amici se ne sono andati,
mi sono un po’ rappacificato con la
morte: continua a non piacermi, ma
la sento meno ingiusta... e siccome
attraverso di lei sono ormai passate
tante persone care mi sembra anche
meno temibile».
Terzo. Sarà una situazione nuova,
che trasfigura le nostre relazioni,
collocandole in un livello di pienez-
za e perfezione. È curioso notare
quello che Cristo dichiara a coloro
che ironicamente gli sollevano il
caso della moglie che ha avuto set-
te mariti e che nell’oltrevita sarebbe
IO LA PENSO COSÌ
(Spazio libero per i lettori del Bollettino)
Vi è sfuggita una causa
Caro Bollettino, chi scrive è un uomo maturo di anni.
Non sono un ex-allievo salesiano, ma sono un simpatizzante dell’opera
salesiana. Leggo da molti anni il Bollettino Salesiano che ricevo rego-
larmente e lo trovo interessantissimo, pur nel limite di articoli, peraltro
molto ben fatti pur nella loro concisione.
La presente intende riferirsi all’articolo di pag. 34 del numero di marzo
del Bollettino sulle cause del calo delle vocazioni.
Avete individuato ben otto cause, ma vi è sfuggita l’ultima, o meglio la
prima causa di codesto calo, e cioè... il calo (e scusatemi l’ingorgo)
della preghiera per ottenere vocazioni.
Nell’articolo infatti non vi si fa nessun cenno.
È Lui, il Signore, che chiama, e desidera che glielo chiediamo. È un
segreto, che tale poi non è, in quanto ce l’ha comunicato come impera-
tivo per ottenerle. Due cose, infatti, a quanto mi consta, Gesù ci ha
raccomandato di chiedere al Padre: il pane e le vocazioni. Perché non
tenerne conto?
A quanto vedo, infatti, nemmeno le più alte gerarchie della Chiesa ten-
gono in considerazione questa raccomandazione del Signore Gesù:
“Pregate il Signore della messe...”.
Si fanno considerazioni a non finire, come avete fatto voi sul Bollettino,
su questa, e quest’altra causa, ma la vera causa principale sfugge.
Eppure è così semplice: pregare, chiederGlielo. Si fa così presto !
Spero vorrete tenerne conto, voi salesiani, se non necessariamente
sul Vs. Bollettino, almeno nella pratica, cioè nell’invitare a pregare per tale
causa i vostri ragazzi e ragazze, destinatari del dono della vocazione al
sacerdozio o alla vita religiosa.
Franco C., Bari
costretta a una strana poliandria:
«Alla risurrezione non si prende
moglie e marito ma si è come angeli
nel cielo». E aggiungeva quella fra-
se tanto cara a Pascal, secondo la
quale bisogna infrangere gli sche-
mi terrestri perché il Signore «non
è Dio dei morti ma dei vivi» (Mt
22,23-32). In ogni caso ciascuno
conserva la propria identità.
Quarto. I nostri cari defunti non
sono in un misterioso “altrove”. Sono
vivi e sono con Dio e Dio è ovunque.
Per questo i cristiani parlano di “ co-
munione dei santi”. I nostri cari sono
vicini a noi e ci aspettano. Quando
Gesù ha compreso di dover morire si
è congedato dai suoi discepoli con
queste confortanti parole: «Io vado
a prepararvi un posto. E quando sarò
andato e ve lo avrò preparato tornerò
e vi prenderò con me, perché siate
anche voi dove sono io» (Vangelo di
Giovanni 14,2s.).
Quando moriremo, non finiremo in un
qualcosa di sconosciuto, ma nell’abi-
tazione che Cristo e le persone da noi
amate che ci hanno preceduti nella
morte hanno preparato per noi.
Americo Bejca - Eremita
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EVENTI
JAN MARIAN BOGACKI CSMA
Dio prima
di tutto!
I Micheliti e le Michelite della Famiglia Salesiana
festeggiano il 1˚ centenario della morte del fondatore,
il beato Bronislao Markiewicz
La sua vita è un messaggio
concreto, un invito a vivere la
propria vocazione nel segno
di due frasi: “Chi come Dio?”
e “Temperanza e lavoro”. Una
proposta attuale anche oggi
dopo che sono passati 100
anni dalla sua morte.
I l modo migliore per capire e com-
prendere la sua spiritualità, la sua
strada per la santità passa attra-
verso la lettura della sua biografia.
Bronislao Markiewicz nacque a
Pruchnik, un piccolo centro della
Galizia, il 13 luglio 1842, in una fami-
glia polacca. In questo periodo storico
non esisteva lo stato indipendente po-
lacco. La nazione polacca viveva sotto
l’occupazione della Russia, dell’Austria
e della Prussia. La Galizia appartene-
va all’Impero Austro-ungarico.
Bronislao, sesto di undici figli, nac-
que il 13 luglio 1842 e venne battez-
zato quattro giorni dopo con il nome
di Bronislao Bonaventura. La sua fa-
miglia era modesta, di piccoli borghe-
si, composta da undici figli, cinque
maschi e sei bambine. Nella famiglia
si respirava un’atmosfera di profonda
religiosità. Il punto centrale della casa
era occupato dal quadro della Ma-
donna Nera di Czestochowa; inol-
tre sulla trave principale di sostegno
al tetto erano state scolpite due frasi
significative: “II Verbo si è fatto carne
ed abita in mezzo a noi” e “Signore Dio
benedite questa casa con i suoi abitan-
ti”. La vita della sua famiglia è stata
segnata da momenti di dolore e di
sofferenza, per la morte di quattro
sorelline. Grazie ai sacrifici e alla la-
boriosità dei genitori, altri tre fratelli
oltre a Bronislao poterono completare
gli studi fino alla laurea.
Finite le scuole elementari a Pruch-
nik, per motivi economici, dovette
interrompere gli studi per due anni.
Finalmente poté riprendere la sua
formazione nel ginnasio a Przemysl.
Era appassionato di letteratura, co-
La figura paterna e spirituale del Beato Bronislao.
nosceva benissimo latino e greco.
Sotto l’influsso degli insegnanti,
visse una profonda crisi di fede che
superò grazie alla lettura degli scrit-
tori polacchi, permeati di forte spiri-
tualità religiosa.
Quel prete di Torino
Il 1863 fu un anno decisivo nella vita
del giovane Bronislao: gli studi stava-
no per finire, nelle terre polacche era
scoppiata l’insurrezione sotto l’occu-
pazione russa. Il giovane voleva unir-
si agli insorti, ma il 3 maggio 1863
un suo compagno gli raccontò il suo
incontro con un giovane ragazzo di
16 anni che parlava del futuro, del-
le guerre, ma anche di un prete che
si sarebbe occupato di migliaia di
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bambini abbandonati. Così Broni-
slao dopo l’esame di maturità decise
di entrare nel seminario di Przemysl
dove venne ordinato sacerdote il 15
settembre 1867.
Gli anni 1867-1885 furono segna-
ti dal suo servizio pastorale nelle
diverse parrocchie della diocesi di
Przemysl. Nella sua attività pastorale
dedicava particolare attenzione alle
confessioni, al catechismo e alle opere
di carità. Fu molto attento anche al
sociale, fondò nelle sue parrocchie le
associazioni per i tessitori, combatté
la piaga dell’alcolismo, assistette spi-
ritualmente anche i malati durante
una grave epidemia di colera.
Forse proprio il desiderio di dedicarsi
con maggiore impegno all’attività so-
ciale lo spinse nell’autunno del 1885 a
lasciare le pur gratificanti occupazio-
ni nell’ambito della Diocesi
per recarsi in Italia, alla ri-
cerca di una congregazione
religiosa più rispondente ai
bisogni del suo spirito. Il 10
novembre 1885, don Mar-
kiewicz, con il consenso del
Vescovo, lasciò la diocesi e
arrivò in Italia pensando di
entrare nell’ordine dei padri
Teatini, ma a Roma conob-
be alcuni sacerdoti salesiani
e nel loro stile di vita riscon-
trò una grande affinità con
le sue aspirazioni. Decise
di partire per Torino e il 27
dicembre venne accolto nel-
la famiglia salesiana.
A Torino conobbe personal-
mente san Giovanni Bosco
e come novizio a San Be-
nigno Canavese ebbe il privilegio di
ascoltare dalla bocca del Santo gli in-
segnamenti su “temperanza e lavoro”.
L’incontro con san Giovanni Bosco
accentuò in padre Markiewicz il desi-
derio di percorrere la strada della san-
tità: “Mi raccomando alla sua preghiera
affinché io possa diventare al più presto
un santo, poiché c’è dappertutto bisogno
di santi, ma in modo particolare in Po-
lonia. Quando mancano i santi in una
nazione, si fa buio nelle teste degli uo-
mini e la gente non vede chiaramente la
strada da percorrere”.
Alla conclusione del periodo di for-
mazione emise proprio nelle mani di
san Giovanni Bosco i suoi voti per-
petui. Rimase in Italia fino al 1892
ricoprendo diversi incarichi nelle case
salesiane. Era anche un punto di rife-
rimento per i sacerdoti e i seminaristi
provenienti dalla Polonia. Purtroppo
il clima e il tanto lavoro indebolirono
la sua salute, così si ammalò di tuber-
colosi. I superiori decisero di far tor-
nare padre Bronislao in Polonia, così
ricevette l’incarico come parroco del-
la parrocchia di Miejsce, un villaggio
di 800 anime ai piedi dei Carpazi,
nella sua diocesi di Przemysl.
Lavoro e temperanza
La parrocchia era povera, la chiesa e
la vecchia canonica avevano bisogno
di restauro, era priva delle più elemen-
tari comodità. Forte delle precedenti
esperienze pastorali, incominciò il
suo servizio pastorale con particolare
attenzione al catechismo dei bambi-
ni, alla vita sacramentale degli adulti
e alla lotta contro la piaga dell’alcoli-
smo e dell’usura. I suoi parrocchiani
subito notarono che il nuo-
vo parroco era un sacerdote
straordinario, che aveva cura
premurosa delle funzioni in
chiesa, sedeva a lungo nel
confessionale e radunava in-
torno a sé gli orfani. Il desi-
derio più profondo di padre
Markiewicz era radunare
gli orfani, dare a loro la for-
mazione spirituale, intellet-
tuale e umana. Subito dopo
un mese di permanenza a
Miejsce accolse nella cano-
nica il primo orfano. Alla
fine del primo anno erano
già tredici i ragazzi, l’anno
Il desiderio più profondo di Padre
Markiewicz era radunare gli orfani,
dare loro la formazione spirituale,
intellettuale e umana.
Luglio/Agosto 2012
9

1.10 Page 10

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EVENTI
IN TUTTO IL MONDO
Il progetto di vita di Padre Bronislao si può
sintetizzare nel motto caro a don Bosco “lavoro
e temperanza”. A pagina seguente: Un ritratto
giovanile del Beato.
successivo trenta, alla fine del 1894
cinquanta.
Padre Bronislao aveva un progetto
di vita per i suoi giovani ospiti, che
possiamo sintetizzare nel motto caro
a don Bosco “Lavoro e temperanza”.
Con le sue doti di organizzatore, ra-
pidamente riuscì a trasformare un
gruppo di ragazzi sbandati in una
vera e propria comunità con le sue
regole e i suoi ordinamenti. I ragazzi
erano divisi in due gruppi: i “latini-
sti” che si preparavano al sacerdozio
e i “professionisti” che nei laboratori
dell’Istituto apprendevano le tecniche
di un lavoro artigianale.
Un testimone oculare, fra L. Bia-
loczynski così descrive la vita di questa
comunità. “Quando arrivai a Miejsce
Piastowe (1894) vi erano tre laboratori:
di calzolaio, di sarto, di canestraio, di-
retti da collaboratori del Servo di Dio,
dove i ragazzi imparavano un mestiere.
I ragazzi dormivano in soffitte, dove in
inverno faceva un gran freddo; il vitto
era povero, ma sufficiente; i ragazzi era-
no in buona salute ed allegri. Volevano
un gran bene al Servo di Dio, la cucina
era in mano a delle donne pie. Il compito
di educatori era affidato, oltre che al Di-
rettore, al Prefetto, ai maestri artigiani e
agli insegnanti, ai cosiddetti assistenti, i
quali sorvegliavano i giovani durante il
lavoro, le ricreazioni, in dormitorio e du-
rante la preghiera. Se in qualche incarico
veniva a mancare l’assistente, si sceglieva
un ragazzo più grande, il quale era re-
sponsabile di quelli più giovani”.
Tutta la comunità ruotava intorno
alla figura carismatica di padre Mar-
kiewicz, illuminata dalla fede nella
Divina Provvidenza e da una forte
carica spirituale. Grande era anche
la sua devozione mariana. Nel luogo
centrale dell’Istituto vi era la statua
della Vergine circondata da particola-
re venerazione.
Lo strappo
Nella sua attività padre Bronislao non
aveva mai cessato di seguire la regola
di san Giovanni Bosco. I suoi rap-
porti con i superiori a Torino erano
eccellenti.
Nell’estate del 1897 arrivò un Visita-
tore salesiano, che rimase favorevol-
mente impressionato per l’opera di
padre Markiewicz. Tuttavia le con-
dizioni di vita spartane dei giovani
e la povertà suggerirono al Visitatore
di ridimensionare l’istituto riducendo
drasticamente il numero dei ragazzi
e diede anche l’ordine di migliorare
sensibilmente le condizioni di vita dei
ragazzi con particolare attenzione ai
candidati al sacerdozio.
Padre Bronislao fece presente ai supe-
Attualmente la Congregazione di San Mi-
chele Arcangelo è composta di 265 sacer-
doti, 3 diaconi, 47 seminaristi, 18 fratelli
laici, 14 novizi, per un totale di 347 mem-
bri. Le opere si trovano in Polonia, Italia,
Svizzera, Germania, Austria, Canada,
America Centrale, Argentina, Paraguay,
Australia, Papua Nuova Guinea, Ucraina e
Bielorussia.
riori la difficoltà di mettere in pratica
i cambiamenti ordinati dal Visitatore.
Dopo diversi colloqui con il direttore
spirituale e altre personalità ecclesia-
stiche polacche decise di chiedere al
Vescovo di Przemysl di tornare fra
le file del clero di questa diocesi, ma
continuando ad occuparsi degli orfa-
ni nelle strutture della parrocchia di
Miejsce. Per assicurare la vita e il fu-
turo all’Istituto, con l’aiuto del fratel-
lo Wladyslaw fondò un’associazione
laica “Temperanza e Lavoro”, che già
nell’aprile del 1898 venne approvata
dalle autorità civili. Nello stesso tem-
po padre Markiewicz chiese il rico-
noscimento religioso dell’ordine da
lui fondato; solo nel 1921, nove anni
dopo la sua morte, la Congregazione
di San Michele avrebbe ricevuto l’ap-
provazione ecclesiastica.
L’anno 1902 segnò nella storia di pa-
dre Bronislao un momento di partico-
lare sofferenza. Vennero poste alcune
restrizioni alle due nuove Congrega-
zioni, limitando la loro attività solo
all’ospitalità dei ragazzi poveri ed
abbandonati. Si deve anche ricordare
che oltre alla comunità maschile ini-
ziò a formarsi una comunità di volon-
tarie che in seguito, nel 1928, avrebbe
ricevuto l’approvazione ecclesiastica
come Congregazione delle Suore di
San Michele Arcangelo.
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Luglio/Agosto 2012

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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Padre Markiewicz con spirito di ob-
bedienza accettò la volontà del Vesco-
vo. Proseguì il suo instancabile
lavoro di educatore nello
spirito di temperanza e di
lavoro. «Gli uomini più
felici del mondo sono
coloro che amano Dio
con tutto il cuore e il
prossimo come loro
stessi, sono coloro che
hanno rinnegato loro
stessi portando la loro
croce».
La sua opera crebbe: nel
1903 vicino a Cracovia ven-
ne aperta una filiale dell’Istituto. A
Miejsce venne costruita una nuova
casa in mattoni, che sostituiva la vec-
chia casa di legno distrutta dall’incen-
dio nel 1904. Nel 1907 venne-
ro aperti i nuovi laboratori.
Dal 1900 aprì anche un
mensile “Temperanza e
lavoro” dove venivano
pubblicati diversi ar-
ticoli di carattere so-
ciale e spirituale. Sul
finire del 1911 lo colse
la malattia; le sue ul-
time settimane furono
segnate da grande soffe-
renza fisica.
Alcuni testimoni del suo
calvario riportano alcune parole
del Beato: “Mi sembra di aver fatto
quanto ho potuto fare, quello che Id-
dio esigeva: posso andarmene. Non
posseggo patrimonio di sorta, tutto
è proprietà della Società, però state
attenti a quanto vi dirò ‘La Chiesa
vuol crescere con l’umiltà’ (parole di
S. Beda)”.
Il 29 gennaio 1912, alle nove di mat-
tina, santamente così come era vis-
suto, padre Markiewicz concluse la
sua avventura terrena. La sua mor-
te addolorò i ragazzi, gli educatori,
i parrocchiani. Tutti erano convinti
che li aveva lasciati un uomo santo.
Questa convinzione ha ricevuto il si-
gillo della Chiesa il 19 giugno 2005,
quando il Venerabile Servo di Dio è
stato proclamato Beato.
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2.2 Page 12

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SALESIANI NEL MONDO
NATALE MAFFIOLI
PASIL
L’oratorio
dell’Ave Maria
L’oratorio di
Pasil, un quartiere
affacciato sul mare
della città filippina
di Cebu.
“Sa Ngalan Sa Amahan, Ug Sa
Anak, Ug Sa Espiritu Santo
Amen. Maghimaya ka Maria
Napuno ka sa grasya Ang Gino-
ong Dios anaa kanimo...” (“Nel
nome del Padre del Figlio e dello
Spirito Santo Amen. Ave Maria piena di grazia
il Signore è con te….”). È proprio l’inizio del ro-
sario e non siamo in una chiesa ma nel cortile
dell’oratorio salesiano di Pasil, un quartiere affac-
ciato sul mare della città filippina di Cebu.
Ad un cenno dell’assistente tutti i ragazzi, come
per incanto, smettono i loro giochi, si incolonna-
no di fronte ad una statua di Maria Ausiliatrice,
tirano fuori dalle saccocce la corona del rosario e
cominciano a pregare, naturalmente in cebuano.
L’oratorio salesiano di Pasil è al centro del quar-
tiere più povero della città e sta a Cebu come il
quartiere di Tondo sta a Manila. Per arrivarci
bisogna percorrere una strada sgangherata, di
ampiezza diseguale, con buche così profonde che
un’automobile corre il rischio di affossarsi e non
uscirne più; entrando nel quartiere si è immedia-
tamente immersi in una realtà palpitante di vita
dove le pulsazioni sono date dai bambini e dai
giovani, una infinità di bambini, ragazzi e ragaz-
ze che giocano spensierati sulle porte di casa o in
mezzo alla strada con un niente. E quella dell’al-
legria è una caratteristica dei loro gesti e compare
sui loro volti: a loro, come a tutti i ragazzi del
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Luglio/Agosto 2012

2.3 Page 13

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mondo, piace giocare e divertirsi; le giornate e le
feste dell’oratorio sono segnate dall’allegria.
L’oratorio è ampio, caratterizzato da un grande
cortile coperto da una struttura in tralicci di ferro
e lamiere, affiancato da una costruzione in mura-
tura utilizzata dalla scuola; una piccola comunità
salesiana offre ogni giorno ai giovani di Pasil as-
sistenza e cultura non solo nell’oratorio ma an-
che nella parrocchia e nel centro di formazione
al lavoro.
Una risposta alle preghiere
La città di Cebu, è il capoluogo dell’omonima
isola, incuneata tra le isole di Negros e di Bohol,
ha una tradizione storica di tutto rispetto; fu il
luogo dove Ferdinando Magellano, nel suo vaga-
re per l’oceano Pacifico, approdò nel 1521, toc-
cando per la prima volta l’arcipelago delle Filippi-
ne. Qui si conserva la croce che Magellano piantò
appena sbarcato e davanti alla quale fu celebrata
la prima S. Messa ‘filippina’ e anche la piccola
statua del Santo Bambino Gesù che lo stesso Ca-
pitano aveva portato dalla Spagna e aveva donato
alla principessa Juana; da secoli il piccolo Gesù è
il patrono della città di Cebu e, forse, l’immagine
più venerata delle Filippine.
Probabilmente questa storia
interessa poco ai ragazzi di
Pasil, che hanno, come tut-
ti i giovani del mondo, dei
sogni e continuano a pre-
gare la Madonna perché si
avverino. Forse vorrebbero
una storia meno dura per
loro e, vista la situazione
di precarietà in cui vivono,
verrebbe voglia di dire: ma
la Vergine è sorda alle loro
preghiere? No! Non è sorda,
e i salesiani sono una rispo-
sta, anche se sommessa, alle
loro preghiere! Purtroppo quel-
la di Pasil non è una situazione che
si possa risolvere facilmente; i salesiani
questo lo sanno e spendono le loro energie per il
futuro dei giovani. A Pasil, come in tutto il mon-
do, la formazione delle nuove generazioni è l’uni-
ca speranza: si parte dal loro vissuto e li si aiuta
nel prendere consapevolezza della loro dignità.
Ci sono però delle urgenze materiali: l’orato-
rio necessita di una nuova copertura del cortile,
quella vecchia se la sta portando via l’aria salsa
dell’oceano; i salesiani hanno bisogno
di soldi, ma non è facile trovarli.
Chissà che la lunga e conti-
nua serie delle ‘Ave Maria’
non spalanchi gli orecchi di
tante persone alle esigen-
ze dell’Oratorio di Pasil.
Forse la Vergine saprà
trarre dalle loro preghie-
re, che apparentemente
sembrano inascoltate, un
pensiero generoso per as-
sicurare a quei giovani un
luogo, coperto e protetto
dai monsoni, dove giocare
e stare allegri.
Per i ragazzi
e i giovani di
Pasil, i salesiani
spendono le loro
migliori energie
con fantasia ed
allegria apostolica.
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SALESIANI NEL MONDO
SILVIO ROGGIA
Quasi un blog – Un missionario salesiano riflette sulla sua esperienza dell’Africa
Dall’Africa giovane
alla vecchia Europa
L’inversione dei poli: dove sta la missione?
V iva Yutong! Sono comodamente seduto
sul sedile numero ventotto del bus made
in China che tra breve da Sunyani parte
alla volta di Accra, dove dovremmo ar-
rivare verso le 3.30 di domani mattina.
Vi ho pensato l’altra mattina durante
la preghiera dei fedeli. Nicholas ha pregato per il
Western World. Non ha niente a che fare con i
cow boys e gli indiani. È un modo sintetico per
indicare il mondo occidentale (con Europa e Stati
Uniti a capofila). Non è la pri-
ma volta che una preghiera
a favore dell’Occidente fa
capolino tra il variopin-
to florilegio di inten-
zioni dei nostri ragazzi.
Pregano perché sanno
che c’è crisi, come si
vede dalla CNN. Pregano per i poveri d’Europa
e ancora più intensamente per la povera Europa o
America quando arrivano segnali di grave pover-
tà morale o spirituale.
L’Africa che prega per il Western
World: viene il sospetto che il polo ma-
gnetico si stia invertendo. D’altra par-
te capita anche in natura (ci vuole un
qualche migliaio d’anni per un’inver-
sione del polo magnetico terrestre che
fa rovesciare Nord e Sud sulla bussola...
ma succede).
Pregare per l’Europa, con un senso di compas-
sione, dal cuore dell’Africa. Non può passare
inosservato.
Qualcosa di profondo sta cambiando.
Noi visi pallidi siamo stati allevati dai
TG per anni a guardare all’Africa con
compassione, non sempre nel senso
più evangelico e puro del termine.
Abituati a misurare la distanza
in fatto di PIL, accesso all’ac-
qua potabile, dottori procapite...
fino ad assuefarci a un senso di co-
stante miseria ed emergenza, capaci di stu-
pore solo quando c’è qualche soprassalto nei nu-
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2.5 Page 15

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meri, qualche cosa di esageratamente tragico che
si evidenzia da uno sfondo costante di carestie,
guerre, HIV pandemico.
L’Africa è una zona calda nell’economia globale,
con ritmi di crescita super accelerati in diversi pae-
si. L’Angola per esempio. C’è un esodo di porto-
ghesi verso la loro antica colonia, in cerca di lavoro.
Una emigrazione al contrario, con la fretta di arri-
varci prima di essere troppo allo stretto visto che in
Angola si conta già una popolazione di cinesi che
supera il milione. Non passa mese che impresari
spagnoli non si mettano in contatto perfino con
noi missionari in Ghana, chiedendo consigli e aiu-
to nella ricerca di nuove opportunità per investire,
visto che il loro mercato ‘a casa’ è fermo.
Non parliamo poi di Cina e India: il Yutong su
cui sto viaggiando è un esempio. Il 95% dei pull-
man in Ghana è made in China. Nuovi. Meglio
dell’usato che prima arrivava dall’Europa.
Ma l’ecomomia non è l’unico termometro che
può registrare in simultanea crisi da una parte e
crescita dall’altra.
Benedetto XVI, nella lettera enciclica che ci ha
regalato il Novembre scorso, quando è venuto a
Cotonou, ha parlato dell’Africa come polmone
spirituale della Chiesa e del mondo. Mentre pre-
mo i pulsanti di questa tastiera di laptop nel bel
mezzo del Yutong c’è un giovane che ha preso la
parola e ha fatto pregare i passeggeri e li sta ora
esortando citando la Bibbia nella lingua locale, il
twi. Non è affatto una cosa insolita. Qualunque
mezzo pubblico, in qualunque angolo del West
Africa: pregare quando si parte è la cosa più na-
turale e logica che si possa fare. Tutti credono in
Dio e tutti lo fanno esplicitamente, in audio-visi-
vo, con canti, battimani, danze... Pensate se mai
qualcuno osasse fare una cosa simile sul pullman
della Sadem che collega Torino a Malpensa (l’ul-
timo mezzo pubblico che ho preso in Italia).
Qual è la terra di missione? Qui è una foresta
vergine super lussurreggiante e multicolore nelle
sue espressioni, con centinaia di denominazioni
cristiane diverse: ma il fatto di credere è così pal-
pabile che non si può non esserne contagiati. Che
dire del Western World soprattutto europeo? Fa
bene Nicholas a pregare per l’evangelizzazione
dell’Europa?
Cambiare occhi
Lasciamo perdere l’antiquariato delle notizie te-
levisive – sull’Africa i nostri TG sono proprio ri-
masti indietro, legati a stereotipi che altre reti te-
levisive non made in Italy hanno superato da anni
– e facciamoci affascinare dalla diretta che viene
dal contatto personale con qualche amico ‘di co-
lore’: vedere a colori in fondo è stato un bel passo
avanti rispetto al ‘bianco e nero’ degli anni Set-
tanta. Cambiare occhi, prospettiva, è molto più
affascinante che passare dal digitale allo schermo
tridimensionale della TV tra le quattro mura di
casa. Invece del superpiatto meglio scegliere il
superprofondo, che non si accontenta della super-
ficie ma sa leggere dentro la vita di chi cammina
nei vicoli di questo villaggio globale. Gli occhi
del tuo vicino africano sono la finestra migliore
a cui affacciarsi. Il mio mi sta dicendo che sia-
mo quasi arrivati al tollbooth di Tema roundebout.
Tempo di scendere. Si sta facendo chiaro. Buon
giorno!
La giovane Africa e
la vecchia Europa
unite da una fede
senza confini.
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2.6 Page 16

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L’INVITATO
MARIA ANTONIA CHINELLO
140...
INTERVISTA A SUOR PIERA CAVAGLIÀ
Segretaria generale dell’Istituto
delle Figlie di Maria Ausiliatrice
e non li dimostra
Il 5 agosto l’Istituto delle Figlie
di Maria Ausiliatrice festeggia
i 140 anni di fondazione.
Abbiamo rivolto alcune domande
a suor Piera Cavaglià, dal 2002
Segretaria generale dell’Istituto.
Un osservatorio privilegiato
il suo, dal quale si constatano la
vitalità e l’attualità del carisma
salesiano, un dono per il nostro
tempo, segnato da fragilità e
potenzialità sempre da scoprire.
1872-2012. Se si dovessero
riassumere questi 140 anni
di storia dell’Istituto delle
Figlie di Maria Ausiliatrice,
quali verbi useresti?
Userei verbi di sviluppo: in questi 140
anni il carisma si è sviluppato e in-
culturato, ha trasformato quartieri,
città e paesi sia nei territori di mis-
sione sia nelle diverse nazioni dove è
stato accolto. Se considero la missione
che le FMA svolgono, in sinergia con
laici e laiche, allora mi viene sponta-
neo ricorrere a verbi come irradiare,
promuovere, educare, evangelizzare,
creare reti, risvegliare talenti e risorse,
contagiare. Se poi si tiene conto della
storia globale dell’Istituto, si constata
che vi è una dimensione di crisi e di
sofferenza che fa coniugare altri ver-
bi quali lasciare, chiudere, rinuncia-
re, impoverirsi, perseguitare, e anche
morire, in quanto le FMA, nelle varie
parti del mondo, hanno affrontato le
sfide della guerra, della persecuzione,
dei totalitarismi di destra e di sini-
stra. Oggi si misurano con la carenza
di vocazioni, con l’anzianità, con la
forzata chiusura delle opere per varie
ragioni. Infine, i verbi ringraziare,
rendere lode, benedire risultano i più
adeguati per questi 140 anni perché
Dio e Maria Ausiliatrice non cessano
di farci sperimentare la loro presenza
di guida e di aiuto.
L’Istituto è nato a Mornese.
Le prime suore erano 11.
Ora sono più di 13 mila nei
cinque continenti. Quali sono
state le coordinate che hanno
influito sull’espansione?
Come un organismo vivente, anche
l’Istituto si sviluppa grazie a processi
endogeni, cioè dall’interno e, al tempo
stesso, per l’influsso di fattori esterni
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Luglio/Agosto 2012

2.7 Page 17

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Valdagno, una Figlia di Maria Ausiliatrice insegna
italiano a donne immigrate. Sotto: Laboratorio
delle FMA a Bao Loc, Vietnam.
e contestuali. Le epoche di maggiore
fecondità educativa e missionaria cre-
do coincidano con la progettualità nella
formazione dei suoi membri a tutti i li-
velli. È dalla qualità della formazione
che deriva lo sviluppo dell’Istituto. E
questo richiama la presenza di guide
capaci di accompagnare, educatrici e
formatrici sagge e competenti, supe-
riore lungimiranti che animano nel
presente, ma sanno preparare il futuro
dando priorità alla formazione.
Un altro fattore è l’ardore missionario,
che potenzia l’intraprendenza educati-
va, il coraggio nell’affrontare le sfide,
la lungimiranza nelle prospettive pro-
muovendo processi adeguati ai cambi
sociali.
Fattori di sviluppo sono anche le pro-
ve, i tempi difficili e critici, che sono
un inedito appello alla “fantasia della
carità”. Nei duri periodi della storia
europea, soprattutto, è evidente un
saggio e tenace sforzo di adattamen-
to alla situazione per non scomparire.
Nell’impossibilità di continuare con
opere formali come la scuola, ci si è
adoperati nelle opere informali, che
davano meno nell’occhio delle auto-
rità politiche, ma attraverso le quali
il carisma continuava ad essere vivo.
Nei tempi di prova, forse, le persone
danno il meglio di sé. Fa riflettere
come in tempi difficili ci siano stati
una grande ampiezza di iniziative e
un notevole sforzo di rimanere uniti,
un’intensificata collaborazione con i
laici e laiche, una maggiore fiducia
nelle Exallieve e nei Cooperatori.
Come si traduce oggi
la presenza e la missione
delle FMA nei diversi
contesti?
L’Istituto è impegnato a reinterpretare
il Sistema preventivo, fattore di cre-
scita e di sviluppo pedagogico delle
opere e delle comunità, stile educati-
vo accolto con simpatia anche da chi
appartiene ad altre confessioni reli-
giose. Questa è secondo me la chiave
per tradurre oggi in modo adeguato il
carisma di don Bosco e di Maria D.
Mazzarello.
Nel proporre una riflessione condi-
visa sul Sistema preventivo, siamo
convinte che, con la sua visione cri-
stiana della vita, esso è risposta alle
sfide culturali di oggi. Ciò richiede
una vigorosa rifondazione antropo-
logica e teologica che reinterpreti e
rafforzi quanto ci ha consegnato don
Bosco. La vera novità della riflessio-
ne che si sta attuando è la presa di
coscienza che il Sistema preventivo
risponde alle sfide del contesto e che
oggi occorre credere sempre più alle
sue potenzialità di trasformazione. Ci
sfida il contesto culturale, è vero, ma
è soprattutto il mondo giovanile in
evoluzione che ci interpella a ripensa-
re continuamente il nostro stile di vita
e di educazione.
La storia dell’Istituto è anche
una storia di santità…
Vi è nell’Istituto una storia di santi-
tà che non si impone per spettaco-
larità, ma per genuinità e semplicità
e che prende l’avvio dai nostri Fon-
datori: persone semplici, radicate nel
loro contesto e molto concrete nelle
realizzazioni. Vi è nell’Istituto, pur
nella trama della fragilità umana,
una dimensione contemplativa eviden-
te che, per pura grazia, trasfigura il
quotidiano e incide sull’ambiente. La
stessa Laura Vicuña, dichiarata Beata
del 1988, visse alla presenza di Dio
Luglio/Agosto 2012
17

2.8 Page 18

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L’INVITATO
momento per momento attuando
nella sua giovane esistenza la mistica
dell’azione e dell’immolazione per la
salvezza della mamma.
… e di collaborazione con i
salesiani e gli altri membri
della Famiglia salesiana.
Fin dall’inizio si è avvertita la consa-
pevolezza di essere nella Chiesa una
Famiglia raccolta attorno a don Bosco
Fondatore e mantenuta unita dall’a-
more preveniente di una Madre: Ma-
ria Ausiliatrice.
Nella Chiesa comunione di carismi e
di vocazioni stiamo sperimentando in
questi anni una nuova e feconda fase
di collaborazione e di convergenza
sia con la Società salesiana e sia con
i vari gruppi della Famiglia salesiana.
Si avverte tuttavia l’istanza di appro-
fondire la comunione e la convergenza
sulle realtà fondamentali soprattutto
tra Salesiani e FMA, nel rispetto del-
le differenze e dei cammini specifici
come Congregazioni che si ispirano al
comune carisma con accentuazioni o
modalità differenziate.
Collabori da vicino
con la Madre e il Consiglio
generale. Quali sono
i “sogni nel cassetto” e
i “programmi per il futuro”
dell’Istituto?
Credo che uno dei più grandi sogni a
cui Dio ci chiama oggi è quello di rivi-
talizzare il senso profetico della vita re-
ligiosa. Si parla tanto di profezia oggi,
ma io credo che la vera profezia scatu-
risca dall’incontro profondo e sempre
rinnovato con Gesù. È Lui che chiama
e invia. Di Lui hanno sete i giovani,
anche quando non lo esprimono. Tutta
la vita è risposta all’amore e irradia-
zione di questo amore con cuore mis-
sionario. Se manca questa profondità
di vita, si rischia di cercare la propria
realizzazione personale e la nostra vita
non è più appello per nessuno.
Vi è un altro sogno da cui dipende un
grande futuro per la nostra Famiglia
religiosa: è quello di essere una pre-
senza più significativa e gioiosa tra i
giovani e le giovani, “stare” in mezzo
a loro, credere alle loro possibilità e
dare risposte alle loro domande fon-
damentali di senso. Per la matura-
zione vocazionale la “mediazione” di
persone felici è decisiva.
Collegati a questi due sogni, ne vor-
rei evidenziare un terzo: l’importanza
decisiva della comunità dove si respira
lo spirito di famiglia e la fiducia, dove
si condivide la missione e si fa espe-
rienza di un vero accompagnamento,
ci si sente accolti e sostenuti recipro-
camente in un clima di fraternità e
di gioia. Ciò che ha convinto tanti
a seguire la vocazione è la gioia del
dono, l’amore reciproco che si irradia
nell’ambiente e ha efficacia di convo-
cazione e di proposta.
Figlie di Maria Ausiliatrice a un side event dell’Uf-
ficio diritti umani nella Sede ONU Di Ginevra. In
alto: Oratorio in Colombia.
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Luglio/Agosto 2012

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RISPOSTA, NON PROBLEMA
LUCA & SILVIO
La fede di
Abraham
Quel seme germinato nell’infanzia ha continuato a crescere
L a storia di vita di questo mese
viene da lontano. È la storia di
Abraham.
Non quello della Genesi.
Abraham, oggi, ha 24 anni.
È un bravo elettricista. Una
scheggia al centrocampo con il pal-
lone.
Quando aveva 11 anni, nella notte di
capodanno ha visto morire a distanza
di pochi minuti il papà e il fratello.
Non fu un incidente, ma il risultato di
una vita segnata dalla povertà, senza
possibilità di ricevere cure in ospedale
(non c’è mutua in Nigeria: tutto viag-
gia in contanti, anche per la salute).
La mamma non aveva mezzi per
prendersi cura di lui e degli altri fra-
telli minori.
Lo ha affidato a un lontano parente,
che se lo è portato a più di duemila
chilometri di distanza.
Dopo le prime settimane di ‘luna di
miele’ la musica cambia per Abraham.
La matrigna comincia a trattarlo
come il servo di casa. Bastano pochi
mesi per arrivare ad una forma di vera
schiavitù domestica: nessun diritto;
soltanto il ritmo duro e continuo dei
servizi più umili, con punizioni seve-
re per ogni piccolo errore. La giornata
per Abraham comincia alle quattro
del mattino e finisce dopo le undici
di sera: tutto deve esser pronto (cuci-
nare, lavare e stirare, pulizie...) prima
che gli altri si alzino e tutto a posto
dopo che sono andati a dormire.
Purtroppo non è raro trovare casi di
sfruttamento minorile come questo.
Un granello di senape
può cambiare tutto
Ciò che è raro è incontrare ragazzi
che, pur vivendo in situazioni di grave
ingiustizia e privazione, fanno di quel
po’ di Vangelo che hanno imparato a
undici anni la forza che trasforma la
loro vita.
Per Abraham è stato così. Si è aggrap-
pato con tutte le forze a quella fede in
cui lo aveva educato suo padre prima
di morire. Per anni non gli è stato
permesso di prendere parte nella vita
della comunità cristiana del paese in
cui viveva in esilio dalla casa materna.
Ma quel seme germinato nell’infanzia
ha continuato a crescere: è stato per lui
l’unica speranza e ragione di vita.
La risposta a problemi superiori alle
forze delle spalle che devono portar-
ne il peso può arrivare dal di dentro.
Psicologia e diritti umani denunciano
con forza situazioni come questa, as-
solutamente negativa su tutti i para-
metri in cui può essere analizzata. Ma
quando Abraham vi è immerso non c’è
psicologo o assistente sociale che pos-
sa intervenire. C’è quel po’ di Vangelo
che ha imparato sulle ginocchia di suo
padre. Ed è incredibile vedere l’effetto
che ha fatto nella sua vita, adesso che
è un giovane maturo, senza complessi,
responsabile, aperto e generoso nelle
sue relazioni con gli altri.
Dove la risposta a problemi più gran-
di non arriva da nessuna parte un gra-
nello di senape di Vangelo può diven-
tare un grande albero di vita.
Forse val la pena di riscoprire questo
tesoro nel campo come la risposta più
potente ai nostri problemi, a tutte le
età. Ave crux spes unica, dicevano i no-
stri santi. Era la loro risposta. Va bene
solo al fondo di qualche pia immagi-
netta o è una risorsa che può ancora
trasformare la vita di chi le sue imma-
gini le affida tutte a facebook?
Se hai altre storie di vita in armonia
con questa stessa musica regalale a tutti su
rispostanonproblema@gmail.com
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3.1 Page 21

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tra nella casa ispettoriale dei Salesiani
di Cracovia e nello Studentato Teolo-
gico. Undici sacerdoti e un coadiutore
sono arrestati. Tra essi c’è un sacerdote
dalla faccia serena e dagli occhi chiari:
don Giuseppe Kowalski. Ha servito in
Congregazione con umiltà, sbrigando
i lavori di segreteria nel centro ispet-
toriale.
Se qualcuno nutre ancora delle illusioni,
la giornata del 27 giugno giunge bru-
talmente a dissiparle. Quattro sacerdoti
salesiani di Cracovia sono giustiziati.
Negli stessi giorni, gli altri arresta-
ti vengono internati nel triste campo
di eliminazione di Oswiecim, che i
tedeschi chiamano Auschwitz. Sulla
grande porta, una scritta vivamente il-
luminata: «Arbeit macht frei: il lavoro
rende liberi».
Il marchio tatuato
sul braccio sinistro
È noto che, per il funzionamento dei
«campi di eliminazione», i capi del
nazismo non scelsero uomini nor-
mali, ma delinquenti tirati fuori dal-
le carceri, condannati per sadismo,
anormalità, delitti comuni. Questi
sono, dal giugno del 1941, i «superio-
ri» di don Giuseppe e dei suoi infelici
compagni di pena.
Nel campo sono denudati e spinti
in uno stanzone per la disinfezione.
Scrive un sopravvissuto: «Improvvi-
samente l’acqua scaturisce bollente
dalle docce; ma subito dopo irrom-
pono quattro che, con urla e spintoni,
ci cacciano, bagnati e fumanti, nella
camera attigua, che è gelida; qui altra
gente urlante ci butta addosso non so
che stracci, e ci schiaccia in mano un
paio di scarpacce a suola di legno, non
abbiamo tempo di comprendere e già
ci troviamo all’aperto e, scalzi e nudi,
con tutto il corredo in mano, dobbia-
mo correre fino a un’altra baracca, a
un centinaio di metri. Qui c’è conces-
so di vestirci. Quando abbiamo fini-
to, ciascuno di noi è rimasto nel suo
angolo, e non abbiamo osato levare
gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove
specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta
dinanzi, riflesso in cento visi lividi,
in cento pupazzi miserabili e sordidi.
Allora ci siamo accorti per la prima
volta che la nostra lingua manca di
parole per esprimere questa offesa, la
demolizione di un uomo. Siamo arri-
vati in fondo. Condizione umana più
misera non c’è, non è pensabile».
A questi uomini viene tolto tutto: gli
abiti, le scarpe, i capelli. Tolgono an-
che il nome. Il nome di don Giusep-
pe, d’ora innanzi, sarà 17350. Finché
vivrà, porterà il marchio tatuato sul
braccio sinistro con un timbro a spilli
La famiglia di Joseph Kowalski. A undici anni
aveva conosciuto i salesiani di Oswiecim.
e inchiostro di china sfregato sopra.
Un mese prima, ad Oswiecim è arri-
vato padre Massimiliano Kolbe, e sul
suo braccio è stato marchiato il nu-
mero 16670.
Al di là dei camini
fumanti, la chiesa
di Maria Ausiliatrice
Ad Oswiecim si lavora. Il lavoro ha un
ritmo infernale. Al mattino prestissi-
mo, prima dell’alba, risuona breve la
parola Wstawac: alzarsi. Comincia
un’agitazione frenetica: si balza dalla
tana di legno e di paglia, si corre, ci si
veste, ci si precipita al lavatoio e alle
latrine in una furia disumana, perché
tra cinque minuti inizia la distribu-
zione del blocchetto grigio di brot,
pane. Chi arriva tardi non ha niente,
e sentirà la fame dei cani nello stoma-
co fino a metà della giornata.
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L’INVITATO
Si lavora dall’alba fino al tramonto. Si
va in colonna ordinata, a passo velo-
ce, si torna quasi a passo di corsa. È
una farsa tragica vedere quelle lunghe
file di uomini vestiti a strisce, rigi-
damente incolonnati, tornare a passo
di corsa, saltando sugli zoccoli duri,
mentre un’assurda banda costituita da
altri uomini a strisce suona marcette
allegre sul piazzale del campo.
Laggiù, al di là delle baracche, fuma
perennemente il lungo camino dei
forni crematori. Chi cede alla fatica,
chi non difende ferocemente la sua ra-
zione, chi ritarda nella corsa e scivola
a terra, sa che finirà laggiù. Verrà get-
tato su un carrello da miniera, morto
o morente poco importa. Il carrello
scivolerà sulle rotaie fino all’imboc-
co del forno crematorio. Il colonnello
Fritsch che comanda il campo ha loro
detto ridendo: «Voi uscirete di qui per
la canna del camino».
Ma don Giuseppe Kowalski non guar-
da i camini fumanti. Fissa, tra i vapori
che si alzano dalla campagna, la chie-
La cella e il testamento del Beato Giuseppe
Kowalski. A pagina seguente : I martiri polacchi.
sa di Maria Ausiliatrice, distante due
chilometri dal campo. Tra le lacrime
che non riesce a frenare, ricorda gli
anni felici della sua vita salesiana.
Proprio in quella chiesa era entrato
per la prima volta diciannove anni
prima. Aveva undici anni, in tasca
una lettera del parroco che garantiva
la sua «buona condotta». Si era in-
ginocchiato ai piedi della Vergine, e
l’aveva pregata pensando a sua madre,
che aveva lasciato a casa, poche ore
prima, dopo averla baciata a lungo.
Cinque anni dopo, era ancora entrato
in quella chiesa con in tasca un’altra
lettera: era la sua domanda di entra-
re nella Congregazione Salesiana. La
veniva a «far vedere» alla Madonna
prima di presentarla.
Una volontà forte
e perseverante
L’anno dopo aveva pronunciato i suoi
primi voti. Nel suo taccuino spiritua-
le, poco tempo dopo, aveva scritto con
l’entusiasmo e l’impegno dei diciotten-
ni: «Gesù, concedimi una volontà forte,
ferma e perseverante. Devo essere san-
to. Senza di te non posso far nulla, ma
con te che mi ami posso far tutto».
La volontà perseverante gli servì alcu-
ni anni dopo, al termine della «prova
pratica» compiuta in una casa salesia-
na. Soffrì una grave crisi spirituale
che lo portò sul punto di abbandona-
re la Congregazione. Ma un appro-
fondimento dei suoi ideali, compiuto
sotto la guida di un valido consigliere
spirituale, gli fece superare la crisi.
1938. Prima santa Messa. L’ispetto-
re salesiano lo chiama accanto a sé,
a sbrigare il lavoro umile ma prezio-
so di segretario ispettoriale. Tra le
lettere da compilare, le circolari da
spedire, le cifre da incolonnare, don
Giuseppe non dimentica il suo sacer-
dozio: ne fanno fede i quaderni che
contengono i suoi schemi di omelie,
diligentemente lavorati ogni settima-
na. E non dimentica neppure di esse-
re figlio di don Bosco: appassionato
di musica, raduna i ragazzi e organiz-
za una vivace scuola di canto.
Ma la seconda guerra mondiale è ormai
nell’aria, e Dio sta battendo alla porta.
19 lettere tra i fili spinati
Nel campo di Oswiecim, il colonnello
Fritsch ha definito i preti «esseri inutili
e parassiti della società». Li ha radu-
nati in un blocco speciale, il numero
17. Assegna loro i lavori più disumani.
Devono spingere di corsa pesantissimi
carichi di ghiaia, abbattere alberi, tra-
scinare tronchi per sentieri accidentati.
Un testimone riferisce: «In quell’am-
biente disumanizzante, don Giuseppe
riuscì a conservare la sua dignità uma-
na, e si sforzò di far fiorire il regno di
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Luglio/Agosto 2012

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Dio». Si conservano come una reliquia
le diciannove lettere scritte da lui tra i
fili spinati. Sono lettere che dovevano
passare attraverso la censura, e per-
ciò necessariamente ottimistiche. Ma
si riesce a leggere tra le righe la for-
za dell’anima di quel sacerdote. Il 12
febbraio 1942 scrive: «Ad ogni passo
sento la potenza di Dio. Ovunque mi
trovi, qualunque cosa mi capiti, sono
nelle mani della Provvidenza, che ve-
glia sulle nazioni e su ogni uomo».
Qualcosa nella mano
2 giugno 1942. È giunto un ordine
dal comando supremo dei campi di
concentramento. Sessanta sacerdoti
devono lasciare Oswiecim e raggiun-
gere Dachau. Lì è un altro campo di
eliminazione, dove sono ammassati
tremila sacerdoti. Don Giuseppe Ko-
walski è tra i selezionati per il viaggio.
I sessanta sacerdoti sono stati stipati
in un bagno per la disinfezione prima
della partenza. La scena che si svolge
l’ha raccontata sotto giuramento don
Corrado Szweda: «Eravamo raduna-
ti nel bagno, in attesa del turno per
la disinfezione. Entra Palitsch, il più
spietato dei carnefici di Oswiecim. Si
accorge che don Kowalski ha qualco-
sa nella mano:
– Che cos’hai? – domanda brusca-
mente.
E senza attendere risposta gli colpisce
con la frusta la mano, da cui cade una
corona del Rosario.
– Calpestalo! – grida.
Don Giuseppe rimane immobile. Viene
immediatamente separato dal gruppo e
trasferito alla compagnia di disciplina».
Non partirà mai per Dachau. Sarà tor-
turato e morirà nella sua Oswiecim.
La crudeltà usata verso la compagnia
di disciplina è letteralmente feroce. Si
paga tutto, e a un prezzo altissimo.
Ogni minimo ritardo, ogni indugio
viene punito con sferza, pugni e calci.
11 giugno. Alcuni prigionieri tentano
la fuga e falliscono. La punizione dei
fuggitivi non basta. Trecento prigio-
nieri sono destinati, come «lezione»,
al crematorio. Fra essi c’è don Giu-
seppe Kowalski. Gli vengono legate
le mani con filo spinato.
Ma non è ancora giunta la sua ora.
Senza alcun motivo apparente, con al-
tri dieci viene separato dai condannati
a morte e destinato ai lavori forzati.
La preghiera dei disperati
I forzati sono una compagnia di dispe-
rati. Per loro non c’è più speranza, e an-
che gli aguzzini li trattano come cose.
Il professor Giuseppe Kut, che fu testi-
mone di quei giorni crudeli, racconta:
«Sfiniti per la fame, il lavoro e le tor-
ture, i prigionieri morivano uno dopo
l’altro. Il lager führer Sipp un giorno
si mise a sghignazzare davanti a don
Giuseppe, e additandogli i suoi com-
pagni di pena disse:
– Le anime ti scappano, prete! E
senza il tuo passaporto non saranno
accettate lassù. Sali su quella botte, e
dai l’ultima benedizione alle pecorel-
le, come viatico per il cielo!
C’era una botte rovesciata in quel
punto del campo. Don Giuseppe pre-
se quelle parole sul serio. Salì, s’in-
ginocchiò, e fatto il segno di croce
iniziò il Padre nostro con voce forte
e serena. Qualche suo compagno lo
guardò stralunato, e continuò con lui
la preghiera. Poi don Giuseppe mor-
morò: “Ed ora preghiamo per gli ago-
nizzanti e i perseguitati”. E intonò la
Salve Regina.
La sirena di mezzogiorno troncò la
preghiera.
4 luglio 1942. Il professor Sigismondo
Kolakowski racconta: «Ogni giorno i
capi del campo sceglievano alcuni pri-
gionieri della compagnia di disciplina.
Li torturavano e poi li uccidevano nel
cortile. Quel giorno, dopo l’appello se-
rale, i prigionieri erano già coricati sui
loro pagliericci. Il kapo Mitas chiamò
all’improvviso: “Esca don Giuseppe
Kowalski”. Passandomi vicino, don
Giuseppe mi porse il suo blocchetto di
pane, e mi disse: “Prendilo, Sigismon-
do. Io ormai non ne ho più bisogno».
Poi disse ad alta voce a tutti: “Pregate
per me e per i miei persecutori”. Non
l’ho più visto vivo. E non ho più visto
neppure il suo corpo. Siccome, dopo le
torture, era ancora vivo, lo immersero
in una cloaca e lo affogarono».
Aveva trentun anni.
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FINO AI CONFINI DEL MONDO
A CURA DELL’ANS – WWW.INFOANS.ORG
POLONIA
XXII Giochi
Internazionali
della Gioventù
Salesiana
SPAGNA
La Famiglia
Salesiana
attorno
a Don Bosco
(ANS - Cracovia) – Circa 1500 giovani pro-
venienti da 11 paesi europei si sono ritrova-
ti a Cracovia dal 28 aprile al 3 maggio per
partecipare ai XXII Giochi Internazionali
della Gioventù Salesiana. La manifestazio-
ne, che ha avuto il patrocinio del Presiden-
te della Repubblica, ha offerto ai ragazzi
un’occasione di sana competizione sportiva,
basata sull’umanesimo cristiano, lo sviluppo
delle personalità e il rispetto dei valori.
Varie le discipline sportive: gare di calcio,
pallacanestro, pallavolo e tennis tavolo. L’e-
vento sportivo è stato caratterizzato anche
da una ricca offerta di attività spirituali e
culturali.
“Dobbiamo essere nell’ambito sportivo del-
la nostra società una presenza che promuova
una forma alternativa di sport, al servizio
delle persone e della loro crescita integrale”
ha detto il Rettor Maggiore nel messaggio
inviato per l’occasione.
COSTA RICA
Progetto
salesiano per
gli immigrati
colombiani
(ANS - Alajuelita) – L’opera
salesiana CEDES Don
Bosco, collaborando con
la Procura Missionaria
di New Rochelle e l’Alto
Commissariato dell’ONU
per i Rifugiati (UNHCR), ha
aderito alla rete interna-
zionale “New Beginnings”,
che si propone di soste-
nere e aiutare le migliaia
di colombiani rifugiatisi
in centroamerica a causa
della guerriglia in atto in al-
cune aree del paese. Dallo
scorso aprile 80 studenti
hanno iniziato a seguire le
prime lezioni – in disegno
grafico, metalmeccanica,
impiantistica elettrica e
riparazione di attrezzature
informatiche – a ricevere
aiuto psicologico e a
frequentare attività di
socializzazione e svago. Al
termine della formazione
gli immigrati vengono aiu-
tati dal CEDES ad ottenere
lo status di rifugiati e nella
ricerca del lavoro.
(ANS - Bilbao) – A me-
no di un anno dalla Giornata Mondiale della
Gioventù di Madrid – un evento che ha for-
temente dinamizzato la Spagna salesiana – la
visita dell’urna di don Bosco porta nuovo en-
tusiasmo nella Famiglia Salesiana locale. Già
da molti mesi precedenti l’arrivo dell’urna (il
1° maggio, a Bilbao) sono state programmate
attività, sia ispettoriali, sia locali, per far sì che
la peregrinazione dell’urna si trasformi in una
vasta occasione per l’animazione dei giovani.
Molti i vescovi delle varie diocesi invitati e pre-
senti alle iniziative: un’attenzione volta a sotto-
lineare il carattere ecclesiale di questo evento,
che porta i fedeli alla persona e la vita di un san-
to, e così indirizza a Dio. La reliquia ha già visi-
tato 3 delle 6 Ispettorie spagnole: Bilbao, León
e Madrid. Attualmente in Africa, completerà la
visita nelle circoscrizioni di Siviglia, Valencia e
Barcellona tra settembre e novembre.
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Luglio/Agosto 2012

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FILIPPINE
La salvaguardia
del creato
per la crescita
integrale dei
giovani a rischio
(ANS - Manila) – Presso l’opera “Tuloy sa
Don Bosco” i giovani a rischio e allontanati
dalla criminalità sono protagonisti di un pro-
getto formativo basato sulla salvaguardia del
creato: i ragazzi sono incaricati di aver cura
dei giardini e del parco “Aquaponics” dell’o-
pera e, grazie a questo compito, sono portati a
responsabilizzarsi, dapprima verso l’ambiente
e poi verso il prossimo.
Il progetto educativo sta trovando consenso da
più parti. Alcuni reparti delle Forze Armate
delle Filippine, dopo una visita all’opera sale-
siana, hanno deciso di sperimentare lo stesso
metodo per prevenire i fenomeni di guerriglia
con le milizie islamiste nel sud del paese.
Insegnando ai giovani provati dalla guerra a
prendersi cura dei pesci degli stagni, i mili-
tari sperano di replicare i successi dell’opera
salesiana.
HAITI
Primi frutti
della solidarietà:
la rinascita
di Fort-Liberté
(ANS - Fort-Liberté)
– Grazie al sostegno
internazionale ricevuto e
all’impegno della comunità
locale, nei mesi scorsi
l’opera salesiana di Fort-
Liberté ha vissuto profondi
cambiamenti che la stanno
riportando ai livelli di
efficienza precedenti il
sisma del 2010. Il 7 maggio
scorso, alla presenza del
Presidente della Repub-
blica, Michel Martelly, e
di numerose altre autorità,
sono state inaugurate la
nuova scuola professionale
e le strutture restaurate del
Centro Politecnico Don
Bosco. L’opera offre ora
corsi in idraulica, muratura,
ebanisteria, taglio e cucito e
informatica d’ufficio e può
istruire circa 2000 allievi
nei vari corsi. In prece-
denza, a marzo, erano stati
inaugurati i nuovi ambienti
della scuola infermieristica,
molto rinomata e unica sul
territorio nazionale.
ITALIA
Silenzio
e Parola:
una festa della
comunicazione
(ANS - Roma) – Il 12
maggio scorso presso l’Università Pontificia
Salesiana, circa 120 giovani religiosi Salesia-
ni e Figlie di Maria Ausiliatrice hanno par-
tecipato ad una giornata di formazione alla
comunicazione sul tema della XLVI Gior-
nata Mondiale delle Comunicazioni Socia-
li: “Silenzio e Parola: cammino di evange-
lizzazione”. Don Franco Lever e suor Maria
Antonia Chinello hanno messo in evidenza
definizioni, potenzialità e problematicità del
processo comunicativo. Successivamente il
dibattito si è concentrato sull’interazione del
Silenzio e della Parola nell’azione pastorale e
carismatica salesiana, nella formazione per-
sonale e nella vita comunitaria. Conclusa la
mattinata con una celebrazione tematica, nel
pomeriggio i giovani religiosi hanno appro-
fondito la seconda parte del messaggio del
Papa: “cammino di evangelizzazione”, con
laboratori di teatro, dizione, musica, cinema,
video, scrittura e social network e organizza-
zione di eventi.
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LE CASE DI DON BOSCO
ALBERTO RINALDINI
Don Bosco
e i salesiani a Genova
Tra Genova e don Bosco nacque un legame
affettuoso, a prima vista, come ebbe a scrivere
un grande genovese, il cardinale Giuseppe Siri:
“Genova e don Bosco non ebbero che
a vedersi per comprendersi”.
Un felice incontro che dura da 140 anni
V errebbe quasi da chiedersi: “Quanto man-
cherebbe al mondo salesiano se si cancel-
lasse dalla sua storia la casa di Sampier-
darena? Quanto mancherebbe a Genova
se dalla sua storia fossero eliminati questi
140 anni di presenza salesiana?”.
Un felice incontro oggi vitale in tre punti strate-
gici della città: Sampierdarena, Corso Sardegna
e Quarto.
«Lasciate tranquillo don Bosco»
firmato Giuseppe Garibaldi
La casa di Sampierdarena inizia l’avventura nel
1872 in compagnia di “sorella povertà”, ma sor-
retta dall’affetto e dalla simpatia della popolazio-
ne. Un’opera per i giovani richiesta da Genova e
sostenuta dalla generosità dei genovesi, un cre-
scendo di coraggiose risposte, nell’evolversi delle
situazioni che sembra non finire.
Il legame di don Bosco con la città tuttavia inizia
molto prima. Nel 1841 appena ordinato sacerdote
era stato richiesto come precettore da una nobi-
le famiglia genovese. Non era questa la via per
Genova. Il suo impegno per i giovani più biso-
gnosi troverà valido sostegno e conforto in tanti
sacerdoti e in numerose famiglie dell’aristocrazia
genovese. Nella cattedrale di San Siro poi il po-
polo incontrava il Santo dei giovani durante le sue
soste a Sampierdarena e la generosità dei genovesi
era sempre grande.
Tra gli estimatori compare persino Giuseppe Ga-
ribaldi che mostrò stima e simpatia per l’opera
educativa di don Bosco. Lo racconta il biografo
don Ceria. Nel 1875 sulle case salesiane di Va-
razze, di Alassio e di Sampierdarena stava adden-
sandosi una tempesta. Il prefetto di Genova Co-
lucci osteggiava in tutti i modi le scuole salesiane.
Ma anche dopo il trasferimento del Colucci l’o-
stilità continuò. Venne a cessare per l’intervento
di Giuseppe Garibaldi. Il generale, accortosi del
malanimo e saputo il motivo, disse: “ Ma lasciate-
lo un po’ tranquillo don Bosco. È un vero prete”.
Il fatto destò grande meraviglia. Ma non fu il solo
gesto di simpatia verso il Santo, stando al bio-
grafo. Passando l’estate sulla spiaggia di Alassio a
Villa Gotica, il generale parlò in modo benevolo
con un alunno di quel collegio salesiano, condot-
togli dalla compagna Francesca. Essendo stata
costei la balia del ragazzo, vedendolo per strada
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nel gruppo dei giovani dell’Istituto, lo chiamò in
casa. Garibaldi gli disse: «Dunque tu sei del col-
legio di Don Bosco».
«Sissignore».
«E ti vuoi fare il prete?»
«Io non so ancora che cosa farò».
«E in collegio si parla male di me?»
«Io non ho sentito nessuno a parlar male di lei».
«Va’ dunque con i tuoi compagni, studia e sii ob-
bediente ai tuoi superiori».
In altra occasione Garibaldi disse di don Bosco:
“Quello sì che è un bravo prete e un vero sacerdo-
te di Dio, amante dell’umanità. Fa del bene alla
gioventù, ed è il solo nell’Italia”. Osserva il pio
don Ceria: “Era un po’ troppo veramente…”. A
ogni modo è lecito prendere atto che, una volta
tanto, l’implacabile nemico dei preti seppe anche
dire bene di un prete”.
Nel febbraio del 1871 don Bosco si trovava a Ge-
nova. Riuscì ad ottenere in affitto per 500 lire
una villa a Marassi sul declivio orientale della Val
Bisagno. II 26 ottobre mandò don Albera con due
giovani salesiani, tre capi laboratorio ed un cuoco.
Don Albera accettò con animo sereno la direzio-
ne della casa. Al momento di partire don Bosco
gli raccomandò di non darsi pensiero di niente e
di riporre tutta la fiducia nel Signore. Gli chiese
poi se avesse bisogno di qualche cosa. «No, signor
don Bosco – rispose. – La ringrazio, ho con me
500 lire». E don Bosco: «Non è necessario tanto
denaro. Non ci sarà la Provvidenza a Genova? Va
tranquillo, la Provvidenza penserà anche a te».
Ritirò le 500 lire e gli lasciò una somma molto
inferiore.
E la Provvidenza non mancò.
A Sampierdarena
Don Bosco andò a Marassi due volte. Nella se-
conda visita si rese conto che, essendo cresciuto il
numero dei giovani, occorreva una sede più am-
pia. La scelta cadde su Sampierdarena, che stava
diventando un polo notevole di sviluppo indu-
striale e punto di riferimento di un elevato flusso
di immigrazione.
L’espandersi dell’Opera di don Bosco in Sam-
pierdarena suscita stupore anche per noi. I 140
anni di vita sono stati un crescendo di coraggiose
risposte, nell’evolversi delle situazioni e sembra
non finire. Vera casa di don Bosco. Fresca nella
sua identità salesiana. Cresciuta nel più genuino
spirito di don Bosco, aperta alle promesse e alle
attese quest’opera continua ad essere una realtà
viva nel tessuto sociale, ecclesiale, educativo del-
la grande Genova. Oggi centinaia e migliaia di
giovani la sentono casa loro: città dei giovani ove
trovano spazi per il gioco, sale per la cultura, aule
per studiare e chiesa per pregare.
L’istituto e (sotto)
la chiesa parroc-
chiale di Sampier-
darena: uno dei
polmoni spirituali
della città.
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LE CASE DI DON BOSCO
L’oratorio veste i
colori del mondo:
ha aperto le
porte ai numerosi
immigrati in cerca
di spazi, chiesa e
aule.
Nell’Opera di Sampierdarena, seguendo l’evolu-
zione della scuola in Italia, si succedettero il ginna-
sio, l’avviamento e la scuola tecnica, la scuola media
e le classi della qualifica professionale che prepara-
va operai richiesti dal mondo del lavoro. Nel 1963
nacque l’Istituto Tecnico In-
dustriale per meccanici, elet-
trotecnici, elettronici, infor-
matici. Fino a non molti
anni fa le grandi industrie
genovesi si premuravano di
chiedere al Don Bosco gli
elenchi dei ragazzi ancor
prima che finissero i loro
studi, per assumerli subito
nel mondo del lavoro.
Oggi, la scuola resta un
punto educativo tipi-
camente salesiano. Per
questo al Don Bosco,
accanto all’Istituto Tec-
nico, nel 1991, nacque
anche un Liceo Scien-
tifico e per breve espe-
rienza anche il Liceo
sportivo. Infine sono
sorte altre attività educative: il “nido”, una scuola
materna e una scuola elementare. Sempre nell’al-
veo della Scuola, il Centro Linguistico, il Centro
di Orientamento psico-diagnostico, dal primo
decennio del 2000 il Centro di Formazione Pro-
fessionale.
Un polmone per Genova
Ma dove trovano i salesiani le risorse per questi
servizi? Noi diciamo: la Provvidenza. Tutta Geno-
va ha sempre visto con grande interesse e amore lo
sforzo di quest’opera. E possiamo anche noi, Sale-
siani di oggi, testimoniare che questa Provvidenza
continua.
Il manto verde dei cortili, fino ai primi anni del
2000 polverosi, è l’icona di questa città dei ragaz-
zi. Don Bosco per i suoi giovani voleva sempre le
cose più belle! Si può dire che i Sampierdarenesi
sono cresciuti nei cortili dell’Oratorio. Un giorno
è stato chiesto a un “onorevole” del posto che cosa
sarebbe successo se noi salesiani avessimo – per
ipotesi – chiuso il cancelletto dell’Oratorio. La
sua risposta: “Sampierdarena perderebbe un pol-
mone”.
Oratorio non è però solo sinonimo di cortile: dal
cortile prendono storia e vigore le tante iniziative,
che poi rendono adulti i giovani. Di qui sono nate
attività come il Club Amici del Cinema; il Cen-
tro Cultura il Tempietto con le sue attività tea-
trali, letterarie e sociali, musicali e mostre d’arte,
i convegni giovanili e la Rivista “Il Tempietto”…
Di qui sono nati: l’Unitre, l’Università della Ter-
za Età, che oggi conta 2500 iscritti con più di
cento corsi, il Paladonbosco e l’Unione Sportiva
Don Bosco. Da ultimo “Il Sogno”, compagnia
teatrale giovanile oratoriana e lo “Sportello ser-
vizi integrati”. Possiamo infine solo immaginare
l’altissimo numero di exallievi… E tanti sono co-
loro che oggi come ieri occupano posti significa-
tivi nella società, nelle Istituzioni e nella Chiesa.
Sono onesti cittadini e buoni cristiani. In Genova
trovi ex allievi ovunque!
Ospizio, Oratorio, parrocchia: sono i tre pilastri
della presenza dei Salesiani a Sampierdarena. La
parrocchia San Gaetano è una delle prime par-
rocchie salesiane. Qui, oltre all’incontro con Dio,
fioriscono il dialogo con chi è in ricerca, la so-
lidarietà verso i più poveri, le proposte per una
migliore qualità di vita, l’attenzione ai malati, ai
soli. È visibile e insostituibile la dimensione del
Volontariato.
Dal 2005 il don Bosco di Sampierdarena veste i
colori del mondo: ha aperto il cuore e le porte ai
numerosi emigrati in cerca di spazi per giocare,
di una chiesa per pregare e di aule per studiare.
Il piccolo Oratorio di 140 anni fa è ora Oratorio
del mondo, la parrocchia è anche “parrocchia per
i latino-americani” di Sampierdarena.
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Luglio/Agosto 2012

3.9 Page 29

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ANNO DELLA FEDE GIOVANE
TONINO LASCONI
Dio non sta nelle nozioni
Non so quanti genitori ho
sentito lamentarsi: “Mio
figlio non vuole venire più
a Messa”. Lamento che di-
venta frustrazione e sensa-
zione di fallimento nei ge-
nitori “di Chiesa”, magari catechisti,
che hanno fatto di tutto per non farli
allontanare.
E non so più contare i parroci – a
cominciare da me – che ho sentito
sconsolatamente constatare: “Tanti
anni di catechismo e poi?”. Il lamen-
to, anche se non serve, non è immo-
tivato, perché in questi cinquant’anni
sia le famiglie “di Chiesa”, sia le par-
rocchie non sono state con le mani in
mano. Le famiglie hanno accettato il
passaggio da un catechismo di pochi
mesi prima dei sacramenti, che non
richiedeva loro nessuna partecipazio-
ne, a una catechesi di anni, sempre
alla ricerca della loro collaborazione.
Le parrocchie si sono arrampicate
sugli specchi per non lasciarli scappa-
re. Ma allora? È evidente che, come
adesso si comincia a capire, sono stati
sbagliati sia l’obiettivo sia la strate-
gia. Alla veloce secolarizzazione della
società si è cercato di ovviare con un
surplus di catechismo, rimasto forte-
mente nozionistico per la convinzione
che la conoscenza delle nozioni po-
tesse educare alla fede.
Quanti genitori e quanti parroci ho
trovato contrari ai tentativi di rin-
Quanti genitori e quanti
parroci ho trovato
contrari ai tentativi
di rinnovare la catechesi
con l’esigenza del
contenuto: “Non sanno più
niente! Nemmeno il Gloria
al Padre e l’Ave Maria“
novare la catechesi con l’esigenza del
contenuto: “Non sanno più niente!
Nemmeno il Gloria al Padre e l’Ave
Maria”. Il problema, però, non era la
diminuzione delle conoscenze, ma del
senso di Dio. Con la fine della civil-
tà contadina tramontava il bisogno
di Dio che nasceva dalla consapevo-
lezza del limite. Bisognava che nelle
famiglie e nelle parrocchie si passasse
da un Dio “per avere” a un Dio “per
essere”. Servivano famiglie e comuni-
tà capaci di farlo respirare e renderlo
presente per esigenze diverse dall’as-
sicurare salute e raccolti.
Le esperienze “calde”
Invece, mentre le famiglie, senza rin-
novare la loro fede, delegavano l’edu-
cazione alla fede dei figli alle parroc-
chie, queste, senza rinnovare la loro
proposta di vita cristiana, affidavano
i bambini ai catechisti e i ragazzi ai
preti “specializzati” per la pastorale
giovanile. Questi hanno sperimenta-
to ogni mezzo: cineforum, discofo-
rum, camposcuola, tre giorni, uscite,
celebrazioni, pellegrinaggi, giornate
della gioventù. Ma i risultati? Quelli
invisibili li conosce soltanto Dio, ma
quelli visibili (la Messa domenicale, le
attività parrocchiali, il rispetto delle
norme morali…) non sono stati certa-
mente esaltanti. Anzi, spesso queste
esperienze “calde” si sono rivelate un
fattore di fuga, perché tornando in
famiglia e in parrocchia, i ragazzi e i
giovani non trovavano la stessa novità
e lo stesso coinvolgimento sentimen-
tale.
Ed eccoci al lamento e alla frustra-
zione. Che fare? L’obiettivo è chiaro:
ricreare nelle famiglie e nelle parroc-
chie la capacità di far respirare il sen-
so di Dio. Come? Non ci sono ricette,
però alcune indicazioni stanno emer-
gendo. Cercheremo di evidenziarle a
partire dal prossimo numero.
Luglio/Agosto 2012
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COME DON BOSCO
PINO PELLEGRINO
I genitori
servono ancora?
Alcuni anni fa la psicologa Judith Rich Harris ha messo in circolazione massimo educatore Gesù, vi è stato
un libro (“Non è colpa dei genitori”, Mondadori, Milano, 2000)
che continua a far discutere. In esso la psicologa americana sostiene
che, ormai, i figli imparano più fuori casa che in famiglia,
più dai coetanei che dai genitori. Insomma, i genitori conterebbero
sempre meno: la crescita buona o meno buona dipenderebbe
non già da essi, ma dal codice genetico dei figli e dai compagni.
Che dire? Ha ragione la Harris?
un Giuda!
Il cardinale Carlo Maria Martini si
domanda: “È forse colpa della sorgente se
il corso del torrente si perde nel pantano?”.
Fin qui, perciò, possiamo essere d’ac-
cordo con il libro “Non è colpa dei ge-
nitori ”.
Però in esso vi è un risvolto che può
essere grave e pericoloso.
Non c’è dubbio che nella
formazione della persona
umana intervengono più
fattori: due di questi sono,
appunto, il fattore eredita-
rio e l’ambiente in cui ci si
vero: ogni essere umano dipende an-
che dalla propria libertà, dalla pro-
pria coscienza! Persino alla scuola del
CITAZIONI D’AUTORE
Può essere grave e pericoloso perché
può portare i genitori a smettere di
fare i genitori; può fornire un comodo
viene a trovare.
Nell’adolescenza, in particolare, il
fattore ‘gruppo’ è fondamentale: in
esso il ragazzo si sente protetto, de-
responsabilizzato, fino a perdere, ta-
lora, la propria identità e ad assumere
un ‘io’ collettivo.
Dunque il libro di cui stiamo parlan-
do ha, indubbiamente, una funzione
positiva: serve a liberare i genitori da
sensi di colpa, quasi che un eventuale
fallimento educativo dipenda total-
mente da essi. Il che non è affatto
“I bambini d’oggi sembra sappiano tante cose, e le sanno, ma sotto il bambino tecnologico
c’è quello eterno che non può vivere senza l’affetto e l’amore di qualcuno” (Mario Lodi,
maestro).
“Un sorriso fa fare il doppio di strada di un brontolio” (Baden Powell, fondatore dello
scautismo).
“Saper parlare è un dono di molti. Saper tacere è saggezza di pochi. Saper ascoltare è
generosità di pochissimi” (Nino Salvaneschi, scrittore).
“La cosa più importante che un uomo possa fare per i suoi figli è amare la loro madre”
(Winston Churchill, uomo politico inglese).
“Quando gli uomini smettono di dire cose belle, smettono anche di pensarle” (Oscar Wil-
de, scrittore inglese).
“I genitori troppo morbidi sono quelli che fanno le peggiori ingiustizie ai figli” (Gaspare
Barbiellini Amidei, scrittore).
“Tutte le volte che fate al figlio una cosa che lui può fare da solo, gli rubate un pezzo di vita”
(Jean Piaget, psicologo svizzero).
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4.1 Page 31

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I GENITORI PATENTATI CI GUARDANO
1. Prima di parlare chiedono il permesso
all’esempio.
2. Sono presenti, ma non pesanti.
3. Tacciono o setacciano.
4. Si divertono anche ad educare.
5. Non rigano l’anima del figlio con paro-
le invalidanti.
6. Danno più calore che calorie.
7. Non mandano il bambino a letto: lo
accompagnano.
8. Sono il 50% testa e il 50% cuore.
9. Non forzano mai la mano.
10. Sanno che il loro nervosismo aumenta
il volume delle urla del bambino.
I figli ci guardano quando predichiamo
acqua e poi beviamo vino.
I figli ci guardano quando diciamo di es-
sere pacifisti e poi, per una stupidaggine,
litighiamo con il vicino.
I figli ci guardano quando diciamo di
amare la loro madre e poi ci sentono urlare
perché la bistecca è dura.
I figli ci guardano quando compriamo le
riviste ecologiche e poi gettiamo a terra il
pacchetto di sigarette vuoto.
I figli ci guardano quando esaltiamo la
sincerità e poi ci vendiamo per la carriera.
I figli ci guardano andare in chiesa la do-
menica e poi ci sentono bestemmiare il lunedì.
I figli ci guardano quando diciamo che
nella vita conta solo l’amore e poi viviamo
per il sesso e il denaro.
Teniamo presente lo sguardo muto
dei figli, il loro muto giudizio: ci può
risparmiare tante nefandezze!
alibi ai padri ed alle madri per cessare
di riflettere sul loro ruolo. Secondo
noi, ancor oggi, i genitori lasciano
una traccia nella vita del figlio: i ge-
nitori formano o deformano il figlio
che non può sottrarsi ad essi soprat-
tutto nei primi anni della vita che im-
piantano lo zoccolo duro della nostra
personalità.
È vero, ripetiamo: la libertà, l’eredità
e l’ambiente hanno una loro inciden-
za, ma il primo ambiente, il primo
gruppo con cui il bambino viene a
contatto è quello familiare: questo è
il contatto-radice che ha il potere di
costruire o demolire, in modo indele-
bile, l’io del bambino.
Dello stesso nostro parere era Marcel-
lo Bernardi, uno dei massimi compe-
tenti in materia del secolo scorso.
Bernardi metteva in guardia i genito-
ri dal “cercare facili scappatoie” fornite
da libri come quello della Harris che
possono portare alla rinuncia dell’e-
ducazione stessa!
Quale la conclusione del poco detto?
La più razionale sembra questa: am-
messo pure che le dotazioni native
e le influenze ambientali abbiano il
loro peso, da parte nostra cerchiamo
di fare tutto il possibile per educare al
meglio i figli.
Fino a questo momento non si è an-
cora trovata una strategia migliore per
educare un uomo che una coppia di
bravi genitori.
Sono essi che – lo vogliano o non lo
vogliano, lo sappiano o non lo sappia-
no – ‘firmano’ i figli.
Anche il genitore che decide di non
educare, lascia la sua impronta.
Insomma, all’educazione non si scappa!
Avere un figlio significa essere inca-
strati!
Ancor oggi continua ad avere ragione
lo psicologo-pedagogista americano
John Powell quando dice: “In certi casi
può sembrare spaventoso, ma il nostro
destino è nelle mani dei genitori”.
Nelle mani dei genitori perché (è an-
cora lo stesso studioso che prosegue):
Al termine dei primi sette anni di vita,
il bambino è già formato in maniera
pressoché definitiva”.
Altro che inutili i genitori!
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A TU PER TU
O. PORI MECOI
Sulla Cordigliera vicino al cielo
Io continuo DonErnestoSirani
missionario in Perù
«Sono parroco nella parrocchia S. Josè di JANGAS a 2750 m di
altezza nella vallata di Huaylas dove scorre il Rio Santa, a 20 minuti
di macchina a nord di Huaraz, a 700 km a nord di Lima, nella regione
Ancash in mezzo alle due cordigliere: Bianca e Negra.
Ho 30 comunità sparse sui fianchi delle due Cordigliere; alcune a
3400 m di altezza. Lo spettacolo delle cime innevate (dai 6000 metri
in su) è da mozzafiato quando il cielo è limpido.
Ma lo spettacolo più commovente sono i campesinos chini sulla terra
in perenne lotta per strappare il necessario per sopravvivere».
Perché sei partito?
Sono andato in missione perché facevo
parte dell’OMG ed ho avuto la fortu-
na di conoscere don Luigi Melesi, mio
Direttore nella casa salesiana di Darfo
(Brescia) reduce dalla prima spedizio-
ne Operazione Mato Grosso nel 1967;
poi sono entrato in contatto con don
Ugo De Censi negli anni della teolo-
gia a Torino. Conoscevo tanti giovani
che andavano in missione in Brasile,
Ecuador, Bolivia. E parlavano della
loro esperienza in modo entusiastico.
A contatto con i poveri cambiavano
modo di pensare!
Qual era il tuo sogno?
Avevo 35 anni ed ero nel pieno delle
forze. E sognavo di spendere la vita
per i poveri; figlio di genitori conta-
dini bresciani, persi mio padre all’età
di 7 anni (nel ’52) in un evento tragi-
co dove persero la vita 5 fratelli, tutti
padri di famiglia nel tentativo eroico
di salvare la vita l’uno dell’altro, asfis-
siati dai gas di un pozzo di liquame
delle mucche. Un ricordo che mi è
stato impresso per sempre nel cuore!
Ragazzetto, frequentavo l’ambiente
dei Salesiani a S. Bernardino, la casa
aspirantato per tanti, tanti salesiani.
Prima della partenza in Perù, facevo
l’assistente alla squadra dei “grandi”
ad Arese. Rimasi 6 anni e sentivo il
bisogno di rifarmi “dentro” attento
all’invito di tanti amici dell’OMG
che mi scrivevano dalla missione.
Don Ernesto distribuisce l’Eucaristia in una
delle sue 30 comunità sparse sui fianchi della
Cordigliera.
E adesso?
Faccio il Parroco di 15 000 anime,
sparse in 30 comunità sui fianchi delle
Cordigliere Bianca e Negra. Sono qui
da fine ’81. Con me vivono due coppie
di giovani sposi con figlie e volontarie
italiane dell’Operazione Mato Grosso.
Che cosa fate di particolare?
Seguendo l’esempio di don Ugo, ab-
biamo dato vita a un laboratorio di
intaglio del legno e della pietra con
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Luglio/Agosto 2012

4.3 Page 33

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26 ragazzi “campesinos”. Al termine
dell’apprendistato (5 anni in regime
di internato tutto gratis) entrano a
far parte della “Familia artesanos don
Bosco”, la Cooperativa “D. Savio” che
conta 70 soci ed esporta in Italia pezzi
artistici di fine qualità (mobili, statue
in legno o pietra o marmo, articoli
religiosi...). Abbiamo una “scuola cat-
tolica” per 26 ragazze “campesinas”
con il fine di prepararle come mae-
stre dei “campesinos” nelle comunità
più lontane. La scuola è riconosciuta
dallo Stato. Infine l’oratorio con 1300
ragazzi/e, animato dai catechisti che
provengono dal laboratorio e dalle ca-
techiste della “scuola cattolica”.
Com’è la gente?
La gente è povera, ospitale, semplice.
Vive dei prodotti che la terra può dare
a 3000 metri: patate, frumento, mais,
avena, in piccoli fazzoletti di terreno,
sui pendii delle Cordigliere. Tra gli
animali, allevano in casa il “cuy”, por-
cellino d’India che, insieme alle patate,
costituisce il piatto tipico della regione.
Non ci sono fabbriche. Oltre al lavoro
del campo, i “campesinos” vanno in
cerca di lavori occasionali che i comuni
attualmente offrono a seguito di un fi-
nanziamento che le miniere della valla-
ta per legge passano loro. Gli anziani (e
non sono pochi) bussano alla casa par-
rocchiale cercando viveri e medicine.
Momenti difficili?
Ho vissuto un periodo particolar-
mente difficile nel ’91 quando “Sen-
dero Luminoso” irruppe di notte
nella casa parrocchiale cercando i
volontari italiani. Già altre volte ci
avevano visitato obbligandoci a seri
esami di coscienza! Giulio Rocca, 30
anni con in cuore il grande sogno di
entrare in Seminario a Huaraz (come
aveva chiesto a mons. Gurruchaga,
vescovo salesiano della Diocesi), fu
ucciso. Prelevato a forza dalla casa lo
trovarono cadavere a un chilometro di
distanza, a notte fonda, con un cartel-
lo a lato scritto in rosso: “No alla Ca-
rità”. Io mi trovavo alla festa di chiu-
sura dell’Oratorio con 500 oratoriani
in una comunità lontana. Fossi stato
anch’io quella sera nella casa parroc-
chiale con tutta probabilità non sarei
qui a rispondere. Così volle il Signore!
Fu un momento difficile per don Ugo
e i giovani volontari cui toccava deci-
dere se rimanere a lavorare per la pove-
ra gente o ritornare in Italia. Il vescovo
di Huari lo chiese ai giovani. Rispose-
ro all’unisono che volevano proseguire
nel lavoro per i poveri. Così Giulio fu
il primo nostro martire della Carità!
E il Cristianesimo?
Faccio il Parroco e mi interessa il
discorso della fede tra i giovani e la
mia gente. Un momento forte nel
cammino della fede è la preparazione
alla Prima Comunione dei bambini
(500 in due turni!) di tutte le comu-
nità. Per 15 giorni nei locali della
Parrocchia insegniamo loro la devo-
zione con gesti semplici: mani giun-
te, genuflessione, silenzio in Chiesa,
pregare, che è parlare con Gesù. Il
tutto contornato da canti composti
da noi, da giochi, rappresentazioni
teatrali, dal quaderno scritto a mano
delle lezioni e finalizzato all’incon-
tro con il Signore nella Confessio-
ne e Eucaristia, senza tanti segni o
fronzoli esteriori che a volte oscura-
no più che manifestare il mistero di
Gesù nascosto nel tabernacolo.
Che cosa cercano i giovani?
Sono figli del loro tempo. Anche sulla
Sierra peruviana sono arrivate le novità
tecnologiche: la televisione, il telefono,
Internet, il cellulare e tutti i mezzi
di comunicazione che esercitano un
grande fascino sulle giovani menti.
La religione passa in secondo ordine e
tanti vivono come se Dio non esistesse!
La cultura della Sierra sta cambiando
e rapidamente. I giovani sognano di
studiare a Lima. Sulla Sierra riman-
gono i poveracci, i bambini e noi con
il nostro oratorio, sotto la guida in-
stancabile di don Ugo, vogliamo se-
guire don Bosco che ci ricorda la cosa
più importante della vita: salvarsi l’a-
nima aiutando i poveri.
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ESPERIENZE SALESIANE
PAOLO GALDIERO
Spugna
L’ultimo giorno di per-
manenza di un gruppo
di giovani in una casa
salesiana per il ricupe-
ro dei ragazzi di strada
in Bolivia nasconde
una toccante sorpresa.
L’ultimo giorno di esperienza estiva
si preparano i bagagli e si prepara il
cuore a lasciare i ragazzi che hanno
occupato tempo, spazio, affetti della
nostra vita. La camerata dei volon-
tari è costituita da 12 letti a castello
occupati solo in parte. Il mio letto a
castello, lo avevo impegnato solo nel-
la parte inferiore, mentre nella parte
superiore avevo collocato una sorta di
“ufficio” con dei materiali comuni ed
altri personali.
L’ultimo giorno c’è anche molto mo-
vimento tra i ragazzi, anche loro sono
agitati e sentono la dipartita. Normal-
mente i ragazzi di strada non entrava-
no in camerata per ovvie ragioni, ma
quelle meno ovvie sono legate al fatto
che un eventuale furto in genere coin-
cide con la fuga del ragazzo e quindi
per il suo bene, bisogna metterlo nel-
la condizione di non rubare per non
fargli perdere l’opportunità di fare
un’esperienza di cammino di crescita.
L’ultimo giorno avevo collocato sul
“letto ufficio” il materiale che avevo
comprato da riportare in Italia. Tra le
cose acquistate c’erano degli anima-
letti lavorati a mano da un gruppo di
hippies boliviani.
L’ultimo giorno, due di questi oggetti
di artigianato spariscono.
L’ultimo giorno non è opportuno
“denunciare” l’episodio per evitare di
andarcene via sotto il segno di una
denuncia.
Le indagini discrete sono andate
avanti tutta la mattinata.
Il regalo
L’ultimo giorno i ragazzi ci hanno
regalato uno spettacolo delizioso che
comprendeva un regalino fatto di una
maglietta per ciascun volontario, una
foto ricordo, una salteña (tipica focac-
cia ripiena) e una soda. Dopo questo
momento Cristian (uno dei ragazzi)
mi avvicina, mi chiede scusa e mi
chiede di seguirlo e continuamente
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Luglio/Agosto 2012

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mi chiede scusa.
In realtà in un primo momento non
capivo perché mi chiedesse scusa,
pensavo che fosse un corollario dei
saluti. In realtà mi stava portando nel
luogo segreto della refurtiva.
Da subito ho cercato di fargli perce-
pire il perdono, la misericordia, o in
altri termini che in fondo capitava a
tutti di sbagliare, ma è fondamenta-
le rimettersi in cammino. Parlando
con altri educatori di lunga data ho
saputo che dichiarare di aver rubato,
autodenunciarsi, è qualcosa di singo-
lare per questi ragazzi. Infatti rubare
è un modo per avere qualcosa perché
spesso non c’è un altro modo per ave-
re delle cose. Appropriarsi di qualcosa
è un modo per prendere, di servirsi di
qualcosa.
L’ultimo giorno ho deciso di rega-
lare qualcosa di mio a Cristian. Mi
sembrava bello premiare il gesto
morale più alto che aveva compiuto,
la denuncia e la restituzione. Ave-
vo già dato quasi tutto: dentifricio,
shampoo, bagno schiuma, specchio,
ciabatte… che cosa avrei potuto re-
galargli? Avevo ancora una spugna
naturale. Chiamo Cristian e gli spie-
go come si ottiene una spugna natu-
rale, che si trova a 400 metri sotto
il livello del mare, e che la spugna
naturale è un essere vivente come un
corallo.
Cristian prende in mano l’oggetto,
ringrazia, lo guarda con attenzione e
poi dice: “Cos’è?”.
L’ultimo giorno ho spiegato a Cri-
stian che cos’era una spugna e nella
doccia fatta prima di recarsi a scuola
si è lavato con una spugna.
Cos’è una spugna? Mi riporta alla
terra, alle cose essenziali, alle cose
che contano. Si può vivere senza sa-
pere cosa è una spugna, ma soprat-
tutto si può vivere con meno e vivere
con senso perché la vita dei ragazzi di
strada non è insignificante, non è pri-
va di senso.
Cos’è una spugna? Mi riporta alla
realtà, ad un ragionamento diretto es-
senziale, senza fronzoli.
I ragazzi di strada senza spugna e
senza sapone, senza acqua e senza
pane, senza giochi e senza vestiti,
senza coperta e senza tutto, ma la vo-
glia di vivere quella sì.
Luglio/Agosto 2012
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4.7 Page 37

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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
FRANCESCO MOTTO
Gran santo
Gran manager
Non è facile scegliere fra le
centinaia di lettere inedite
di don Bosco che abbiamo
recuperato in questi ultimi
decenni quelle che più me-
ritano di essere presentate
e commentate. Questa volta ne pren-
diamo una molto semplice, ma che in
poche righe sintetizza tutto un pro-
getto di opera educativa salesiana e ci
offre tante altre interessanti notizie.
Si tratta di quella scritta il 7 maggio
1877 ad un personaggio trentino, un
certo Daniele Garbari, che a nome di
due fratelli gli aveva più volte richie-
sto come poteva fondare un istituto
educativo nella sua terra, come quelli
che don Bosco stava fondando in tut-
ta Italia, Francia e Argentina.
Immagine positiva
dell’opera salesiana
Anzitutto la lettera ci informa come don
Bosco, dopo l’approvazione pontificia
della congregazione salesiana (1874),
l’apertura della prima casa salesiana in
Francia (1875) e la prima spedizione
missionaria in America Latina (1875),
era sempre occupatissimo nel visitare
e sostenere le sue opere già esistenti e
nell’accettare o meno le moltissime che
gli venivano proposte in quegli anni da
ogni parte. All’epoca della lettera aveva
il pensiero di aprire le prime case delle
Figlie di Maria Ausiliatrice oltre quella
di Mornese – ben sei nel biennio 1876-
1877 – e soprattutto gli interessava sta-
bilirsi a Roma, dove da oltre 10 anni
tentava inutilmente di avere una sede.
Niente da fare. Un altro piemontese-
doc come don Bosco, un “prete del mo-
vimento” come lui, non era gradito in
riva al Tevere, nella Roma Capitale già
zeppa di invisi piemontesi, da certe au-
torità pontificie e da certo clero roma-
no. Per tre anni dovette “accontentarsi”
della “periferia” romana, vale a dire dei
Castelli Romani e di Magliano Sabino.
Paradossalmente capitava il contrario
presso le amministrazioni cittadine e
le stesse autorità di governo del Re-
gno d’Italia, dove don Bosco contava,
se non amici – avevano idee troppo
distanti – almeno grandi estimatori.
E per un motivo molto semplice, cui
ogni governo era interessato: gestire il
neonato paese Italia con cittadini one-
sti, operosi, rispettosi della legge, an-
ziché popolare le carceri di “criminali”
vagabondi, incapaci di mantenere sé e
la propria famiglia con un proprio di-
gnitoso lavoro. A distanza di tre de-
cenni, nel 1900, il celebre antropologo
e criminologo ebreo Cesare Lombro-
so avrebbe dato pienamente ragione a
don Bosco quando scriveva: “Gli isti-
tuti salesiani rappresentano uno sforzo
colossale e genialmente organizzati
per prevenire il delitto, l’unico anzi che
si sia fatto in Italia”. Come ben dice la
lettera in questione, l’immagine delle
opere salesiane in cui, senza schierarsi
con i vari partiti politici, si educavano
i ragazzi a diventare “buoni cristiani e
onesti cittadini” era positiva, e ciò an-
che nell’impero austro-ungarico, cui
all’epoca appartenevano il Trentino e
la Venezia Giulia.
38
Luglio/Agosto 2012

4.9 Page 39

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UN PROGRAMMA IN UNA LETTERA
Tipologia di
una casa salesiana
Nel prosieguo della lettera don Bosco
passava a presentare la struttura di una
casa di educazione: ambienti dove po-
ter ospitare i ragazzi (e sottointendeva
almeno 5 cose: cortile per giocare, aule
per studiare, refettorio per mangiare,
camerata per dormire, chiesa per pre-
gare) e opifizi o laboratori” dove in-
segnare un mestiere con cui i giovani
potevano vivere ed avere un futuro una
volta lasciato l’istituto. Quanto alle
risorse economiche indicava tre ce-
spiti: le minime pensioni mensili che
i genitori-parenti dei ragazzi potevano
pagare, il piccolo guadagno dei labo-
ratori artigianali, i sussidi della bene-
ficienza pubblica (governo, municipi)
e soprattutto privata. Era esattamente
l’esperienza di Valdocco.
Ma don Bosco qui taceva una cosa
importante: la totale consacrazione alla
missione educativa del direttore e dei
suoi stretti collaboratori, preti e laici, i
quali al prezzo di un tozzo di pane e di
un letto spendevano le 24 ore del gior-
Pregiatissimo sig. Garbari,
La mia assenza da Torino fu cagione del ritardo a riscontrare alle sue lettere, che ho regolar-
mente ricevuto. Godo assai che questa nostra istituzione sia ben accolta in questi suoi paesi.
Più sarà conosciuta e più sarà ben voluta dagli stessi governi; perciocché si voglia o non si
voglia, ma i fatti ci assicurano che i giovanetti pericolanti bisogna ajutarli per farne buoni
cittadini o mantenerli nel disonore entro le carceri.
Riguardo poi ad impiantare un istituto simile a questo nella città o nei paesi di Trento non
occorre gran cosa per cominciare:
1° Un locale capace di ricoverare un certo numero di fanciulli, ma che abbiano nell’interno i
rispettivi opifizi o laboratori.
2° Qualche cosa che possa somministrare un po’ di pane al direttore ed alle altre persone che
lo coadiuvano nell’assistenza e direzione.
I ragazzi sono sostenuti: 1° da quel poco di pensione mensile che taluni di essi possono
pagare, oppure pagano i parenti o altre persone che li raccomandano.
2° Dal po’ di guadagno che dà il lavoro.
3° Dai sussidi dei municipi, dal governo, congregazioni di carità, e dalle oblazioni dei privati.
In questa guisa si reggono tutte le nostre case di artigianelli, e coll’ajuto di Dio siamo andati
avanti bene. Bisogna però ritenere per base che noi siamo sempre stati e saremo sempre per
l’avvenire estranei ad ogni cosa che si riferisca alla politica.
Nostro scopo dominante è di raccogliere fanciulli pericolanti per farne dei buoni cristiani
ed onesti cittadini. Questa sia la prima cosa da far bene comprendere alle autorità civili e
governative.
Come prete poi io debbo essere in pieno accordo coll’autorità ecclesiastica; perciò quando
si trattasse di concretare la cosa, io scriverei direttamente all’Arcivescovo di Trento, il quale
per certo non opporrà difficoltà.
Eccole il mio pensiero preliminare. Continuando la pratica ed occorrendo altro lo scriverò.
La prego di ringraziare da parte mia tutte quelle persone che mostransi a me benevole.
Ho voluto scrivere io stesso colla mia brutta calligrafia, altra volta cederò la penna al mio
segretario, affinché più facilmente si possa leggere lo scritto.
Mi creda colla massima stima e gratitudine con cui ho l’onore di professarmi
Di V. S. Stimabil.mo
Umile servitore
Sac. Gio. Bosco
Torino, 7 maggio 1877
no in lavoro, preghiera, insegnamento e
assistenza. Così almeno si faceva nelle
case salesiane dell’epoca, apprezzatis-
sime tanto dalle autorità civili, quanto
da quelle religiose, i vescovi anzitutto,
senza il cui assenso evidentemente non
si poteva fondare una casa “che educava
evangelizzando e evangelizzava edu-
cando” come quella salesiana.
Risultato
Non sappiamo se ci fu un seguito di
questa lettera. Di certo il progetto di
fondazione salesiana del sig. Garba-
ri non andò in porto. E così decine
di altre proposte di fondazioni. Ma è
storicamente accertato che tanti altri
istitutori, sacerdoti e laici, in tutta
Italia si ispirarono all’esperienza di
don Bosco fondando opere similari,
ispirate al suo modello educativo e al
suo sistema preventivo.
Il Garbari dovette ritenersi comun-
que soddisfatto: don Bosco gli aveva
suggerito una strategia che a Torino e
altrove funzionava... e poi aveva nelle
proprie mani un suo autografo, che
per quanto di difficile “decifrazione”,
era sempre quello di un santo. Tant’è
che lo ha conservato gelosamente e
oggi è custodito nell’Archivio Sale-
siano Centrale di Roma.
Luglio/Agosto 2012
39

4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A CURA DI PIERLUIGI CAMERONI postulatore generale - postulazione@sdb.org
Gravidanza
ad altissimo rischio
Sono una mamma e nonna, coo-
peratrice salesiana. Circa tre
mesi fa, una delle mie nuore si è
sentita male ed è stata trattenu-
ta al pronto soccorso, dove ha
subìto vari esami radiologici. Al-
cuni giorni dopo ha saputo che la
sua gravidanza, che già l’aneste-
sista le aveva subito consigliato
di interrompere, era dichiarata ad
altissimo rischio. Subito l’intera
famiglia ha invocato san Do-
menico Savio, affidandogli la
piccola vita che si annunciava.
Dopo mesi di esami e di ansie si
annuncia definitivamente che il
nascituro è sano ed ha una gran
voglia di vivere.
Creca Nadia, Alessandria (AL)
Sempre protetta
da san Domenico Savio
Sono mamma di due bambini:
Riccardo di 5 anni e Martina di
4 mesi. Dopo un anno dal mio
matrimonio (novembre 2001),
desideravo avere un figlio. Rimasi
incinta di Riccardo solo a dicem-
bre 2005, dopo molti tentativi ed
un aborto interno spontaneo. Alla
decima settimana in seguito ad
una minaccia di aborto dovuto
a distacco di placenta, mi è sta-
to prescritto un mese di riposo.
Durante questo periodo ho rice-
vuto l’abitino di san Domenico
Savio, che ho sempre portato
addosso per tutto il tempo del-
la gravidanza, recitando pure la
preghiera della mamma in attesa.
Terminato il periodo di riposo, ho
ripreso il lavoro. La gravidanza è
proseguita bene e il 2 settembre
Per la pubblicazione non
si tiene conto delle lettere
non firmate e senza
recapito. Su richiesta
si potrà omettere
l’indicazione del nome.
2006 è nato mio figlio Riccardo.
Anche lui sa di essere protetto
da san Domenico Savio, perché
io gli ho sempre parlato di lui e
gli ho mostrato la sua immagine
che portavo addosso. È un bim-
bo bravo e molto sensibile. Dopo
mesi di attesa, nel giugno 2010
sono rimasta incinta di Martina,
nata il 12 marzo 2011. Anche du-
rante questa seconda gravidanza,
in varie occasioni, ho sperimen-
tato la protezione del santo delle
culle; come durante la prima eco-
grafia, e specialmente dal sesto
mese di gravidanza, quando c’era
pericolo di un parto prematuro.
Cedron Lorena, Montebelluna (TV)
Non amuleti,
ma fede e amore
Sono cristiana, sposata dal 2006,
e ho sempre desiderato avere dei
figli, ai quali trasmettere amore e
riceverne. Nel 2008 ebbi la prima
gravidanza, accolta con immensa
gioia da me e da mio marito. Ma
dopo poche settimane rimasi de-
lusa per l’improvvisa interruzione
spontanea della gravidanza. I
medici mi dicevano che questo
può capitare. Trascorsi solo due
mesi ebbi la seconda gravidanza,
conclusa anch’essa inspiegabil-
mente in modo negativo. Ricordo
che nel mio sconforto fui avvici-
nata da una mia collega che mi
disse di rivolgermi a san Dome-
nico Savio e di indossare il suo
abitino. Pensavo che si trattasse
di un voto, o di una penitenza e
presto me ne scordai. Cominciò
un periodo assai tribolato: un
succedersi di visite ed esami
clinici presso specialisti, che
non sapevano spiegare la cau-
sa delle interruzioni spontanee;
finché questa non fu individuata
nella coagulazione del sangue.
Arrivò poi la terza gravidanza,
interrottasi a causa di una terapia
sbagliata, che causò in me pro-
fonda amarezza: avevo pregato
tanto e invocato anche san Do-
menico Savio, senza conoscerlo.
Notizie dalla Postulazione
24 novembre 2012
Suor Maria Troncatti sarà beatificata
Papa Benedetto XVI, il 10 maggio 2012 ha disposto la pubblicazio-
ne del Decreto sul miracolo di guarigione attribuito all’intercessione
della Venerabile Serva di Dio Maria Troncatti (†1969), Figlia di Ma-
ria Ausiliatrice, Missionaria in Ecuador. Successivamente ha stabi-
lito che la beatificazione sia celebrata il 24 novembre 2012 a Macas
(Ecuador), nominando come suo rappresentante il card. Angelo
Amato, sdb, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.
Maria Troncatti nasce a Corteno Golgi (Brescia) il 16 febbraio 1883.
Nella numerosa famiglia cresce lieta e operosa fra i campi e la cura
dei fratellini, in un clima caldo dell’affetto dei genitori. Assidua alla
catechesi parrocchiale e ai Sacramenti, l’adolescente Maria matura
un profondo senso cristiano che la apre alla vocazione religiosa.
Per obbedienza al padre e al parroco, però, attende di essere mag-
giorenne prima di chiedere l’ammissione all’Istituto delle Figlie di
Maria Ausiliatrice ed emette la prima professione nel 1908 a Nizza
Monferrato.
Durante la prima guerra mondiale (1915-1918) suor Maria segue
a Varazze corsi di assistenza sanitaria e lavora come infermiera
crocerossina nell’ospedale militare: una esperienza che le riuscirà
quanto mai preziosa nel corso della sua lunga attività missionaria
nella foresta amazzonica dell’Oriente equatoriano.
Partita infatti per l’Ecuador nel 1922, è mandata fra gli indigeni
shuar, dove con altre due consorelle inizia un difficile lavoro di
evangelizzazione in mezzo a rischi di ogni genere, non esclusi quel-
li causati dagli animali della foresta e dalle insidie dei vorticosi fiu-
mi da attraversare a guado o su fragili “ponti” di liane, oppure sulle
spalle degli indi. Macas, Sevilla Don Bosco, Sucúa sono alcuni dei
“miracoli” tuttora fiorenti dell’azione di suor Maria Troncatti: infer-
miera, chirurgo e ortopedico, dentista e anestesista... Ma soprat-
tutto catechista ed evangelizzatrice, ricca di meravigliose risorse di
fede, di pazienza e di amore fraterno.
La sua opera per la promozione della donna shuar fiorisce in centi-
naia di nuove famiglie cristiane, formate per la prima volta su libera
scelta personale dei giovani sposi. Suor Maria muore in un tragico
incidente aereo a Sucúa il 25 agosto 1969, offrendo la sua vita per
la riconciliazione tra i coloni e gli indigeni. La sua salma riposa a
Macas, nella Provincia di Morona (Ecuador). È stata dichiarata Vene-
rabile l’8 novembre 2008.
Mi sentivo arida, inutile e senza
speranza. Ma san Domenico Sa-
vio venne a cercarmi ancora una
volta, inviando a casa mia una
amica, tuttora preziosa per la mia
vita, che seppe leggere nei miei
occhi lo sconforto e la dispera-
zione. Con amore e tenerezza mi
mise tra le mani un libriccino e
con parole preziose mi consegnò
l’abitino di san Domenico Savio,
raccomandandomi di non portar-
lo come un amuleto, ma di prega-
re con fede e amore. Cominciai a
conoscere san Domenico Savio e
il significato dell’abitino. Leggen-
do e rileggendo la sua storia, la
sua vita mi conquistava sempre
di più; perciò a lui affidai la mia
vita e quella del mio bambino,
nato dopo un anno.
Marotta Tiziana, Mazzarino (CL)
40
Luglio/Agosto 2012

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL CRUCIVERBA
ROBERTO DESIDERATI
Scoprendo don Bosco
Scopriamo i luoghi
e gli avvenimenti
legati alla vita
del grande Santo.
La soluzione nel prossimo numero.
La prima delle figlie di Maria Ausiliatrice
Nel 1837, a Mornese, un piccolo paese della provincia di Alessandria, nac-
que Maria Domenica, primogenita di sette figli. I Mazzarello, la famiglia in
cui la piccola crebbe, era composta da modesti contadini il cui lavoro e la
fede in Cristo avevano reso l’ambiente familiare moralmente sano e integro.
Questo clima di sincera spiritualità portò la giovane Maria Domenica, affet-
tuosamente chiamata Main (ossia Domenica, come suggerisce il dialetto
piemontese), a offrirsi a Dio con un voto di castità già a quindici anni e
poco dopo a entrare nell’associazione delle Figlie di Maria Immacolata per
compiere servizi di apostolato e carità. Come associata ella impartì il cate-
chismo fin quando, all’età di 23 anni, non venne colpita da una grave forma
di tifo; da allora decise con un’amica del cuore, Petronilla, di imparare il
mestiere di sarta e di aprire un laboratorio di sartoria in cui condividere
le loro esperienze con altre coetanee. Questa iniziativa fu appoggiata anche dal parroco del paese,
don Pestarino. Nel 1864 un episodio segnò la sua vita profondamente: l’incontro con don Bosco il
quale, proprio in quel periodo, stava elaborando un progetto apostolico che coinvolgesse le ragazze.
Trovatosi in visita a Mornese rimase positivamente colpito da
Maria Domenica, tanto da affidarle il compito di dare l’avvio
alla comunità delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La ragazza
assunse i voti insieme alle compagne e venne eletta supe-
riora dando prova di notevoli doti di animatrice spirituale. Si
spense prematuramente nel 1881 nella Casa madre di Nizza
Monferrato. Alla sua morte, l’Istituto delle Figlie di Maria Au-
siliatrice contava 165 suore e 65 novizie sparse in 28 case.
Nel 1951, in virtù anche della miracolosa guarigione di una
bambina, fu proclamata Santa da papa Pio XII.
Definizioni
ORIZZONTALI. 1. È girevole nei
carri armati - 9. Rustici edifici di cam-
pagna, spesso isolati - 15. XXX - 18.
Non qua - 20. Nude senza testa! - 21.
Precedenza - 22. Nei battelli a motore
gira sotto la superficie - 24. Quello alla
milanese è insaporito con lo zaffera-
no - 25. La prima parola della Divina
Commedia - 27. Si compie in bicicletta
quello d’Italia - 28. Genova (sigla) - 29.
Il continente più esteso - 30. Modo
familiare per indicare un oggetto - 31.
Allegri, lieti - 32. Fanghiglia - 34. Al-
tro nome della lingua occitana - 35. Lo
pronunciano gli sposi sull’altare - 36. Il
fonema detto zeta sorda, come nella pa-
rola canzone - 37. La quarta preposizio-
ne - 38. Si volta per cambiare discorso
- 40. Stella di taglia supergigante che
brilla nella costellazione dello Scorpione
- 43. La forma usata nelle piante degli
antichi battisteri - 45. Guarito - 46. Una
delle sette meraviglie del mondo antico.
VERTICALI. 1. Formaggio berga-
masco - 2. Dispari a Roma - 3. Ha la
voce abbassata - 4. Fu figlia di Musso-
lini - 5. Il numero perfetto - 6. L’isola
di Ceylon era nota per le sue coltivazioni
- 7. Vasti - 8. Pigro, inoperoso - 9. Ne
sono fatti i giornali - 10. Un eresiarca
alessandrino - 11. Vi recitano gli atto-
ri del cinema - 12. Cane dalle dimen-
sioni notevoli - 13. Sono doppie nella
colla - 14. Muscolo della lingua - 16.
Bruciata - 17. Grossolana, villana - 19.
Volano senza motore, ma non sono uc-
celli! - 23. Lo presiedette Prodi - 24. Si
usa per catturare le farfalle - 26. Sono
amanti del bello - 28. Lo scrittore rus-
so de Le anime morte - 30. Il conte che
fu marito del 4 verticale! - 32. Lo era
Merlino - 33. Si occupa delle autostra-
de - 35. I divi di Hollywood - 38. ...
Man” celebre videogioco del 1980 con i
fantasmini - 39. Un terzo degli Alsaziani
- 41. Al centro del mensile - 42. Quasi
rado - 44. Gli estremi dell’egoismo.
Luglio/Agosto 2012
41

5.2 Page 42

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
DON PASQUALE RANSENIGO
morto a Roma il 2 marzo 2011, a 78 anni
«Ecco il Signore nel quale ho
sperato; ecco Colui che mi ha
donato la chiamata alla vita cri-
stiana, salesiana e sacerdotale e
alla quale ho cercato di risponde-
re; ecco Colui che ho annunciato
nella mia vita, Colui che ho cele-
brato nei sacramenti, la cui vita
ho portato a tanti nella Riconci-
liazione e nell’Eucaristia». Noi
amiamo immaginare che questa
sia l’esperienza o la sensazione
che prova un salesiano sacerdote
quando giunge davanti a Dio, al
termine della sua vita.
Noi amiamo immaginare che
anche don Pasquale Ransenigo
abbia fatto questa esperienza
davanti a Dio, quando il 2 marzo
2011 a Roma, presso la Comuni-
tà Assistita Salesiana “A. Zatti”
dell’Istituto Salesiano Pio XI, si è
spento dopo una malattia protrat-
tasi per quasi tre anni. Negli ulti-
mi tempi la vita di don Pasquale è
stata segnata, infatti, dalla malat-
tia. Solo qualche settimana prima
della sua morte, presagendola
ormai vicina, don Pasquale ha
scritto un breve testo che rivela
la sua fede robusta e il primato di
Dio nella sua vita.
Il 13 febbraio del 2011 ha conse-
gnato questo appunto: «La Prov-
videnza ha disposto che il grande
dono della mia vocazione sale-
siana fosse orientato, per oltre
40 anni, alla crescita integrale
dei giovani “poveri”, operando
con entusiasmo nella Formazione
Professionale sia a livello cultu-
rale e politico che in quello sin-
dacale, sociale e religioso. Grazie
Signore! Grazie don Bosco! Gra-
zie ai miei Maestri Salesiani! ».
Fu un vero lottatore,
ma sempre signorile:
mai parole fuori dalle righe,
sempre motivazioni serie
e ragioni convincenti.
Nato a Berlingo, Brescia, il 20
novembre del 1932, frequentò
elementari, medie e ginnasio dai
salesiani di Chiari. Maturò la sua
vocazione e dopo gli studi fu ordi-
nato sacerdote il 25 aprile del 1961.
Nel 1977, a seguito delle sue
competenze e delle esperienze
accumulate, fu chiamato dai Su-
periori alla Sede Nazionale del
CNOS-FAP come responsabile
dell’Ufficio socio-politico, incari-
co che ha conservato ininterrot-
tamente fino alla morte.
Grazie a lui, l’apporto
socio-politico dei Salesiani
è stato determinante
nei momenti in cui la
Formazione Professionale
in Italia correva il rischio
di perdere identità,
rilevanza e dignità.
Ne sono esempio il suo ruolo
svolto in tanti tavoli di trattative
per l’elaborazione della legge-
quadro 845/78, per la stipula
dei Contratti Collettivi Nazionali
di lavoro per gli operatori della
Formazione Professionale, per
l’elaborazione dell’identità cul-
turale e pedagogica di questo
particolare servizio e infine, per
il ruolo che ha svolto nel dibatti-
to che è sfociato, agli inizi degli
anni Duemila, nell’istituzione
dell’obbligo formativo prima e
del diritto-dovere all’istruzione
e formazione poi, un provve-
dimento che ha dato origine ad
un percorso formativo mentale
specifico.
Se volessimo definire la sua po-
liedrica personalità, dovremmo
coniugare tante parole.
Ma alcune di esse, forse, lo ca-
ratterizzano in modo particolare:
umanità, professionalità, lavoro,
tenacia, passione, educazione,
entusiasmo. Queste caratteristi-
che sono tutte sottolineate dalle
tante testimonianze giunte alla
notizia della sua morte.
Così lo ricorda don Felice Rizzini,
che è stato per 9 anni Presidente
della Federazione CNOS-FAP e
che ha condiviso con don Pa-
squale numerose battaglie: «Don
Pasquale Ransenigo, un brescia-
no autentico, che alla schiettezza
e cordialità dei rapporti umani
sapeva unire una rara compe-
tenza nella Formazione Profes-
sionale Iniziale. La Federazione
CNOS-FAP, nata nel 1977 anche
per il suo contributo, doveva
essere riconosciuta civilmente:
compito non piccolo. Riunioni si
succedono a riunioni, partecipa a
commissioni di studio, ad incon-
tri con i politici e con i sindacati,
con gli altri Enti di Formazione
Professionale e con Centri di ri-
cerca. Rende la sua vita una vita
di studio personale e di consu-
lenza in quei tempi di riforme e di
evoluzioni del sistema formativo,
specie nel passaggio dallo Stato
alle Regioni. Don Ransenigo non
ha lascialo molti scritti, ha prefe-
rito sempre il contatto personale
sia negli incontri sia nei corsi di
aggiornamento del personale.
Questi incontri li ha sovente tra-
sformati in fonte di amicizia. Fe-
dele a don Bosco, non mancava
mai di sottolineare gli aspetti
educativi dei problemi».
Il 4 marzo 2011,
al suo funerale
erano presenti in tanti.
La Provvidenza, forse anche per
uno scherzo di don Pasquale, ha
voluto che la sua partenza per il
ciclo coincidesse con l’avvio del
Consiglio Direttivo della Federa-
zione CNOS-FAP nel quale era
stato sempre attivo protagonista,
A salutarlo c’erano, dunque, tutti
i membri del Consiglio Direttivo
Nazionale, tutti i Salesiani, cioè,
che hanno il compito di animare
e governare, in Italia, il servizio
della Formazione Professionale.
Una felice coincidenza perché
tutti i Salesiani che operano in
questo campo si sentono, in
qualche modo, suoi allievi. Sono
in molti ad averlo conosciuto, ad
aver lavorato con lui, combattu-
to con lui la battaglia dell’educa-
zione dei giovani attraverso lo
strumento della Formazione
Professionale, soprattutto per
quei giovani che non possono
pagarsi una retta, come era so-
lito affermare.
42
Luglio/Agosto 2012

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.
Come
C’era una volta un re che ri-
spondeva al nobile nome
di Enrico il Saggio. Ave-
va tre figlie che si chia-
mavano Alba, Bettina e
Carlotta. In segreto, il re
preferiva Carlotta. Tuttavia, doven-
do designare una sola di esse per la
successione al trono, le fece chiamare
tutte e tre e domandò loro: «Mie care
figlie, come mi amate?».
La più grande rispose: «Padre, io ti
amo come la luce del giorno, come il
sole che dona la vita alle piante. Sei tu
la mia luce!».
Soddisfatto, il re fece sedere Alba
alla sua destra, poi chiamò la secon-
da figlia. Bettina dichiarò: «Padre,
io ti amo come il più grande tesoro
del mondo, la tua saggezza vale più
dell’oro e delle pietre preziose. Sei tu
la mia ricchezza!».
Lusingato e cullato da questo filiale
elogio, il re fece sedere Bettina alla
sua sinistra. Poi chiamò Carlotta. «E
tu, piccola mia, come mi ami?», chie-
se teneramente. La ragazza lo guardò
fisso negli occhi e rispose senza esi-
tare: «Padre, io ti amo come il sale da
cucina!».
Il re rimase interdetto: «Che cosa hai
detto?».
«Padre, io ti amo come il sale da cu-
cina».
La collera del re tuonò terribile: «In-
il sale
solente! Come osi, tu, luce dei miei
occhi, trattarmi così? Vattene! Sei
esiliata e diseredata!».
La povera Carlotta, piangendo tutte
le sue lacrime, lasciò il castello e il re-
gno di suo padre. Trovò un posto nel-
le cucine del re vicino e, siccome era
bella, buona e brava, divenne in breve
la capocuoca del re.
Un giorno arrivò al palazzo il re En-
rico. Tutti dicevano che era triste
e solo. Aveva avuto tre figlie ma la
prima era fuggita con un chi-
tarrista californiano, la
seconda era andata
in Australia ad al-
levare canguri e la
più piccola l’aveva
cacciata via lui…
Carlotta riconobbe
subito suo padre.
Si mise ai fornelli e
preparò i suoi piatti
migliori. Ma inve-
ce del sale usò in
tutti lo zucchero.
Il pranzo divenne il
festival delle smor-
fie: tutti assaggia-
vano e sputavano
poco educatamente
nel tovagliolo.
Il re, rosso di col-
lera, fece chiamare
la cuoca.
La dolce Carlotta arrivò e soavemente
disse:
«Tempo fa, mio padre mi cacciò per-
ché avevo detto che lo amavo come
il sale da cucina che dà gusto a tutti
i cibi. Così, per non dargli un altro
dispiacere, ho sostituito il sale impor-
tuno con lo zucchero».
Il re Enrico si alzò con le lacrime agli
occhi: «È il sale della saggezza che
parla per bocca tua, figlia mia. Perdo-
nami e accetta la mia corona».
Si fece una gran festa e tutti versa-
rono lacrime di gioia: erano tutte
salate, assicurano le cronache del
tempo.
«Voi siete il sale della terra»
(Matteo 5,13).
Luglio/Agosto 2012
43

5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Nel prossimo numero
Conoscere don Bosco
Comunicare
efficacemente
per evangelizzare
ed educare
Salesiani nel mondo
Don Bosco in Mongolia
L’invitato
«Sarò salesiano»
Intervista ai novizi
alla vigilia della
Prima Professione
Le case di don Bosco
Ravenna
Famiglia salesiana
I Testimoni del Risorto
Il ventesimo gruppo della
nostra Famiglia
Arte Salesiana
La Chiesa a don Bosco
di Addis Abeba
Senza di voi
non possiamo
fare nulla!
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente persona-
lità giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta con
D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8 - Fax 011.5224760
e-mail: istitutomissioni@salesiani-icp.net
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via della Pisana, 1111
00163 Roma - Bravetta
Tel. 06.656121 - 06.65612658
e-mail: donbosconelmondo@sdb.org
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