Nelle Orme di San Paolo - Damasco


Sulla via di Damasco,

punto de partenza e chiave d’interpretazione

La esperienza pasquale di Paolo





  1. Damasco




Correva, probabilmente, l’anno 35. Saulo, uno zelante studente della legge (At 26,5) sulla trentina – la metà della sua vita – era ormai quasi alla fine di un lungo viaggio a Damasco, circa 250 chilometri da Gerusalemme, iniziato una settimana prima più o meno.


Città-oasi ai bordi del deserto, Damasco, una delle città piú antiche del Vicino Oriente – menzionata già nel terzo millenio a. C. –, era tappa preferita dalle carovane degli comercianti e dai convogli dei militari. Le strade che arrivavano dall’Asia Minore e dalla Mesopotamia si biforcavano verso l’Arabia, via Regum o, attraverso la costa, via Maris, verso l’Egitto. Nel secolo I la città godeva lo statuto di libera città ellenistica integrata nella Decapoli, da Gerusalemme, annoverava una importante minoranza ebraica e godeva di una posizione geografica privilegiata su cui si basava la sua ricchezza.


Nulla sappiamo circa l’origine della comunità cristiana a Damasco; fu certamente precoce. Luca menziona l’esistenza di più di una sinagoga (At 9,2.20). È verosímile che nella sinagoga damascena si formasse un gruppo cristiano con dei rifugiati venuti da Gerusalemme dopo il martirio di Stefano, quelli appunto che andarono in missione per la Fenicia, Cipro e Antiochia (At 11,19).


La versione lucana del motivo del viaggio di Paolo a Damasco (At 9,2: ‘condurre in catena a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo che avesse trovati’) è insoddisfacente, poco verosimile. Il sommo sacerdote non aveva altra autorità nella città di Damasco, sotto l’autorità del nabeteo Areta IV, che quella morale e solo sulla comunità ebrea: cercare di estradare i correligionari sarebbe stato quantomeno insolito, se non rischioso. È più probabile che i motivi fossero altri, e di diversa natura: né solo personali, né solo politici, né solo teologici..


Nel proselitismo protocristiano Saulo poté vedere osteggiate fede e cultura giudea, identità e sopravvivenza nazionale. Il suo zelo per le tradizioni patrie (Gal 1,14; Fil 3,6; At 7,58; 8,1; 22,3; 26,5.9-11.14) era un atto appassionato in difesa della legge e l’annientamento dei trasgressori, un atteggiamento logico presso ogni fedele (Nm 25,6-13; 1 Re 19,10.14; 1 Mac 2,24.54.58)1, non risultato di missione ufficiale (At 8,3; 9,2; 22,4.19; 26,10). Ed è questo zelo religioso, e non l’estremismo politico degli zeloti, ciò che lo converte in un fanatico persecutore dei discepoli del Signore (1 Cor 15,9; Gal 1,13-14; At 8,3; 9,1-2).


La ragione concreta dell’ostilità la si deve cercare proprio in questa opzione vitale del giudeo Paolo di attenersi strettamente alla legge, il cui valore era stato messo in questione tra i cristiani del gruppo di Stefano, i quali, inoltre, contestavano il Tempio, un programma che metteva in crisi i valori fondanti del nazionalismo giudeo. È verosimile che sia stato questo zelo smisurato ciò che lo spinse alla missione nel mondo ellenico (Gal 5,11). Sembra pure probabile che la confessione di messianismo di Gesù - un maledetto da Dio essendo stato crocifisso (Dt 21,23) - sia stato motivo fondamentale per il suo zelo persecutorio.




  1. L’incontro con Gesù Risorto



Quanto avvenne a Paolo sulla via di Damasco è indubbiamente l’evento chiave per la comprensione della sua persona e del suo pensiero: la sua prassi missionaria e la teologia furono, in realtà, sviluppo della sua esperienza spirituale.


Pur disponendo di parecchia informazione su di esso, ci sfugge purtroppo,la sua realtà più intima. Se l’esperienza che Paolo ebbe sulla via di Damasco è ben testimoniata, la sua interpretazione ha costituito, e continua a costituire, un problema senza soluzione definitiva, anche se la bibliografia sul tema è immensa. È indubbio, invece, che Paolo vide in esso la ragione della propria fede e della sua missione (Ga 1,13-17; 1 Cor 9,1; 15,8). Questo evento ebbe conseguenze insospettabili nella vita personale dell’apostolo e, in modo molto particolare, nella storia del primitivo cristianesimo, nel quale in assoluto rappresenta un momento-chiave. Le notizie che abbiamo di questo evento, anche se abbondanti, sono dal punto di vista storico, molto carenti.



La testimonianza lucana


A prima vista potrebbero impressionare le tre relazioni offerteci da Luca; un esame più attento rivela, però, che in ultima istanza, l’accaduto continua a rimanere impenetrabile come avvenimento. Il primo racconto, il più sviluppato, At 9,1-19a, è un narrazione in terza persona. Gli altri due sono resoconti autobiografici pro vita sua: At 22,6-21, a Gerusalemme, nel Tempio; At 26,12-23, nel palazzo di Cesarea, di fronte al governatore romano Festo e al tetrarca giudeo Agripa II.


La ripetizione si spiegherebbe per l’alto valore che l’autore degli Atti attribuisce a questo episodio all’interno della sua storia; è, inoltre, un esempio riuscito della capacità letteraria di Luca. Ma le divergenze di situazioni e di particolari sono così grandi che non ne emerge una visione omogenea e verosimile. In effetti le cronache sono poste in luoghi-chiave della sua narrazione. Secondo Luca non è che Paolo volesse farsi cristiano né era predisposto né fu un illuminato spontaneo; la sua ‘conversione’ seguì un preciso piano divino, sviluppatosi come incontro con Gesù Risorto. Inoltre a Luca interessava presentare l’apostolo fin dal principio in rapporto e in dipendenza di una comunità di testimoni, già istituita e riconosciuta come tale.


La prima relazione, At 9,1-19a, è una chiara unità letteraria. Saulo, che è stato presentato già prima come accanito persecutore (At 7,58; 8,1,3), ritorna in scena con una precisa volontà di vessare ‘i seguaci della Via’ a Damasco (At 9,1-2). Prima di arrivare a destinazione, si imbatte con il Risorto (At 9,3-9): la visione di una luce sfolgorante che lo acceca (At 9,3.8) e l’ascolto di una voce sconosciuta che lo identifica (At 9,4) sono al centro dell’inatteso incontro. Con la parola Gesù si lascia riconoscere e, più decisivo, si identifica con i perseguitati (At 9,5); poi, ordina Paolo di entrare in città: là farà quanto gli sarà detto (At 9,6). L’incontro non è ancora missione; Saulo ha bisogno di aiuto per compiere il comando di andare in città (At 9,8). I suoi compagni di viaggio restano senza parole, perche hanno sentito ma non visto (At 9,7). In una nuova scena (At 9,10-16), un discepolo del Signore riceve pure una visione, meno sconvolgente, e ascolta precise disposizioni, alquanto strane: dovrà cercare un ammalato e guarirlo (At 9,11-12). Alla tentata resistenza di Anania il Signore risponde rendendo pubblico il destino di Paolo: una ‘missione’ e una ‘passione’; sarà ‘strumento di elezione’ per l’evangelizzazione del mondo, poi dovrà patire sofferenze appena annunziate (At 9,16). Una terza scena (At 9,17-19a) chiude il resoconto; ubbidendo il Signore, Anania sana Paolo, lo riempie dello Spirito e lo battezza. Anche se Paolo vede la luce e ascolta la voce, l’incontro con il Risorto non gli dà una missione nuova, anzi lo lascia malridotto. Il discepolo obbediente conosce la missione di Paolo e, una volta guarito, lo introduce nella vita comune. Non si può non vedere in questa presentazione una chiara intenzionalità teologica; nella presentazione lucana l’intervento di Anania è determinante, solo secondario a quello di Gesù; se il Risorto prende sempre l’iniziativa, Anania è il mediatore necessario.


Il secondo resoconto, At 22,6-21, viene inserto nella arringa che Paolo dovette pronunciare nel Tempio per scappare alla morte a mani della folla (At 21,30-40). Una ben altra situazione! Paolo parla la lingua del popolo e si mostra come giudeo osservante, la cui conversione a Cristo non è stata infedeltà al Dio di Israele, né alle tradizioni dei padri (At 22,14). Le sue credenziali – nascita, educazione, zelo per la Legge – sono possenti (At 22,3-5). Nel riferire l’incontro con Gesù (At 22,6-10) presenta l’accaduto in modo simile a At 9, ma silenzia Anania e la sua visione e afferma, per conferire credibilità alla testimonianza, che i compagni (At 22,9) videro la luce ma non sentirono la voce; in At 9,7 si diceva che ‘udirono il suono ma non videro nessuno’. L’incontro di Anania con Paolo (At 22,11-16) non segue una rivelazione del Signore; Anania lo guarisce, gli rivela il progetto che Dio ha su di lui (‘rendere testimonianza presso tutti i popoli’) e lo battezza. Paolo spiega il suo cambio di condotta come una decisione del Dio dei padri (At 22, 14-15). Ma non è la conversione personale, ma la sua predicazione, la causa dell’attrito; Paolo non entra in tema ma – ricorrendo a una visione avuta precisamente a Gerusalemme – considera rivelata la presente persecuzione e una nuova missione (At 22,17-21). Un – doppio – intervento di Dio lo ha reso testimone di Cristo, senza però lasciare di essere fedele giudeo.


Il terzo racconto, At 26, 6-23, appartiene al discorso che Paolo tenne alla presenza del re Agrippa e del procuratore Festo, il quale era alla ricerca di qualunque motivo di accusa da presentare al Cesare (At 25,24-27). Paolo basa la sua difesa nell’incontro con il Risorto nella via di Damasco, dove ha ricevuto la missione di testimoniare a tutti che le attese di Israele si sono compiute nella risurrezione di Gesù. Inizia il discorso captando il favore di Agrippa (At 26,2-3) e si mette subito a esporre i fatti, accennando di nuovo alla sua esperienza come argomento di difesa (At 26,4-18); l’incontro con il Risorto ha diviso la sua vita in due tappe, segnata per la fedeltà ai padri (At 26,4-8) e quella verso Dio (At 26,9-11), e l’incontro con Gesù, il quale l’ha destinato a diventare suo teste (At 26,12-18). La conseguenza necessaria è la sua attività missionaria; dov’è andato, cosa ha fatto, è l’effetto della sua fedeltà (At 26,19-20). Paolo finisce il discorso responsabilizzando Dio della sua missione e del suo vangelo (At 26, 21-23): tutto si è svolto come predetto.


Resta chiaro che nelle tre versioni offerte Luca ha visto l’accaduto a Paolo nella via di Damasco come il motivo fondamentale del suo cammino personale; divenendo testimone del Risorto, Paolo non ha tradito la fede dei padri, anzi ha risposto all’appello di Dio; portando il vangelo ai gentili, ha compiuto l’incarico di Gesù e farsi, come era la vocazione di Israele, ‘luce delle nazioni’; le accuse, dunque, sono infondate. È probabile che dietro la triplice versione dell’avvenimento ci sia stata un’antica tradizione. L’indicazione del luogo e l’identificazione del responsabile della comunità ne costituiscono una chiara indicazione. L’esistenza di una giovane comunità giudeo-cristiana a Damasco non si inserisce bene nello schema narrativo lucano, ma è storicamente verosimile.


La conversione, nel triplice racconto, è vista come un’esperienza teofania (apparizione luminosa: At 9,3.17; 22,6.14; 26,13.16; cfr. Dn 8,18; 2 Mac 9,24-40; 4 Mac 10-14; ascolto di una voce: At 9,5; 22,8; 26,15) seguita da guarigione (At 9,7.17-18; 22,13-16) e dall’ annunzio di una investitura apostolica (At 22,21; 26,16-18). Paolo emerge da tale esperienza come un uomo nuovo, ma non ancora come apostolo; sarà Anania, uno dei cristiani che avrebbe perseguitato, colui a cui si annuncerà la missione in un’altra visione; per mezzo di questi si rende pubblica la nascita di un nuovo apostolo alla comunità (At 9,15); in essa dev’essere battezzato il missionario (At 9,18; cfr. 1 Cor 12,13; Rm 6,3-4). Più avanti, in singoli discorsi, Paolo si difenderà narrando la sua chiamata (At 22,1-21; 26,2-23); fondamentalmente tali discorsi coincidono coi fatti narrati in At 9, ma le divergenze sono significative: in At 22 Paolo afferma di essere arrivato alla convinzione della sua missione tra i gentili per una visione di Gesù nel tempio; in At 26 Paolo confessa quanto gli sia difficile obbedire alla sua vocazione.


La triplice versione lucana di uno stesso evento lascia molto a desiderare. Non viene giustificata la scelta di Damasco né convince sotto quale autorità viaggino Paolo (At 9,2: il sommo sacerdote; At 22,5: il sinedrio; At 9,14; 26,12: i sommi sacerdoti) e i suoi compagni (At 9,7; 22,9.11; 26,14) e con quali poteri (la pena capitale non lo era: At 22,4). Ancora meno convincente il fatto di supporre un esercizio dell’autorità a Damasco che non risulta storicamente del tutto plausibile; è solo moralmente che le autorità di Gerusalemme potrebbero avere influsso sulla comunità giudaica di Damasco. Ancora più decisivo, l’evento stesso non è narrato in forma omogenea: non si sa bene se vi fu una luce o una voce, o entrambe, né in quale misura le percepirono coloro che accompagnavano Paolo (At 9,7; 22,9; 26,13-14). Nondimeno, alcune delle divergenze, se non tutte, possono spiegarsi per la coerenza dei racconti con il loro contesto narrativo e l’interesse redazione di Luca.


Tutto sommato, sembra molto probabile che Luca abbia utilizzato una tradizione previa, che potrebbe essere riflessa in Gal 1,23-24, come legittimazione della missione tra i gentili. Il nucleo storico di tale tradizione sarebbe costituito dalla localizzazione dell’evento a Damasco, dall’attività persecutoria previa da parte di Paolo, dalla constatazione del cambiamento profondo avvenuto in lui e, probabilmente, dal’intervento decisivo di un cristiano, Anania, nell’integrazione del convertito nella comunità e i primi passi di Paolo predicando nelle sinagoghe di Damasco.



La testimonianza paolina


Colpisce il fatto che Paolo abbia parlato poche volte di un avvenimento così centrale (cf. 1 Ts 2,4) e che, quando lo fece, vi fu costretto dagli attacchi che si dirigevano contro il suo vangelo (cf. Gal 1,1.11-12). Paolo non parla direttamente della sua conversione, non la descrive come vissuto personale, né lascia trasparire quel che lui pensava di essa. Contro ciò che ci si potrebbe aspettare, l’apostolo non colloca in essa l’inizio della sua fede in Cristo; in essa piuttosto basa la legittimità della sua missione e del suo vangelo.


Non ci presenta mai una cronaca storica, non ci offre dato circostanziale alcuno né descrizione dello stato psicologico; e ogni volta che ne parla non racconta un avvenimento storico, la usa come argomento nel quadro di una discussione; più che narrarla la interpreta svelandone le conseguenze nella propria vita ossia il nuovo orientamento profondo personale. E tutto questo a distanza di più di vent’anni; il che rendeva inevitabile che il ricordo di quanto successo si trovasse sotto l’influsso degli avvenimenti che aveva prodotto; più che dire la sua esperienza, Paolo la ricostruisce quando ne parla.


Ciò nonostante, la considera sempre come ragione ultima del suo agire e il motivo decisivo della sua predicazione, la sua origine storica e la causa della sua originalità (Gal 1,15-17; Fil 3,8-14; 1 Cor 9,1; 15,8). Di fatto, una volta la presenterà come rivelazione definitiva di Dio (Gal 1,16); un’altra, come visione eccezionale (2 Cor 3,18; 4,6); ed un’altra volta ancora, come esperienza quasi mistica (Fil 3,12). Sembra che gli interessi di più il messaggio colto in tale esperienza che ciò che essa può avere di aneddoto personale: la testimonianza che dà Paolo stesso sulla propria vocazione in Gal 1 viene ad indicare, né più né meno che Fil 3, fino a che punto il cambiamento operato nella sua vita e nella sua missione si devono comprendere in funzione del contenuto della sua predicazione e della sua teologia.



Descrizioni dell’avvenimento


Solo indirettamente, quindi, possiamo avvicinarci al nucleo dell’avvenimento vissuto da Paolo: anch’egli ha visto il Signore (1 Cor 9,1; 15,8; cf. Mt 28,17; Mc 16,7; Gv 20,18.25; At 9,27). È probabile che la formula sia la più antica descrizione paolina dell’evento di Damasco; Paolo non la localizza, però, come si fa Gv 20,18, in terra o At 7,55f-56, in cielo. Ripetuta in due contesti diversi, coglie, quindi, la propria conversione come un’apparizione del Risorto, una visione di Cristo, eppure, ma in modo implicito, un’investitura apostolica, poiché lui sta qui sostenendo la sua legittimità apostolica; esperienza pasquale, descritta come visione del Risorto, e missione coincidono.


La visione, infatti, lo colloca in uguaglianza di condizioni rispetto ai primi testimoni della risurrezione (1 Cor 15,5-7). In 1 Cor 9,1 sottolinea però il suo protagonismo (cf. Gv 20,18.25), mentre in 1 Cor 15,8 l’iniziativa è del Risorto. Riconosce, pure, l’anomalia della propria esperienza, nata fuori tempo, senza la normale gestazione, ‘como un aborto’ (1 Cor 15,8), compresa la propria incapacità di sperarla o di riceverla (1 Cor 15,9). L’’immagine si riferisce alla anomalia di una nascita prematura, estemporanea inaspettata; il che sottolineata la eccezionalità dell’evento; come apostolo dei gentili, Paolo riconosce di non essere il primo. Si parla, dunque, di grazia imprevedibile (Rm 1,1.5; 15,15-16) di conseguenze definitive per la vita dell’apostolo.

Quando però si tratta di specificare questa esperienza, ricorre a diverse espressioni che non descrivono il fatto, ma piuttosto, reinterpretandolo, affermano il suo significato: ‘colui che mi scelse dal seno della mia madre, [colui che] mi chiamò con la sua grazia (Ga 1,15) sono epiteti divini che sono serviti per descrivere singole vocazioni profetiche (Gal 1,15b, cf. Ger 1,5; Is 49,1; Gal 1,16b, cf. Is 49,6). In un certo modo, Paolo sente di avere, in linea con i profeti, un posto nella storia di salvezza per volontà divina: Dio è quello che elegge Paolo già prima di nascere, e che lo ha chiamato per la sua benevolenza, per realizzare l’annuncio della salvezza a tutti i popoli (Gal 1,16). La vocazione è tutta grazia, e racchiude tutta la sua vita proprio dalla nascita, anche se Paolo lo viene a sapere solo a Damasco.


Paolo esclude qui ogni dipendenza umana come origine del suo apostolato (Gal 1,11-12) e, dunque, si riconosce profeta di Cristo nel più intimo del proprio essere (un dato che, d’altra parte, coincide con la testimonianza di At 13,47; cf. Is 49,6; At 26,16-18; cf. Is 42,6.16). Ancor prima che nascesse, e pertanto prima del suo periodo non cristiano, Dio prese un’iniziativa su di lui, una decisione contrassegnata da benevolenza e grazia: chiamandolo alla vita lo destinò a conoscere suo Figlio e lo destinò al suo servizio. L’intera sua vita, fin dall’inizio, ebbe come scopo la missione tra i gentili (‘perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, cf. Rm 11,13): evangelizzare i pagani è l’obiettivo della sua esperienza pasquale. Se prima ha ricordato il proprio passato nel giudaismo (Gal 1,13) è perché appaia meglio quanto è inspiegabile il suo cambiamento; nessuno, lui compreso, l’avrebbe sperato né cercato. Nonostante ciò, nemmeno il suo agire precedente come persecutore ha potuto liberarlo da una chiamata all’apostolato che coincise con la chiamata alla vita. Dio lo aveva così pianificato.


Paolo definisce questa decisione di Dio come un benevolo fargli conoscere Gesù, come unrivelare a me suo Figlio(Gal 1,16; cf. 2 Cor 12,1.7). Prima aveva già rivendicato che il suo vangelo era rivelazione di Cristo Gesú (Gal 1,12): Dio è il soggetto che si rivela; il suo Figlio, l’oggetto rivelato come grazia (1 Cor 2,10; Fil 3,15), la rivelazione è vista come evento personale con un contenuto personale, il figlio di Dio. Più che apparizione del Risorto viene presentanta come manifestazione teofanica: Paolo è l’avvantaggiato da questo agire apocalittico e, quindi, il suo portatore autorizzato. A differenza degli altri testimoni, che videro il Risorto mentre mangiava con loro (Lc 24,41; Gv 21,9-10), toccarono le sue piaghe (Gv 20,27), e lo videro sparire in cielo dopo aver affidato loro il mondo come missione (At 1,8-9), Paolo si vede trasportato alla fine dei tempi e vive i suoi giorni dalla meta definitiva, arrivando a conoscere la misteriosa identità di Gesù: è il Figlio di Dio (cf. At 9,20): la sua è una esperienza teofanica, il cui contenuto è il Cristo Gesù in quanto figlio di Dio.


Mediante questa rivelazione definitiva (utilizza il verbo apocalýpto), Dio gli ha svelato l’identità divina di Gesù (Gal 1,16) e lo ha chiamato per annunziarlo tra i gentili (Gal 1,15); cosa che si mise a fare immediatamente (Gal 1,16b). Paolo ha una nuova ‘conoscenza’, adesso saprà che Dio, che risuscita i morti (Rm 4,17), ha esaltato Gesù alla sua destra; il Dio del suo passato, dei suoi padri, il salvatore di Israele, è Padre del Nostro Signore Gesù Cristo. E saprà che Dio ha trasformato la sua esistenza; evn evmoi. segnala il luogo, non il destinatario della manifestazione definitiva: la conoscenza donata avviene nell’ intimità, in un’intensa relazione personale (cf. Gal 2,20; 4,6) Nel momento in cui Paolo ha conosciuto Gesù figlio di Dio in questo momento si è creata una comunione personale tra Cristo e Paolo e questo si è riconosciuto evangelizzatore dei pagani.


Se 1 Cor 15 e Gal 1 mostrano Cristo Risorto e Dio come agenti dell’evento e Paolo come suo beneficiario, in Fil 3 Paolo é l’unico soggetto che valuta le conseguenze della rivelazione. Qui l’apostolo presenta la sua esperienza personale come esempio ai credenti confrontati a Filippi con il pericolo dei missionari giudeo-cristiani. L’espressione che descrive il cambio ‘conoscere lui, la potenza della risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze (Fil 3,10). Paolo acquisisce una conoscenza di Cristo, non secondo la carne (cf. 2 Cor 4,6; 5,16), e del potere della sua risurrezione, il che fa sì che egli sappia non solo che Gesù vive, ma ‘chi è’ Cristo, che sovrasta in pregio tutto quanto Paolo aveva amato e servito. La conoscenza gli conferisce una partecipazione, un ‘sapere’ sulla forza del Risorto, ma pure una comunione nelle sue sofferenze (2 Cor 4,7-10). La formula non può non risultare paradossale: un sapere donato è esperienza del potere di risurrezione di Cristo e partecipazione alla sua passione.


Tale nuova conoscenza introduce nella sua vita un nuovo orientamento personale radicale, una inversione nel sistema di valori: l’opposizione sublime conoscenza vs. perdita/spazzatura non lascia spazio a intese; converte in immondizia, perdita e svantaggio (Flp 3,8) – una formulazione offensiva alle orecchie giudaiche, per loro grossolana ed inaccettabile, ma scritta per cristiani gentili – tutta la sua vita religiosa precedente. Quel che per i suoi antagonisti è motivo di fiducia in sé stessi, privilegio che competeva loro per nascita come membri del popolo di Dio (Fil 3,4-6), ora è considerato come spregevole (Fil 3,7-8). Paolo ora è capace di riconoscersi come cristiano perché inaugura un nuovo rapporto con Cristo, esperienza più preziosa di ogni altro valore: da una giustizia innata e acquisita passa ad una giustizia ricevuta come grazia per la risurrezione di Cristo; ha iniziato un nuovo cammino, ma è già prigioniero del suo Signore.


In questo contesto usa una delle formule più grafiche: Non che io abbia già conquistato il premio… solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perche anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo (Fil 3,12); il cacciatore è stato, a sorpresa e con certa violenza, cacciato; Cristo lo ha sedotto, lo ha afferrato e ghermito. Mentre Paolo continua a avere Cristo come meta (presente) e lotta per arrivare ad averlo come conquista (futuro), si sa preso da tempo (passato) per Cristo.



Una ricostruzione dell’accaduto


Non esistendo alcun resoconto autobiografico, è molto avventuroso immaginare la preistoria della sua conversione. Come questa sia stata preparata, come e quando per la prima volta abbia preso contatto col messaggio cristiano e quali siano state le opposizioni che gli toccò superare, sono tutte questioni su cui le fonti tacciono Possiamo, ciò nonostante, stabilire certi fatti; l’esperienza di Damasco, nel ricordo paolino, è stata una grazia che, basicamente, si è mostrata come esperienza cognoscitiva: Paolo ha ricevuto una nuova conoscenza di Dio, legato adesso a Gesù Risorto; di Gesù crocifisso, riconosciuto Signore e Messia; di una salvezza offerta a tutti nella fede in Cristo; di sé stesso, eletto per annunziare questa salvezza ai popoli.


Chiaramente, quel che avvenne nella vita di Paolo non si può propriamente denominare ‘conversione’, nel senso ordinario del termine, ma piuttosto ‘rivoluzione’, una radicale trasformazione; non cambiò religione, ma la forma di viverla. Anzi mai Paolo dice di rinunciare alla fede in cui era nato e probabilmente è morto come giudeo convinto. Quanto dettoci da Paolo su quel che avvenne nella propria interiorità potrebbe ridursi al carattere repentino dell’avvenimento: fu una crisi momentanea, una repentina conoscenza, una nuova creazione, che inondò di luce la sua vita (2 Cor 4,6) e fece del giudeo fariseo un giudeo ‘messianico’. Non ci fu una crisi personale previa: il Paolo precristiano aveva ‘una robusta coscienza’ (Fil 3,6). Nessuno vi ebbe influsso né la preparò; non ha avuto aiutanti o intermediari; non fu merito suo né di altri, ma grazia di Dio ed elezione (Rm 1,5; 1 Cor 15, 9-10; Gal 1,15). Più che convertito si riconobbe chiamato, inviato da Dio ai pagani.


Non si ebbe, quindi, un processo di cambio progressivo, un passaggio graduale e lento, ma un trapasso deciso e fatto una volta per sempre. Paolo non arrivò alla fede nel Cristo per insoddisfazione interiore di fronte alla Legge (Fil 3,6), come si poté supporre a partire da Rm 7,7-25. Non si può interpretare la conversione di Paolo per analogia con quella di Agostino (354-430) o di Lutero (1483-1546), i quale si sentirono schiacciati dal proprio peccato e da una legge, che metteva loro davanti un Dio esigente, finché non fecero la scoperta della ‘iustitia Dei’. Quando l’apostolo parla dell’epoca in cui era giudeo, dice che era orgoglioso della Legge e che viveva come un giusto. Il cambiamento avvenne non in un incredulo o in un credente empio, ma in uno zelante seguace delle tradizioni patrie, uno che si dava da fare quando pensava che la Legge fosse stata infranta, disposto a usare violenza, persino a morire, per mantenere incolume la Torah (Gal 1,13-14; Fil 3,6; cfr. 1 QS 4,5-6.17-18). Nelle sue lettere non si trova un solo indizio che Paolo abbia sconfessato la sua fede natia: non fu la colpa o l’ansietà relative alla Legge ciò che lo avvicinò al cristianesimo ma una esperienza nuova di Dio che mise le basi per una nuova identità personale.


È significativo che proprio in 1 Tm 1,12-13.15-16, testo tardivo e probabilmente non autentico, appaia per la prima volta la confessione di peccato in bocca all’apostolo. Occorre pure scartare la conoscenza personale o l’influsso della predicazione di Gesù di Nazaret. Paolo non vide Gesù, o perlomeno la persona di Gesù non causò in lui una risonanza (2 Cor 5,16). E ad ogni modo, se vi fosse stata, sarebbe stata determinante nel convertirlo in persecutore: l’ardente fariseo non potrebbe mai accettare un messia crocifisso (Gal 3,13; Dt 21,23). Lo stesso può dirsi dei suoi contatti con i primi cristiani: quanto sapeva di essi lo spingeva a perseguitarli (Gal 1,14): il vivere insieme credenti giudei e gentili metteva in crisi l’identità del popolo di Dio. Damasco è quanto di più proprio e personale avviene nella vita di Paolo e verosimilmente la ragione delle sue differenze in confronto agli altri cristiani.


Vi fu, certamente, un profondo ri-orientamento della propria vita ed un impegno immediato con la nuova visione di Dio. Paolo da giudeo non ebbe difficoltà nell’osservanza della Legge (Fil 3,6); ne scoprì il motivo e l’essenza divenendo cristiano (Rm 8,4), un termine, però, da lui mai usato. Più che un abbandono o una rinuncia del giudaismo, Paolo lo rivalutò comprendendolo in modo nuovo. Più che cambio di modo di vivere, la esperienza di Damasco introdusse in Paolo una trasformazione degli obiettivi per cui vivere.


Elezione e missione


Entrambi i dati incontrovertibili rendono più sorprendente ed esaltano ancora di più l’iniziativa di Dio, che ebbe la benevolenza (Gal 1,15) di rivelare suo Figlio a Paolo. Questa decisione divina, insperata e gratuita, si concretizza come volontà di scegliere e chiamare l’apostolo. Tale volontà risale fino all’inizio della sua esistenza ed esclude la sua attività con lui solo per il suo tempo pre-cristiano. È allora che Paolo scoprì che tutta la sua vita si era svolta sotto il segno di questa elezione al ministero: la sua vita aveva come contenuto la missione e la sua missione era una grazia concessa da Dio (Rm 1,14-25; Gal 1,16). Sapere che Dio era implicato in Gesù lo coinvolse nella sua predicazione (Rm 11,13); il suo cambiamento personale si dovette ad una nuova conoscenza di Dio.


E in ciò consiste la rivelazione definitiva del suo Figlio, questo favore che Dio aveva voluto concedergli. La sua fu una vocazione unica ed eccezionale: l’incontro personale con il Figlio di Dio lo mise al servizio del programma escatologico di Dio, ministro di Cristo inviato ai pagani; la restaurazione definitiva di Israel che includeva l’offerta di salvezza a tutti i popoli. Pur senza giungere a conoscere quel che successe sulla strada di Damasco, riusciamo qui ad intravedere come toccò Paolo; un evento concreto, vissuto personalmente, fu da lui considerato come una rivelazione divina: la sua vita e il suo compito si sono convertiti di colpo per lui in un evento escatologico, in una nuova creazione (2 Cor 5,17). Il cambiamento introdotto dalla chiamata divina smise di essere un aneddoto personale per passare ad essere un evento salvifico, momento decisivo nella rivelazione del mistero di Dio agli uomini (1 Cor 10,11); una nuova epoca, definitiva, si era iniziata, l’antica stava per passare. Aveva ricevuto questo messaggio, da cui e per cui vivere. E non c’era tempo da perdere, “la notte è avanzata nel suo corso, il giorno è imminente” (Rm 13,12).


Da qui il fatto che inaspettatamente la predicazione del vangelo si sia imposta a Paolo come una necessità, il fato, suo destino forzato (1 Cor 9,16:per me non è un vanto predicare il vangelo, ma un dovere). Anagke designa il destino inevitabile, la forza della volontà di Dio che si impone all’uomo, gli impone di convertirsi in un servitore e strumento dei suoi ordini. Da bravo ebreo, Paolo non può parlare di ‘caso’ o di ‘destino cieco’, poiché crede in una volontà divina che sta dietro quanto avviene nella storia; di fronte a questa designazione divina risulta logico che non faccia caso ai giudizi umani (1 Cor 2,15) e che non pensi a ricompense dovute per il suo lavoro; e quando deve difendere il proprio apostolato non rivendicherà per sé autorità ma obbedienza al vangelo, di cui è al servizio (1 Cor 3,5; Col 1,23). Il suo destino è il vangelo e la sua felicità consiste nell’esserne al servizio. Se così non fosse, non sarebbe possibile distinguere il servitore per amore dallo schiavo o dall’ossesso ed il vangelo non sarebbe riconoscibile come tale. Se il profeta può continuare a soffrire e a gemere sotto il peso della missione, l’apostolo si mantiene nella gioia e nella gratitudine e si sente felice del suo agire. Il suo destino è allo stesso tempo oggetto del suo amore. Qual è il segnale distintivo di questo amore? Precisamente il fatto che ama e quindi abbandona il proprio diritto, e ciò non lo induce a disinteressarsi, bensì ad impegnarsi. Per chi si sente inviato non esiste altro destino se non quello della propria missione: se vi resistesse, si perderebbe; guai a lui se non evangelizzasse! (1 Cor 9,16).


Nei passi autobiografici in cui Paolo parla del suo incontro con Cristo presenta l’intervento divino più come modificazione della sua vocazione che come intima trasformazione personale. Mentre l’apostolo si esprime in forma soggettiva e intimista, gli Atti preferiscono parlare di un avvenimento evidente e verificabile. Ciò significa per noi che l’evento di Damasco a noi non è accessibile nella sua dimensione storica bensì mediante le sue conseguenze, cioè nell’agire apostolico di Paolo. Solo rendendoci conto delle migliaia di chilometri percorsi in terra e in mare, dei rischi cui era soggetto un viaggiatore (cf. At 27; 2 Cor 11,22-27), dei disagi da affrontare, saremo in grado di misurare oggettivamente cosa ha significato per l'apostolo quanto ha vissuto interiormente sulla strada di Damasco. La necessità di evangelizzare (1 Cor 9,16) là dove Cristo era ancora sconosciuto (Rm 15,19-20) è l’effetto più evidente della sua ‘conversione’ ; il fatto che viaggiare non fosse per lui un semplice impegno personale si vede quando, vedendosene impedito, attribuisce il fatto a Satana (1 Ts 1,17-18): è Dio che lo invia (1 Cor 4,19; cfr. 16,7; Rm 1,10;15,32) ed è nemico di Dio chi glielo impedisce.



Il primo Paolo ‘cristiano’


È chiara l’importanza, per la comprensione del Paolo storico, la conoscenza del periodo che viene immediatamente dopo la visione di Damasco. Chi si impegni a ricostruire questa prima epoca di Paolo cristiano2 si imbatterá nel fatto che la testimonianza di Paolo (Gal 1,13-2,14) non si concilia con la cronaca degli Atti (9,20-30; 11,19-30 e 12,25; 15,1.5; 18,22; 21,17-25,12): né narrano gli stessi avvenimenti, né concordano nella loro presentazione, quando coincidono coi fatti narrati.


Data la versione contraria delle due fonti, non si riesce ad avere un’idea sicura dello svolgersi degli eventi, e i tentativi di concordare ad ogni costo Gal e Atti non sono giunti ad alcun risultato soddisfacente. Se anche qui è ponderato diffidare della versione lucana degli avvenimenti, neppure la testimonianza paolina rimane esente da sospetti. Le notizie di Gal sono dominate da un chiaro indirizzo apologetico; il che contribuisce a dare una visione parziale, e pertanto insufficiente, di quanto avvenuto.


Questo periodo dovette durare suppergiù 12 o 13 anni (16 anni, se dovessero esservi inclusi, i quattordici di Gal 2,1 e i tre di Gal 1,18). Sarebbe, dunque, il periodo più lungo conosciuto della vita del Paolo cristiano, poiché dalla uscita da Antiochia fino alla sosta a Gerusalemme passarono nove anni circa; e dalla cattività fino alla morte a Roma, intorno a quattro: si tratta di un periodo quasi tre volte più lungo dei brevi anni di vita che rimangono all’apostolo, nei quali tutte le sue lettere e sui quali anche il libro degli Atti fornisce il maggior numero di notizie.


Logicamente dovette trattarsi di una tappa molto importante nella vita dell’apostolo, di grande peso nella sua maturazione; ciò nonostante, non siamo in grado di dire con esattezza come la occupò. Poiché lui stesso riconoscerà di aver ricevuto delle tradizioni (1 Cor 11,23; 15,3-5; cf. At 9,17-18), è questo il tempo ovvio per pensare a un’istruzione catechetica comunitaria, anche se lui non ne parla mai nelle sue lettere; non si può nascondere che Paolo conosce la tradizione dei detti di Gesù (1 Cor 7,11a, cf. Mc 10,9-11; 1 Cor 9,14, cf. Lc 10,7/Mt 10.10; Rm 12,14-21, cf Lc 6,27-36; Rm 14,14. cf. Mc 7,15).


Dopo un breve soggiorno a Damasco (At 9,19), si recò in Arabia (Gal 1,17), regione situata ad est del Giordano e a sud di Damasco, zona di transito delle carovane e dove si trovavano città ellenistiche importanti. Pur essendo sottomessa ai Romani, l’amministrazione era nelle mani dell’etnarca nabateo Areta IV (9 a.C.-39 d.C.). Vi abitavano comunità giudaiche della diaspora (At 2,11) che avevano ottenuto grandi privilegi. Probabilmente è qui dove Paolo volle andare in missione per la prima volta e dove assaporò i primi fallimenti; l’ostilità successiva dell’etnarca (cf. 2 Cor 11.32-33; At 9,19-25) si capirebbe meglio dopo un tentativo fruttifero di missione nei suoi territori e l’ instabile situazione politica creatasi tra nabatei e giudei per ambizioni territoriali di Aceta e i conseguenti confronti militari.


Impossibile determinare il tempo del suo soggiorno in Arabia e i motivi del medesimo. Pensare che Paolo avesse cercato un luogo solitario per riflettere sembra non del tutto congeniale con il suo temperamento, né con la sua prassi. Paolo afferma tassativamente che non ricevette alcun ordine e presenta il viaggio come conseguenza immediata della rivelazione; il che fa pensare a un tempo per l’evangelizzazione, un lungo periodo che gli serví come tirocinio per posteriori missioni tra i gentili.


Dopo il suo ritorno a Damasco (Gal 1,17), l’opposizione dei Giudei al suo sforzo missionario fece sì che dovesse abbandonare rapidamente la città, lasciandosi calare dalle mura dentro una cesta (At 9,25; 2 Cor 11,32-33). Pare che la colonia giudaica avesse l’appoggio nabateo a Damasco e abbia così intrapreso una persecuzione che altrimenti, trovandosi la città sotto l’amministrazione romana, risulterebbe improbabile. Più sicuro è che Paolo non sia passato inavvertito né dai giudei né dai cristiani, proprio a causa della sua predicazione. È la prima volta che Paolo si confessa vittima di persecuzione; ed avvenne proprio nella città dove aveva iniziato a credere in Cristo.




  1. Memoria Pauli




Poco resta, e non degno di fiducia, sul soggiorno di Paolo a Damasco: la casa di Giuda (At 9,11) e quella di Anania (At 9,18), i luoghi vincolati alla conversione di Paolo e alla sua fuga (At 9,25) sono stati segnalati così recentemente, che la sua non sono plausibili.



10Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: ‘Anania!’. Rispose: ‘Eccomi, Signore!’ 11E il Signore a lui: ‘Su, va’ sulla strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, 12e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista”.


Via Retta e casa di Giuda


L’attuale Damasco all’interno della muraglia corrisponde alla città antica, al tempo di Paolo. Damasco era una città edificata secondo il modello greco, a griglia (l’architetto greco Ippodamo da Mileto, secolo VI a. C.) rettangolare: due vie perpendicolari, cardus maximus e decumanus, dividevano la cittá in quattro zone (‘quartieri’); su di esse, si disegnavano le altre, in paralello.


La Via Diritta era il nome popolare del decumanus, la arteria principale che attraversava la città da est ad ovest. Fiancheggiata da colonnate e dotata di larghi marciapiedi, era lunga 1350 m. e larga 26 m.: ancora sono in vista alcuni frammenti delle colonne. Oggi inizia a est da Bab Sharqi (la Porta del Sole dei romani), il monumento più antico della città che risale ai tempi di Augusto ed è stato conservato nella sua forma originale, tranne il minaretto (dal secolo XIII); termina a ovest nei pressi di Bab al-Jabiye (la Porta di Giove dei romani). Partendo da oriente, il primo tratto della strada, a cielo aperto, è chiamato via Bab Sharqi (Zuq et-Tawil, mercato lungo); a 675 m. il secondo tratto, chiamato via Midhat Pasha (Zuq Madhat Pasha), piú lungo e coperto di lamiere, comincia da un arco romano, residuo del tetrápylon dove c’era l’intersezione delle due vie, la cardus e la decumanus, restaurato nel 1947, e finisce nei pressi di Bab al-Jabiye. L’attuale strada è 4 m. sopra il livello dell’antica e più stretta. Certamente Paolo ha passato per questo luogo.


Sulla stessa via Madhat Pacha, nel tratto coperto, si trova una piccola moschea (Jaqmaq o Sheikh Nabhán) a 430 m. dell’entrata ovest della strada, con un balcone in forma di pulpito. Una tradizione locale fissa qui la Casa di Giuda, dove Paolo avrebbe dimorato tre giorni e ricevuto il battessimo da Anania (At 9,10-19). La moschea sembra essere stata edificata sulle rovine di una antica piccola chiesa.



Casa di Anania


Secondo Luca a Damasco, 5 anni dopo la risurrezione di Gesù, ci sarebbe una comunità ‘di alcuni [seguaci] del cammino’ (At 9,2.19), giudei cristiani (At 9,19) organizzati in torno a ‘discepolo di nome Anania’ (At 9,10). Un leggenda l’ho fatto uno dei 72 discepoli inviati da Gesù, che avrebbe evangelizzato Damasco, dove sarebbe stato lapidato; sul suo sepolcro si edificò un mausoleo e poi un monastero. La casa, convertita presto in luogo di si è localizzata da sempre nella parte orientale della città, tra le porte Bab Tuma e Bab Sharqui; dopo la sua morte i cristiani continuarono a radunarsi in essa e, sotto l’imperatore Adriano, fu convertita in luogo di culto pagano.


Nel periodo bizantino fu edificata una grande chiesa, la Santa Cruz (secolo V-VI), distrutta nel 700. Ricostruita viene utilizzata fino al secolo XII, quando fue convertita in moschea da Salah-ed-Din. Nel secolo XVI i pellegrini parlano di due luoghi di culto, uno per cristiani, l’altro per musulmani. A inizi dell’Ottocento, moschea e capella, erano un cumulo di rovine; acquistate dalla Custodia di Terra Santa, che vi edificò una capella, distrutta nel 1860 e reedificata poco dopo; l’ultima restaurazione risale al 1973.


Scavi realizzati nel 1921 nell’attuale cripta misero alla luce resti di un altare pagano e l’abside e colonne della chiesa bizantina); sottostanti, resti di un’abitazione del primo secolo.



Luogho della fuga


19Rimase alcuni giorni insieme ai discepolo che erano a Damasco, 20e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. 21Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: ‘Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contra quelle che invocano questo nome […] 23Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; 24ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Esse facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; 25ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta.


Damasco era una città fortificata. Chi oggi esce dalla Porta Orientale e percorre 400 m. a destra, trova la porta Bab Kaysan, del tempo dei mamelucchi, dove era antica porta romana di Saturno, conosciuta come Porta di San Paolo; si possono vedere in basso blocchi di pietra di stile romano. Una tradizione tardiva localizza accanto alla porta la finestra attraverso cui Paolo fu calato giù dai discepoli, e partì per Gerusalemme.


Ci sono testimonianze di scrittori arabi che indicano l’esistenza di una moschea all’interno della porta Bab Kaysan, nei pressi di una antica chiesa bizantina. A partire del secolo XIII abbondano i racconti di pellegrini che unanimemente parlano della venerata finestra accanto alla citata porta. Nel 1885, la vecchia moschea fu acquisita dal patriarca melkita Gregorio Joseph e convertita nella capella di S. Paolo, inaugurata nel 1939.



Memoriale di San Paolo


La tradizione non è unanime nella localizzazione del luogo dell’incontro con Gesù nella vida di Damasco: Daraya, a 14 km; Marjisafra (Kiswe), a 17 km., Kaukaba, 18 km., dove ci sono spoglie di una chiesa crociata. Il testo lucano fa pensare a una distanza minore (At 9,8) e la maggioranza delle testimonianze dei pellegrini fanno preferire la località di Tabballeh, a 800 m. verso il sud di Bab Sharqi, dove i francescani, nel 1925, eressero un modesto santuario, demolito nel 1964 per far posto all’attuale Memoriale San Paolo.


Il Memoriale è stato voluto da Paulo VI, pellegrino in Terra Santa nel 1964, dopo aver incontrato il patriarca di Costantinopoli Atenogoras e reiniziato il cammino verso l’unità. Inaugurato nel 1971, la chiesa è stata progettata dal architetto italiano Italo Viesi e presenta l’aspetto di una grande tenda. La decorazione (bronzo, vetrate, mosaici) si deve ad artisti italiani. L’altare è una lunga e larga lastra di marmo di Carrara.


1 Filone parla di migliaia di ‘vigilanti’ pieni di zelo, guardiani delle tradizioni, crudeli con chi non le rispettasse tra il giudaismo della diaspora (Spec. Leg. II 253).

2 La formulazione, anche se abituale, è anacronistica. Paolo non utilizza né per sé né per altri il termine ‘cristiano’; in realtà parlare del ‘Paolo cristiano’ rispecchia una forma di capire Paolo con cui, probabilmente, lui non si identificherebbe. Anche se credente in Cristo, Paolo non lasciò mai di sentirsi giudeo: nacque giudeo, visse come giudeo, con tutta probabilità come giudeo morì.

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