Nelle Orme di San Paolo - Lectio su Flp 3, 4-16

Lectio su Flp 3,4-16


Sapersi conquistato da Cristo,

cuore della esperienza pasquale di Paolo




Paolo non ci ha lasciato un vero racconto del suo incontro con Cristo sul cammino di Damasco. Nelle sue lettere ci sono allusioni – scarse ma pregnanti - alle conseguenze, mai però un resoconto dell’accaduto. Di sicuro lui non lo avrebbe presentato in nessun caso come una ‘conversione’: né pensò di ‘cambiare’ di fede, né volle migliorare la ‘condotta’; rimase fiero giudeo e cominciò ad essere giudeo ‘messianico’, cioè cristiano (At 11,26).


Ogni volta che ne parla – questo è veramente degno di nota – lo fa costretto dalle circostanze, in polemica con i suoi detrattori, per difendere la missione apostolica e il ‘suo’ vangelo (1 Cor 9,1; Gal 1,13-16; Fil 3,7-11). Essendo la controversia, spesso aspra, il contesto e il motivo, le sue ‘confessioni’ sono confidenze ‘rubate’ più che relazioni obiettive dell’accaduto: Paolo riferisce non quello che capitò, quando d’improvviso trovò il Signore, ma quanto gli capitò. Il che per noi è più rilevante: non fa cronaca dei fatti, ma testimonia la sua esperienza: in quell’incontro divenne apostolo. Tra i testi in cui accenna all’ evento, Fil 3,4-14 è quello più personale ed intimo.



  1. Per capire il testo



Contesto inmediato


Dopo aversi lagnato della sua solitudine e la nostalgia che sente per i filippesi, Paolo ha promesso loro di inviare Timoteo e di fare ritornare Epafrodito (Fil 2,19-3,1a). In modo inaspettato, e senza motivo esplicito, l’apostolo abbandona il tono confidenziale e diventa aspro e violento: avverte i suoi cari fratelli del pericolo che rappresenta, in mezzo a loro, un gruppo che postula la circoncisione come necessaria per il cristiano (Flp 3,1a-2).



1bA me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose: 2guardatevi dai cani, guardatevi da cattivi operari, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere.


Paolo sembra ritornare a un tema noto ai suoi lettori (3,1b). L’avvertenza, tre volte ripetuta, è assai grave; il tono, aspro; gli argomenti, esagerati, traspirano scarsa misericordia. Scredita gli avversari con sarcasmo; gli insulti sono pungenti: cane (animale impuro, cf. Mt 7,6; 2 Pt 2,2) è un dispregiativo usato dai giudei per parlare dei pagani (Mt 15,26; Ap 22,15); cattivo operario identifica i falsi apostoli, gli agitatori senza invio (2 Cor 11,13); il suo programma viene diffamato ingiustamente e oltraggiosamente: non hanno cercato la circoncisione, ma la mutilazione (cf. Gal 5,12), una pratica proibita tassativamente dalla legge (Lv 21,5; 1 Re 18,28)


Proprio per abbattere la base della presunta superiorità giudea, i pretesi privilegi razionali (3,4-6), Paolo menziona, per primo, la loro comune esperienza cristiana (3,3):


3Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, 4sebbene io possa confidare anche nella carne…



Definiti gli antagonisti con tre affermazioni infamanti, Paolo descrive i credenti – lui tra di essi – con tre attuazioni caratteristiche:

rendere culto, adorare, servire Dio in spirito è l’opposto di lavorare nel suo regno al servizio proprio; l’attività apostolica non rende dei benefici (Rm 1,9);

gloriarsi in Cristo è in contrasto con vantarsi nella carne (2 Cor 11,18). Carne è qui la debolezza umana, travestita come autosufficienza (Rom 1,3) poiché poggia sul compimento della legge. L’esistenza umana, carnale, presa in sé stessa non è cattiva: è creazione di Dio, ma rimane fragile e facile occasione di peccato. Solo Cristo, mai la carne – qui metonimia della circoncisione – può assicurarci la salvezza.


C’è poca logica nell’argomentazione, ma resta indovinata la polemica esautorante dei suoi oppositori; Paolo reclama per se gli stessi titoli, se non maggiori, di cui essi si vantavano.



Il testo


Difendendo i filippesi, difende il suo operato. E fa appello al suo vissuto più intimo, ad un’esperienza tutta personale e intrasferibile; così mette se stesso come argomento principale.


Parla del suo incontro con il Risorto, senza fare alcuna cronaca dei fatti, che, peraltro, potevano essere ben conosciuti dai lettori. Mette in risalto i risultati che produssero nella sua vita: non racconta il passato, testimonia la sua permanente efficacia nel presente; attesta cosa ha vissuto quando – e perché – si imbatté con Cristo vivo. E lo fa parlando di un prima di e di un dopo quell’incontro, delineando gli antefatti e le conseguenze.



Antecedenti


Se qualcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui:

5circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge;

6quanto a zelo, persecutore della chiesa;

irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.

Sembra verosimile che gli oppositori dell’apostolo avessero accennato alle loro impeccabili ‘credenziali’ all’interno del giudaismo nell’argomentare a favore della circoncisione. Perciò Paolo ha detto di aver ragioni, pure lui, per ‘confidare nella carne’. Non rinnega, dunque, il suo passato e il suo presente giudeo. In più, accetta la sfida degli avversari e dice di avere più ‘titoli’ che loro su cui vantarsi:


ebreo di nascita: Circonciso secondo la legge di Mosè (Lv 12,3; Lc 2,21), membro del popolo di Dio, appartenente alla benemerita tribù di Beniamino, l’unica rimasta fedele al casato di Davide. Da esso sorse il re Saul, di cui porta il nome (At 7,58).

ebreo di cuore: nella comprensione e nell’applicazione della legge, fariseo; ascritto, dunque, alla ‘setta’ che meglio seguiva la legge, distinguendosi per lo zelo nel praticarla nella vita ordinaria; accanito custode delle tradizioni e persecutore zelante di quanti le abbandonavano (Gal 1,12-23; 1 Cor 15,9): ‘superavo nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali’ (Gal 1,14). Confrontato con la legge, la sua condotta era incensurabile.


Giudeo, ‘orgoglioso’ di sé, osservante fanatico della legge, in Paolo non alberga il minimo dubbio sulla coerenza e sulla bontà della sua vita. In quanto afferma non c’è alcun indizio che segnali un punto d’incertezza nella sua integrità di fede personale, o una parvenza alcuna di fragilità morale né tracce di coscienza tribolata: Paolo, già apostolo, ricorda il suo tempo trascorso da giudeo come una vita giusta secondo la legge di Dio (cf. Mt 10,20).



Conseguenze


1.Un cambio ‘brutale’ nel valutare la realtà


a 7Ma quello che poteva essere per me un guadagno,

bl’ho considerato una perdita a motivo di Cristo.

b’8Anzi, tutto ormai io reputo una perdita

a’di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore...


L’affermazione, che risulterebbe ancor’oggi, inaccettabile se venisse compressa, a qualsiasi fervente giudeo, stabilisce con nettezza uno strappo radicale con la situazione precedente. Più decisivo ancora perché lascia vedere la comprensione che Paolo ha della trasformazione subita a causa della esperienza pasquale.


Quello che prima lui considerava il suo ‘capitale’ (guadagno, profitto, prerogativa: razza, stirpe, cultura, fede, impegno religioso, perfezione morale…) è adesso stimato come perdita (rovina, danno, pena). Non dice che i privilegi dei giudei – emersi in una storia di salvezza! – non ci siano, non contino più, nemmeno che non siano più una prerogativa, dice che non lo sono per lui, che lui non li apprezza più. Non sono cambiate le cose, è mutato il suo modo di guardarle e considerarle. E come è avvenuto il cambio? Non per aver riflettuto meglio, ma ‘a causa di una persona’, meglio per aver conosciuto una persona Gesù messia, e per averla riconosciuta come suo Signore. Qualcosa è capitato – l’evento concreto non viene descritto – che gli ha dato una nuova visione sublime: ‘ha conosciuto’ il Gesù messia riconoscendolo come Signore.


Conoscere, qui, non ha il solito senso, abituale nella mentalità greca, di capire una realtà, identificarla e distinguerla dalle altre, comprenderla e definirla, possederla in qualche modo e riuscire a maneggiarla. In senso biblico, implica entrare in comunione con essa e, se persona, stringere una relazione intima e permettere che prenda il destino della propria stessa vita; è una conoscenza – sublime – che comporta amore, meglio dire che comporta essere amati.1 Conosce Gesù in verità chi da lui si sente amato, chi vive innamorato di Lui.


Cristo e Signore non sono ancora i titoli cristologici stabiliti, ma professione di fede ‘giudaica’: Gesù è confessato ‘luogotenente di Dio’, lo strumento tanto desiderato del trionfo definitivo di Dio, colui che ha il potere di salvare e lo esercita a nome di Dio. A Paolo gli è stato concesso questa sublime conoscenza, che va oltre tutto quanto egli sapeva prima. E frutto di questa ‘ri-conoscenza’ é la radicale sovversione dei valori in cui adesso vive: quello che era prima guadagno – non si dimentichi: una vita secondo la volontà di Dio - è perdita. Non c’è spazio per i chiaroscuri o le mezze tinte.


La ‘scoperta’ di Gesù come messia e signore (in Gal 1,16 parla di rivelazione che Dio gli ha donato) é, dunque, il dato fondamentale, determinante, della sua esperienza cristiana: lui non ha dovuto riconoscersi peccatore, ha potuto confessare Gesù come Cristo e suo Signore. A quanto già sapeva, gli si aggiunge un nuovo sapere, il sapersi salvato da Cristo Gesù. Riconoscersi – cioè comprendersi e accettarsi – salvato è la ‘sublime conoscenza acquisita, che lo porta a considerare tutto superato e inutile, anzi svantaggio e perdita. E non perché così sia stato prima né sia oggi, ma perché mai porterebbe alla conoscenza di Cristo Gesù.



2.L’obiettivo, guadagnarsi Cristo



Che Gesù, riconosciuto come il messia e suo Signore, sia il dato centrale della esperienza cristiana, il criterio di discernimento della propria esistenza è più evidente in quanto dice nella continuazione; il cambio (la perdita) ha una precisa finalità: ‘guadagnare’ il Cristo (3,8), essere trovato in lui (3,9), conseguire la giustizia per la fede in lui (3,9), conoscere Lui e la forza della sua risurrezione e entrare in comunione con il (3,10).



Per il quale ho lasciato perdere tutte le cose e le considero come spazzatura,

al fine di guadagnare Cristo 9e di essere trovato in lui,

non con una mia giustizia derivante dalla legge,

ma con quella che deriva dalla fede in Cristo,

cioè la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.

10E questo perché io possa conoscere Lui, la potenza della risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, 11con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti.


Affermato il cuore dell’esperienza pasquale – una nuova conoscenza diventa superiore attraverso l’incontro personale – Paolo esplicita le conseguenze, svelando il suo più intimo vissuto. La sua testimonianza, carica di teologia, respira autenticità e confidenzialità: Paolo si lascia vedere profondamente toccato da Cristo Gesù, in modo radicale e permanente, sì da mutare la sua forma di ‘vedere’ la realtà, ancor di più, il suo modo di ‘vedere’ se stesso davanti a Dio. L’incontro con Gesù, il suo riconoscerlo come suo Signore, tocca in pieno la sua relazione con Dio: non si può pensare a un cambio più radicale per un fedele giudeo.


Quanto prima dava senso alla sua vita, quello che – diremmo oggi – lo rendeva felice (soddisfatto, ‘compiuto’) è diventato – all’improvviso, senza motivo apparente – spazzatura (rifiuto, sporcizia, schifezza), qualcosa da scartare, da buttare via. Ma non perché sia così, ma perché non è (stata) via o mezzo per trovare Cristo. Paolo non rinuncia a niente (una vita secondo la legge, i privilegi del popolo di Dio), preferisce qualcosa di migliore (Cristo). Appropriarsi del meglio converte in maniera prescindibile il buono: la legge, dono di Dio a Israele, prova della sua predilezione e garanzia di fedeltà. Non c’è dunque spazio per pensare in una presunta cattiveria e scarsa bontà durante l’epoca giudaica di Paolo: la rinuncia si giustifica come cammino per guadagnare il Cristo.


Non riusciamo a conoscere cosa rese possibile un cambio tanto profondo; Paolo dice solo che cambiò; ha parlato sul prima e sul dopo, non sul come. Ma spiega cosa sente, una volta trasformato: non si capisce senza il Cristo, non si trova senza di lui, non si sente bene con Dio (un modo sgarbato di tradurre la formula giudaica ‘essere trovato giusto da Dio’) se non è per mezzo della fede (in Cristo o di Cristo, una buona questione non ancora dal tutto risolta). Ma, come guadagnare il Cristo e trovarsi in lui? La trasformazione non può essere meno radicale, né meno spiegabile. E infatti, Paolo non si spiega bene, si imbroglia in parecchi sottointesi.

Per la fede in Cristo e non per l’obbedienza della legge: vivendo per e della grazia, no del proprio sforzo e merito, lasciandosi regalare da Dio, accettando Cristo come salvatore unico, rinunciando a obbligare Dio a mostrarsi propizio. Guadagna Cristo chi lo riceve come dono, s’imbatte con Lui chi lo trova gratuitamente. Trovarsi in Lui è ritrovarsi nel Cristo morto e risorto, conoscere l’energia della risurrezione e le pene della croce (cf. 3,20-21). La giustizia viene da Dio: solo Lui può giustificare; Dio con-siste in questo, per questo Dio esiste. E la giustizia riposa sulla fede, in essa si basa, una fede che è accettazione di Dio, e che si realizza accettando Gesù come messia e signore.


Obiettivo, dunque, della vita del credente è ‘guadagnare’ Cristo, tenerlo a scopo di ‘lucro’, per ottenere ‘l’essere considerato giusto’ da Dio. Quanto Paolo cerca può venire solo da Dio, ma proviene da Cristo, se accettato: Gesù diventa, così, necessario per la salvezza, un ‘ri-conoscimento’ che per noi, oggi, potrebbe risultare ovvio ma non lo era affatto per Paolo, pochi secondi prima di incontrare Cristo nella via di Damasco. Qui Paolo arrivò a conoscere là che non sarebbe riuscito a mantenere una relazione ‘giusta’ con il suo Dio se non accettava Gesù come signore della sua vita e messia del suo popolo. Paolo si è ‘convertito’ quando, e perché, Gesù, maledetto sotto la legge (Gal 3,13), si era ‘convertito’ in Cristo e Signore, cioè quando Paolo acconsentì – questo è fede – di diventare suo servo ed evangelista.


Conoscere Cristo non è un’impresa intellettuale: non lo si può comprendere; è piuttosto una forma di immedesimarsi in Lui, mediante la partecipazione nella sua esperienza pasquale, avendo coscienza del potere che l’ha fatto risorgere e del dolore che lo ha fatto morire. Conoscere Cristo va oltre al sapere su di lui, all’essere informato sulla sua vita e sui miracoli, al avere notizie sulla sua fine e la sua risurrezione; la conoscenza di Cristo non è un sapere su di Lui, esterno a Lui, ma un sapersi in Lui e come Lui; sapere per condivisione di vita e morte, per ripetizione del suo ‘cammino’ vitale o, come ha detto Paolo poco prima, ‘un avere i sentimenti di Cristo’ (Flp 2,5).

Paolo – si avverta – non distacca la risurrezione dalla morte, la pasqua dal venerdì santo (Rm 4,25; 1 Cor 15,3-5), ma vive queste due fasi in questo preciso ordine; non è la morte il passo necessario per la vita, ma la risurrezione che rende possibile il morire. L’apostolo, che “porta le stigmate di Gesù nel suo corpo” – un tatuaggio che evidenzia a chi appartiene, le penalità del suo lavoro apostolico –, sa che è proprietà di Cristo perché si è appropriato dei suoi patimenti. Quanto per tanti – per quelli cioè che, a differenza di Paolo, non si son incontrati con il Risorto – è prova dell’abbandono di Dio, per lui dimostra, in realtà, appartenenza a Cristo: ‘con-formarsi’ con la sua morte assicura l’aderirsi a Lui. Nella sofferenza condivisa si realizza l’adesione, un’esperienza che rifiutano “molti tra di noi”, scrive Paolo “con le lacrime agli occhi”: “si comportano da nemici della croce di Cristo; la perdizione però sarà la loro fine” (Flp 3,18-19). Vivere ‘conforme’ (confacente, con-formato con) la croce di Cristo è reso possibile a chi vive ormai la risurrezione con Cristo, anche se quella di Cristo è stata realizzata e quella del cristiano aspetta la sua conferma.



3.Vivire nella speranza


Paolo relativizza quanto ha appena affermato, la conoscenza di Cristo e la comunione – sympatheia – con Cristo, riconoscendo che non sono stati acquisiti una volta per sempre ma sono frutto di lotta quotidiana; grazia ricevuta è, al contempo, oggetto di speranza. L’incontro con il Risorto gli ha aperto delle possibilità che però lui non possiede ancora.

12 Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io son stato conquistato da Gesù Cristo. 13Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, 14corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. 15Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente Dio vi illuminerà anche su questo. 16Intanto, dal punto a cui siamo arrivati, continuiamo ad avanzare sulla stessa linea. 17Fatevi miei imitatori, fratelli.


Quanto aggiunge a continuazione suona a confessione vera, come una ingenua confidenza. Paolo si rende più ‘umano’, meno perfetto, più accessibile e vicino alla esperienza del cristiano in genere. Quello che è dato per acquistato non è ancora assicurato: è stato ormai donato, ma non confermato. La ‘chiamata’ verificatasi nell’incontro non è conclusa; la possessione è ancora contenuto di speranza. Quello che importa è ancora nel futuro, perché soltanto allora si renderà sicuro, senza timore di perdersi, ciò che è stato iniziato. La trasformazione già realizzata deve essere ancora ratificata.

Che Paolo debba aspettare la consumazione della sua ‘conversione’ nasconde insicurezza e dubbi – e proprio perciò, una vita di fede ‘provata’ – in vista di arrivare alla meta. Ma la fiducia, sulla quale poggia la fede, è fondata sul dono ricevuto, sulla chiamata, non sul proprio desiderio o sulla buona volontà. Arriverà chi si sentirà conquistato. Paolo riconosce di non possedere già ciò che ricerca, ma dice di seguirlo perché lui è stato posseduto: guadagnato da Cristo, deve sforzarsi egli stesso per guadagnarlo a sua volta. ‘Afferrato’ ormai, Paolo non riesce ancora ad afferrare Cristo, totalmente, senza paura di perderlo. La grazia, dunque, non esime dallo sforzo, lo richiede per confermarsi come grazia.




  1. Per illuminare la vita




Sono, in verità, un ‘convertito’? Mi sento più una ‘buona’ persona, piuttosto che un servo di Gesù? Posso dire che anch’io ho trovato il Risorto? Con quali conseguenze?


Paolo parlava del suo incontro con il Risorto controvoglia, ma sempre per difendere la sua evangelizzazione (vocazione e vangelo). Mi sento ‘obbligato’ a dare ragione della mia missione, di quello che annunzio? Quando annunzio, cosa dico? Dico a chi devo la mia vocazione? Su chi poggio il mio apostolato?


Per Paolo incontrare il Risorto ebbe come risultato il convertirsi nella sua missione. Posso ricordare e raccontare un prima e un dopo questo incontro? Mi sono ‘convertito’ in apostolo di Cristo perché l’ho visto vivo e l’ho accettato come mio Signore? O ci sono altri motivi?


Quale è la conoscenza di Cristo che maggiormente ambisco: comprenderlo con la ragione o sentirlo nel cuore? Tra le due, quale realizza la vera conversione?


Quale obiettivo mi propongo nella mia vita spirituale: conquistare Gesù o lasciarmi conquistare da Lui?


Ho [fatto] esperienza della ‘potenza della risurrezione’ di Gesù? Chi l’ha fatta, come Paolo, vive condividendo passione e morte (al peccato, alla vita a beneficio proprio…) con Gesù crocifisso: posso dire che vivere con il Risorto mi rende possibile convivere con il Crocifisso?


Mi sento ‘guadagnato’ (conquistato, acquistato) da Cristo? Vivo questa relazione, non nella paura di perderla – non dipende dal mio amore – ma nella speranza che sia confermata da Lui?



1 “Se qualcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da Lui conosciuto” (1 Cor 8,2-3. Cf. Gal 4,9; 1 Cor 13,12).

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