Bollettino_Salesiano_202102

Bollettino_Salesiano_202102



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L’invitato
Manuel
Cayo
Don Bosco
nel mondo
Colombia
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
FEBBRAIO 2021
La nostra
storia
I fratelli di
don Bosco
Le case di
don Bosco
Don Jimmy

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Don Bosco quasi… Mozart
D on Bosco amava la musica.
Suonava il violino, l’organo
e il pianoforte, ma solo
quando riusciva a trovarli nella casa
di qualche amico. Per lui, la musica e
il canto erano un ottimo modo per
comunicare con i giovani.
Cominciò da giovane prete, al Con-
vitto. Un anno, avvicinandosi il Na-
tale, preparò una lode per il Bambino
Gesù. Poesia e musica furono scritti
sul davanzale di un coretto della
Chiesa di San Francesco. Ecco i versi:
Ah! si canti in suon di giubilo, / Ah! si
canti in suon d’amor. / O fedeli, è nato il
tenero / Nostro Dio Salvator. I ragazzi
la impararono per la strada e la gente
guardava stranita un prete in mezzo
a sei od otto ragazzi che, nelle vie del
centro passeggiavano cantando.
Nelle chiese di quel tempo il canto
era monopolio di signori spesso catar-
rosi e sgraziati. Quando comincia-
rono i ragazzi di don Bosco, la gente
andò in visibilio.
Per le melodie, don Bosco pren-
deva spunto dalla vita quotidiana.
Un giorno, udì un coro di operai,
che sulle impalcature cantavano un
loro stornello armonioso, marziale.
Si annotò la musica e poi chiese
al famoso letterato Silvio Pellico,
di scrivergli alcuni versi all’Ange-
lo Custode. Ne venne fuori l’aria
popolarissima Angioletto del mio Dio,
che girò tutta l’Italia. Un’altra volta,
incontrò alcuni giovani che cantava-
no, accompagnandosi con chitarra e
violino. Don Bosco fu conquistato
da quell’armonia e, tirate fuori carta
e matita, appoggiandosi allo stipite
del palazzo della Prefettura, si
scrisse le note. Nacque così
Noi siam figli di Maria.
Ma quando don Bosco
ebbe una cappella
tutta sua, non aveva
un centesimo per
qualcosa che suonas-
se. Cominciò con una
vecchia fisarmonica,
poi con una pianola
automatica che suona-
va solo l’Ave Maris Stella, le Litanie
della Madonna e il Magnificat.
Impietosito, l’amico Giovanni Vola
gli regalò una vecchia spinetta. Più
che suonare, pigolava.
Fu invitato una volta con i suoi gio-
vani a cantare una Messa nel santua-
rio della Consolata. Coraggiosamen-
te, decise di far cantare ai giovani
una “Messa” che aveva composto
lui. Organista di quella chiesa era il
celebre maestro Bodoira. Don Bosco
gli chiese con un misterioso sorriso,
se potesse accompagnare il canto di
quella Messa inedita.
«Qualche cosa farò», rispose risentito
Bodoira, che era famoso nell’in-
terpretare a prima vista qualunque
musica, anche le più difficili. Scoccò
l’ora della Messa, aprì lo spartito,
aguzzò gli occhi, scrollò il capo e
tentò di suonare. Uno stridio terribi-
le. «Ma chi ci capisce? Che guaz-
zabuglio è questo? Basta!» esclamò,
si calcò in testa il cappello e se ne
andò. Don Bosco, ridacchiando un
po’, si sedette all’organo e accom-
pagnò i canti fino alla fine. Dopo
la celebrazione, i ragazzi furono
sommersi di elogi e molti compli-
menti ebbe anche l’organista, che
tutti pensavano fosse stato il grande
maestro Bodoira.
LA STORIA
Il racconto si trova nei volumi II e III delle Memorie Biografiche.
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FEBBRAIO 2021

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L’invitato
Manuel
Cayo
Don Bosco
nel mondo
Colombia
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
FEBBRAIO 2021
La nostra
storia
I fratelli di
don Bosco
Le case di
don Bosco
Don Jimmy
FEBBRAIO 2021
ANNO CXLV
NUMERO 02
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Un giovane sorridente.
Per i Salesiani è un augurio e un impegno
(Foto mimagephotography/ Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Rinascere a Cali
10 TEMPO DELLO SPIRITO
Le sei benedizioni
12 STORIE DI GIOVANI
Riaccendi il sogno
16 LE CASE DI DON BOSCO
Don Jimmy
20 L’INVITATO
P. Manuel Cayo
24 FMA
Una scuola d’infanzia
nello slum
28 LA NOSTRA STORIA
I fratelli di don Bosco
32 MEMORIE
Don Bosco e il colera
36 LA LINEA D’OMBRA
Interconnessi... ma distanti
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
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24
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 66
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
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Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Pierluigi
Cameroni, Roberto Desiderati,
Ángel Fernández Artime, Antonio
Labanca, Carmen Laval, Arthur J.
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Signore, fa’ che non
smetta mai di stupirmi
«Questa è la mia preghiera dopo
aver visitato più di cento nazioni
dove ci sono presenze salesiane
e conosciuto una realtà così
incredibile, così affascinante, così
preziosa, tante volte così dolorosa».
Un caloroso saluto, amici e lettori del bol-
lettino salesiano. Alcuni giorni fa abbiamo
celebrato la festa di don Bosco, in modo di-
verso rispetto agli anni precedenti perché la
pandemia non è scomparsa e condiziona tante cose.
Ebbene, anche in questa situazione dobbiamo saper
leggere le luci e i focolai di speranza che sono presenti.
La sera della Prima Messa a Castelnuovo, Giovanni
Bosco recitò il suo personale Magnificat: «Quando
fui vicino ai luoghi dove avevo vissuto da ragazzo,
e rividi il posto dove avevo avuto il sogno dei nove
anni, non potei frenare la commozione. Dissi: Quan-
to sono meravigliose le strade della Provvidenza! Dio
ha veramente sollevato da terra un povero fanciullo,
per collocarlo tra i suoi prediletti».
E nello spirito del Magnificat, ho scelto di condi-
videre con voi la preghiera del titolo, che è il mio
modo di pregare in questi ultimi anni. Negli ultimi
sei anni, prima della pandemia, ho avuto la pre-
ziosa e impegnativa opportunità, di visitare cento
nazioni del mondo dove ci sono presenze salesiane,
sia degli sia della Famiglia Salesiana in genera-
le. E ho conosciuto una realtà così incredibile, così
affascinante, così preziosa, tante volte così doloro-
sa, che la mia preghiera quotidiana, quando sono
tornato a Roma, era sempre questa: “Signore che
non smetta mai di stupirmi”.
Non smetterò mai di stupirmi per la dignità di
centinaia di donne sole con i loro figli (i loro
mariti morti o scomparsi) nel campo profughi di
Juba (Sud Sudan), che è nella nostra casa salesia-
na. Che non manchi di apprezzare la decisione
di accompagnare come tutte quelle persone
che non hanno niente e sicuramente nessuno.
Non posso non essere sorpreso dalla gioia che ho
provato quando ho incontrato i ragazzi e le ragazze
che vivono nella città Don Bosco a Medellín (Co-
lombia), dove hanno ripreso gli studi dopo essere
stati per mesi soldati della guerriglia delle
(Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia).
Ora quei giovani “riscattati e salvati” dalla guerri-
glia, vivono con il sorriso e la speranza.
Non posso fare a meno di stupirmi del bene che
si fa vivendo in una comunità salesiana nel cuo-
re del campo profughi di Kakuma (Kenya set-
tentrionale), un campo profughi dell’ che è
quasi una città, con più di 300 000 persone, e di
cui siamo stati una parte “straordinaria” per mol-
ti anni. Straordinaria perché una regola di questi
campi profughi è che la sera nessuno al di fuori
del campo può soggiornarvi, ma il fascino della
persona di don Bosco e lo stile educativo dei suoi
figli e delle sue figlie ci ha permesso di avere una
casa in cui vivere tra queste famiglie, una scuola
per insegnare loro un mestiere e una parrocchia
presente in varie zone del campo.
Non posso fare a meno di essere sorpreso dalla
vicinanza che ho sperimentato con la brava gen-
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FEBBRAIO 2021

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te delle “Villas” in Argentina, in Buenos Aires.
Così sono conosciute le periferie di questa gran-
de città, dove operano i “curas villeros”, i sacerdoti
tanto amati da papa Francesco, e dove si trovano
anche i nostri fratelli e sorelle .
Non posso fare a meno di essere sorpreso dai
volti e dai sorrisi di tanti ragazzi e ragazze sal-
vati dalla strada, accolti nelle nostre case. Sono i
“figli della strada”, sia in Colombia, Sierra Leo-
ne o Angola, sia in tante presenze in India. Ho
visto tanti ‘miracoli’ di salesiani che fanno visi-
te notturne nei covi dove questi ragazzi vivono
e dormono, dove ‘annusano’ prodotti chimici,
vernici e adesivi che distruggono i loro polmo-
ni, e cercano un primo contatto con loro fino a
quando accettano di andare alla casa salesiana
per lavarsi, mangiare e stare lì se vogliono. Veri
miracoli che hanno salvato e salvano tante vite.
Prego con fede, chiedendo di non smettere mai
di stupirmi per la speranza e la dignità che ho
trovato in tanti giovani animatori, studenti e
universitari di Damasco e Aleppo, che insieme ai
nostri fratelli salesiani hanno continuato ad ac-
cogliere ogni giorno centinaia di giovani perché
la guerra nel loro Paese non fosse così terribile.
E chiedo al Signore di non smettere mai di stu-
pirmi di fronte alla bella realtà di vita condivisa
negli anni con tanti popoli indigeni, sia con gli
Yanomami, i Xavantes, i Boi-Bororos del Bra-
sile, sia con gli Ayoreos e i Guaranis del Para-
guay, sia con gli Shuar o l’Achuar dell’Ecuador.
Quando ho potuto incontrarli, non ho smesso
di meravigliarmi della loro realtà e di quella dei
miei fratelli e delle mie sorelle, che condividono
da tanti anni la loro vita.
Ecco perché chiedo al Signore di aiutarmi a non
smettere di stupirmi, perché lo stupore mi rende
grato a Dio, alla vita, e a coloro che hanno fatto
tanto in favore per gli altri, dei quali, nelle mie vi-
site di animazione, sono stato solo un testimone.
Allo stesso tempo ho paura di abituarmi a molte
cose, come il fatto che il numero di morti per covid
sia solo una curiosità di cifre, quando dietro a quelle
morti ci sono tante storie di dolore e spesso storie
di vite meravigliose. Non voglio abituarmi al dolore
prodotto dalle migrazioni e dalle morti nel Medi-
terraneo per il desiderio di raggiungere l’Europa, o
ai confini e nei fiumi di varie nazioni dell’America
centrale, nel tentativo di raggiungere il nord.
Non voglio smettere di essere ferito dagli abusi
delle mafie che sfruttano le persone, che le ingan-
nano con la promessa di una vita migliore e poi
sottopongono queste persone, così spesso donne e
adolescenti minorenni, a una vita di prostituzione
e di abusi senza alcuna prospettiva di liberazione.
Non voglio abituarmi a pensare che non si possa
fare nulla nelle nostre società.
Cari lettori, continuo ad augurarvi un 2021 pieno
di speranza, di autentica e vera speranza, vi invito
anche a sognare, a non rinunciare a lasciarvi sor-
prendere dalla bellezza e dall’incredulità della vita,
da tante storie uniche, e allo stesso tempo a non
abituarvi a ciò che non dovrebbe esistere.
Grazie perché siete rimasti al nostro fianco come
amici, credendo che un mondo migliore sia possi-
bile.
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DON BOSCO NEL MONDO
Antonio Labanca
Rinascere a Cali
Una casa in Colombia dove gli ex giovanissimi
guerriglieri riescono a ritrovare la stima degli altri
e di se stessi. Con il sistema “Valdocco”.
Gli ospiti
della Casa di
protezione a
Cali incontrano
una squadra di
professionisti
che li aiuta a
delineare un
piano di studi
e scegliere una
professione.
Fra le prime dotazioni che vengono consegna-
te ai ragazzi che arrivano alla Casa di Prote-
zione a Cali, in Colombia, ci sono le divise.
Sono quelle che caratterizzano i mestieri
che impareranno in quella comunità, dove vengo-
no accolti e sostenuti dai salesiani per ottenere un
diploma in una delle tredici specializzazioni pro-
fessionali offerte.
Alle divise quei ragazzi sono abituati: fino a qualche
tempo prima indossavano quelle dei gruppi armati
che tengono la Colombia sotto lo scacco della guerra
interna. La loro dotazione in precedenza erano armi.
Se inabili al combattimento, avevano in mano una
scopa per le pulizie o un mestolo per cucinare.
A Cali indossare una divisa, dotarsi degli elementi
di protezione per i laboratori e mettere in cartella i
testi scolastici significa fare un passo certo dall’a-
nonimato alla propria identità, dalla schiavitù alla
libertà non solo dal punto di vista simbolico. “Tutti
devono avere uguali diritti: ecco perché non puoi
fare la differenza con la mancanza di materiali e
di strumenti per la formazione” spiega don Jaime
Dalberto Gómez Vega, rappresentante legale del
Centro di formazione Don Bosco della città del
sud-ovest della Colombia.
I trenta giovani, ospiti a rotazione, rientrano in un
piano nazionale di reinserimento sociale ed eco-
nomico voluto dal governo di Bogotà e attuato da
varie agenzie educative, religiose e laiche. I sale-
siani hanno aperto la loro Casa a questo servizio
nel 2002 e da allora, insieme con i confratelli delle
città di Medellin e di Armenia, hanno riportato a
vita civile circa 3000 giovani. Due terzi degli ospiti
sono maschi, un terzo femmine; la percentuale di
successo è dell’85% dei casi, gli altri ritornano nel
vortice violento o ad una vita di marginalità.
La violenza come maestra
Le storie che raccontano questi ragazzi sono un di-
stillato di un male senza senso e senza responsabili-
tà identificate. I Colombiani non hanno mai avuto
lunghi periodi di pace sociale e di governo stabile,
salvo un tentativo (fra il 1958 e il 1974) con il quale
il partito conservatore e quello liberale trovarono un
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FEBBRAIO 2021

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compromesso fra loro per superare l’interminabile
periodo detto de “La Violencia” generatosi dopo il
colpo di Stato del generale Rojas Pinilla del 1953.
Questo accordo costituì tuttavia uno sbarramento
alla possibile alternanza al potere con i partiti pro-
gressisti, i quali si trovarono emarginati.
La componente liberale, nella quale si riconoscevano
i contadini, proponeva riforme fondamentali del si-
stema economico a cominciare dalle proprietà terrie-
re, ma fu frenata dall’altra componente di governo;
l’accrescersi di disparità fra le classi sociali fece salire
la protesta dei movimenti rivoluzionari. Nacquero
le Farc, le Forze armate rivoluzionarie colombiane,
e altre formazioni parallele che guadagnarono con-
sensi e consistenti fette di territorio, fino a dividere
il Paese per regioni secondo le due forze in campo:
l’esercito governativo e la guerriglia.
In questa confusione fu facile il gioco delle organiz-
zazioni criminali che fecero della coltivazione del-
la droga il loro affare. Il personaggio di maggiore
spicco fu Pablo Escobar, capace di farsi eleggere nel
Parlamento colombiano per influenzare decisioni le-
gislative e per procurarsi un’immunità sia pure tem-
poranea, e di ordinare nel 1984 l’omicidio del Mi-
nistro della Giustizia Rodrigo Lara Bonilla che lo
aveva apertamente sfidato con una battaglia politica
e legale. Sull’altro fronte, lo stesso narcotrafficante si
assicurava la protezione delle forze armate irregolari
per garantirsi libertà di coltivazione, di trasforma-
zione e di spedizione delle partite di cocaina verso il
Nord America e il resto del mondo.
Una guerra o una guerriglia che durano decenni
perdono via via le ragioni scatenanti, l’appoggio
popolare e i mezzi di sussistenza. Ne deriva che
per proseguire mutano la pelle, si basano su gerar-
chie sempre più violente, accettano finanziamenti
per tacere sugli affari illeciti dei trafficanti. Venti,
trent’anni dopo, coloro che furono i primi a spa-
rare i colpi di mitragliatrice sono caduti sul cam-
po o hanno disertato, e chi è rimasto ha cercato
nuove ragioni (non più “ideali”) per combattere. E
soprattutto nuovi sottoposti a cui cedere la fatica e
il rischio dei combattimenti: a inizio di questo mil-
lennio le Farc si sono trovate con una generazione
di combattenti che non sapeva niente delle cause
scatenanti e del fine ultimo delle imboscate e delle
devastazioni che attuavano anche contro i civili.
Uomini e donne sempre più giovani sono stati co-
stretti ad arruolarsi, si è arrivati a rapire bambini e
bambine di 7-8 anni per far premere loro il grillet-
to, per obbligarli a lanciare una bomba, per ridurli
a servire un ufficiale, per offrire i loro corpi agli
stupratori.
Sono questi i giovani approdati da vent’anni a que-
sta parte nelle case salesiane a Cali, ad Armenia, a
Medellin. E lì trovano chi, con il metodo acquisito
L’attività
sportiva fa
parte del piano
di recupero e di
socializzazione.
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DON BOSCO NEL MONDO
L’istruzione e
la formazione
tecnica
sono pilastri
fondamentali
per lo
sviluppo
sociale dei
giovani
sottratti al
conflitto
armato.
dall’esperienza pedagogica partita da
Valdocco e praticata dal 1890 anche
in Colombia, riesce a far guadagnare
loro stima degli altri e di se stessi.
Purificare la memoria
Non è facile acquistare la fiducia di ragazze e
ragazzi che hanno visto nell’adulto sempre un co-
mandante, un prevaricatore, un profittatore. Che
hanno dovuto dimenticare ogni esperienza di fa-
miglia, che non hanno incontrato un insegnante.
Che sono stati costretti a scegliere quale famigliare
far colpire da un sicario che doveva dimostrare “chi
comanda” in un’area sottratta al potere centrale. E
che qualche volta sono stati costretti loro stessi a
uccidere sotto minaccia. La “scuola” che hanno fre-
quentato con i gruppi armati (rivoluzionari imma-
ginari) è quella della violenza allo stato puro.
Le testimonianze di questi adolescenti fanno gola
a certa stampa che cerca situazioni raccapriccianti,
che con una certa ambiguità raccontano imprese
estreme. I salesiani cercano di proteggerli anche da
queste incursioni. Raramente, e solo per sostenere i
progetti di reinserimento, li preparano ad affronta-
re giornalisti e platee di pubblico.
Più interessante per gli stessi educatori insistere
sul futuro, una volta purificata la memoria. Anche
sul piano spirituale: una perdita fondamentale ne-
gli anni nella boscaglia è la propria fede religiosa
che, se riemerge, è per farli sentire colpevoli senza
appello. Riavvicinare a Dio ragazzi e ragazze che
hanno ucciso, che portano il senso di colpa per le
violenze di cui sono stati vittime, che hanno dovu-
to calpestare la loro coscienza per non impazzire di
fronte ai gesti quotidiani di sopraffazione che han-
no dovuto compiere con una pistola puntata sulla
loro testa, è l’impresa decisiva per sbloccare non
solo la condizione psicologica compro-
messa ma anche l’impasse di fronte
all’intera vita. Perdonare, perdo-
narsi, percepire l’amorevolezza
del Padre sono passi che don
Bosco vuole comunicare an-
che ai giovani Colombiani ex
guerriglieri.
Gli ospiti della Casa di pro-
tezione di Cali incontrano una
squadra di professionisti che li
aiuta a delineare un piano di studi e
scegliere un laboratorio professionalizzante al qua-
le accedere. Il progetto su cui i cinque salesiani del
Centro Don Bosco investono è molto concreto: “I
trenta giovani che vivono con noi – spiega don Jai-
me – beneficiano dell’aiuto delle istituzioni statali,
tuttavia l’istruzione formale e l’avviamento al lavo-
ro non hanno finanziamenti per quel che riguarda
i materiali e le dotazioni personali. Per noi l’istru-
zione e la formazione tecnica sono pilastri fonda-
mentali per lo sviluppo sociale dei giovani sottratti
al conflitto armato: molti di loro sono entrati nelle
bande guerrigliere in tenera età e non hanno avuto
la possibilità di studiare”.
Le specializzazioni che il Centro Don Bosco offre
non costituiscono solo un elenco di corsi ma altret-
tante strade che i giovani possono percorrere nel loro
futuro: elettricità, meccanica industriale, motoristica
per automobili e per motocicli, cucina, abbigliamen-
to, bellezza, saldatura, sistemi informatici, contabi-
lità, archivistica e magazzino. Il tutto condito da una
ricerca delle qualità personali e delle attitudini per la
migliore valorizzazione di ciascuno.
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“I materiali formativi sono uno strumento di base
affinché il processo di formazione di questi giovani
nei laboratori possa essere realizzato secondo quanto
stabilito in ogni programma” sottolineano i salesia-
ni. “Avere i materiali aiuta e facilita l’apprendimento
nell’area prescelta, così come le divise in base alla for-
mazione ricevuta e agli elementi di protezione evita-
no incidenti che possono verificarsi durante la mani-
polazione di macchine, attrezzature o sostanze”.
Sono questi supporti alla formazione professionale
che determinano il maggior costo per la gestione
del progetto. Il governo, con l’Istituto colombia-
no di benessere familiare, procura le risorse per il
mantenimento degli ospiti e supervisiona il proces-
so interdisciplinare per la loro reintegrazione socia-
le (il 70% del bilancio dell’attività), ma non preve-
de la riattivazione dei percorsi scolastici. Nulla da
aspettarsi dalle famiglie, vittime quanto loro della
violenza subita e per certi versi perpetuatrici di un
pregiudizio nei confronti di quei ragazzi: quando
non giudicano i figli come degli irrecuperabili,
esse sono sottoposte a minacce da parte di questa
o quella banda armata che li considera dei tradito-
ri. Inoltre, “la maggior parte dei ragazzi beneficiari
proviene da famiglie contadine povere che in molti
casi non è stato possibile raggiungere a causa delle
difficoltà di comunicazione e di spostamento nelle
zone in cui vivono” osserva don Jaime.
Una nuova battaglia
La vita dei ragazzi nel periodo di recupero è inte-
gralmente vissuta dentro al Centro, tutti i giorni
dell’accoglienza, con il sole o con la luna. Ci sono
motivi di sicurezza alla base di questa scelta poi-
ché i loro nomi non vengono cancellati dalle liste
in mano ai capi guerriglia, pronti a richiamarli in
servizio o a vendicarsi. Escono accompagnati dagli
educatori, secondo un programma coerente con i
processi che si svolgono all’interno. Ma si condi-
vidono le 24 ore soprattutto per la necessità di ria-
bituarsi alle relazioni gratuite con i propri pari, di
condividere i momenti del pasto e del tempo libero,
di scoprire il senso delle regole della convivenza.
La sicurezza conquistata e l’orgoglio per il percorso
professionale in atto poi traspaiono dalle fotografie
a cui volentieri i ragazzi si prestano indossando le
loro divise di lavoro.
La residenza appartata di questo gruppo di adole-
scenti ha consentito loro di affrontare con la dovu-
ta protezione anche la pandemia da Covid-19 che
colpisce in maniera pesante anche la salute e l’eco-
nomia dei Colombiani. Costretti a rinunciare alle
loro puntate in città, si sono resi utili nell’emergenza
convertendo parte nella loro attività nella produzio-
ne di mascherine: un’ulteriore conferma delle po-
tenzialità che le loro competenze, la loro vita, pos-
sono avere per la società tormentata del loro Paese.
La battaglia per la quale si stanno preparando non
sarà facile, data la crisi economica nella quale si
trovano immersi, ma il 2 ottobre 2016 il popolo
colombiano ha ratificato l’accordo sottoscritto dal
presidente Juan Manuel Santos e dal leader delle
Farc Rodrigo Londoño. Il Vaticano ha contribuito
a questa svolta; il messaggio è che la Chiesa ad ogni
livello sta operando per la pacificazione e per lo svi-
luppo della Colombia: il Papa con la sua influenza
sui politici locali e sui Paesi limitrofi a Cuba; i sale-
siani per formare con altri uomini di buona volontà
le nuove generazioni, riscattate dalla prigionia del
conflitto fratricida e rimesse in corsa per costruire
il loro futuro.
La vita dei
ragazzi nel
periodo di
recupero è
integralmente
vissuta dentro
al Centro,
tutti i giorni
dell’accoglienza,
con il sole o con
la luna.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Le sei benedizioni
La benedizione è una di quelle cose che si lasciano
in chiesa, quasi fosse un relitto trascurabile del
passato. Ma la benedizione è uno dei temi centrali
della Bibbia. Oggi più che mai, noi, paurosi,
ansiosi, insicuri esseri umani, abbiamo bisogno
di sentirci dire che siamo amati e protetti.
1. La benedizione di Adamo ed Eva
«Dio li benedisse con queste parole: Siate fecondi,
diventate numerosi, popolate la terra e governatela». Le
creature umane sono state fortemente volute da Dio
e coperte di doni perché vivano l’ebbrezza di esse-
re a loro volta creativi. Quando le persone umane
formano una famiglia, lavorano, si prendono delle
responsabilità verso gli altri e il pianeta, inventano,
esplorano e curano, si sentono profondamente felici.
Vivono la benedizione del Creatore. Condividono
le ultime parole di Santa Chiara: «Ti ringrazio, mio
Dio, perché mi hai creata».
ziano catechista, che si sedeva in chiesa, in silenzio,
per un’ora intera. Una volta gli chiese che cosa fa-
cesse. L’altro gli spiegò: «Percorro tutto il villaggio,
capanna per capanna. Mi raffiguro le persone che
ci abitano, penso a come stanno, di che cosa soffro-
no, di che cosa hanno bisogno e a che cosa anelano.
E poi le benedico. Per farlo ho bisogno di un’ora
intera». Quell’anziano aveva il senso di che cosa
significa la benedizione. E ha reso feconda la sua
vecchiaia. Non poteva più fare molto. Ma benedi-
ceva la gente del suo villaggio. Senz’altro per tutto
il villaggio era una benedizione.
2. La benedizione di Abramo
3. La benedizione di Isaia
«Farò di te un popolo numeroso, una grande nazione.
Il tuo nome diventerà famoso. Ti benedirò. Sarai fonte
di benedizione».
È la promessa più bella che possa essere fatta a una
persona: essere una benedizione per gli altri, diven-
tare sorgente di benedizione per gli altri. Talvolta
diciamo a proposito di una persona che è una be-
nedizione per la comunità, l’azienda, il paese. Senza
persone benedette una comunità, come una fami-
glia, non può resistere. Le persone benedette porta-
no speranza, ottimismo, nuove idee, calore e felicità.
Un missionario ha raccontato che ogni mattina alle
5.00 andava in chiesa per pregare il breviario e me-
ditare. Non appena apriva, arrivava anche un an-
In Isaia, Dio promette a Israele: «Per me sei molto pre-
zioso, io ti stimo e ti amo, darò uomini e popoli in cambio
della tua vita» (Is 43,4). Queste parole valgono per
noi stessi e per ogni persona che benediciamo. Bene-
dire è qualcosa di più della preghiera di intercessione.
Benedire equivale a dire: «Sei amato da Dio. Dio ti
stima. Al suo cospetto sei prezioso e di grande valore».
Le parole di benedizione fanno bene all’anima.
Devono soppiantare tutte le parole offensive che
abbiamo sentito nel corso della vita. Chi è benedet-
to sente che nella benedizione Dio stesso si china
benevolmente su di lui, che il Signore tiene la sua
mano buona sul capo e le parla con parole d’amore,
d’incoraggiamento, di rinvigorimento, di speranza.
10
FEBBRAIO 2021

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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PER TE CARO LETTORE
«Il Dio buono e misericordioso ti benedica. Ti avvolga della sua
presenza d’amore e di guarigione. Ti sia vicino quando ti alzi e
quando ti corichi. Ti sia vicino quando esci e quando entri. Ti sia
vicino quando lavori. Faccia riuscire il tuo lavoro. Ti custodisca in
tutti i tuoi passi. Ti sorregga quando sei debole. Ti consoli quan-
do ti senti solo. Ti rialzi quando sei caduto. Ti ricolmi del suo
amore, della sua bontà e dolcezza e ti doni libertà interiore. Te lo
conceda il buon Dio, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Amen».
shutterstock.com
Molte persone soffrono a causa di un profondo sen-
so di maledizione. La sensazione di essere maledet-
ti spesso colpisce più facilmente che la sensazione
di essere benedetti e possiamo trovare molti argo-
menti a sostegno di quanto affermiamo.
Dio buono e misericordioso, benedici questa giornata.
Me l’hai donata affinché io la viva come un tempo
santo, un tempo in cui tu stesso mi sei sempre vicino.
Benedici tutto ciò a cui oggi metterò mano. Fa’ che il
mio lavoro riesca bene. Benedici le persone che mi stan-
no a cuore. Accompagnale e invia i tuoi santi angeli, af-
finché le custodiscano in tutti i loro passi e le protegga-
no. E benedicimi oggi, affinché anche a me sia concesso
di diventare una sorgente di benedizione per le persone
che oggi mi incontreranno. Amen.
4. La benedizione di Maria
Quando Maria visitò sua cugina Elisabetta, quest’ul-
tima fu piena di Spirito Santo ed esclamò: «Benedetta
tu fra le donne, e benedetto il bambino che avrai!». Be-
nedetta significa che ha una dignità infinita e invio-
labile, garantita da Dio stesso. Milioni di persone,
ogni giorno, ripetono questa benedizione. Per Maria
e per tutte le donne. Ogni donna è sotto la bene-
dizione di Dio. Le donne conoscono la grande be-
nedizione della creazione. In loro sboccia e fiorisce
la vita. E attraverso la vita, le madri trasmettono la
benedizione di Dio ai loro figli.
5. La benedizione di Simeone
Il vecchio Simeone prese in braccio il bambino
Gesù e lo benedisse: «Dio ha deciso che questo bambi-
no sarà un segno di Dio»
Ogni mattina non avere paura, impara a benedire
i tuoi cari, tutti quelli che ti amano e anche quelli
che non riesci ad amare. I bambini hanno bisogno
di essere benedetti dai loro genitori e i genitori
hanno bisogno di essere benedetti dai loro bambi-
ni. La moglie dal marito e il marito dalla moglie.
Tutti noi abbiamo bisogno di benedirci a vicenda.
Nella celebrazione ebraica del Bar Mitzvah il pa-
dre benedice il figlio con queste parole: «Figlio,
qualsiasi cosa accadrà nella tua vita, sia che tu abbia
successo o no, sia che tu divenga importante o no,
che tu abbia salute o no, ricordati sempre quanto
tua madre ed io ti amiamo».
6. La benedizione di Gesù
Luca conclude il suo vangelo con queste parole:
«Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani,
li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e
fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato,
tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (Lc 24,50-
52). Luca descrive l’effetto di questa benedizione sui
discepoli. Adorano Gesù e tornano a Gerusalemme
con grande gioia. Non hanno più paura e la benedi-
zione suscita in loro gioia, la certezza che la loro vita
ha un esito positivo e porta frutto, e la fiducia che
sono nelle mani buone di Dio, protetti e sostenuti da
esse.
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11

2.2 Page 12

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STORIE DI GIOVANI
Kirsten Prestin
Riaccendi il sogno
Il virus non ci ha fermati
#DreamOn è una campagna, attiva
sui social media, che vuole dare voce
ai giovani. Come hanno vissuto
la pandemia di Covid-19 nel mondo?
Quale loro sogno si è infranto?
Quali progetti hanno dovuto
sospendere a causa del coronavirus?
Giovani di venticinque Paesi parlano
dei loro sogni e delle loro speranze
al tempo del Covid-19.
«Ho sempre avuto il de-
siderio di diventare
meccanico aeronau-
tico o pilota. E poi
avrei voluto avere successo nel mio la-
voro, in modo da poter comprare una
casa per i miei genitori. Oggi nutro
ancora questo sogno, anche se il coro-
navirus rende la situazione difficile»,
scrive Kent, di diciannove anni, dalle
Filippine, riferendosi alla sua situa-
zione attuale. La pandemia ha fatto
precipitare tutta la sua famiglia in
una profonda crisi. Tutti i suoi fami-
Giovani animatori salesiani portano cibo ai bisognosi.
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FEBBRAIO 2021

2.3 Page 13

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gliari si sono ammalati di Covid-19 e
sono stati in isolamento o ricoverati
in ospedale.
I suoi nonni sono stati colpiti dal vi-
rus in modo particolarmente grave.
La morte di suo nonno, avvenuta a
casa a seguito degli effetti del corona-
virus, è stata uno shock per Kent, che
ha dovuto affrontare così la morte per
la prima volta. Il ricordo lo addolora
ancora oggi.
«Quando mio nonno morì, i miei
genitori e mia nonna erano ricoverati
in ospedale. Poiché era deceduto a
causa del coronavirus, mio nonno fu
sepolto immediatamente, senza la
possibilità di celebrare un funerale.
La cosa peggiore è stata dover dare la
notizia a mia madre e a mia nonna in
ospedale. Vederle piangere dispera-
tamente perché non avevano potuto
dire addio a mio nonno è stato uno dei
momenti peggiori della mia vita».
Kent e suo fratello hanno smesso di
studiare per aiutare finanziariamente
i loro genitori. Il coronavirus ha peg-
giorato la situazione economica della
famiglia. Nonostante queste esperien-
ze che l’hanno traumatizzato, Kent
continua a mantenere vivi i suoi sogni.
La sua fede e il legame con i Salesiani
di Don Bosco gli danno forza.
#DreamOn -
dare voce ai giovani
Kent ha partecipato alla campagna
#DreamOn con altri 150 giovani cir-
ca. Questa campagna, attiva sui social
media, vuole dare voce ai giovani.
Come vivono la pandemia di Covid-19
nel mondo? Quale loro sogno si è in-
franto? Quali progetti hanno dovuto
sospendere a causa del coronavirus?
Giovani di venticinque Paesi parlano
dei loro sogni e delle loro speranze al
tempo di Covid-19. Sono arrivati con-
tributi dal Brasile, dal Cile, dall’India,
dalla Corea del Sud, dalla Tanzania,
dalle Filippine, dal Vietnam e da mol-
ti altri Paesi. Sono messaggi di spe-
ranza, ma anche sguardi preoccupati
al futuro.
Per molti giovani la chiusura delle
scuole è stata un problema. È stato
necessario rinviare il conseguimento
della laurea, cancellare le feste dopo
il diploma di scuola superiore, non è
stato possibile avviare stage e molti
hanno anche perso il lavoro.
Il coronavirus si diffonde in un mo-
mento cruciale della vita di molti gio-
vani: l’inizio della loro vita professio-
nale. La preoccupazione di ottenere
buoni voti e di conseguire la laurea
con un buon punteggio corre come un
filo rosso attraverso le dichiarazioni
dei partecipanti alla campagna. Molti
nel contesto della crisi si impegnano
anche per comprendere quali valori
e quali obiettivi siano importanti per
loro nella vita. «Questa pandemia ha
«Voglio diventare
un buon cuoco!»
dimostrato che le persone sono ricche
di amore e che al mondo non ci sono
solo individui cattivi», scrive Mario
Jorge, di vent’anni, dal Brasile.
«Il mio sogno è diventare Salesiano!»
«Voglio imparare a fabbricare sapone e detersivi!»
«Il mio sogno è terminare gli studi
in una situazione normale!»
FEBBRAIO 2021
13

2.4 Page 14

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STORIE DI GIOVANI
Altri sentono che la loro relazione
con Dio si è rafforzata e utilizzano
questo tempo per imparare qualcosa
di nuovo, come riferisce Anju, di di-
ciassette anni, dello Sri Lanka: «Ora
«Tutto questo non mi abbatterà!»
«Hanno cancellato il mio stage in un laboratorio!»
ho più tempo libero. Vorrei utilizzar-
lo per essere più creativo e per consi-
derare l’evoluzione degli avvenimenti
in modo più critico».
I giovani, soprattutto se provengo-
no da famiglie povere, sono molto
preoccupati. «Non avevamo denaro
per acquistare cibo e abiti pesanti per
l’inverno e per pagare le bollette. Per
fortuna mia zia è venuta ad aiutarci
e ha comprato generi alimentari per
noi. È stato difficile, mi sentivo sola e
avevo paura», scrive Lindi, di quindi-
ci anni, dal Sudafrica.
«È importante che siamo presenti
nella vita dei giovani anche in mo-
menti in cui il contatto non è pos-
sibile e vige la quarantena, che li
sosteniamo nella comunità e li ascol-
tiamo», sottolinea il Dottor Nelson
Penedo, Direttore Generale di Don
Bosco Mission Bonn.
«Nei momenti di crisi i giovani vo-
gliono e devono essere ascoltati!» I
giovani mostrano anche molta soli-
darietà. «Appena la pandemia sarà
finita, voglio aiutare le persone co-
strette a vivere per strada. Anche se
nella società sono invisibili e non se
ne tiene conto, sono tra i più grave-
mente colpiti dalla pandemia», sot-
tolinea Thomasz, cileno, di dician-
nove anni.
«Dobbiamo aiutarli
a continuare a coltivare
i loro sogni»
Don M.C. George, del dicastero per
le missioni salesiane, dice: «Siamo
particolarmente preoccupati per gli
adolescenti che hanno avuto un’in-
fanzia difficile. Con il nostro aiuto
è stata data loro una seconda possi-
bilità e avevano così acquisito nuova
speranza e fiducia. Temiamo che ora
cadano di nuovo in un baratro e che
non vedano più una luce in fondo
al tunnel. Molti nostri studenti non
hanno competenze digitali o dispo-
sitivi per l’apprendimento on-line.
Come Salesiani di Don Bosco, vo-
gliamo offrire prospettive a giovani
svantaggiati, emarginati a livello so-
ciale e geografico.
Dobbiamo stare vicino ai bambini e
ai giovani. È nostro compito soste-
nerli finanziariamente e material-
mente, ma soprattutto infondere in
«Non posso abbracciare i miei amici o i miei
insegnanti a scuola!»
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FEBBRAIO 2021
«Volevo diventare Presidente del Consiglio
degli Studenti!»
«Non riesco più a concentrarmi
sui miei studi!»

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IL RETTOR MAGGIORE
Tanti nostri giovani sono stati eroici nel portare aiuto
ai poveri. In questo senso, abbiamo fornito, soprattut-
to ai ragazzi delle nostre opere, utili indica-
zioni pedagogico-educative e didattiche.
Quando i ragazzi capiscono sono più at-
tenti spesso di noi adulti. Non ci siamo
rinchiusi all’interno delle nostre case,
ma abbiamo formato, con l’aiuto
di giovani volontari, gruppi di
aiuto e condivisione. Credo
di poter dire che questo è
avvenuto in tutto il “mondo
salesiano”.
Fin dal primo momento
abbiamo indetto una cam-
pagna mondiale salesiana di
aiuto ai più colpiti: abbiamo
potuto raggiungere oltre 63 nazioni mediante l’invio
di aiuti economici offerti da tante persone buone e ge-
nerose, che sono al nostro fianco ogni giorno, a volte
anche senza che ce ne rendessimo conto.
Purtroppo, abbiamo perso almeno un’ottantina di
confratelli. All’inizio si pensava che la pandemia inte-
ressasse soltanto gli anziani, ma ci siamo resi presto
conto che Covid-19 colpisce tutti. E purtroppo ritengo
che queste morti non siano ancora finite. È uno degli
aspetti del grande dolore causato dalla pandemia:
quello di tanti morti in tante famiglie, di tanti bam-
bini che hanno perso i loro genitori senza poterli
salutare con dignità; di tanti fratelli e sorelle
nelle nostre comunità religiose e di tanti sa-
cerdoti nelle diocesi. Questa è ed è stata la
realtà. Cerchiamo di viverla con fede e spe-
ranza.
loro serenità, dare loro ispirazione e
motivarli.
Dobbiamo aiutarli a prendere deci-
sioni e portare avanti le loro attività.
Dobbiamo aiutarli a continuare a
coltivare i loro sogni, ad avere fiducia
e speranza per loro stessi, per le loro
famiglie e la società.
Mi auguro che i giovani diventino
protagonisti. Don Bosco chiedeva
ai giovani di essere insegnanti e mo-
delli per altri giovani della comuni-
tà. Quando a Torino scoppiò un’epi-
demia di colera, esortò i giovani ad
andare ad aiutare le persone che ne
erano state colpite e il suo invito fu
accolto. Oggi i giovani stanno facen-
do la stessa cosa.
Possiamo pensare che in futuro i gio-
vani assumeranno un ruolo di guida
nel mondo. E faranno un ottimo la-
voro!».
«Sono diventata creativa!»
«Continuerò a sognare
per riuscire!»
«Non posso fare
il poliziotto!»
«Il virus mi ha
demoralizzato!»
FEBBRAIO 2021
15

2.6 Page 16

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LE CASE DI DON BOSCO
B.F.
Don Jimmy
Direttore del primo
oratorio salesiano
«Sono nato in Rwanda, e cresciuto
in Italia, ci vivo da quasi trent’anni:
un “piemontese D.O.C” con
un’abbronzatura invidiabile».
«Tante sono
le tracce
che Dio ha
lasciato nella
mia vita
per dirmi: ti
voglio bene».
Puoi presentarti?
Sono don Jimmy, “prete da poco”, come dico scher-
zando con i ragazzi. Già, perché sono stato ordina-
to prete neanche tre anni fa: il 2 giugno 2018. Vi
dico anche il cognome, ma se poi non lo leggete,
comprendo: Muhaturukundo. Età? 34 anni com-
piuti. Sono nato in Rwanda, e cresciuto in Italia, ci
vivo da quasi trent’anni: un “Piemontese D.O.C”
con una “abbronzatura invidiabile”. Se amo l’Ita-
lia? Moltissimo. L’Italia e gli Italiani! L’italiano che
ammiro di più? Don Bosco.
Come ti è venuta la vocazione?
Mi è difficile pensare alla vocazione come un “mat-
tone che ti colpisce in testa”. Forse l’ho sempre avu-
ta… e se mi guardo indietro vedo la vocazione come
un “filo rosso”: le tracce che Dio ha lasciato nella mia
vita per dirmi: ti voglio bene al punto che ho scel-
to te! e questo filo rosso è fatto di persone. Alcune
di queste hanno lasciato il segno dentro di me. Le
ricordo come le più significative: la prima tra tutte
è senza dubbio mia mamma. Conservo un ricordo
felicissimo di lei. Indelebile! Con lei ho vissuto solo
7 anni, la mia prima infanzia: eppure posso dire con
certezza, e con immensa gratitudine, che se sono di-
ventato l’uomo che sono oggi, lo devo a lei anzitutto!
Dio l’ho conosciuto sulle ginocchia di mamma. Ri-
cordo con chiarezza quando lei, cessato di lavorare,
mi prendeva con sé e si metteva a giocare con me
come se fosse la cosa più importante del mondo. E
tra un gioco e l’altro mi raccontava “di questo Gesù”,
che io non avevo idea di chi fosse… ma più lei pro-
cedeva nel racconto, più io ero catturato, stupito: in
assoluto però, oggi so, che non è il racconto in sé a
convincermi: ma gli occhi di mia madre mentre rac-
contava. C’era luce nei suoi occhi quando parlava di
Gesù: una luce limpidissima. Serena. Ho imparato
crescendo, e credo sia esperienza comune, che chi
mente lo sguardo lo nasconde. Quando lei mi teneva
in braccio e parlava di lui era luminosa, viva!
In casa vivevamo: lei, io, mia sorella, più piccola di
me di un paio di anni. Papà lo abbiamo perso quan-
do avevo circa tre anni, credo per colpa della mala-
ria… comunque, mia madre ad un certo punto ha
fatto una scelta che deve esserle costata parecchio,
perché so il bene che mi voleva: mandarmi a vivere
lontano da casa, in un centro missionario. Lì avrei
potuto studiare, ed avere una possibilità di futuro.
È così che ho conosciuto padre Minghetti: la se-
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FEBBRAIO 2021

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Noi ragazzi eravamo chiusi in casa, nascosti sotto
i tavoli. Gli è stato intimato di consegnare i fuggiaschi,
o saremmo morti anche noi. Non lo ha fatto. Ho sentito
un colpo di fucile: uno dei fuggitivi era stato scoperto
e “giustiziato” sul posto. E il fucile ora era puntato al petto
di padre Minghetti. È rimasto lì, di fronte a quel fucile,
ma non ci ha consegnati.
conda traccia indelebile della mia vita. Ricordo il
mio arrivo nella missione a Nyamata come una del-
le cose più impressionanti. Tenete conto che non
avevo mai visto un uomo bianco. Immaginate lo
sbigottimento quando mi sono trovato di fronte a
quest’uomo con la pelle bianca, i capelli bianchi,
barba bianca, e per di più vestiva una tunica bianca!
Tra me e me dicevo: quest’uomo è proprio strano!
Forse sta male, possibile che nessuno se ne accorga?
Nel 1994 in Rwanda è scoppiata una terribile guer-
ra civile! In quella guerra ho perso mia mamma e
mia sorella.
Un giorno, i guerriglieri sono entrati nella Mis-
sione. Inseguivano i malcapitati che venivano a
cercare rifugio in casa nostra. Lo ricordo quel po-
meriggio: hanno fatto irruzione, e don Minghetti
si è presentato davanti a loro nel cortile della mis-
sione. Noi ragazzi eravamo chiusi in casa, nascosti
sotto i tavoli. Gli è stato intimato di consegnare i
fuggiaschi, o saremmo morti anche noi. Non lo ha
fatto. Ho sentito un colpo di fucile: uno dei fuggi-
tivi era stato scoperto e “giustiziato” sul posto. E il
fucile ora era puntato al petto di padre Minghetti.
È rimasto lì, di fronte a quel fucile, ma non ci ha
consegnati, tanto che io sono qui, a raccontarvi di
questo. Non ho altre parole per dirlo se non chia-
marlo miracolo: quegli uomini, per qualche ragione
se ne sono andati lasciando libero lui e noi.
Crescendo mi sono domandato: con quale forza
quest’uomo, che non era nemmeno mio padre è ri-
masto di fronte ad un fucile per me? Chi glielo fa
fare? E ho ricordato gli occhi di mia mamma: ecco
che cosa avevano in comune: Gesù! Padre Min-
ghetti lo nominava spesso. Come se fossero vecchi e
cari amici. Ecco che tornava di nuovo: la forza della
verità! E lo si può seguire. Esser come lui, e liberi:
anche dalla paura di morire. Quindi vivere, vivere
veramente! Crescendo non ho potuto non pensarci!
Una sera sono venuti a chiamarci in camerata, io che
ero già a letto, sentendo dire “vieni, andiamo”, mi
sono alzato, convinto che facessimo un gioco not-
turno, e invece in cortile ci attendeva un bus diretto
all’aeroporto. Da lì saremo poi arrivati in Italia.
Un salesiano, una famiglia
e una biografia
La mia terza traccia è di un salesiano: ci siamo
conosciuti quando io ero ragazzo, giovane anima-
tore all’Oratorio di Trino Vercellese. Lui, Matteo,
studiava teologia alla Crocetta, si preparava a
diventare prete e, il sabato e la domenica, e nei
giorni in cui non “andava a scuola”, veniva mandato
in oratorio da noi, “in apostolato” si dice. Mi ha
coinvolto nell’animazione, nel servire i ragazzi: ri-
cordo in quel periodo mi dedicai con sincera pas-
sione ai ragazzi delle medie che avevamo in ora-
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2.8 Page 18

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LE CASE DI DON BOSCO
«Questo
oratorio è
di tutta la
famiglia
salesiana e
a me è dato
il dono e la
responsabilità
di custodirlo
come un
preziosissimo
tesoro!».
torio. Ho sempre amato molto leggere, di tutto.
Un giorno ho letto la biografia di don Bosco, ed è
stato merito di una suora Figlia di Maria Ausiliatri-
ce, che ha mantenuto una promessa fattami mentre
eravamo in pellegrinaggio per Lourdes… di quel
libro ricordo ancora oggi il titolo: “don Bosco alla
ribalta”. Leggendolo ho capito Matteo, l’Oratorio,
ho trovato finalmente quello a cui avrei potuto so-
migliare: sono innamorato di Francesco d’Assisi, di
Madre Teresa… ma li sentivo fuori portata, ecco:
quando invece ho letto che all’Oratorio di don Bosco
“la santità consiste nello stare molto allegri” mi sono
detto con soddisfazione e con vera pace: ecco! Que-
sto posso farlo anche io! Non solo posso, ma voglio.
Quando poi Matteo ha lasciato l’oratorio ed è an-
dato a Valdocco, di tanto in tanto mi chiamava, e
mi diceva: perché non vieni a trovarmi un gior-
no? E io l’ho fatto: e il giorno è diventato una
settimana, la settimana un mese, il mese un
anno. Ed ora eccomi qua: l’anno è diventato
una vita!
Quarta ed ultima traccia di Dio, che ha
lasciato un segno indelebile: la mia
“famiglia adottiva”. Dopo essere
venuto in Italia con don Min-
ghetti ed aver vissuto con lui e gli
altri ragazzi venuti con me dal
Rwanda a Vercelli, sono andato
in affidamento ad una fami-
glia di Trino Vercellese. Papà
Emor e mamma Marinella: prima di accogliere me
avevano già aperto la loro casa ad altri ragazzi che la
famiglia non l’avevano più o l’avevano “a pezzi”. Un
papà e una mamma con la vocazione di essere “Casa
Famiglia”. Papà Emor e mamma Marinella hanno
5 figli, tutti fratelli per me: ci uniscono un profondo
affetto e una grande complicità. Tutti: dal più gran-
de che oggi ha 40 anni, al più piccolo, che ne ha 20.
E abbiamo una inossidabile nonna di 90 anni.
Il giorno che ho detto loro che andavo via di casa,
per “stare con don Bosco”, la mamma ha detto,
commossa, una cosa proprio da mamma: “ho sem-
pre sognato, pregato, che un giorno uno dei miei
figli mi dicesse di voler diventare prete”.
Sei il vero successore di don Bosco,
come direttore dell’Oratorio
di Valdocco
Certo per me essere alla guida del primo Orato-
rio di Don Bosco, in quella che non solo per noi
salesiani, ma per tutta la Famiglia Salesiana, è un
po’ la culla, “la nostra Betlemme”, lo sento come
un grandissimo onore! Un dono che mi supera im-
mensamente; lo dico sovente anche ai ragazzi che
ho in oratorio, specialmente agli animatori: sento
con percezione chiara che questo Oratorio non è
mio, nemmeno della Comunità salesiana a cui
appartengo e neanche dell’ispettoria. È dei quat-
tordicimila e più salesiani sparsi nel mondo! È di
tutta la Famiglia Salesiana. E a me, a noi, è
dato il dono e la responsabilità di custodirlo
come un preziosissimo tesoro!
Quali sono le difficoltà
e i problemi che devi
affrontare?
In tempo di covid non vale più il “si
è sempre fatto” così. Forse è davve-
ro passato il tempo in cui gli ora-
tori aprivano i portoni e i ragazzi
accorrevano. Costringe a pensare,
a cercare vie nuove, per dare ri-
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sposte a bisogni reali! Ad esempio: siamo sicuri che
tutti i ragazzi del nostro quartiere possano fare sem-
pre serenamente lezione a casa online? Sicuri che ne
abbiano i mezzi, e che il solo stare a casa sia poi così
salutare per loro? E allora perché non immaginare
che l’oratorio possa – diversamente forse da “come si
è sempre fatto” – almeno per alcuni di questi mettere
a disposizione spazi e mezzi, perché possano almeno
frequentare qualche ora di lezione più agevolmente?
Tra i problemi e le difficoltà che vedo all’orizzonte
c’è: una realtà in cui i poveri sono sempre più po-
veri! Dico e mi dico, di dover cominciare a pensa-
re come fare per venire in aiuto all’anziano isolato
che non può andare a fare la spesa… al bimbo che
non può giocare a pallone, ma non ha il tablet o lo
smartphone per giocare a Fortnite per ore… alla
famiglia che non arriva più a fine mese.
Forse però la difficoltà più grande sarà quella di rie-
ducare i ragazzi ed anche noi a relazionarci con per-
sone in carne ed ossa. La sfida che ci attende è quella
di riscoprirci fatti per la relazione in carne ed ossa!
Che cosa sogni per l’Oratorio
di Valdocco?
Che cosa sogno per l’oratorio di Valdocco? Quello
che sognava don Bosco credo: che ogni giovane che
varca queste porte possa sentirsi a casa sua! Sogno
un oratorio in cui i ragazzi non debbano “essere
bravi in qualche cosa” o avere chissà che per es-
ser considerati. Un oratorio in cui basta che siano
giovani per essere amati! Bartolomeo Garelli sa-
peva solo fischiare, eppure don Bosco ancor prima
di conoscerlo, dice ad alta voce schierandosi dalla
sua parte: è un mio amico! Mi ha sempre colpito
come inizia la loro amicizia: due battute, don Bosco
che si rende disponibile ad aiutarlo, e una semplice
preghiera. Nasce così l’oratorio: da don Bosco, un
ragazzo che sa solo fischiare, e Maria!
Sogno un oratorio che sia come quello degli inizi:
che sia non di un singolo ma di una Comunità che
per come vive e lavora insieme, fa fare ai ragazzi
esperienza di Chiesa, e fa desiderare loro di metter-
si nella scia e seguire don Bosco. Sogno, alla fine,
che a Valdocco accada ancora di vedere il sogno
realizzarsi: gli animali che diventano agnelli, e gli
agnelli pastori.
Come sono i ragazzi e i giovani?
Devo dire, a proposito di vedere il Sogno realizzar-
si ancora e ancora a Valdocco, che noi qui abbiamo
fondate speranze. Perché abbiamo bei ragazzi, bra-
vi giovani! Come sono? Di tutti i tipi e di tutte le
culture! Certo in qualcuno “il punto accessibile al
bene”, è da cercare un po’ di più, ma si trova sem-
pre! Scherzi a parte. C’è davvero tanta “buona stof-
fa!” e anche un’ottima équipe educativa! Per questo
ho fondate speranze che con quella buona stoffa
potremo fare “un bell’abito per il Signore”.
La cosa che mi ha colpito di più di questi ragazzi
al mio arrivo: sono immediati e semplici. Sono sta-
ti accoglientissimi da subito. E questo non solo nei
miei confronti: ho iniziato quest’avventura insieme
ad un’educatrice nuova nell’ambiente, e anche lei è
stata accolta allo stesso modo. Ci diciamo spesso che
una delle cose che rende bello stare qui, è proprio la
semplicità di questi ragazzi. È appena qualche mese
che sono qui, ma mi hanno fatto sentire subito a
casa al punto che mi pare di star con loro da sempre:
si riesce senza molto sforzo a ridere, scherzare, come
pure pregare, discorrere di cose serie e profonde e
anche del più e del meno.
«Qui c’è
davvero
tanta “buona
stoffa”
e anche
un’ottima
Equipe
Educativa».
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L’INVITATO
O. Pori Mecoi
P. Manuel Cayo
Ispettore del Perù
I Salesiani sono arrivati in Perù 130
anni fa. I Figli di Don Bosco sono
presenti nelle regioni della costa,
sulle Ande e anche nella giungla
amazzonica e in tutti questi
contesti la grande sfida è sempre
rappresentata dalle situazioni
di maggiore vulnerabilità.
Com’è nata la tua vocazione?
Sono nato nella Patagonia argentina, ovviamente
in una città con presenza salesiana. Nella scuola
“Domingo Savio” ho potuto partecipare a diverse
esperienze associative e apostoliche (gruppo gio-
vanile, gruppo missionario) durante tutta la mia
adolescenza. L’atmosfera oratoriana mi ha gradual-
mente affascinato. Verso la fine del liceo, l’incontro
con un libro spettacolare, appena stampato, “Don
Bosco, una nuova biografia” di Teresio Bosco, ha
finito per conquistarmi per questo bellissimo cari-
sma salesiano... Le vie di Dio!
Come ha reagito la tua famiglia?
Avevo molta paura della reazione dei miei genito-
ri, perché ero già sulla strada per un altro tipo di
studio universitario, ma quando ne ho discusso con
loro, mi hanno sorpreso con due affermazioni: “Era
qualcosa che abbiamo visto arrivare” e “Se tu sei
contento di questa via, lo siamo anche noi”. Così
mi hanno dato molta empatia e libertà. Finora, 36
anni dopo, sono felici perché lo sono anch’io.
Qual è il tuo compito attuale?
Sono ispettore salesiano in Perù da tre anni. Cerco
di accompagnare i fratelli, i giovani, i laici, le co-
munità, i processi, i progetti nel miglior modo pos-
sibile e contando su tante brave persone che fanno
parte del sogno di don Bosco in queste terre.
20
FEBBRAIO 2021

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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Da quanti anni i Salesiani sono in Perù?
I Salesiani sono arrivati in Perù nel 1891, quindi
l’anno prossimo festeggeremo i 130 anni di pre-
senza in questo amato Paese. Il Perù è un Paese
che rappresenta una sfida per i Salesiani. Lungo
il Pacifico c’è la costa caratterizzata da un deserto
continuo in cui le montagne che digradano verso il
mare sono brulle e spoglie. Lima si trova proprio
in questo deserto ed è, dopo il Cairo d’Egitto, la
seconda città più grande al mondo costruita sul
deserto. C’è poi la Sierra che comprende tutto il
territorio delle Ande con cime altissime e popolata
dai Quechua, i discendenti del popolo Inca. La
parte orientale del Paese invece digrada nella conca
amazzonica con clima tropicale e tribù indigene
che si possono raggiungere solo via fiume, non ci
sono strade.
che, per sposarsi, lasciano il figlio dai Salesiani ed
iniziano una nuova vita.
Quali i problemi che devono
affrontare?
Ci sono due tipi di problemi che possiamo classifi-
care come “dall’esterno” e “dall’interno”.
Il primo ha a che fare con la grande disuguaglianza
sociale che esiste nel Paese, la costante minaccia
della corruzione, i maltrattamenti che i giovani
subiscono in generale. Ma la situazione scatenata
ultimamente dalla
-19 e tutte le sue conse-
guenze personali, sociali, economiche, spirituali,
diventa la grande sfida di questo tempo, e – secon-
do me – lo sarà ancora per molti anni.
Quali sono le opere più significative?
La cosa più significativa della nostra presenza in
Perù è la sua varietà. Abbiamo 10 scuole, 9 cen-
tri di formazione professionale, 8 case di Don Bo-
sco per adolescenti e giovani a rischio, 3 aree di
missione (due in Amazzonia e una sulle Ande), 7
oratori-centri giovanili e 5 parrocchie. Le priorità
istituzionali che abbiamo scelto in base al tipo di
lavoro sono tre: Case Don Bosco, Missioni e Centri
di formazione professionale. Ci sono grandi scuole
frequentate quotidianamente da migliaia di allie-
vi, che vanno da quella dell’infanzia alle superiori,
e tante parrocchie, sia nelle città, sia nella foresta
amazzonica con decine e decine di cappelle sparse
in villaggi così remoti che il missionario riesce a
visitare una sola volta all’anno.
Una bella iniziativa che i Salesiani del Perù han-
no avviato da alcuni anni è quella delle “Case Don
Bosco”. Si tratta di convitti affiancati alla scuola o
alla parrocchia salesiana, in cui vengono accolti i
ragazzi più poveri e chi viene dai villaggi più lonta-
ni. Spesso sono ragazzi con problemi familiari, con
i genitori ammalati e impossibilitati a lavorare per il
sostentamento. A volte sono figli di ragazze madri
«La cosa più
significativa
della nostra
presenza
in Perù è la
sua varietà:
scuole,
missioni,
opere
sociali».
FEBBRAIO 2021
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3.2 Page 22

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L’INVITATO
La pandemia
qui ha
colpito duro:
i Salesiani
sono sempre
stati in prima
linea.
zione incarnata nel contesto e nella cultura giovani-
le che lascia davvero un segno sui giovani e li rende
veri discepoli-missionari.
E, in queste ultime settimane, ancora una volta le
attuali esigenze e le conseguenze di questa pande-
mia diventeranno una grande e costante preoccu-
pazione, non per lamentarsi, ma per sfidare al me-
glio la nostra creatività apostolica.
E i tuoi progetti e i tuoi sogni
per il futuro?
I miei sogni e i miei progetti in generale potrebbero
essere riassunti nei tre nuclei che stiamo iniziando
ad approfondire sul cammino della CG28:
aiutare ogni Salesiano ad essere decisamente e
vitalmente in mezzo ai giovani, per offrire pro-
poste di vero significato e, allo stesso tempo,
promuovere il loro protagonismo, accompagnan-
doli e lasciandosi accompagnare da loro. Fare
una scelta reale e decisiva per gli ultimi;
Per quanto riguarda i problemi “dall’interno”, vedo
che il disincanto, la mancanza di motivazione, di
convinzione – e anche di fede – che minaccia diver-
si fratelli, diventa la causa di molti problemi che si
generano a livello fraterno, di impegno, di progetti,
accecando gli occhi o offuscandoli con un grigio
pessimismo.
Quali sono le tue più dolenti
preoccupazioni?
Prima di tutto la vita di ogni Confratello, ma non
come sguardo autoreferenziale, ma come risorsa vi-
tale per rispondere ai giovani e alla nostra missione,
mossa dall’entusiasmo vitale di ogni Salesiano per
la sua vocazione. Anche la sofferenza di tanti gio-
vani a vari livelli. Le sfide di un’educazione a livello
di questi tempi, che dà realmente potere ai giovani
che accompagniamo, le esigenze di un’evangelizza-
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FEBBRAIO 2021

3.3 Page 23

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UN FUTURO PER I “PIRAÑITAS”
Il progetto di Missioni Don Bosco
Nata nel 1993 per aiutare i “pirañitas”, i bambini di
strada che affollano le strade della capitale peruviana,
la Comunidad de Acogida Don Bosco lavora a stretto
contatto con servizi sociali e istituzioni, offrendo ai
minori non solo una casa in cui vivere, con pasti in
tavola ad orari regolari e cure mediche garantite, ma
anche un servizio di supporto psicologico e spirituale,
nonché un percorso di riavvicinamento alle famiglie.
Ricerca, Accoglienza, Socializzazione, Professionaliz-
zazione, Inserimento professionale: sono queste le
tappe messe a punto negli anni dai salesiani della
comunità Don Bosco di Breña, Lima, per garantire il
diritto al futuro dei minori più svantaggiati, in partico-
lare ai pirañitas che vivono in strada. Dopo un primo
contatto e l’invito a partecipare al programma, i ragaz-
zi vengono ospitati nel centro di accoglienza, dove, in
un’atmosfera familiare, ritrovano la fiducia necessaria
a intraprendere un percorso formativo che permetterà
loro di trovare un’occupazione.
Attualmente sono 68, dai 12 ai 25 anni, e ricevono
una protezione integrale, che passa anche attraverso
il rispetto delle norme di prevenzione del coronavirus,
che in Perù sta vivendo una fase di grande aggressi-
vità, complicando una situazione socio-economica già
compromessa.
scommettere su una
formazione (iniziale e per-
manente) veramente tra-
sformante e apostolica, uni-
ficante e non “collegiale”,
incarnata e comunitaria, per-
sonale e congiunta. Una for-
mazione, infine, che scom-
mette sulla vita quotidiana
illuminata dal Vangelo e dal
nostro carisma come risorsa
principale;
continuare a promuovere
una missione condivisa con i
laici (e, al loro interno, con i
giovani) che sia a livello sia
del sogno di don Bosco di
un “Movimento Salesiano”
sia delle sfide educative e pa-
storali di questi tempi in cui
viviamo.
Come sono i giovani peruviani?
È difficile rispondere a questa domanda, perché
la realtà è molto varia, complessa... e perché non
ho molto spazio per farlo in queste righe. Ma in
generale li trovo molto generosi, attenti, dediti,
amanti della loro terra e della loro cultura.
Quest’ultimo punto mi colpisce: la loro capacità di
valorizzare le loro radici e di averle molto presenti è
qualcosa che papa Francesco apprezza molto.
Come sono visti i Salesiani
dalla gente?
Ci apprezzano molto, apprezzano il nostro lavoro e
il nostro impegno, ci identificano subito con l’Au-
siliatrice, infatti in tutte le nostre case la novena
viene celebrata a maggio con una grande parteci-
pazione di persone. La Chiesa apprezza molto il
nostro contributo. Don Bosco è un santo vicino e
conosciuto da molti. Apprezzano la nostra capacità
di creare spirito di famiglia e i nostri progetti di
solidarietà e l’opera dei nostri missionari.
Nel centro di
accoglienza,
in un’at-
mosfera
familiare,
i ragazzi
ritrovano
la fiducia
necessaria.
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3.4 Page 24

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FMA
Petra Slivnjek, Procura Missionaria delle Figlie di Maria Ausiliatrice (da Don Bosco Magazin)
Una scuola d’infanzia
nello Slum
In una delle baraccopoli
più grandi del Myanmar,
a Hlaing Thar Yar, nel loro
centro “San Giovanni Bosco”
le Figlie di Maria Ausiliatrice, oltre
a prestare la loro assistenza alla
prima infanzia, offrono anche
un sostegno familiare completo,
insegnando corrette pratiche
di igiene, i requisiti di una dieta
equilibrata e valori etici e religiosi.
La scuola
d’infanzia e il
doposcuola
gestiti
dalle Figlie
di Maria
Ausiliatrice
sono una
seconda casa
per bambini
e ragazzi.
A Ma Sa Bae Oo, una bambina di cinque
anni, piace andare nella scuola d’infan-
zia. Tutte le mattine la piccola esce con
orgoglio dalla capanna dei nonni per re-
carsi nell’edificio grande e solido della “Don Bo-
sco Children’s Home”, la Casa dei Bambini Don
Bosco. La strada che conduce alla scuola d’infan-
zia è costeggiata da povere abitazioni costruite con
bambù, legno e teli di plastica. Molte poggiano su
palafitte e sotto di esse si raccoglie acqua sporca.
Ma Sa Bae Oo vive con i nonni in una di queste
capanne. La sua mamma ha lasciato la bambina e
suo padre per andare a vivere con un altro uomo;
allora la bambina aveva solo tre anni. Anche suo
padre ha una nuova partner e si preoccupa poco di
sua figlia. I nonni pensano dunque alle sue neces-
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FEBBRAIO 2021

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sità, ma sono molto anziani e possono occuparsene
solo in misura limitata. La loro famiglia si trova in
una situazione di grave indigenza e per la bambina
la scuola d’infanzia è una piccola oasi spensierata.
La storia di Ma Sa Bae Oo è simile a quel-
la di altri bambini assistiti dalle Fi-
glie di Maria Ausiliatrice
a Hlaing Thar Yar, una
delle baraccopoli più
grandi del Myanmar:
la maggior parte dei
piccoli che frequentano
la “Casa dei bambini Don
Bosco” del centro “San Gio-
vanni Bosco” vive in circo-
stanze simili.
Moltissime persone che
vivono in Myanmar si
trovano in condizione di
povertà. Dopo decenni di
dittatura militare, il picco-
lo stato si sta abituando len-
tamente alla nuova situazione,
caratterizzata da maggiore apertu-
ra. Il governo non difende ancora
in modo efficace i diritti umani e
non garantisce il rispetto dell’am-
biente e la tutela dei lavoratori.
La maggior parte della forza la-
voro ha basso reddito, un livel-
lo di istruzione molto limitato e
quindi minime possibilità di ac-
quisire un’ulteriore formazione
professionale. Molti lavoratori
del Myanmar sono impegna-
ti nell’industria dell’abbi-
gliamento in condizioni
disumane e di grande
sfruttamento. I loro sti-
pendi sono estremamente bassi. Per provvedere
alle necessità di base della vita sono spesso costretti
a svolgere molto lavoro straordinario.
Nel 2016 le Figlie di Maria Ausiliatrice
aprirono una comunità in una tra le
baraccopoli più grandi del Myanmar
per aiutare da vicino le persone che
vi abitavano.
La desolazione dopo il ciclone
In aggiunta a tutto questo, nel 2008 il ciclone Nar-
gis ha devastato il Paese e moltissime persone sono
fuggite dai loro villaggi distrutti verso l’area metro-
politana di Rangoon, che conta quattro milioni di
abitanti. Hlaing Thar Yar, un sobborgo di 700 000
abitanti nella periferia a ovest di Rangoon, è uno
dei centri che hanno sofferto in misura maggiore
della devastazione determinata dall’evento distrut-
tivo e dell’afflusso di rifugiati. Oggi è sede di una
tra le baraccopoli più vaste del Myanmar.
Nel 2016 le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno sta-
bilito una comunità in questa povera baraccopoli
per aiutare direttamente le persone che abitano qui,
soprattutto i bambini, i giovani e le donne. Cinque
suore si prendono cura di 80-100 bambini in età
prescolare.
Inoltre, oltre 100 alunni vengono qui al pomerig-
gio e ricevono, tra l’altro, un sostegno scolastico.
Circa settanta bambini seguono anche un cammi-
no di conoscenza della religione cristiana e alcuni
giovani sono aiutati nella ricerca di un percorso di
formazione. Il sabato circa 150 bambini trascorro-
no il tempo libero al centro “San Giovanni Bosco”.
Le Figlie di Maria Ausiliatrice visitano inoltre re-
golarmente le famiglie appartenenti alla parrocchia
e si prendono cura di loro. «Per noi è importante
trasmettere alle persone che vivono qui l’importan-
za di acquisire corrette abitudini in tema di igiene»,
spiega Suor Veronica Nwe Ni Moe, responsabile
della comunità e del centro. Qui l’igiene personale
e il corretto smaltimento dei rifiuti sono partico-
larmente importanti. Dato che non esiste un siste-
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25

3.6 Page 26

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FMA
ma fognario adeguato, nella stagione delle piogge
l’intera area è completamente allagata. Nell’acqua
sporca si trovano germi, zanzare, serpenti e topi.
I pacchi
di generi
alimentari
aiutano le
persone che a
causa della crisi
determinata
dal coronavirus
non hanno più
entrate.
Per i bambini
che vivono
nelle
baraccopoli,
l’istruzione è
un’opportunità
per un futuro
migliore.
Spesso i bambini sono affidati
ai nonni
«La maggior parte dei lavoratori non guadagna più
di dieci dollari la settimana. Vendono verdure e
snack, lavano gli indumenti di altre persone o la-
vorano in fabbriche di articoli di abbigliamento. I
genitori di più della metà dei bambini e dei ragaz-
zi ai quali ci dedichiamo non possono permettersi
di pagare le rette scolastiche, che ammontano a sei
dollari statunitensi al mese. Non possono neppure
acquistare il materiale scolastico necessario o pa-
gare i pasti della mensa scolastica», spiega Suor
Veronica. «L’affitto di una stanza costa 20 dollari
e una stanza accessibile con questa somma ha una
superficie di soli nove metri quadrati e può ospitare
da cinque a dieci persone. Chi non può permettersi
l’affitto costruisce dunque una piccola capanna con
teli di plastica impermeabili e vive per strada».
È questa la situazione di Ma Sa Bae Oo e dei suoi
nonni. E di Mg Toe Moe Aung, un bambino di
quattro anni che fa parte del nutrito gruppo di cui
le Figlie di Maria Ausiliatrice si prendono cura.
«Se sarà possibile, frequenterà la nostra scuola
d’infanzia fino al prossimo anno e poi comincerà il
percorso della scuola elementare», dice Suor Vero-
nica. Anche il suo fratello maggiore, che ha appena
compiuto sette anni, riceve un sostegno nel centro
delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Anche questi due
fratelli sono stati semplicemente lasciati ai nonni,
poiché entrambi i genitori hanno avviato nuove re-
lazioni sentimentali.
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FEBBRAIO 2021
Facciamo del nostro meglio anche
in questa situazione di crisi.
Grazie alle donazioni che provengono
dalla Germania e dall’Austria riusciamo
a fornire generi alimentari
alle persone che vivono qui
Suor Veronica, responsabile del centro

3.7 Page 27

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La loro situazione è precaria: il nonno vende car-
ne di maiale per guadagnare da vivere per la fami-
glia. A causa della sua età è però diventato fragile e
non può andare a lavorare tutti i giorni. Per questo
manca loro anche l’essenziale: la piccola capanna in
cui tutti loro vivono sta quasi cadendo a pezzi. Per
le condizioni in cui vivono e a causa della malnutri-
zione, entrambi i bambini sono molto malati.
Il coronavirus rende ancora più
difficile la vita
E a tutto questo si è aggiunta la pandemia di co-
ronavirus, i cui effetti colpiscono in particolare la
fascia più povera della popolazione: a causa delle
precarie condizioni igieniche che vi regnano, il ri-
schio di contagio nelle baraccopoli è estremamente
elevato. Inoltre per le restrizioni imposte a segui-
to della diffusione del coronavirus molte persone
non stanno lavorando e quindi non dispongono di
entrate che permettano loro di fare la spesa ogni
giorno.
«Le famiglie non hanno da mangiare», dice sem-
plicemente Suor Veronica. E aggiunge: «Anche in
questa situazione di crisi stiamo facendo del nostro
meglio per aiutare le persone che vivono qui e per
stare loro accanto. Grazie alle donazioni che pro-
vengono dalla Germania e dall’Austria riusciamo
a fornire generi alimentari alle persone che vivono
qui».
Le suore offrono agli abitanti della baraccopo-
li riso, olio, cipolle, uova, tonno in scatola, pasta,
peperoncino in polvere, caffè e bevande nutrienti.
Cerchiamo di trovare un equilibrio tra una rispet-
tosa distanza e la sollecita vicinanza. Gli interessati
vengono nel nostro centro secondo un programma
prestabilito per raccogliere le scorte di cibo. Le
Figlie di Maria Ausiliatrice cercano di dedicare a
ognuno tutto il tempo necessario per affrontare ti-
mori e preoccupazioni.
In particolare le suore riscontrano sempre che la
loro scuola d’infanzia è una grande benedizione per
le famiglie: qui i bambini possono giocare, studiare
INFORMAZIONI
Il centro San Giovanni Bosco di Hlaing Thar Yar, a ovest del-
la metropoli di Rangoon, è stato fondato nel 2016. Com-
prende una scuola materna e un doposcuola. Le suore si
prendono cura di circa 100 bambini in età prescolare. Nel
pomeriggio oltre 100 allievi hanno l’opportunità di esse-
re accolti al centro, dove tra l’altro ricevono un sostegno
scolastico. Attualmente cinque suore lavorano instanca-
bilmente qui. In Myanmar le Figlie di Maria Ausiliatrice
hanno cinque presenze, in cui lavorano e vivono ventisette
suore.
ed essere semplicemente se stessi. Molti di loro ci
vanno volentieri, come Ma Sa Bae Oo. Anche mol-
ti genitori e nonni ritengono che il centro sia pre-
zioso, perché sanno che i loro bambini sono in buo-
ne mani durante il giorno, quando devono lavorare.
«Per i genitori è molto difficile veder crescere i loro
bambini in condizioni così precarie», dice Suor Ve-
ronica. «Siamo fermamente convinte che un’opera
educativa completa, offerta con amorevole pazienza
e fornendo l’opportuno sostegno, sia la chiave per
migliorare la vita di questi poveri bambini. E anche
se spesso incontriamo difficoltà, non perdiamo la
speranza.
Un momento
felice: le suore
distribuiscono
dolci.
FEBBRAIO 2021
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3.8 Page 28

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LA NOSTRA STORIA
Arthur J. Lenti
I fratelli di Don Bosco
La famiglia Bosco, detta I Boschetti
Q uando nel 1817 la famiglia si trasferì
nella casetta, essa comprendeva Marghe-
rita Occhiena Bosco (29 anni), la suocera
Margherita Zucca (65 anni) tre giovani
Bosco: Antonio Giuseppe, Giuseppe Luigi e Gio-
vanni Melchiorre (rispettivamente di 9, 5 e 2 anni).
I tre ragazzi Bosco erano diversi tra loro. Giovanni
era vivace, perspicace, fantasioso, intraprendente,
con un grande desiderio di scoprire e imparare;
sembrava che fosse nato per essere un leader. Il fra-
tello Giuseppe, invece, era essenzialmente un gre-
gario. A parte qualche occasione in cui si mostrò
volubile e testardo, era generalmente gentile e di
modi dolci, paziente e riservato. Al contrario An-
tonio, il figliastro di Margherita, sembra che sin
dall’inizio fosse problematico.
Antonio Bosco
Il fratellastro di don Bosco (1808-1849)
I tre ragazzi
Bosco erano
molto diversi
tra loro.
Rimasto vedovo con un bambino di 3 anni, Fran-
cesco Bosco sposò, il 16 giugno 1811, Margherita
Occhiena di Capriglio, da cui ebbe altri due figli
(Giuseppe e Giovanni). Francesco morì l’11 mag-
gio 1817. Antonio si ritrovò così a nove anni orfano
di padre e di madre.
Crescendo si mostrò più difficile. Viene descritto
come disobbediente e irrispettoso nei confronti
della matrigna, nonostante la dolcezza e l’attenzio-
ne da lei prestatagli. In seguito, lo vediamo ostinato
e contrario alla frequenza scolastica di Giovanni.
I due, poi, avevano un carattere incompatibile che
rendeva tesi i loro rapporti. Pare che dopo la morte
della nonna paterna, Margherita Zucca (1826),
Antonio, diciottenne, fosse diventato ancora più
scontroso. D’altra parte, era lui a portare il peso
maggiore del lavoro agricolo. La preoccupazione
che il conflitto in casa potesse diventare più serio e
pericoloso, convinse infine Margherita sull’oppor-
tunità di inviare Giovanni a lavorare come garzone
in una fattoria delle vicinanze.
Antonio firma con il suo nome il certificato di na-
scita dell’ultimo figlio (come si richiedeva a parti-
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re dal 1842), dunque non era del tutto analfabeta.
Il fratello Giuseppe, al contrario, firmò sempre
con una croce e con l’assistenza di due testimoni.
L’immagine che potremmo farci leggendo le Me-
morie di un Antonio grezzo e ignorante andrebbe,
dunque, rivista.
Dopo la spartizione della proprietà familiare, il
22 marzo 1831, Antonio sposò Anna Rosso di
Castelnuovo, da cui ebbe sette figli. Sono i nipoti
di don Bosco dalla parte del fratellastro. Non sap-
piamo in qual modo Antonio potesse mantenere
la propria famiglia con i piccoli appezzamenti di
terreno che aveva ereditato, probabilmente lavorò
anche come bracciante. In ogni caso la famiglia
deve aver vissuto in forti ristrettezze.
Poco alla volta i discendenti di Antonio e di Giu-
seppe lasciarono i Becchi e si spostarono altrove.
Tra il 1891 e il 1926 le loro proprietà ai Becchi
furono o donate o vendute ai Salesiani. Le loro
porzioni della casetta vennero donate nel 1919
(dagli eredi di Antonio) e nel 1926 (dagli eredi
di Giuseppe). Dal 1929 il centro storico, che in-
globa la casetta, la casa del fratello Giuseppe e la
casa Cavallo-Graglia, e gran parte della collina,
inclusa la proprietà Biglione passò nelle mani dei
Salesiani. Il Rettor maggiore, don Filippo Rinal-
di progettava di trasformare l’intera collina in un
santuario in vista della beatificazione di don Bo-
sco (1929).
La piccola casa costruita da Antonio di fronte alla
casetta venne demolita nel 1915 per far posto al
santuario di Maria Ausiliatrice, eretto tra il 1915
e il 1918 per commemorare sia il centenario della
nascita di don Bosco sia l’istituzione della festa di
Maria Ausiliatrice.
Si potrebbe pensare che i due fratellastri non abbia-
no mai più ripreso i contatti tra loro dopo il 1831.
Questo non risponde alla realtà. E più plausibile che
con il tempo si siano in qualche modo riconciliati.
Antonio veniva abbastanza spesso all’Oratorio
per visitare Mamma Margherita e don Giovanni.
Antonio morì quasi repentinamente, il 18 gennaio
1849, a 41 anni, dopo alcuni giorni di un malessere
che non sembrava pericoloso.
Don Bosco, che stava per muoversi alla volta dei
Becchi, ricevette dal fratello Giuseppe l’infausta
notizia. Egli, che non aveva lasciata sfuggir occa-
sione per dimostrare il suo affetto sincero verso il
suo contradditore Antonio, morto che fu questi, si
prese cura sollecita de’ suoi figliuoli. Uno, di nome
Francesco, lo accolse poi all’Oratorio, lo fece eser-
citare nel mestiere di falegname e di lui formò un
buon cristiano. L’altro, rimasto ai Becchi, ebbe da
don Bosco aiuti nei casi di necessità.
Così si vendicano i santi.
Don Bosco affermò di aver sognato Antonio tra
il 1831 e il 1832 e di nuovo nel 1876. Da questi
passaggi si evince che egli non portava rancore
nei confronti del fratellastro. Purtroppo Antonio
nella tradizione biografica salesiana viene ricordato
negativamente, anche se ad un certo punto nelle
Memorie biografiche Lemoyne ne tesse un “elogio”.
Dopo la morte
del papà si
adattarono
a vivere per
13 anni in
quel deposito,
fienile e stalla,
appoggiato ad
un cascinale,
che oggi viene
chiamato la
casetta.
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LA NOSTRA STORIA
Giuseppe Bosco
Il fratello amato (1813-1862)
Il piccolo
“quartiere”
dei Bosco,
oggi. Dove
sorge il
santuarietto
c’era la casa
di Antonio
e subito
accanto
quella di
Giuseppe.
Giuseppe è il soggetto principale di vari episodi
raccontati nelle Memorie biografiche. Appare come
un bambino timido, gentile, a volte caparbio.
“Giuseppe, di un’indole dolce e tranquilla, tutto
bontà, pazienza e oculatezza, seguiva volentieri la
condizione paterna; ma aveva un ingegno sottile per
trarre vantaggio da ogni cosa, anche da quelle che
potevano sembrare poco utili: cosicché sarebbe ri-
uscito un esperto negoziante, se non avesse amato
la vita pacifica dei campi”. Lo ritroviamo al fianco
di Giovanni nell’episodio della vendita del tacchino.
I due fratelli erano molto affezionati l’uno dell’altro.
Giuseppe, per quanto grandi fossero talora le sue
strettezze, nulla mai chiese a Giovanni, che pur gli
era molto riconoscente. Per permettergli di studiare
con don Calosso, Giuseppe gli promise che lo avreb-
be sostituito nel lavoro alla fattoria. Quando si divise
la proprietà di famiglia, decise di stare con Giovanni
e mamma Margherita. Negli anni in cui Giovanni
frequentava la scuola di Chieri o era in seminario,
egli accompagnava la madre nelle visite al fratello.
Cedette a Giovanni la sua parte di eredità perché
potesse dimostrare in Curia di possedere il patrimo-
nio necessario per entrare negli ordini maggiori.
Don Bosco aveva nel suo fratello maggiore una to-
tale e affettuosa confidenza, lo metteva a parte così
delle sue gioie come delle sue pene, e formava con
lui un cuor solo ed un’anima sola. Giuseppe veniva
più volte all’anno in Torino per fermarsi all’Ora-
torio, più o meno lungamente secondo che gli era
possibile. Il suo fine era di godersi alcune ore in
compagnia di Giovanni e di mamma Margherita,
che era felicissima di vedere il suo primogenito.
Aveva ben motivo la buona madre di andar gloriosa
di questo figlio. Egli era profondamente religioso,
solerte e affettuoso padre di famiglia, di cuore ge-
neroso e caritativo e, benché avesse numerosi fi-
gliuoli, sentiva come suoi i giovani dell’Oratorio.
Non contento di spedire ogni anno del suo proprio
provviste di commestibili, nel tempo dei raccolti,
andava in cerca di soccorsi presso i parenti e gli
amici, e sapeva convincerli così bene che riusciva
a caricare vari carri di noci, grano, patate, uva e
mandarli all’Oratorio.
Un giorno, diretto al mercato di Moncalieri per
comperare due vitelli, passò a Valdocco per far vi-
sita al fratello. Ma vista la penuria nella quale si
trovava l’Oratorio che proprio quel giorno doveva
far fronte a debiti pesantissimi, tirò fuori il portafo-
glio e disse a don Bosco: «Son venuto per spendere
300 lire alla fiera di Moncalieri, ma vedo che il tuo
bisogno è assai più urgente del mio. Perciò di tutto
cuore ti cedo questo denaro». Don Bosco aveva le
lacrime agli occhi: «E tu?»
«Aspetterò un’altra volta».
«Ma non sarebbe meglio che tu me li dessi solo in
prestito? Io te li restituirò appena posso».
«Quando mai troverai questi soldi, Gioanin? Sei
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FEBBRAIO 2021

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sempre pieno di debiti. No, no! Te li dono e basta».
Quando compariva nell’Oratorio tutti i giovani gli
andavano incontro con affetto e confidenza come
ad un padre. Lo chiamavano “zio Giuseppe”. Nelle
fattezze aveva molta somiglianza con don Bosco e di
statura era presso a poco eguale. Il suo aspetto ma-
nifestava la bontà del suo gran cuore. Don Bosco lo
presentava sempre con fierezza anche ai più distinti
personaggi. Lo invitava spesso a dare la “buonanot-
te” ai giovani dalla cattedra che di solito usava lui.
Giuseppe, essendo un semplice contadino, faceva un
po’ di resistenza ma poi accettava, e in dialetto pie-
montese, era ascoltato con immenso piacere.
Il 18 marzo 1833, Giuseppe sposò Maria Calosso
(1813-1874). Ebbero dieci figli, dei maschi solo due
raggiunsero la maggiore età: Francesco fu l’unico a
portare avanti il cognome Bosco, Luigi non si spo-
sò mai e diede parecchi dispiaceri a don Bosco per
il suo modo di vivere non proprio esemplare.
Nel 1839, Giuseppe ritornò ai Becchi, dove con i
propri risparmi e con prestiti si costruì una bella
casa davanti alla vecchia casetta.
Durante la fase germinale dell’Oratorio (1844-
1846) don Bosco ritornava ogni tanto ai Becchi per
riposarsi. Nell’estate-autunno 1846, per riprendersi
dalla grave malattia che lo aveva portato a un passo
dalla morte, passò più di tre mesi in famiglia. Nella
casa di Giuseppe ci fu sempre a sua disposizione
una stanza, all’estremo ovest del secondo piano, ac-
canto alle camere da letto della famiglia.
Nel 1848 venne aperta una porta nella parte ovest
della casa e una delle stanze, con il benestare del
Vicario generale di Torino, fu adibita a cappella,
benedetta il 12 ottobre da don Pietro Antonio Cin-
zano, parroco di Castelnuovo. Dedicata alla Ma-
donna del Santo Rosario, la cappella fu il primo
“santuario” nella storia dei Becchi e diventò centro
devozionale del borgo e meta di pellegrinaggio per
i ragazzi dell’Oratorio. Qui Michele Rua ricevette
la veste talare nel 1852 e due anni dopo Domenico
Savio per la prima volta incontrò don Bosco.
Nel 1848, per la benedizione della cappella don
Bosco aveva portato con sé da Torino sedici
ragazzi. La trasferta è considerata come la prima
delle «passeggiate autunnali» che si susseguirono
ogni anno fino al 1864.
Giuseppe era un bravissimo “assistente”. Teneva
d’occhio i giovani perché non si sbandassero per i
campi e le vigne altrui. Era obbedito; ma non man-
cò qualche rara infrazione ai suoi ordini. Un mat-
tino di domenica vide un ragazzetto nel cortile, e
senz’altro lo rimproverò di esser andato nelle vigne.
Il ragazzo negava, ma lui, con il suo sorriso furbo,
replicò: «Non t’accorgi che hai con te la spia? Non
vedi l’erba che è rimasta attaccata ai tuoi calzoni?»
Giuseppe fu al capezzale di Mamma Margherita il
26 novembre 1856. Ascoltò le sue ultime parole e i
suoi consigli e, dopo il suo trapasso, informò don
Bosco, che aveva lasciato la stanza su richiesta della
madre stessa. Poco dopo la morte della madre anche
Giuseppe si ammalò di polmonite durante una
visita all’Oratorio. Don Bosco pregò la Madonna
per la sua guarigione e Giuseppe si ristabilì e poté
ritornare ai Becchi.
Lemoyne racconta che Giuseppe ebbe una pre-
monizione della propria morte quando si recò
all’Oratorio per confessarsi e parlare con don
Bosco di «un certo problema». Ritornato a casa,
sistemò le cose come se fosse certo dell’imminente
morte, sebbene si sentisse in perfetta forma. Una
settimana più tardi si ammalò. Don Bosco corse da
lui. Il giorno seguente, il 12 dicembre 1862, Giu-
seppe morì tra le braccia del fratello.
La decisione
sul futuro
di Giovanni
causò qualche
incomprensione.
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MEMORIE SALESIANE
Jean-François Meurs (da Don Bosco Aujourd’hui)
Don Bosco e il colera
Le epidemie di colera si sono ripetute in Europa per tutto
il xix secolo. Nella vita di don Bosco conosciamo soprattutto
quella del 1854, perché i giovani di Valdocco diventarono
volontari al servizio dei malati. Tra loro c’era anche il
giovanissimo Domenico Savio. Nessuno fu contagiato.
Nel 1854 una nave salpata dall’India portò
il colera in Inghilterra, scoppiò così una
violenta epidemia. Da Londra il contagio
arrivò a Parigi e a Marsiglia. La leggerez-
za delle autorità sanitarie locali permise lo sbarco
anche di navi che avevano a bordo uomini infetti.
L’epidemia arrivò al sud della Francia e perciò in
Italia. Le autorità genovesi non si preoccuparono
di avvisare tempestivamente la presenza del colera
agli altri Stati italiani e il contagio si estese in tutta
la costa ligure e tirrenica fino a Napoli e Palermo.
Il colera è causato da un batterio che attacca l’or-
ganismo e se non contrastato conduce rapidamen-
te alla morte. La presenza del morbo mortale fu
denunciata a Genova a metà luglio 1854. Ormai il
male minacciava Torino.
A Torino l’allarme fu dato il 21 luglio: un manifesto
del sindaco annunciava le precauzioni igieniche da
prendere nelle case, nelle officine e nei negozi. La
città creò dei “lazzaretti” per isolare i contamina-
ti. Quello di Borgo Dora, a due passi da Valdocco,
disponeva di 150 posti letto, con farmacia, cucina,
servizi igienici, mezzi di disinfezione e locali per il
personale di servizio.
Le autorità religiose diedero istruzioni per mo-
bilitare il clero: misure profilattiche e igieniche,
strutture per l’esercizio del ministero ai malati e ai
moribondi, come anche la proibizione di lasciare la
città. I cristiani furono incoraggiati ad implorare
l’aiuto della Vergine “Consolata”, protettrice del-
la città. Bisognava anche evitare qualsiasi raduno
straordinario. Fu abolita la solenne processione del
Corpus Domini.
Don Bosco in azione
Fin dal primo allarme, don Bosco aveva allestito il
suo oratorio per affrontare il contagio. Fece fare dei
lavori nei dormitori, dove erano ammassati un cen-
tinaio di giovani, per distanziare le file di letti. Si
indebitò per aumentare la sua fornitura di bianche-
ria, lenzuola e coperte. Si assicurò che tutti i locali
fossero puliti e igienizzati.
Ma don Bosco credeva anche nell’efficacia dei
mezzi “soprannaturali”: la preghiera a Maria e la
conversione del cuore, evitando il peccato. A quel
tempo la medicina non conosceva ancora le cause
e i rimedi per quella piaga; bisognava contare so-
prattutto su Dio.
La città di Torino registrò più di duemila morti.
L’area di Valdocco fu particolarmente colpita, con
la popolazione decimata. Molte comunità religio-
se si erano impegnate non solo ad amministrare i
sacramenti ai malati, ma anche a fornire servizi di
infermeria a rischio della loro vita. La conferenza
locale di San Vincenzo de’ Paoli con il suo presi-
dente, il conte Cays, amico di don Bosco, era molto
attiva, portando lenzuola, coperte, pane e carne alle
famiglie.
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I giovani si impegnano
Ma il comune era ancora alla ricerca di infermie-
ri volontari. Don Bosco pensava di non aver fatto
abbastanza garantendo la sicurezza della sua casa
attraverso la sua organizzazione. Si appellò ai suoi
ragazzi con l’approvazione delle autorità. Ci fu un
primo gruppo di 14 volontari. Erano giovani: 17,
16, 14 anni. Provenivano da varie “compagnie”, i
gruppi educativi creati da don Bosco con i giova-
ni per animare l’Oratorio. L’obiettivo era quello di
“praticare la carità”. Si affiancarono ai membri del-
la Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli, e quindi
erano supervisionati e sostenuti da quegli adulti.
Don Bosco diede loro severe istruzioni per l’igiene,
e istruzioni pratiche. Quei giovani dimostravano
una grande forza per sopportare il vomito, la dis-
senteria, gli odori, il soffocamento, i volti emaciati
e pallidi, i corpi torturati. I pazienti terrorizza-
ti dovevano essere convinti a lasciarsi condurre al
lazzaretto, che percepivano come anticamera della
morte. Dopo pochi giorni, una trentina di giova-
ni si unirono alla prima squadra di volontari. Tra
essi c’era anche Domenico Savio, arrivato da poco
nell’Oratorio.
Per i loro pazienti, prendevano in prestito dall’Ora-
torio biancheria, lenzuola e coperte. L’aneddoto di
Madre Margherita che dona la tovaglia dell’altare,
resto del suo corredo di nozze, come lenzuolo non
è certo una leggenda.
richiesta dei giovani stessi, creò una “conferenza” di
San Vincenzo de’ Paoli per adolescenti a Valdocco.
L’epidemia tornò nel 1865-1867, colpì tutta l’Italia,
e coincise con la costruzione della Basilica di Maria
Ausiliatrice, inaugurata nel 1869. Solo nel 1865 ci
furono 11 000 morti. Per ragioni di prudenza, don
Bosco rinunciò a predicare il triduo della nascita di
Maria l’8 settembre. Poi, generoso come sempre,
informò il ministro dell’Interno di essere disposto
ad accogliere gli orfani, con la precauzione di met-
terli in quarantena prima di inserirli con gli altri
convittori.
Non dimenticava mai di chiedere prudenza e ri-
spetto per le disposizioni prese dalle autorità.
Il colera ricomparve nel 1884. Ancora una volta
don Bosco sorprese tutti con la sua certezza che le
opere salesiane sarebbero state salvate, a patto che
avessero fiducia in Maria Ausiliatrice.
In agosto, rivolse le sue raccomandazioni a tutte le
case salesiane in Europa e in America. Si potevano
riassumere in tre punti: la preghiera, la prudenza e
la carità. Alla fine dell’allarme, ebbe la soddisfazio-
ne di dichiarare che nessuna casa salesiana, nessun
benefattore dei giovani, nessun fedele di Maria Au-
siliatrice era stato colpito.
Anche san
Domenico
Savio fu tra
i volontari
contro il
colera del
1854.
Le conseguenze del colera
nel 1854
Verso la fine di settembre, don Bosco inviò altri
quattro giovani nel lazzaretto di Pinerolo. Quan-
do l’epidemia si estinse, accolse un buon numero
di orfani, sia per le lezioni durante il giorno, sia per
dare loro un rifugio permanente sotto il suo tetto.
Visitò i rifugi temporanei, accogliendo bambini di
Ancona, Sassari, Napoli e della Sicilia. Dopo que-
sta dura esperienza, che dimostrò ciò che i giovani
potevano fare, per prolungare questo impulso di
impegno al servizio degli altri, e probabilmente su
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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
Autogrill per educatori
2 Lasciare un buon ricordo
«La memoria ci è stata data da Dio per
permetterci di avere le rose a Dicembre»
diceva lo scrittore scozzese James Bar-
rie. In questa sede noi possiamo dire
che la memoria ci è stata data da Dio per permetterci
di ricordarci dell’infanzia nelle tempeste della vita.
In un libro intitolato Il valore dei ricordi dell’infan-
zia, l’autore californiano Norman B. Lobsenz ri-
porta le risposte alla domanda: «Qual è il più bel
ricordo dei tuoi primi anni?» Il figlio stesso dell’au-
tore del libro, intervistato, ha risposto: «Mi ricordo
quando una sera eravamo soli in macchina e tu ti
sei fermato per aiutarmi a prendere le lucciole!»
Il bambino aveva cinque anni. Il padre gli doman-
dò: «Perché ti ricordi di questo?»
«Perché non pensavo che ti saresti fermato a pren-
dermi le lucciole, invece ti sei fermato!»
Per un altro il più bel ricordo è “Il giorno della
scampagnata scolastica quando mio padre, di solito
freddo, dignitoso, impeccabile, si presentò in mani-
che di camicia, si sedette sull’erba, mangiò con noi
e partecipò ai nostri giochi lanciando la palla più
lontano di tutti. Più tardi scoprii che aveva riman-
dato un importante viaggio d’affari per stare con
me quel giorno!»
Lasciare un bel ricordo, anche questo è educare. Un
buon ricordo può salvare tutta un’esistenza.
Lo ha capito quel genio che fu il grandissimo scrit-
tore russo Feodor Dostoevskij il quale era così con-
vinto da avvertire con molta sicurezza: «Sappiate
che non c’è nulla di più alto e forte e sano e utile per
la vostra vita futura di qualche buon ricordo, spe-
cialmente se recato con voi fin dai primi anni, dalla
casa dei genitori. Uno di questi buoni e santi ricor-
di, custodito fin dall’infanzia, è forse la migliore
delle educazioni. E quand’anche un solo buon ri-
cordo restasse con noi, nel nostro cuore, potrebbe
un giorno fare la nostra salvezza».
Nove consigli per mangiare
da genitori intelligenti
1. Puntiamo sulla cena. È più facile che la famiglia
si trovi riunita. Mettiamoci d’accordo perché
nessuno manchi e tutti siano puntuali.
2. Quando si è a tavola non si sente la televisione,
ma si parla, si chiacchiera, si racconta la propria
giornata. Anche il bambino della Scuola dell’In-
fanzia può prendere la parola.
3. Mangiare e restare insieme come famiglia, deve
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essere uno dei momenti più belli della giornata
e della vita. Per questo a tavola si mettono tra
parentesi fastidi e preoccupazioni.
4. Non siamo troppo esigenti sul galateo. Interve-
niamo solo quando è proprio necessario. Meglio
la spontaneità e l’allegria che la troppa pulizia.
5. Perché accorgersi solo quando la minestra sa di
bruciato e non fare, invece, i complimenti alla
cuoca quando è buona?
6. Non è giusto che solo la mamma prepari, serva,
riordini, pulisca. La casa è una comunità non un
ristorante. Ognuno è responsabile della felicità
della famiglia.
7. Quando si mangia non si fanno ‘prediche’ non si
dice: «Qui comando io!» È lecito urlare, di tanto
in tanto, ma ad una condizione: che si possa ur-
lare a turno!
8. Non usiamo il cibo come premio o come puni-
zione: il ricatto non educa.
9. Infine, se ci è possibile, usciamo qualche volta,
andiamo a cena ‘fuori’. È vero che il portafoglio
potrà essere un po’dissanguato, ma per la ‘tenuta’
della famiglia non mancherà un bel risultato!
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«Guardatemi!»
Molti anni fa, Thornton Wilder scrisse una bellis-
sima commedia, Piccola città. Una delle scene dell’o-
pera colpisce invariabilmente gli spettatori. Si tratta
della morte di una giovane signora, Emily, colpita da
infezione dopo aver dato alla luce un bambino.
La conducono al cimitero, e le chiedono: «Emily,
puoi ritornare a vivere un giorno della tua vita.
Quale preferisci?». E lei dice: «Oh, ricordo com’e-
ro felice il giorno del mio dodicesimo compleanno.
Vorrei ritornare al mio dodicesimo compleanno».
In coro i morti del cimitero tentano di dissuaderla:
«Emily, non farlo. Non farlo, Emily». Ma lei insi-
ste. Vuole rivedere la mamma e il papà.
Così cambia la scena, e lei è lì, dodicenne, nel gior-
no meraviglioso del suo ricordo. Scende le scale,
con un bell’abitino e i riccioli ondeggianti. Ma sua
madre è così indaffarata a preparare la torta per il
compleanno che non ha neppure il tempo di guar-
darla. Emily dice: «Mamma, guardami, sono io la
festeggiata». E la mamma: «Benissimo, signorina
festeggiata. Siediti e fai colazione». Emily resta in
piedi e dice: «Mamma, guardami». Ma la mamma
non la guarda. Entra il papà, ed è così occupato a
guadagnare denaro per lei che non l’ha mai guar-
data; neppure suo fratello la guarda perché è troppo
preso dalle sue faccende e non ha tempo.
La scena finisce con Emily al centro del palcosceni-
co, che dice: «Per favore, qualcuno mi guardi. Non
ho bisogno della torta né del denaro. Guardatemi,
per favore». Naturalmente nessuno l’ascolta. Allora
lei si rivolge ancora una volta alla madre: «Per fa-
vore, mamma».
Poi si volta e dice: «Conducetemi via. Ho dimenti-
cato com’erano le creature umane. Nessuno guarda
gli altri. Nessuno se ne cura più, vero?».
Nessuno l’ascolta. Nessuno la guarda.
Ed Emily muore per sempre!
Emily esprime il bisogno fondamentale di tutti i
figli (e di tutti gli esseri umani): «Il bisogno di esi-
stere», il bisogno di essere riconosciuto, di essere
considerato importante.
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Interconnessi...
ma distanti
È innegabile che le nuove tecnologie digitali
in molti casi ci facilitano la vita e ci permettono
di superare le distanze, siamo proprio sicuri
che una conversazione in chat possa sostituire
una chiacchierata in presenza con un amico?
In un’intervista di qualche anno fa, un acuto
osservatore della modernità come il sociologo
Zygmunt Bauman ha efficacemente definito la
realtà virtuale generata dalle tecnologie digita-
li come un “muro di vetro” al cui interno tendia-
mo sovente a rintanarci per sfuggire alla crescente
complessità del mondo che ci circonda.
Il web ha, infatti, l’insolita capacità di semplificare
tutto ciò che nella vita reale appare difficile: basta
Type your name and address: ...
Password: ...
Connected: ...
Perché non faccio caso a dove sto,
anzi lo dò per scontato,
perdendo quello che ho
davanti agli occhi e sempre più spesso
vivo la realtà come se fosse soltanto una replica.
Non conta altro più di quello che clicco,
da quanto non mi vedi con il collo dritto?
Mi muovo in ogni parte del mondo
senza viaggiare, sai
che non ho mai preso neanche un aereo...
un click per aggiungere amici o cancellare contatti,
i sentimenti e gli stati d’animo sono sintetizzabili
in una emoticon, la fredda mediazione dello scher-
mo consente di superare la timidezza ed il pudore
e persino il tempo e lo spazio sono annullati dal-
la sincronia dei bit che ci permette di comunicare
con chi abita dall’altra parte del globo. Una sorta di
comfort zone”, in cui possiamo scegliere chi essere,
a quale community aderire, quali informazioni ren-
dere pubbliche e quali tacere: in altre parole in cui
ci sentiamo liberi di decidere che immagine dare
della nostra identità, non prima di averla ritoccata
e costruita ad hoc, nell’intento di renderla più attra-
ente e desiderabile agli occhi degli altri ed ottenere,
così, l’approvazione di chi più ci sta a cuore.
Ma se, in apparenza, le nuove tecnologie della co-
municazione sembrano abbattere barriere e facilitare
i rapporti, ciò non si traduce in automatico nella pos-
sibilità di instaurare un vero dialogo con chi si collega
dall’altra parte dello schermo. Alle tante “interazio-
ni” accumulate sui social non sempre corrispondono
“relazioni” in carne ed ossa da coltivare nella quo-
tidianità della vita offline. I contenuti, le emozioni
e i pensieri “condivisi” sulle bacheche virtuali del
cyberspazio, nella misura in cui hanno come desti-
natario generico e indifferenziato l’ondivago popolo
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della rete, non implicano necessariamente la ricerca
di forme autentiche di “condivisione” che si nutrano
dell’incontro con l’Altro e con la sua unicità. E as-
sai spesso, dietro la parvenza di una socialità piena e
movimentata, si nascondono nuove solitudini ben più
difficili da riconoscere e far emergere in superficie.
In un recente passato erano soprattutto gli adole-
scenti a cercare rifugio nella rete, nella convinzione
che gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie di-
gitali potessero rispondere meglio al loro bisogno
di comunicare e al loro desiderio di essere “ricono-
sciuti” dagli altri. Ma oggi – anche in connessione
con il particolare momento storico che stiamo vi-
vendo, che ha indubbiamente indotto un’accelera-
zione nel ricorso alla comunicazione virtuale tanto
nell’ambito dei rapporti interpersonali quanto nel
mondo del lavoro, nella fruizione della cultura e
persino nell’organizzazione del tempo libero – sono
sempre più anche i giovani adulti a subire il fascino
della dimensione online, sino al punto di arrivare ad
invertire il rapporto tra reale e virtuale e perdere di
vista il contatto con il mondo esterno, spesso perce-
pito come meno accattivante e gratificante rispetto
alle tante possibilità offerte dal web. E non di rado
fanno a gara con i ragazzi più giovani nel diveni-
re maestri di “scorrimento verticale” e nell’adattare
Nel preferire il vizio alla virtù
rappresento un modello perfetto di schiavitù,
se si diventa già dipendenti in tenera età
certo che poi dopo non ci si libera...
Quando mi parli vedo proprio uno specchio,
nella tua stessa condizione anch'io mi trovo
e mi rifletto
in tutto un elenco di assuefazioni
venute a portarci via gli anni migliori.
Sei hai bisogno di aiuto mi suoni,
ho chiuso gli occhi e acceso un mutuo
per abitare in questo buco;
la luce filtra dalle grate
e i grilli fuori cantano
il disco dell'estate...
Non aspettavo un ospite,
io vivo nel disordine,
non ho più mosso un dito
a parte questo che sta sullo schermo.
Sono campione nazionale
di scorrimento verticale
e in un secondo arrivo al mare,
ma in un cristallo liquido
non ci si può tuffare...
(Samuele Bersani, Scorrimento verticale, 2020)
finanche il proprio modo di pensare alla semplicità
della comunicazione in rete, abdicando inconsape-
volmente a modalità più critiche di interazione e
interpretazione della complessità del reale.
Ma se è innegabile che le nuove tecnologie digitali
in molti casi ci facilitano la vita e ci permettono di
superare le distanze, siamo proprio sicuri che una
conversazione in chat possa sostituire una chiac-
chierata vis-à-vis con un amico, che l’immersione
nella realtà virtuale riesca a generare in noi emozio-
ni analoghe a quelle che sperimentiamo nella vita
reale e che la maggiore “interconnessione” resa pos-
sibile dalla rete sia in grado di produrre autentica
“prossimità” tra gli individui?
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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
“Tutto per voi…
fin l’ultimo respiro”
«Mi costa molta fatica andare attorno,
dare udienze da mattino a sera; far visite
ai benefattori; in certi giorni mi sentiva
molto male per la stanchezza e
per le mie infermità: ma il pensare
a voi mi rende dolce quella fatica».
Maggio
1886.
Stanchezza
e serenità
sul volto di
don Bosco.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore…”
cantava mezzo secolo fa Sergio En-
drigo ed il noto cantautore lamentava
l’affievolimento dei rapporti con una
persona che non si vede e la cui vita non scorre più
sotto i propri occhi. È anche l’esperienza un po’
comune a tutti noi. Ma niente suona di più falso
per ciò che concerneva don Bosco ed i suoi giovani;
anzi si direbbe che quanto più essi erano lontano
da lui, tanto più lui era loro vicino. Ne offriamo in
prova un piccolo saggio spigolando fra le centinaia
di lettere dei suoi ultimi anni di vita.
Scriveva il 5 febbraio 1886 al giovane prete missio-
nario don Carlo Peretto “prefetto” della casa di Ni-
teroi in Brasile: “Se avessi vent’anni di meno, come il
viaggio d’America sarebbe presto fatto! Ma se a tutto vi
è rimedio, pegli anni che passano non ce n’è: quindi pa-
zienza. Non crediate però esser tanto lontani ch’io non
possa trovarmi con voi in certi momenti. E quando si
fa sera e riposo qualche istante in una semioscurità, io vi
passo tutti in rivista uno per uno, vi veggo in ispirito,
parmi sentire la vostra voce, m’intenerisco e prego per
voi, oh! Con quanto affetto, con quanto fervore! Eppoi
vi benedico come se foste tutti davanti a me... come lo
foste il giorno della partenza! In quei momenti il vasto
oceano che ci separa, non è più che una goccia d’acqua;
il Brasile, la Patagonia, Buenos Aires, Montevideo non
sono più che a un passo dalla mia sedia”.
Commovente. Di notte don Bosco sognava i suoi
“amatissimi figli” sparsi nelle desolate e ghiacciate
steppe della “fine del mondo” a civilizzare e evan-
gelizzare tribù selvagge… ma di giorno, maga-
ri verso il tramonto, nell’“ora che volge il disio e ai
naviganti intenerisce il core”, come direbbe il divin
poeta, li vedeva direttamente in azione quasi fos-
sero davanti a lui. Potenza dell’amore che va oltre
lo spazio ed il tempo! Don Bosco chissà che cosa
avrebbe dato pur di essere accanto ai suoi figli mis-
sionari! Ma non ebbe mai la possibilità.
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Oltralpe
Altra occasione. In giro per la Francia, giunto a To-
lone il 20 aprile 1885 don Bosco prese penna, carta
e calamaio e si rivolse ai suoi ragazzi di Valdocco
con queste parole: “Miei cari figliuoli, sono andato
in Francia e voi potete indovinare il perché. Voi di-
struggete le pagnottelle e se io non andassi in cerca di
conquibus il panattiere griderebbe che non c’è più fari-
na e che ha nulla da mettere nel forno. Rossi il cuciniere
porterebbe le mani ai capelli e griderebbe che non sa che
cosa gettare nella pentola. Siccome il cuciniere ed il pa-
nettiere hanno ragione e voi avete ancora più ragione di
essi, così io ho dovuto andare in cerca di fortuna perché
nulla mancasse del necessario ai miei cari figliuoli”.
Potrebbe sembrare semplicemente un modo elegante
e facilmente comprensibile dai destinatari che ben
conoscevano la situazione e le persone citate, ma è
da rilevare il fatto che il don Bosco che viaggia per
la Francia in quel momento è ormai l’ombra di se
stesso, un uomo praticamente sfinito, un vestito lo-
gorato dall’uso, un “miracolo vivente” come lo defi-
nisce un medico francese. Lo confessa lui stesso nel
proseguo della lettera: “È vero che mi costa molta fatica
andare attorno, dare udienze da mattino a sera; far vi-
site ai benefattori; in certi giorni mi sentiva molto male
per la stanchezza e per le mie infermità: ma il pensare a
voi rendevami dolce quella fatica. Perché io penso sempre
all’Oratorio; e specialmente alla sera quando posso avere
un po’ di quiete passo in rassegna i Superiori e i giovani,
di questi ne parlo con chi mi sta vicino, e prego per essi
continuamente. E voi pensate anche a me, pregate per
me? Oh sì certamente perché me lo ha scritto il vostro
Direttore, le cui lettere, colle notizie che mi dava della
casa mi hanno fatto molto piacere”.
Don Bosco è sempre interconnesso con i suoi gio-
vani, vuole sapere tutto di loro, non può vivere
senza. Li ama, li pensa, li sogna, li rende partecipi
delle grazie spirituali e materiali con cui la Madon-
na apre il cuore e il portafoglio dei benefattori fran-
cesi: “Presto incomincia il mese di Maggio e vorrei che
lo consacraste in modo speciale in onore di Maria SS.
Ausiliatrice. Se sapeste quante grazie ha fatte Maria
SS. in questi giorni in favore dei suoi buoni figliuoli
dell’Oratorio! Se lo merita proprio la Madonna che voi
le diate un pegno della vostra riconoscenza”.
E siccome coi giovani bisogna essere concreti ecco
che don Bosco scende al pratico: “Quindi io vi pro-
pongo un fioretto da farsi in tutto il mese e desidero che
lo mettiate fedelmente in pratica. Il fioretto è questo:
Ciascheduno in onore di Maria faccia uno sforzo per te-
ner lontano dall’anima sua il peccato mortale, colla fuga
delle occasioni e colla frequenza de’ Sacramenti. L’anno
scorso abbiamo avuto il cholera in Italia: ma in avve-
nire avremo forse di peggio. Abbiamo dunque bisogno
che la Madonna stenda sopra di noi il suo manto”.
Ovviamente promette anche qualcosa di buono:
Presto io spero di essere fra voi di ritorno e mi racco-
mando al Direttore perché in quel giorno ci faccia stare
tutti allegri in refettorio. Vi piace l’allegria non è vero?
E piace anche a me e desidero e prego per che il Signore
un giorno conceda a voi tutti, conceda a me quell’alle-
grezza eterna che ha preparata per coloro che lo amano”.
Promessa mantenuta
Quarant’anni dopo da Marsiglia il 12 aprile 1885
scriveva al suo ex ragazzo e ora direttore degli studi
a Torino don Giovanni Battista Francesia: “Dirai
ai nostri cari giovani e confratelli, che lavoro per loro e
fino l’ultimo respiro sarà per loro, ed essi preghino per
me, siano buoni, fuggano il peccato affinché tutti pos-
siamo salvarci in eterno. Tutti. Que Dieu nous bénisse
et que la Sainte Vierge nos protège”. Il pellegrino iti-
nerante e questuante don Bosco era letteralmente
sfinito e così non si è neppure accorto di concludere
in francese il suo breve messaggio.
Da qui
all’eternità.
La camera
dove morì
don Bosco.
FEBBRAIO 2021
39

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di febbraio preghiamo per la canonizza-
zione della Beata Eusebia Palomino Yenes, Figlia di Maria
Ausiliatrice.
Eusebia Palomino Yenes nasce
il 15 dicembre del 1899 a Can-
talpino, piccolo paese della pro-
vincia di Salamanca (Spagna).
Dopo un precoce abbandono
della scuola dovuto alla pover-
tà della famiglia d’origine, rag-
giunge dodicenne Salamanca
per trovare lavoro; qui conosce
le Figlie di Maria Ausiliatrice,
che le offrono la possibilità di
prestare il suo servizio presso
la comunità e la impegnano in
umili incombenze domestiche.
Manifestato il desiderio di con-
sacrarsi al Signore nella vita re-
ligiosa, inizia il noviziato a Bar-
cellona nel 1922. Emessi i voti
religiosi il 5 agosto 1924, è poi
assegnata alla casa di Valverde
del Camino, in Andalusia, dove
viene occupata in cucina, por-
tineria, guardaroba, nella cura
del piccolo orto e nell’assisten-
za delle bimbe nell’oratorio
festivo. Suor Eusebia porta a
compimento il suo cammino di
adesione incondizionata al Si-
gnore offrendosi come vittima
per la salvezza della Spagna,
quando, all’inizio degli anni
’30, il Paese è investito dalla
violenza antireligiosa ed anti-
clericale. Con l’agosto 1932 la
recrudescenza delle sofferenze
fisiche mostra il rapido appros-
simarsi della consumazione
dell’offerta di sé. Suor Eusebia
muore nella notte fra il 9 e il 10
febbraio 1935. La fama di san-
tità cresciuta attorno all’umile
religiosa nel corso della sua
vita, e in modo sorprendente
dopo la sua morte, viene uf-
ficialmente riconosciuta dalla
Chiesa, che il 25 aprile 2004 la
dichiara Beata.
Ringraziano
Coronavirus! Una parola che
solo a sentirla fa star male. E
per chi l’ha provata sulla pro-
pria pelle è una cosa terribile.
Purtroppo questo è accaduto
a casa nostra. Mio marito ed io
ci siamo ammalati. Mentre io
con poca febbre e pochi giorni
di letto sto meglio, mio marito
invece, dopo 10 giorni di febbre
alta, è portato all’ ospedale con
l’ambulanza. Le notizie che ci
davano i medici non erano per
niente buone anzi, peggiorava-
no ogni giorno e la situazione
era grave. Nel mio grande dolo-
re perché le cose erano peggio-
rate e gravi, ho pensato subito a
don Costantino Vendrame del
quale mio marito è devoto. Si
inizia subito una novena. Dopo
un piccolo miglioramento regi-
strato il 3 Aprile la situazione è
di nuovo precipitata, mio marito
viene intubato ed è molto grave.
E intanto noi tutti, personalmen-
te ed in comunità, si continua a
chiedere con fede l’intercessio-
ne del Servo di Dio don Costan-
tino. Dall’11 aprile la situazione
Preghiera
O Dio, che hai modellato il cuore
della beata Eusebia, vergine,
sul mistero pasquale del tuo Figlio, fino al dono della vita,
concedi a noi, rafforzati dal suo esempio di umiltà e letizia,
di crescere costantemente nel tuo amore
e nel servizio dei poveri.
Ti supplichiamo di voler glorificare quest’umile tua serva
e di concederci, per sua intercessione,
la grazia che ti chiediamo...
Per Cristo nostro Signore. Amen.
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 1° dicembre 2020 nella Sessione ordinaria dei Cardina-
li e Vescovi membri della Congregazione delle Cause dei
Santi, è stato dato parere pienamente positivo, in merito
all’esercizio eroico delle virtù, alla fama di santità e di segni
del servo di Dio Ignazio Stuchlý, Sacerdote Professo della
Società di San Francesco di Sales (1869-1953).
Il 12 dicembre 2020, presso la Curia vescovile di Tivoli si è
svolta l’Apertura ufficiale dell’Inchiesta diocesana di Bea-
tificazione e Canonizzazione del servo di Dio monsignor
Giuseppe Cognata, (1885-1972), della Pia Società di san Fran-
cesco di Sales, Vescovo Titolare di Farsalo, già Vescovo di Bova,
Fondatore dell’Istituto delle Salesiane Oblate del Sacro Cuore.
Il 16 dicembre 2020 nel Congresso Ordinario della Con-
gregazione delle Cause dei Santi è stata data la validità
all’Inchiesta diocesana della Causa di Beatificazione e Ca-
nonizzazione Rodolfo Lunkenbein, sacerdote (Germania –
Brasile) e Simão Bororo, laico (Brasile) martiri
Il 21 dicembre 2020, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in
udienza Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale
Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause
dei Santi. Durante l’Udienza, il Sommo Pontefice ha autoriz-
zato la medesima Congregazione a promulgare il Decreto
riguardante le virtù eroiche del servo di Dio Ignazio Stu-
chlý, Sacerdote Professo della Società di San Francesco di Sa-
les (1869-1953), nato il 14 dicembre 1869 a Bolesław (oggi Po-
lonia) e morto a Lukov (Repubblica Ceca) il 17 gennaio 1953.
continua a migliorare a poco a
poco ogni giorno. Posso dire con
certezza che dall’inizio della no-
vena ho constatato un continuo
miglioramento fino a quando mi
sono sentita dire dai medici che
il “Virus non c’è più, suo marito
è guarito!” Il 4 Giugno è tornato
a casa con le sue gambe. Anche
se ci vorrà del tempo per ripren-
dersi completamente, è però so-
stenuto da tanta forza interiore e
dalla fede nell’intercessione di
don Costantino.
Anna Maria – S. Martino
di Colle Umberto (Treviso)
40
FEBBRAIO 2021

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Silvio Roggia
Don Italo Spagnolo
Morto a Torino, il 26 novembre 2020, a 79 anni
«Durante le elementari ero un
bambino buono, intelligen-
te, calmo, studioso, un bravo
chierichetto. Il mio amico vice-
parroco pensava di mandarmi
in seminario ma allora costava
troppo. I miei genitori lavora-
vano nelle fabbriche tessili del
Biellese e ai figli degli operai
veniva offerto un mese di colo-
nia estiva al mare, a Vallecrosia
dai Salesiani. Mi sono trovato
bene. Così tra qualche conver-
sazione e qualche lettera con
la famiglia, la decisione fu pre-
sa: cominciai la Scuola Media
nell’Aspirantato Salesiano di
Casale Monferrato nel 1952.
Dopo la terza media bisognava
prendere una prima decisione.
Mi sono confidato con mam-
ma. Mi ha incoraggiato: “Se il
Signore ti vuole prete e Salesia-
no, io non farò altro che ringra-
ziarlo per la tua vocazione”. Nel
1968 venivo ordinato sacerdote
salesiano.
Nel 1980 parte il “progetto Afri-
ca”. Mi sono accostato all’Ispet-
tore e gli ho sussurrato: “Io mi
rendo disponibile per il Proget-
to Africa”. “Mettilo per iscritto”,
mi ha risposto, senza una parola
in più. In camera, ricordo bene,
mi sono inginocchiato per una
breve preghiera e “l’ho messo
per iscritto”. Il giorno seguente
ho consegnato la lettera».
Così don Italo Spagnolo è stato
“seminato” in Africa.
Più che un albero ciò che è nato
in Nigeria dal 1982 in poi è una
vera foresta, non solo in quel
paese, il più popoloso dell’A-
frica (206 milioni secondo le
statistiche di quest’anno), ma
anche negli altri quattro paesi
di lingua inglese dell’Africa Oc-
cidentale dove siamo presenti:
Ghana, Liberia, Sierra Leone,
Gambia. La grande maggioran-
za infatti dei Salesiani che oggi
portano avanti e fanno cresce-
re scuole, centri per ragazzi
di strada, oratori, parrocchie,
laboratori e scuole tecniche,
hanno accolto e fatto germo-
gliare il seme della loro voca-
zione salesiana proprio a Ondo,
la comunità che don Italo ha
fondato e che anno dopo anno
dal 1982 è stata il vivaio delle
vocazioni salesiane per questi
paesi, dove ci sono ora 169 sa-
lesiani (94% locali) in 20 centri,
e 13 novizi.
La prima è quella di avere sca-
vato solchi profondi: più che
solchi fondamenta; tante fon-
damenta! Lo prendevamo in
giro chiedendogli ad ogni nuo-
vo inizio se quella fosse l’ultima
posa della prima pietra, visto
che di laboratori, aule, chiese,
case, ostelli ne ha costruiti dav-
vero tanti. Molto più importan-
te che la semina di prime pietre
è stata la semina dentro i cuori
della gente.
Don Italo ha saputo sempre
cogliere il positivo, la risorsa,
il seme di futuro, senza mai
lasciarsi andare allo scoraggia-
mento, anche quando le situa-
zioni erano veramente difficili,
con gli scossoni che proveni-
vano da continui imprevisti.
Il commento che ho raccolto
dalle sue labbra e che non ho
mai più dimenticato è stato di
sole 3 parole: “Tutto è grazia!”
Non era una battuta, ma la cifra
dello sguardo profondo che ha
animato la sua vita sempre.
Don Italo ha anche sperimen-
tato come i semi diventati ger-
mogli e piantine per crescere
devono essere trapiantati. Di
trapianti ne ha vissuti molti,
sempre impegnativi e non
facili, ma intrapresi con uno
spirito di fede, obbedienza
e povertà. Dopo essere stato
fondatore, iniziatore, costrut-
tore di tutto quello che quel
grande centro di Ondo è stato
e continua ad essere, senza
esitazione ha accettato di pas-
sare in seconda linea e lasciare
le redini ad altri, mentre lui
rimaneva nella stessa comuni-
tà occupandosi di altri servizi.
Dopo qualche anno gli è stato
chiesto di migrare dalla Nige-
ria al Ghana. Ricordo benissi-
mo il giorno della partenza.
Tutto quello che ha portato
con sé dopo 21 anni in Nige-
ria, era una vecchia valigetta
(di quelle che si usavano mol-
to prima che si inventassero i
trolley) che non ha avuto alcun
problema a passare al check-in
come bagaglio a mano.
Lì ha dovuto ricominciare da
capo, imparare una nuova lin-
gua, come direttore e parroco
a Sunyani, nel centro Ovest del
paese. Ha continuato a semina-
re prime pietre fino ad arrivare
poi ai tetti e a completare la
nuova Chiesa parrocchiale, il
noviziato, e tante aule, case per
insegnanti, pozzi e cappelle
nei villaggi rurali affidati alla
missione salesiana. Ricordo
un simpatico episodio quando
finalmente Nana Italo – nana in
Twi, lingua del posto, significa
anziano o capo, ed è anche il
titolo che si dà al parroco – ...
quando Nana Italo finalmente
aveva imparato abbastanza
bene il Twi, una domenica ha
chiesto al catechista del villag-
gio rurale dove si recava quella
volta per la messa se era me-
glio che usasse l’inglese o il
Twi per la liturgia e per il com-
mento al vangelo. Il catechista
che traduceva ha risposto: “Fai
pure come credi tanto qui non
capiscono né l’uno né l’altro”.
La maggioranza infatti era
composta da migranti del nord
del paese che parlavano altri
dialetti.
Ma don Italo non è stato soltan-
to un uomo di imprese grandio-
se realizzate con mezzi super
essenziali, fondazioni, prime
pietre o nastri da tagliare. È sta-
to un seme di amicizia capace
di entrare in qualunque tipo di
terreno. Ha saputo relazionar-
si con tutti, ambasciatori e Re,
come con la gente più comune
nei villaggi più remoti. Ha sa-
puto lasciare una traccia nel
cuore di tanti giovani e come
ha detto in un’intervista: «Vivo
con gioia ed entusiasmo la mia
vocazione salesiana, come agli
inizi. La vocazione salesiana è
onnicomprensiva: ci dà il senso
di Dio e di lavorare incondizio-
natamente per il suo Regno,
totalmente liberi; ci dà la gioia
della comunità che ci sostiene
in ogni circostanza; ci offre un
campo d’azione stupendo: stare
e lavorare con i giovani ed esse-
re vicino alla gente con lo spirito
di don Bosco gratifica immensa-
mente. Ci si dona, ci si sacrifica,
si ama e si è ricambiati».
FEBBRAIO 2021
41

5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
DEFINIZIONI
ORIZZONTALI. 1. Il nome dell’attore
Efron - 4. Località balneare della riviera
del Conero - 9. Vittorio noto critico d’Arte
- 14. Raganella arborea - 15. Il Flaiano
del Diario degli errori - 16. Risuonano
nelle valli - 17. Ancona (sigla) - 18. E
inoltre - 20. Treno ad Alta Velocità (si-
gla) - 21. Genere cupo di romanzi e
film - 22. Sono doppie nell’accetta - 23.
XXX - 25. La fuga di Maometto - 27. Il
patriarca che salvò la fauna del mondo -
28. Tra Paperon e Paperoni - 29. XXX
- 32. Importante fiume asiatico,terzo per
? lunghezza - 34. ... Beta amico di Topoli-
no - 36. La Società che si occupa di gio-
chi a premi, pronostici e concorsi - 37.
XXX - 39. Panno simile al feltro - 40. La
?
La soluzione nel prossimo numero.
New ... corrente psicologico-spirituale di
fine ’900 - 41. Le vocali nell’orto - 42.
UN ERRORE GRADITO
Segue din, don, ... - 43. La sottile fanghi-
glia che si deposita dopo un’inondazione
- 45. L’Iliade ne racconta gli ultimi gior-
Mamma Margherita, la madre di Giovanni Bosco, ripeté tante volte al fi-
ni di assedio - 48. A te - 50. Un tipo di
glio che era stato messo al mondo nel XXX, ossia il 15 agosto (del 1815),
bastimento che salpa per riempire le reti.
festa dell’Assunta. E per tutta la vita don Bosco, non senza un po’ di orgo-
glio, disse appunto di essere nato in quella data e che per lui si trattava
di una coincidenza davvero gradita. In effetti, però, le cose non stavano
esattamente così: infatti, andando a verificare nei registri parrocchiali la
nascita è riportata il 16 agosto. Il motivo di questa incongruenza anche
se all’apparenza potrebbe sembrare un banale errore di scrittura, una distrazione da una o
dall’altra parte, dei genitori o del parroco, è però di tutt’altra natura. Si tratterebbe di una
consuetudine in uso in quegli anni in quanto i parroci erano alquanto esigenti verso i fedeli in
attesa di lieti eventi. Era richiesto che il neonato venisse battezzato al più presto, al massimo
nelle ventiquattro ore successive al parto. Si sa che persino la nascita del grande Giuseppe
Verdi fu dichiarata con qualche giorno di ritardo (complice anche la redazione degli atti in lin-
gua francese, considerato che Busseto ricadeva nella giurisdizione dell’Impero napoleonico).
Ma molto spesso, o perché il parto era stato travagliato o perché il clima inclemente sconsi-
gliava di uscire, i padri tendevano a rimandare l’uscita e il sacramento e per non suscitare le
Soluzione del numero precedente
ire del parroco, con relativi rimproveri, posticipavano
di uno o due giorni la dichiarazione della data di na-
scita. Per molte persone, soprattutto le meno istruite,
non contava la data esatta, un giorno in più o in meno
VERTICALI. 1. Le ... Follies di Broadway
dei primi anni del ’900 - 2. Una difesa
naturale dell’Italia - 3. Il primo di 365 - 4.
Nega a Berlino - 5. Articolo indetermina-
tivo - 6. Menta senza vocali - 7. Lo spiazzo
della fattoria - 8. Il Decamerone ne racco-
glieva cento - 9. Scarto, residuo - 10.
Uccelli con un vistoso ciuffo erettile sulla
testa - 11. La “A” della RAF - 12. Quello
da seta è detto filugello - 13. Non suddi-
visa - 16. Ente fondato da Enrico Mattei
nel ’53 - 19. Sono 24 in un giorno - 24.
Carducci scrisse quelle “barbare” - 26.
Armani stilista (iniz.) - 27. Precede il deci-
mo - 30. Quello orale è a voce - 31. Una
megalopoli della Nigeria - 33. La nota
che può essere “di petto” - 35. Squa-
dra, gruppo di lavoro - 36. Deposito a
non aveva poi tanto valore. L’importante era sopravvi- torre per cereali - 37. Lo è il Tirreno - 38.
vere al primo anno che si portava via il venticinque per Conosciuti - 44.Al centro della pipa - 45.
cento dei bambini, e ai quattro anni che seguivano, Il Terence del Cinema (iniz.) - 46. Adesso
che si portavano via un altro venti per cento.
in breve - 47. Avanti Cristo - 49. Ciò che
preme all’egoista.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F. Disegno di Fabrizio Zubani
La coperta
L
a piccola coperta bianca che
lo aveva scaldato nella culla
non lo aveva lasciato. Era
minuscola, un po’ lisa, e lo accompa-
gnava dovunque. Se proprio era
costretto a starle lontano, il bambino
pretendeva che il piccolo rettangolo
di stoffa bianca fosse in un luogo
visibile.
Piegata o arrotolata nello zainetto
colorato lo seguiva a scuola. La pic-
cola coperta bianca era come la sua
ombra. Quando, dopo mille insisten-
?
ze, la mamma riusciva convincerlo
a mettere la coperta in lavatrice, il
bambino si sedeva inquieto davanti
all’oblò dello sportello e aspettava,
senza perderla d’occhio un istante.
La sorellina di poco più grande lo
canzonava per questa mania, ma al «Di sicuro».
bambino non importava. La coperta «Tu però stai attento. C’è il
era il suo talismano segreto, il suo paracadute?»
scudo, la sua protezione.
«Ma sì, bimbo mio».
mamma. Ho dato a papà la mia
Un giorno, il papà annunciò che per Il padre partì e l’aereo arrivò in
coperta: non gli succederà niente».
il lavoro doveva affrontare un lungo orario.
viaggio in aereo.
Per il bambino era una novità.
Si sistemò in albergo, ma quando
aprì i bagagli rimase di stucco.
Chi ama protegge.
La vigilia della partenza, trascinando In cima a tutto, nella valigia c’era
Proteggere è la più bella voce
la sua coperta, seguì preoccupato
tutti gli spostamenti del papà, fis-
sandolo con apprensione durante la
preparazione della valigia.
la piccola coperta bianca del suo
bambino.
Allarmato, telefonò immediatamen-
te alla moglie: «È capitata una cosa
del verbo amare. Anche Dio
la pensa così: «Il Signore darà
ordine ai suoi angeli di proteggerti
«Papà, non cadono mai gli aerei?» terribile, non so come sia potuto
ovunque tu vada.
«Quasi mai…»
«Quello che prendi tu è un aereo
bello grosso, vero?»
«Certo. Il più grosso di tutti».
succedere, ma la coperta del bam-
bino è qui nella mia valigia! Come
facciamo?»
«Stai tranquillo. Poco fa il bambino
Essi ti porteranno sulle loro
mani e tu non inciamperai
contro alcuna pietra.
«E sta su anche se c’è la bufera?»
mi ha detto: Non preoccuparti,
(Salmo 91, 11-12)
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43

5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.