Nelle Orme di San Paolo - Lectio su Gal 1, 13-17

Lectio su Gal 1,13-17


Rivelare suo Figlio in me’,

contenuto della esperienza pasquale di Paolo




Scrivendo ai galati, venti anni dopo la sua ‘conversione’, Paolo dovette ricordare, ancora una volta, l’accaduto sulla via di Damasco. Non esprime questa confessione come confidenza, è piuttosto un argomento; non parla a neofiti fedeli, ma a “uomini stupidi” che “in fretta” stanno abbandonando la grazia di Cristo e passano ad un altro vangelo (Gal 3,1; 1,6).



  1. Per capire il testo



Fondate dall’apostolo poco prima (At 16,6; 18,23), le comunità della Galazia lo avevano accolto “come un angelo di Dio, come Cristo Gesù” (Gal 4,14) e avevano creduto alla sua predicazione ricevendo lo Spirito e con tanti grandi portenti (Gal 3,2.5). Il primo fervore, purtroppo, non si mantenne a lungo (Gal 1,6): la visita di alcuni che presentarono “un altro vangelo” (Gal 1,7) mise in forse la correttezza del vangelo predicato da Paolo e, persino, la sua legittimità apostolica. La ‘crisi galata’ farà scoppiare nell’apostolo la più smisurata e sgradevole reazione tra quelle documentate nel suo epistolario (1 Gal 7-9; 4,17-20; 5,7-12; 6,12-14).



Contesto immediato


Per difendere, dunque, il suo ministero Paolo si presenta “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1); e come apologia del vangelo predicato in Galazia afferma senza esitare di non averlo “ricevuto né imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,12). L’apostolo può dare per scontato che i galati conoscevano bene i fatti (Gal 1,13.22): quello che dice – e come lo dice – focalizza la loro attenzione su quanto per Paolo è decisivo: Dio è all’origine del suo apostolato e il Figlio di Dio è l’unico contenuto del vangelo che predica (Gal 1,11-12). Quanto dichiara, e in modo enfatico, dimostra la sua indipendenza apostolica e l’origine divina del suo annuncio.



Il testo


Per rafforzare tutte e due le asserzioni, si mette a narrare cosa aveva fatto prima e dopo l’incontro con il Risorto, senza fare una vera cronaca dell’accaduto. Ê il modello che utilizza pure in Flp 3: distingue bene tra la tappa precristiana dai primi passi dopo l’accettazione di Gesù come Signore, il suo passato di spietato persecutore (Gal 1,13-14) e il presente di missionario instancabile (Gal 1,15-24).


Tutte e due le parti del racconto sono credibili, ma sommarie, centrate sulle ‘condotte’, quella giudaica e quella cristiana, di Paolo; l’apostolo presenta i fatti senza abbellirli, né cerca la benevolenza dei lettori. Mentre prima non voleva che la rovina della chiesa, adesso si dedica completamente alla sua diffusione. A differenza di Flp 3, che mette più a fuoco la portata soggettiva dell’accaduto, Gal 1 svela un dato nuovo, più obiettivo e fondamentale: Dio è stato l’attore del suo cambiamento. Esso non consistette tanto in una trasformazione della condotta, né in un mutamento di fede: “Dio si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,16).



Antecedenti:

un tempo di crudele persecuzione della chiesa (Gal 1,13-14)


Paolo non sembra vergognarsi del suo passato, quando ormai è divenuto apostolo riconosciuto, ne parla ai galati. Non doveva pentirsi di essere stato un giudeo osservante, zelante cultore delle tradizioni del suo popolo e intransigente con che non le osservava. Mai si è manifestato imbarazzato o colpevole; proprio perciò, sarà più sincera e autorevole la sua posizione: ereditare una fede e delle tradizioni che non portano a Cristo non serve a nulla.



13Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi, 14superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito come ero nel sostenere le tradizioni dei padri.


Noto ai lettori, Paolo non nasconde il suo passato. Piuttosto, e per mettere più a fuoco quanto dirà dopo, lo menziona, riducendo la tappa giudaica della sua vita – metà circa! – a una persecuzione senza misura della comunità di Gerusalemme; sembra riconoscere di non aver fatto null’altro, come ricorda Luca, dal tempo della sua giovinezza (At 7,59; 8,1; 22,20; 26,10). È, infatti, l’unico dei primi persecutori della chiesa che viene ricordato per nome: “Saulo intanto infuriava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione” (At 8,3).


Neppure qui Paolo svela le ragioni di una condotta così brutalmente anticristiana. Non gli interessa giustificarla. Lascia affermato, questo sì, il suo proposito (devastare la chiesa di Dio), l’efficacia del suo intervento (eccellere al di sopra della maggiore parte dei coetanei ), e il motivo più personale (l’appassionato zelo delle tradizioni patrie). Se perseguitava fieramente i seguaci del Cristo non era perché fosse un sanguinario o un malevolo, ma perché, convinto osservante, non sopportava defezioni né deviamenti dalle fede tradizionale. Da questa fedeltà estrema alla legge lo liberò Dio stesso.


Conseguenze:

chiamato a conoscere il Figlio e ad annunciarlo tra i gentili (Gal 1,15-17)


15Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque, 16di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili, subito, 17senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco


Non solo nell’epistolario paolino, ma neanche in tutto il NT si trova una descrizione dell’accaduto a Damasco che superi, oppure sia paragonabile, a questa annotazione biografica. Proprio perciò risulta alquanto scioccante che Paolo abbia dato più rilievo a quanto fece lui ‘subito’ dopo essere stato chiamato, recarsi in Arabia e ritornare poi a Damasco , che a quanto aveva fatto Dio con lui, sceglierlo, chiamarlo, mostrargli suo Figlio e convertirlo in suo apostolo.


Se non di più, a un livello sintattico, l’accento dell’espressione ricade maggiormente sulla conseguenza, l’evangelizzazione immediata, anziché sul fatto stesso, la benevolenza di Dio che gli fece conoscere Gesù come suo Figlio. Paolo non si presenta come il soggetto attivo, ma come il beneficiato ricevitore di un intervento, tanto gratuito quanto inaspettato, di Dio in lui. Se l’attuazione di Dio è qualcosa di obiettivo, viene dal di fuori, la realizzazione accade nel suo intimo, e diventa una esperienza tutta privata: la si può documentare soltanto per i risultati che produce. Paolo la propone come uno sperimentare Dio che adesso conosce come Padre del Risorto, o meglio come un darsi a conoscere da parte di Dio – svelarsi, rivelare in modo definitivo – la sua paternità di Gesù. A questa conoscenza ‘indotta’ da Dio – non è arrivato con le sue capacità né per la sua fedeltà, è stato premiato da Lui. Questo è il motivo del suo apostolato immediato: Dio ha agito in lui in modo imprevisto, e lui subito ha agito tra i pagani. Dio si è identificato come Padre di Gesù e Paolo si sente identificato in mezzo ai pagani come suo inviato.

Paolo non divenne un uomo meno cattivo, né più zelante; in lui non ci fu un cambio di condotta né l’abbandono della fede giudaica. Dio gli diede un ‘sapere’ nuovo: venne a conoscere l’identità vera di Dio (Padre di Gesù) e in essa gli fu scoperta la vera identità di Gesù (Figlio di Dio). E questa conoscenza, tanto era nuova che divenne definitiva (‘apocalittica’), la sentì come benevolenza divina a suo favore; la vide come chiamata che riempì Dio di soddisfazione, di compiacimento. Dio si sentì bene quando lo chiamò e gli rivelò di essere il Padre di Gesù. L’incontro con il Risorto – ricorda Paolo ai galati – si realizzò come conversione, fu una doppia (ri)conoscenza: sapere che il Dio di Israele era in realtà Padre di Gesù (Gal 1,16), e sapersi da lui inviato ad annunciarlo ai gentili (Gal 1,17).


Tale confessione, centrale per la comprensione dell’accaduto, viene preceduta da due formulazioni, participiali nell’originale, le quali integrano la concezione di Dio che Paolo aveva ricevuta: Lui è “Colui che lo scelse fin dal seno materno” e “Colui che lo chiamò con la sua grazia” (Gal 1,15). Scegliere, separandolo per sé, prima ancora di essere nato e chiamarlo alla vita sin dal ventre materno sono espressioni che sono servite per narrare vocazioni profetiche (Ger 1,5; Is 49,1); Paolo le considera appropriate per descrivere la sua esperienza e, perciò, si presenta profeta, pure lui, eletto da Dio. In più, riconosce adesso (mentre scrive ai galati), che da sempre, persino da quando non era ancora nato, Dio lo aveva scelto e destinato come evangelizzatore dei pagani; chiamandolo alla vita, lo chiamò all’apostolato. Tutta la sua vita, compresso il lungo periodo di zelante giudeo e accanito persecutore, era stato sotto la benevolenza divina; se ne rese conto, è vero, soltanto quando conobbe Cristo, quando si sentì inviato ad evangelizzare i gentili.


Dio essendo stato gratuito con Paolo, lo ‘educò’ alla gratuità nella missione, liberandolo dal servizio della legge per servire il Signore Gesù, il Figlio di Dio. Poiché la sua vita di persecutore non impedì a Dio di farlo diventare ‘apostolo dei gentili’ (Rm 11,13), Paolo capì che d’ora in avanti la sua vita non avrebbe avuto altro compito, né altro senso, che annunziare Cristo, e questi crocifisso (1 Cor 2, 2): “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo” (1 Cor 9,16).



  1. Per illuminare la vita



La ‘conversione’ di Paolo fu, oltre che un repentino cambio di ‘mestiere’ (da persecutore a propagatore), primo et per se una esperienza di Dio. Da essa nacque e in essa attecchì la coscienza apostolica di Paolo. Dietro la mia vocazione c’è una esperienza personale di Dio, previa e immeritata? Potrei pure io ‘giustificare’ l’apostolato che svolgo con una scoperta di Gesù, figlio di Dio? Su cosa poggio la mia chiamata, dove questa trova conferma ed energia?


Paolo immagina il Dio che lo ha chiamato come un Dio che si è compiaciuto chiamandolo: Dio ha ‘trovato’ soddisfazione, compiacenza, contentezza quando ha fatto si che Paolo trovasse Gesù e l’accettasse come Figlio suo. Conoscere Gesù e riconoscerlo Figlio di Dio rende ‘felice’ Dio Padre. Questo fatto fa ‘felice’ anche me? Sono cosciente che conoscere Cristo è sempre una grazia che Dio mi fa e un ‘piacere’ che Lui si concede? Perché allora non ambire altro che la ‘sublime conoscenza di Cristo Gesù’ (Flp 3,8)?


Dopo un tempo di vita apostolica, quando scriveva ai galati, Paolo ha ‘visto’ tutta la sua vita – anche il tempo in cui perseguitava la chiesa di Dio – come parte e camino di un unico progetto di Dio. Perché io, se apostolo di Cristo, non riesco a capire tutta la mia vita come un’ammirevole storia di salvezza, anche quando non ne ero cosciente o non sono stato all’altezza della mia missione? Vocazione alla vita e vocazione apostolica coincidono nel cuore di Dio; come farò io per renderle compatibili, anzi inseparabili, nel mio cuore?


Paolo ebbe coscienza di essere stato inviato da Dio nel momento in cui ha sentito Dio; il suo cambio di vita fu il risultato del cambiamento – da lui percepito – in Dio: dal Dio d’Israele al Dio del nostro Signore Gesù Cristo. Per diventare quell’apostolo che Dio spera da me, per realizzare la grazia che mi ha fatto, non dovrò di ‘cambiare’ l’idea – la relazione personale – che ho di Dio? È in Dio, un Dio gratificante e compiacente, il motivo del mio apostolato?