Nelle Orme di San Paolo - L'evangelizzazione paolina 1

L’evangelizzazione paolina

motivi, metodi e strategie





L’attività missionaria di Paolo è, indubbiamente, la tappa meglio documentata di tutta la sua vita. Culla e contesto della sua attività letteraria, è pure decisiva per capire il suo pensiero teologico.




  1. Paolo missionario




Dopo l’incidente di Antiochia, nell’anno 49, Paolo si stacca dalla tutela della comunità antiochena e si lancia nella missione universale, responsabile come si sentiva di ‘tutte le chiese’ (2 Cor 11,28). Di nessun altro missionario del primo cristianesimo si sa che abbia puntato così lontano e che si sia proposto di portare il vangelo fino ai confini del mondo allora conosciuto. Paolo non fu l’iniziatore di questa conversione della missione cristiana verso il mondo pagano, né creò i presupposti di essa. Le basi di quest’ evangelizzazione furono messe da gruppi itineranti carismatici, che lasciarono la loro impronta nelle tradizioni evangeliche (Mt 10; Mc 6,7-11; Lc 9,1-6; 10,2-16) e si aprirono per primi ai pagani (At 8,5-25.26-30; 11,19.32-35.36-42).


In un primo momento Paolo si inserì in una comunità missionaria, quella di Antiochia, che assunse il proprio compito come delegato da essa (At 13,1-3). Ma, abbandonando presto il terreno in cui egli non aveva seminato (Rm 15,20), cercherà instancabilmente di predicare senza altri confini che quelli imposti dai limiti del mondo (Rm 15,24.28). Cercava così di pagare il debito contratto con Cristo, che lo aveva mandato a predicare il vangelo (1Cor 1,17) ai pagani (Rm 1,14). Si deve riconoscere che Paolo non fu l’unico missionario del suo tempo; ma non abbiamo quasi informazione sulla missione cristiana al di fuori di Paolo.



Il motivo: l’urgenza d’evangelizzare



Non fu tanto la sua rottura personale con la comunità di Antiochia (At 15,36-39) quanto piuttosto la sua consapevolezza di essere stato inviato ai pagani (Rm 11,13; Gal 1,16; 2,7) la ragione del suo instancabile lavoro missionario ‘in tutte le direzioni’ e della sua irrequieta ricerca di nuove missioni per non costruire su fondamenti altrui (Rm 15,17-24; 1 Cor 3,6; 4,15; Gal 4,19).


L’incidente in Antiochia poté convincerlo di andare altrove, senza il patrocinio della comunità antiochena, ma non gli apportò le motivazioni per farlo. Viveva la sua vocazione come un avvenimento escatologico, definitivo, che gli fece comprendere la sua vita e la sua missione in un modo totalmente nuovo, sotto un profilo apocalittico (1Ts 2,19-20; Fil 2,14-16; 1Cor 3,10-15; 4,3-5): ‘doveva’ realizzare il progetto salvifico di Dio predicando il vangelo (1 Cor 9,16.22; 1 Ts 2,16) e non disponeva di molto tempo (1 Ts 1,9-10). Si sentiva non solo scelto (Gal 1,16) ma pure qualificato (1 Cor 15,10). Per questo non accettava limiti alla sua missione né frontiere per il suo vangelo (Rm 15,16-28); il suo compito missionario aveva un orizzonte vasto quanto il mondo.


Per Paolo non avevano valore quanti limiti incontrava sul suo cammino evangelizzatore. Ciò non significa che Paolo negasse la realtà delle frontiere; esse appartengono alla realtà del mondo. Ma se Paolo è debitore del vangelo all’universo, allora deve superarle, vincerle. L’unico a cui si sente vincolato, senza rimedio, è Cristo (Rm 15,16; 2Cor 11,23), il vangelo (1Cor 1,17; Gal 1,6-9.11-12; cf. Ef 3,7; Col 1,23), del cui annuncio non si vergogna (Rm 1,16).


L’apostolo comprende, ogni volta meglio, che il vangelo deva essere predicato con urgenza ai pagani proprio nel momento in cui egli vive – ‘la notte è avanzata, il giorno è vicino’ (Rm 13,12) – e prende sempre più consistenza in lui la coscienza della ‘necessità’ terribile (1 Cor 9,16) che grava su di lui. Paolo aveva la consapevolezza di essere un elemento indispensabile nel grande dramma che si concluderà nello stato finale del regno messianico. Per cui dobbiamo comprendere il grido di 1 Cor 9,16 più come espressione di un dovere imposto che come una dichiarazione di un carico pesante; non è la psicologia del predicatore quel che importa, ma la predicazione del vangelo (1 Cor 9,17): quel che è in gioco non è il successo della sua vita personale ma la salvezza da Dio.



Il metodo



Se la coscienza apostolica che Paolo aveva di se stesso si può comprendere solo dall’attesa apocalittica, altrettanto si può dire del metodo e della finalità della sua missione.


Secondo Atti l’evangelizzazione paolina seguì un preciso modello: arrivato in una città, l’apostolo dei gentili si dirige prima ai giudei e, poi, ai pagani (At 13,5.14; 14,1; 16,13; 17,1-3.10.17; 18,4.19; 19,8; 28,17,33). Si è pensato che questo schema rifletta più l’immagine di Paolo che Luca voleva trasmettere che la pratica abituale dell’apostolo. In realtà, Paolo credette di non poter adempiere la sua missione personale, accettata a Gerusalemme (Gal 2,9), al di là del popolo giudeo: senza di esso, neppure i gentili avrebbero speranze (Rm 15,8-13). Paolo no poteva concepire una sua missione per soli i pagani, una missione di cui il suo popolo non facesse parte; era stato inviato ai gentili per annunziare il compimento delle promesse fatte da Dio a Israele, una realizzazione che non sarebbe avvenuta senza di esso. La primazia salvifica di Israele si rifletté nella strategia missionaria paolina: andare in sinagoga, appena arrivato in una città “era la sua abitudine” (At 14,1). Anche se abbellita, la versione lucana delle priorità dell’evangelizzazione paoline rispetta i fatti.


Le condizioni sociali nell’impero romano gli furono propizie. L’unità politica, la stabilità legale, una economia in crescita e un esercito efficiente e ovunque presente garantivano la pax romana. Una eccellente rete di comunicazioni, terrestri e marittime, favoriva la mobilità: gruppi che viaggiavano insieme di città in città erano la norma. Il predominio di una lingua franca, oltre alle lingue locali, facilitava gli intercambi: i limiti geografici e quelli linguistici e culturali si superavano con facilità. Paolo poté percorrere il mondo con il greco, sua lingua materna, e comunicarsi dovunque con tutte le classi sociali. Il monoteismo aveva un gran potere di attrazione in certi gruppi sociali di fronte a un sincretismo religioso esuberante e ampiamente stimolato dai poteri pubblici; la richiesta di modelli di vita virtuosa si sentiva tra le classe popolari. I primi missionari cristiani potevano essere identificati con i numerosi predicatori itineranti cinici che offrivano un messaggio di vero rinnovamento morale per le strade delle città.



Fondatore di comunità


Paolo considerava le sue comunità – per le quali si dichiara sempre preoccupato (2 Cor 11,28) – come l’opera della sua vita, il titolo migliore che avallava davanti al Signore la sua vita, “il sigillo del suo apostolato” (1 Cor 9,1; 1 Ts 2,1.9-12.19-20; 1 Cor 3,3.5-17; 9,15-23; 15,20; Gal 1,16; 3,1-5; Rm 1,13-14; 15,14-29).


Le comunità, da lui ‘piantate’ (1 Cor 3,9) ed edificate (1 Cor 3,11), sono templi della presenza di Dio (1 Cor 6,19; 8,1; 10,22-23; 14,3-5). La loro costruzione è compito suo, assegnatogli da Dio (2 Cor 10,13-16), la ragione della sua autorità (1 Cor 10,8; 13,10), una autorità non messa in discussione per la sua indegnità (1 Cor 15,8-10) o le sue debolezze (2 Cor 4,7). A volte poté sentire il timore di lavorare infruttuosamente (1 Ts 3,5; Gal 2,2, 4,11; Fil 2,16), e anche se era cosciente della sua capacità di persuasione, mai si lasciò guidare dalla ricerca di successo personale.


Attenendoci alle sue stesse lettere, si contano subito le comunità sorte dalla sua predicazione missionaria. Per avere una visione precisa è necessario situarle in una cartina dell’impero. Sorprende immediatamente il loro carattere strategico: sono isole nel mare dell’impero, centri di future espansioni. Paolo considerava se stesso più come fondatore che come accompagnatore; predicatore anzitutto, più che catechista (1 Cor 1,17; 3,6). Il tempo trascorso da Paolo nelle sue comunità solitamente era breve. Era tutto ancora in fase di edificazione, quando Paolo si vedeva costretto di nuovo a partire; non si sentiva tanto educatore permanente della vita comune ma fondatore di nuove comunità. Opposizioni da parte dei giudei e delle autorità civili (1 Cor 4,9-16; 15,32; 16,9; 2 Cor 4,7-12; 11,23-12,21), concorrenza da parte di altri missionari cristiani (2 Cor 10-13), privazioni e persecuzioni (1 Cor 4,11-15; 2 Cor 1,8-9; 4,7-10), maltrattamenti (2 Cor 11,24-28; At 16,22-24) e prigione (Fil 1,7.13.20-24; 1 Cor 4,9; 15,32) furono parte normale del suo apostolato.


L’’immagine di un Paolo gran taumaturgo, su cui insistono gli Atti (At 13,9-12; 14,8-18; 16,18; 19,11-20; 20,7-12; 28,3-10) è meno credibile. Anche se indubbiamente operava segni che ne confermavano la missione (2 Cor 12,12; Rm 15,18-19) – poiché il vangelo è potere di Dio, che va accompagnato da segni e miracoli (2 Cor 12,12; Rom 15,28-19) – non considerava il miracolo come parte decisiva del suo compito evangelizzatore. Per esprimere quest’ultimo ricorse piuttosto al linguaggio dell’amore umano, paterno (1 Cor 4,15) o materno (1 Ts 2,7-8); è in estremo inconsueto il numero e l’intensità di formule affettive che si trovano nella sua corrispondenza.


Quale fondatore, Paolo si sentiva padre di intere comunità: Corinto (1 Cor 4,15; 2 Cor 6,12; 12,14), Filippi (Fil 2,22), Tessalonica (1 Ts 2,11); così come di individui: Onesimo (Flm 10), Timoteo (1 Cor 4,17; Fil 2,22; 1 Tm 1,2.18), Tito (Tt 1,4). Sentiva un profondo amore nei confronti dei suoi (2 Cor 2,4; 6,11-13); la loro sorte lo angosciava (1 Ts 2,17; 2 Cor 11,28-29); lo sdegnavano le loro crisi (Gal 1,6-9; 4,16-20; 2 Cor 1,13-14); era motivo di gioia la loro fedeltà (Fil 4,1); la sua preghiera per loro era costante, con gioia (Fil 1,4) o con preoccupazione (1 Ts 3,10).


Il suo affetto era così grande (2 Cor 6,11) che poté dichiararsi disposto a dare la vita anche per coloro che egli sa che non lo amano tanto (2 Cor 12,15). Giunge a paragonare il suo compito apostolico al partorire nel dolore (Gal 4,19-20), all’allattare (1 Cor 3,1-3), compiti materni: I suoi convertiti, suoi figli (1 Cor 4,14-16; 2 Cor 6,13; Gal 4,19; Fil 2,22; 1 Ts 2,7.11), sono da lui amati con esclusività (2 Cor 11,1-3).


E fonda sempre la sua attività evangelizzatrice sulla sua pretesa di paternità (1 Cor 4,15; Gal 4,9; Flm 10), che esercita come vero pedagogo (1 Cor 4,15). Come padre, può proporsi come modello da imitare (1 Cor 4,16; 11,1; Gal 4,12; Fil 3,17; 1 Ts 1,6; 2 Ts 3,7.9) o rifiutarsi di essere soccorso ( Cor 12,14); in quanto padre esorta (1 Ts 2,11-12) o corregge (1 Cor 4,12.14-21), preferendo al comando l’appello (Rm 12,1; 15,30; 16,7; 1 Cor 1,10; 4,16; 16,16; 2 Cor 5,20; 6,1; 10,1; 13,11; Fil 4,2; Flm 8-9). L’amore e la tenerezza, però, non lo portavano ad abdicare alla propria autorità (2 Cor 10,6; Fil 2,12; Flm 2), conferitagli da Cristo per l’edificazione delle sue chiese (2 Cor 10,8; 13,10); Paolo mira all’unità del corpo ecclesiale, più che alle relazioni personali con i membri. Tale preoccupazione fu per Paolo fonte di non poche fatiche ed anche di sofferenze (1 Cor 4,9-13; 2 Cor 11,23-28; Fil 4,10-13).



L’ambiente urbano come campo di missione



Paolo concentrò il suo sforzo su alcune città dove ancora non era giunto il vangelo (Rm 15,20), situate fondamentalmente in quattro province dell’impero romano: Galazia ed Asia, ad oriente, e Macedonia ed Acaia, ad occidente. Città popolose e piene di vita, benché non tutte grandi, erano rilevanti dal punto di vista culturale e politico; alcune, città libere; altre, colonie romane. Centri di artigianato e commercio, erano distribuite irregolarmente nella geografia, però accessibili con facilità per mare o terra. Nell’intenzione dell’apostolo dovevano assicurare l’evangelizzazione di tutta la regione: Filippi rappresenta la Macedonia (Fil 4,5); Tessalonica, la Macedonia e l’Acaia (1 Ts 1,7-8); Corinto, l’Acaia (1 Cor 16,15; 2 Cor 1,1) ed Efeso, l’Asia (Rm 16,5; 1 Cor 16,19; 2 Cor 1,8).


Ogni comunità, appena sorta alla vita, rappresenta per lui l’intera regione. Questa convinzione manifesta la certezza dell’apostolo che il vangelo annunciato in un posto qualsiasi troverà da sé la via per estendersi; e risulta in una precisa metodologia missionaria: Paolo rendeva tosto responsabili per il servizio apostolico le comunità da lui fondate, per quanto fossero giovani. Corinto non tardò a patrocinare la comunità di Cencre, il suo porto ad oriente (Rm 16,1-2), e persino l’intera Acaia (1 Cor 1,1); ed Efeso quelle di Colosse e di Laodicea, nella valle del Lico (Col 1,7; 4,16).


Non è da esagerare, però, l’influsso che le comunità di recente fondazione hanno potuto avere nella loro regione, data la poca rilevanza sociale dei loro membri ed il loro esiguo numero. Così, per es., a Corinto la comunità cristiana poteva contare un centinaio di membri, mentre la metropoli superava il mezzo milione di abitanti. Ma questo fatto rende ancor più significativa la tattica evangelizzatrice dell’apostolo; volle seminare l’impero di piccole cellule, strategicamente situate e legate permanentemente alla sua persona, ed a cui affidava il proseguimento della sua missione personale. La missione paolina, pertanto, fu essenzialmente urbana. Le grandi città, situate lungo le vie romane, erano più facilmente raggiungibili; inoltre solo lì Paolo poteva farsi capire sempre in greco. La città era il luogo dove si poteva prendere contatto con la nuova civiltà, dove ci si imbatteva nelle novità.


Che per l’apostolo qualsiasi luogo non fosse mai il termine di un viaggio, bensì una stazione di passaggio, non significa che non vi prestasse sufficiente cura pastorale. E’ vero che di solito non si fermava in una comunità ma doveva sempre andare oltre. È pure certo che la sua responsabilità verso le comunità lo obbligò più d’una volta a modificare e rinviare la realizzazione del suo grande piano. In realtà, nei viaggi da lui programmati – i così chiamati ‘secondo’ e ‘terzo’ – non replicò la pratica anteriore di girare in continuazione di città in città, che realizzò nel ‘primo’, ma sviluppò una strategia diversa: cercò di fondare varie comunità in una città, di solito, la capitale amministrativa, perché diventasse centro missionario nella regione.


Paolo mantenne sempre con le sue comunità un rapporto differenziato e personale. Anche se non tutte le comunità da lui fondate gli furono sempre fedeli, nessuna gli rimase indifferente. Le lettere che ci ha lasciato lo dimostrano e, allo stesso tempo, provano l’interesse dell’apostolo a rimanere informato delle loro vicissitudini e la preoccupazione per la loro permanente formazione. Sono esse a trasmetterci un’immagine di Paolo totalmente preoccupato per i problemi delle sue comunità, al tempo stesso che si occupava della creazione di altre nuove.



Piccole comunità, ‘domestiche’



Un uomo come Paolo, in continuo pellegrinaggio, dovette ricorrere frequentemente all’ospitalità dei fratelli in case private. Giuda a Damasco (At 9,11), Lidia a Filippi (At 16,14-15.40), Giasone a Tessalonica (At 17,5-7), Aquila e Priscilla a Efeso (1 Cor 16,19; At 18,18-19; Rm 16,3), così come Tizio Giusto e Caio a Corinto (At 18,2-3.7) furono alcuni dei suoi ospiti abituali. E’ probabile pure che a volte sia ricorso a case in affitto (ad Efeso: At 19,9-10; a Roma: At 28,16.30).


La casa gli offriva alloggio e un ambiente adeguato per la propaganda ed il culto (1 Cor 15; Rm 16,5). Nella residenza di Aquila e Priscilla si riuniva la comunità di Efeso (1 Cor 16,19), qualche anno più tardi quella di Roma (Rm 16,3.5). In casa di Filemone, quella di Colosse (Flm 1-2); in casa di Ninfa, quella di Laodicea (Col 4,15). Senza tali luoghi di accoglienza, che per forza esigevano comunità di numero ridotto (1 Cor 1,14) sarebbe stata impensabile la missione paolina.


Oltre alle sinagoghe (At 12,5.14.43; 13,14-43; 14,1; 17,1-2.10.17; 18,4.19; 19,8), e più occasionalmente, ai luoghi pubblici (At 16,13; At 17,17.19-34) o la prigione (At 28,30-31; Fil 1,12), il laboratorio (1 Ts 2,9) e la casa privata (1 Cor 16,19; Rm 16,5; Flm 2; Col 4,15) furono testimoni privilegiati del proselitismo paolino, luoghi ordinari della vita delle comunità. In particolare la casa, spazio privato per il culto divino e luogo di vita quotidiana si convertì nel recinto in cui si praticava la fede e l’amore, senza stabilire una dicotomia tra la celebrazione domenicale e la vita quotidiana.


Le conseguenze sono ovvie. Il numero dei cristiani, la cui assemblea si riuniva in case private, doveva per forza essere esiguo. Ad ogni modo, la differenza che stabilisce Paolo tra l’assemblea domestica (1 Cor 16,19; Rm 16,5) e tutta la chiesa (1 Cor 14,23; Rm 16,23) impedisce di ridurre i credenti di una città agli integranti di una sola famiglia. Inoltre, anche se la conversione del capo famiglia di solito coinvolgeva tutti i familiari (1 Cor 16,15-16; cf. 1,16; At 10,2; 11,4; 16,5; 16,31-34; 18,8), non è sempre stato così (cf. Rm 16,10.11.14-15). La vita della comunità credente cresceva nell’ambiente domestico, generalmente benestante (cf. Rm 16,13); tale vita comune rimaneva separata dall’ambiente di strada dove si svolgeva la vita ufficiale. La privatezza favoriva la stabilità e maggiori rapporti interpersonali, ma rendeva anche possibili tensioni (1 Cor 1-4.8-10). Una certa ‘leadership’, la responsabilità quotidiana, ricadeva di solito sulla famiglia padrona di casa, un spazio sotto il dominio della donna (Rm 16,1-2; 1 Cor 16,15-16; 1 Ts 5,12-13).


Unico luogo di riunione nei grandi nuclei urbani, l’ambiente familiare contribuì alla ‘familiarizzazione’ della vita cristiana, delle sue strutture, del suo governo, dei suoi codici di condotta (Col 3,18-4,1; Ef 5,21-6,9; 1 Pt 2,18-3,7). La privacy dell’ambiente favoriva lo smantellamento delle convenzioni sociali tra i membri: in comunità impera una nuova identità, l’uguaglianza (Gal 3,26-28). Nelle ‘chiese che si radunano in case’ (1 Cor 16,19) fede e vita sociale non si vivono separatamente.


Il vocabolario paolino riflette questa situazione: i cristiani sono famiglia di Dio (Gal 1,2), fratelli (1 Cor 8,11.13; 15,58; Fil 2,25; 3,1; 4,1; Col, 4,7; Flm 7) e sorelle (Gal 3,15). L’apostolo considera se stesso come un padre (1 Ts 2,11; 1 Cor 4,14-15; Flm 10; Fil 2,22), come una madre (Gal 4,19; 1 Ts 2,7) ed anche come figlio (1 Ts 5,11; 1 Cor 8,1.10; 10,23; 14,3-5.12.17.26; 2 Cor 10,8; 12.19; 13,10; Rm 14,19; 15,2); si considera un amministratore (1 Cor 4,1-12), un saggio architetto (1 Cor 3,10-13). Utilizzando ambienti domestici e un linguaggio familiare, Paolo fa apparire le sue comunità come gruppi vincolati da relazioni di parentela.


Che la cellula minima del cristianesimo fosse costituita dalle assemblee domestiche (Rm 16,5.19; Flm 2) non lo riduce ad esse. La chiesa abbraccia la riunione dei fedeli di una città (1 Cor 5,4-5; 11,18), di una regione (1 Cor 16,1.19; Gal 1,2; 2 Cor 8,1), di tutti i gentili (Rm 16,4), di tutti i credenti (Rm 16,16; 1 Cor 11,16.22). La consapevolezza di appartenere ad un unico popolo universale è costante nelle comunità paoline; se l’apostolo ebbe a lottare per qualcosa, fu proprio per questo (1 Cor 1,2). Integrarsi nella chiesa cristiana non doveva essere una decisione facile; supponeva un cambio radicale nelle credenze e di situazione sociale. I convertiti entrano in una nuova famiglia, sostituendo relazioni antiche e ottenendo segni nuovi d’identità; cambiavano il modo di vedere la società e il modo di essere da essa visti; si allontanavano da persone, culti e prassi che avevano dato loro senso nella vita e si trasferivano, con esclusiva e totale adesione, ad un universo simbolico nuovo. La condanna del mondo contemporaneo senza remissione e la chiara percezione dell’esistenza del male favorivano la conversione necessaria e, una volta avvenuta, la legittimavano.


Agli occhi di concittadini gentili, i cristiani assomigliavano alle associazioni private, religiose o filosofiche, che socializzavano la vita pubblica, la cui più notabile manifestazione era la fraternità intorno a una mensa comune.



Una missione in collaborazione



Pur cosciente della sua personale chiamata, Paolo non realizzò la missione da solo. Sempre volle essere accompagnato da ausiliari; e ricorse all’aiuto di collaboratori che si prendessero cura dei suoi durante la sua assenza, data l’impossibilità di visitarli più spesso.


Le fonti enumerano quasi un centinaio di persone che lo aiutarono nello svolgimento della sua missione; anche solo il finale congedo di Rm (16,3-16) arriva a citarne ben 26. Anche se gli Atti indebitamente riducono il loro ruolo a quello di semplici compagni di viaggio, in realtà alcuni furono autentici apostoli, con iniziativa propria, come Barnaba (At 11,25-30; 12,24), Apollo, giudeo di Alessandria (1 Cor 1,12; 3,4-9, 4,6;16,12; At 18,24-28) o i coniugi Aquila e Priscilla, residenti a Roma (At 18,2-3,18-26; 1 Cor 16,19; Rm 16,3-5; 2 Tm 4,19). Altri accompagnarono permanentemente Paolo, come Sila (At 15,4-18,17; 1 Ts 1,1; 2 Cor 1,19) e portarono a compimento missioni molto difficili: Timoteo, p.es., sarà inviato a Tessalonica (1 Ts 3,2), a Corinto (1 Cor 4,17; 16,10) e a Filippi (Fil 2,19) a risolvere situazioni molto delicate; il fatto di volerlo firmatario di alcune delle sue lettere (1 Ts, 1 Cor, Fil, Flm) è un segno della fiducia che riponeva in lui; oltre ad essere stretto collaboratore di Dio (1 Ts 3,2) e suo (Rm 16,21), fu per Paolo anche ‘figlio carissimo’ (1 Cor 4,17; Fil 2,10) e ‘fratello’ (2 Cor 1,1.19; Fil 1,1). Tito, che ha accompagnato Paolo nel decisivo viaggio a Gerusalemme (Gal 2,3-5), dopo il fallimento di Timoteo a Corinto, riuscirà nell’intento di risolvere la crisi (2 Cor 2,13; 7,6-7) e vi sarà nuovamente mandato per organizzarvi la colletta nella comunità dell’Acaia (2 Cor 8,6-7). Silvano, che assieme a Timoteo è tra i fondatori della comunità di Corinto (2 Cor 1,19), sarà presentato dall’apostolo come co-mittente della prima lettera ai tessalonicesi (1 Ts1,1). Epafra ‘compagno di prigionia di Paolo’ (Flm 23), sarà poi l’evangelizzatore e responsabile delle chiese della valle del Lico (Col 1,7; 4,12-13). Filemone (Flm 1), Aristarco, Marco, Dema, Luca, Giusto (Flm 23-24), Epafrodito (Fil 2,5), Clemente (Fil 4,2-3), Urbano (Rm 6,9) e molti altri (1 Cor 16,15-18) sono considerati dallo stesso apostolo più che semplici accompagnatori, autentici apostoli collaboratori.


Paolo seppe mobilitare attorno al suo progetto missionario molte persone e programmare un lavoro articolato ed efficace di propaganda. Ê stato un ottimo organizzatore e un sapiente pianificatore, leader carismatico di équipes missionarie sufficientemente elastiche, in cui si distinguevano collaboratori stretti e permanenti, aiutanti saltuari, personalità forti e umili gregari, compagni di viaggio, rappresentanti di comunità. Solo così si spiega storicamente che la sua attività missionaria, ridotta nel tempo a meno di venti anni, si sia potuta estendere tanto geograficamente ed abbia mietuto successi spettacolari e duraturi.


La preoccupazione dell’apostolo di unire alla sua missione altre persone è manifesta tanto nelle intestazioni come nei saluti e poscritti delle sue lettere; ciò ci sembra tanto più meritorio se teniamo conto del suo temperamento restio e un po’ diffidente. Indubbiamente qui risiede la grandezza di Paolo, proprio nel modo di relazionarsi e di educare personalmente i suoi collaboratori, cui concede libertà totale di azione e di iniziative, mentre si aspetta da loro che si attengano al vangelo e si mantengano uniti a lui (1 Cor 1,11-12; 3,10-11). Solo così si comprende come le comunità da lui fondate abbiano poi collaborato alla diffusione del vangelo (Fil 4,2-3; Col 1,7-8; Flm 23-24).


Questo drappello di cooperatori sopravvisse all’apostolo e il suo apporto al cristianesimo post-paolino fu, senza dubbio, decisivo. In più, se non questionavano il suo vangelo e la sua vocazione (2 Cor 3,11.15; Fil 3,2; Gal 5,12), Paolo non considerava opponenti i missionari che arrivavano nelle sue comunità (Fil 1,12-18; 1 Cor 3,5-11), erano suoi colleghi.



La donna nella missione paolina



Tanto At come la corrispondenza paolina mettono in risalto il contributo di alcune donne alla missione paolina (At 12,7.12: Maria, madre di Giovanni Marco; 16,14: Lidia; 17,34: Damaris; Rm 16,1: Febe; Rm 16,3: Aquila e Priscilla; Rm 16,6: Maria; Rm 16,7: Andronico e Giunia; Rm 16,12: Perside, Trifena e Trifosa; Rm 16,15: Giulia; 1 Cor 1,11: Cloe; 1 Cor 16,19; Fil 4,2: Evodia e Sintiche; Col 4,15: Ninfa; Flm 2: Afia; 2 Tm 1,5: Loide ed Eunice; 2 Tm 4,21: Claudia). Alcune sono convertite, come Loide ed Eunice, Damaris o Lidia. Altre giungono ad occupare posti di responsabilità nelle comunità locali, come Cloe e Ninfa; altre condividono con Paolo la missione apostolica: Evodia e Sintiche, Prisca ed altre giunsero, probabilmente, a svolgere funzioni ministeriali, come Febe, diaconessa a Cencre e benefattrice dell’apostolo (Rm 16,1.3; cf. 1 Cor 3,5; 2 Cor 3,6; 6,4) e Giunia, illustre tra gli apostoli e compagna di prigione di Paolo (Rm 16,7). Con alcune, la cara Perside e la madre di Rufo, che egli considera come madre propria (Rm 16,12-13), mantenne rapporti di affetto. Queste donne vengono menzionate non per il loro ruolo domestico, ma per il loro servizio alla chiesa e l’attività evangelizzatrice.


Anche se è certo che non fu Paolo l’iniziatore di questo inserimento della donna cristiana nella missione (cf. Lc 8,2-3), si può affermare che, lungi dall’avere delle riserve sulla loro presenza e intervento, si avvalse di essa ed altre volte espresse lodi al riguardo. Con alcune credenti, poi, mantenne anche un rapporto stretto non esente da ammirazione. Non vi è dubbio che nel circolo paolino alcune donne andavano al di là delle attese normali dei ruoli femminili, tanto a livello della loro posizione nella società come della loro partecipazione nelle comunità cristiane (1 Cor 11,4-5).


Tali fatti non sono del tutto compatibili con alcuni testi paolini: 1 Cor 11,2-16 e 1 Cor 14,34-36, in particolare, sembrano indicare una certa misoginia in Paolo.


L’apostolo cerca in 1 Cor 11, di stabilire il buon ordine nelle assemblee comunitarie in cui le donne pregavano e profetizzavano pubblicamente. 1 Cor 11,5.13, presenta un’argomentazione piuttosto confusa. Il suo interesse perché le credenti usino il velo durante le riunioni liturgiche potrebbe essere apologetico, volendo liberare il cristianesimo nascente dal sospetto di lassismo sociale, al tempo stesso che manteneva l’unità interna; il suo ragionamento, teologico (1 Cor 11,3-10) o non (1 Cor 11,13-15), è certamente complicato, tanto che alcuni lo considerano un’interpolazione posteriore. Paolo non determinò quale doveva essere il ruolo della donna nella comunità, né, molto meno, lo subordinò a quello del maschio; attaccò una prassi concreta che poteva risultare scandalosa ai propri e agli estranei.


Più chiara è l’argomentazione in 1 Cor 14,34-36, dove Paolo impone il silenzio alle donne durante l’assemblea (cf. 1 Tm 2,11-15). Non c’è bisogno di ricorrere a presunte contraddizioni con altre prese di posizione più fondamentali di Paolo (1 Cor 11,5; Gal 3,28) in modo tale da dover considerare necessariamente una simile opinione come non autenticamente paolina. Non risulta molto convincente eliminare a priori contraddizioni in un uomo così contraddittorio come Paolo; né è impossibile, inoltre, che una situazione particolare della chiesa di Corinto lo costringesse a prendere questa determinazione concreta.



Con la vita comune come obiettivo



A differenza dei predicatori itineranti della sua epoca, cui somigliava nella sua opera di proselitismo, Paolo non era animato dall’educazione morale degli individui, ma dalla creazione di comunità (2 Cor 11,28). Così come la sua corrispondenza – fatta eccezione di Flm – il suo lavoro missionario aveva come destinatari i gruppi di credenti che erano sorti dalla sua predicazione. Ciò lo costrinse a convertirsi da missionario a pastore, responsabile della crescita e della maturazione delle sue chiese, e vero educatore.


Geloso di esse ( 2 Cor 11,21), non tollera che qualcuno gli strappi questa responsabilità (1 Cor 3,1-17; Gal 1,16; 3,1-5; 4,12-20; 1 Ts 2,1-9.12.19-20). Questo spiega anche il tipo di autorità che esercitò su di esse, come fondatore e padre indiscusso (1 Cor 3,10; 4,15) e indiscutibile come apostolo legittimo e principale (Fil 4,9; 2 Cor 5,20; 10,8; Rm 12,3). Seppe coniugare senso di responsabilità verso le sue chiese (1 Cor 5,3; 2 Cor 13,2-3) con un rapporto di autentica intimità (1 Ts 2,10-12; Gal 4,19), senza rifuggire da emozioni appassionate (amore: 2 Cor 2,4; gioia: 2 Cor 4,9; amicizia: 2 Cor 6,11-13; 7,3; fiducia e orgoglio: 2 Cor 7,4; perplessità: Gal 4,20; ironia: Gal 1,6-9; 3,1; sarcasmo: 2 Cor 11,16-21; Gal 5,12; affronto e insulti: 2 Cor 11,5; Gal 2,11-14).


Lottò per mantenere la propria autorità sulle chiese da lui fondate (1 Cor 3,10; 4,15; 2 Cor 11,13-14; Fil 3,2), senza interessarsi realmente di coloro che attentavano ad essa; mai conversa con loro, ogni volta che di loro parla, lo fa con la sua comunità; ad essa si rivolge per convincerla o ricuperare la sua stima; nei tratti polemici della corrispondenza arriviamo a conoscere le convinzioni dell’apostolo, non le concezioni dei suoi avversari.


Accettò l’ospitalità di quelle che non erano frutto del suo apostolato. Ricorreva, ogni volta che gli era possibile, all’esortazione più che al comando (1 Ts 2,7 Flm 8.21), nel nome e con l’autorità di Cristo (1 Ts 4,1-2; 1 Cor 1,10; 2 Cor 10,1). In casi estremi non rifuggì dall’usare gravi misure disciplinari (1 Cor 5,1-7) né rifiutava il perdono (2 Cor 2, 5-11). Anche durante la sua assenza (1 Ts 2,17) si faceva presente alle sue comunità, curandole mediante lettere o delegando le sue funzioni ai suoi più stretti collaboratori (1 Ts 3,2; 1 Cor 4,17; Fil 2,19; 2 Cor 9,13).


Anche se questa prassi paolina è sostenuta da un certo concetto di comunità, le osservazioni esplicite circa l’organizzazione ecclesiale sono molto scarse. A quanto pare, nelle comunità paoline vi era una certa libertà nelle forme esterne, molto in consonanza con il modus vivendi di qualsiasi comunità ellenistica. 1 Cor, la fonte documentaria migliore a questo riguardo, ci trasmette solo norme dell’apostolo che si riferiscono a situazioni molto concrete e, pertanto, non sono da considerarsi tipiche. Paolo considera la comunità ecclesiale come un’ unità che, pur non essendo tenuta insieme dal diritto, non è nemmeno la somma delle singole comunità; in esse, piuttosto, si rifletterebbe e si esprimerebbe l’unità della totalità.


L’apostolo non pensa ad un organismo sopra-comunitario, le sue comunità rimangono unite a lui personalmente, da lui dipendono perché le ha generate nella fede (1 Cor 4,15-17). Ciò nonostante è veramente illustrativo che, nonostante rivendichi la propria autorità personale, sappia opporsi ad ogni tentativo di settarismo attorno agli apostoli; solamente in Gesù, che con la sua morte ha reso possibile la vita comune, i cristiani possono sentirsi fondati (1 Cor 1,13-16); tutti gli altri, egli compreso, sono semplici ausiliari (1 Cor 3,5): i credenti appartengono solo a Cristo e i loro dirigenti sono al suo servizio (1 Cor 3,21-23).


La comunità paolina è, per la sua origine (Gal 3,1-5) ed il suo vissuto quotidiano (1 Ts 5,19-21; 1 Cor 12-14), recinto dello Spirito. I suoi membri possiedono diversi carismi che hanno la vita comune come meta (Rm 12,4-8; 1 Cor 12,4-11). Vi sono ministeri ed autorità all’interno delle comunità paoline; 1 Cor 12,28 nomina gli apostoli, i profeti e i maestri (cf. Ef 4,11-13), mentre Fil 1,1 parla di vescovi e diaconi. La natura carismatica di queste funzioni comunitarie ha la sua origine nella presenza attiva dello Spirito nella comunità (1 Cor 12,28; Rm 12,8); agli entusiasti corinzi Paolo deve ricordare che lo Spirito è il principio del diritto nella comunità (1 Cor 12,14): Dio si trova nell’ordine (1 Cor 14,33) Ogni membro svolge un compito ed ha un posto nella vita comune (Rm 12,6-8); i doni individuali sono ordinati al bene comune (1 Cor 12,7-11).


Nonostante ciò, già all’epoca in cui scriveva ai Tessalonicesi, all’inizio dei 50, Paolo riconosceva l’esistenza di una certa organizzazione, esortando all’obbedienza e al rispetto verso coloro che lavorano per il bene della comunità (1 Ts 5,12-13). Pur non essendovi motivi che facciano pensare ad una precoce istituzionalizzazione dell’autorità, non si può negare il fatto che essa esisteva. Tale leadership si basava, probabilmente, sulla dedicazione al vangelo e sul servizio alla comunità (1 Cor 16,1-2.15-16; Fil 1,1).



Conflitti


Le comunità paoline non furono esenti da conflitti e divisioni interne in cui si misero in discussione non solo aspetti dottrinali importanti o questioni pratiche, ma la stessa autorità personale dell’apostolo. Paolo suole reagire violentemente; pur mantenendo rapporti affettuosi e cordiali con le sue comunità, non permette che si metta in discussione la sua missione né il suo vangelo. É consapevole di essere portatore della ‘potestà’ di Cristo stesso (2 Cor 13,2.4.8) e si dichiara geloso delle sue comunità (2 Cor 11,2-3). Anche se le sue comunità non mancano d’autorità locali, è lui, il loro fondatore, il principio di unità, l’unica autorità effettiva. Che la sua sia stata un’autorità contestata gli diede una coscienza ancora più acuta dell’importanza del suo ministero e lo portò a esercitare la sua autorità secondo un modello impostato sull’amore e il servizio (2 Cor 4,5; 1 Cor 9,19).


Le comunità erano integrate, anche se non esclusivamente, da persone provenienti dalle classi urbane inferiori, piccola borghesia ed una massa sociale di artigiani, salariati e schiavi. In esse non abbondavano né intellettuali né potenti (1 Cor 1,26-27). A Tessalonica si tratta di lavoratori manuali fondamentalmente (1 Ts 4,11-12; cf. 2 Ts 3,6-11); le comunità della Macedonia vivevano ‘con gioia incontenibile ed estrema povertà’ (2 Cor 8,2); il modo stesso in cui Paolo organizzò la colletta ne lascia intravedere la debolezza economica (1 Cor 16,1-4). Il riferimento esplicito alle vedove (1 Cor 7,8) ed agli schiavi (1 Cor 7,21-24; Flm 10; Col 4,22-25; Ef 6,5-9) fa pensare che erano presenti in numero consistente, tanto da costituire motivo di preoccupazione pastorale. Certamente vi furono anche cristiani facoltosi (Crispo: 1 Cor 1,14; Rm 16,23; Erasto: Rm 16,23; Filemone: Flm 2,22; Febe: Rm 16,1-2; Lidia: At 16,15.40; Giasone: At 17,5-9) il cui livello sociale ed economico relativamente alto facilitò la vita comune, esercitando essi la funzione di patroni della comunità; ma dovette trattarsi sempre, decisamente, di una minoranza (1 Cor 1,26).


La differenza etnica (Rm 10,2) o sociale (Gal 3,27-28) non costituiva un problema per Paolo, anche se causava tensioni nella vita comune (1 Cor 6,1-11; 11,17-34): schiavi e padroni potevano appartenere alle sue comunità senza essere obbligati a modificare il loro status sociale. L’indifferenza paolina di fronte a tali questioni nasceva dalla sua convinzione che esisteva un’ uguaglianza fondamentale tra tutti i credenti in Cristo Gesù, che aveva chiamato tutti senza tener conto dell’origine o dei meriti propri. Ed era, inoltre, conseguenza della sua speranza escatologica: la classe sociale non condiziona la salvezza che viene da Dio. La chiamata stessa di Dio è la grazia superiore ad ogni altra che sia concessa all’uomo; si deve rispettare questa grazia nella sua finalità, appunto per questo (essa) non costringe il cristiano a mettere il mondo a soqquadro con la rivoluzione: mutare il luogo della propria esistenza non contribuisce al grande mutamente promesso da Dio. Non si lotta per l’uguaglianza di fronte alla società, si vive dell’uguaglianza davanti a Dio (Gal 3,28). Non si lotta per i propri diritti, bensì per il rispetto del diritto del fratello: La sollecitudine fraterna e la solidarietà interpersonale sostengono l’integrazione comunitaria, costituiscono la trama del tessuto sociale delle comunità paoline.


La speranza in una libertà concessa non libera dai problemi concreti che quotidianamente si presentano per il solo fatto di vivere nel mondo. Nuovamente è 1 Cor la lettera che meglio informa sulla lotta che Paolo ebbe a sostenere contro coloro che, sapendosi salvati, pretendevano di essere al di sopra di qualunque norma etica. L’interesse con cui Paolo affronta e risolve questioni pratiche o modi di comportamento non fa che mettere in risalto il suo senso della realtà. Certo, afferma che ‘il tempo è ormai abbreviato’ e che sembra preferire un’etica dell’interim (1 Cor 7,29-31; Fil 4,5).


Proprio per questo è ancor più degno di menzione il suo modo di trattare il matrimonio (1 Cor 7,1-17) o la sua esortazione alla sottomissione alle autorità romane (Rm 13,1-10). Bisogna notare che il comportamento che Paolo si attende dalle sue comunità non differisce molto da quello che l’etica del tempo reputava come onesto e consigliabile (Rm 12,3-21; Fil 4,8). Lo specifico morale si basa, per Paolo, non sui contenuti ma sulla motivazione: l’etica paolina non è originale per quel che impone ma perché lo impone fondandolo sulla vita in Cristo (Rm 12; 1 Cor 7,31). Paolo non obbligò le sue comunità a vivere fuori dal loro ambiente, ma nemmeno permise che si credessero estranei ad esso né superiori. Nel tempo dell’attesa occorreva compiere i propri doveri verso il mondo e le sue esigenze (1 Ts 4,12; Fil 2,5; 4,8), vivendo in pace con tutti, senza rendere il male (Rm 12,17-18).



La colletta, un compito apostolico


Questo realismo e senso pratico di Paolo si può vedere anche nel modo di finanziare la propria missione mediante il lavoro personale (At 18,3; 1 Ts 2,9; 1 Cor 4,12; 9,12) che gli procurava una reale indipendenza dalle sue comunità, da cui non soleva ricevere aiuti se non in casi molto particolari (Fil 4,10-18). Giunse a gloriarsi di non essere loro di peso (1 Ts 2,9; 2 Cor 11,7-10), pur vedendo in questo non solo un atteggiamento disinteressato da parte sua ma soprattutto una conseguenza della sua chiamata all’apostolato (1 Cor 9,4-6): attraverso la gratuità del suo lavoro pastorale s’intravede la gratuità dell’offerta salvifica che Dio fa per mezzo di lui (1 Cor 9,12).


Tuttavia pare che Paolo abbia un po’ esagerato la sua proclamata indipendenza materiale (1 Ts 2,9; 1 Cor 9,12-15; 2 Cor 12,13; Fil 4,11). Difficilmente avrebbe potuto finanziare solo col lavoro delle proprie mani il costo dei suoi viaggi e provvedere a sé e ai suoi accompagnatori. Può darsi, allora, che non accettasse aiuti regolari, ma non disdegnasse quelli sporadici e che condividesse coi suoi collaboratori spese e guadagni (Fil 4,10-19; 2 Cor 11,9).


Nella questione della colletta per i poveri (Gal 2,10; 1 Cor 16,1-4; 2 Cor 8-9; Rm 15,25-26), nuovamente il buon senso di Paolo si unisce alla sua concezione teologica. Paolo vide la coletta non tanto come un atto di carità solidale intraecclesiale quanto la migliore espressione pratica del suo concetto di chiesa. Per questo la prese così a cuore: in nessuna delle sue principali lettere tralascia di parlare di essa; lui stesso si presenta ai romani come servitore di quest’ onere (Rm 15,25.31), un impegno preso a Gerusalemme – non lo dimentichiamo – al tempo che gli era riconosciuta la sua missione personale (Gal 2,1-10). E, non a caso, il viaggio a Gerusalemme, intrapreso per consegnare il denaro delle sue comunità, suggellerà la sua missione e la sua vita.


Con questa colletta Paolo si sentì reciprocamente vincolato apostolicamente con le autorità di Gerusalemme, ed associò, in pratica, la comunità di origine pagana con la comunità palestinese per formare un nuovo Israele. Oltre all’aiuto finanziario, l’elemosina, in questo modo, diventa affermazione di fede nella novità salvifica introdotta da Cristo, nel fattivo superamento della legge esclusiva per i giudei e nell’estensione del loro statuto privilegiato di ‘popolo di Dio’ a tutti i credenti. Se forse nessuno come lui aveva messo in pericolo l’unità della chiesa, bisogna riconoscergli il merito di aver lavorato come nessun altro per l’unità delle sue comunità con quella di Gerusalemme; di avere educato le sue comunità a mantenere una responsabilità di fronte ai più bisognosi e di avere attuato il suo pensiero con realismo ed immaginazione. La colletta diede una base reale ed un contenuto tangibile al senso di appartenenza/unità ecclesiale.








Scrittore per caso



In una società in cui la minoranza – un 10% – era capace di leggere e scrivere, l’apostolo divenne scrittore per necessità; certamente non fu l’unico missionario scrittore, né, probabilmente, il primo (cf. At 15,23-29; 23,26-30).


Le sue lettere, uno degli elementi più efficaci e memorabili del suo ministero, costituirono, in realtà, solo parte della sua missione, e di sicuro non la più importante per lui. In esse non scopriremo tutto Paolo e nemmeno troveremo la sua prima evangelizzazione; ma indubbiamente in esse troviamo il Paolo più autentico cui si può accedere; oltre a informarci sulla vita delle comunità, ci offrono documentazione di prima mano sulla vita e la personalità dell’apostolo: non sarà mai possibile separare il fondatore di chiese, il predicatore, il pastore, l’organizzatore dallo scrittore. Quanto su di Paolo sappiamo con più sicurezza lo dobbiamo alla sua corrispondenza.


La corrispondenza che mantenne con le proprie comunità era il modo efficace di far presente la sua voce e la sua autorità apostolica quando, assente (Gal 4,20; 1 Cor 4,19-21; 2 Cor 10,11), non poteva visitare la comunità (1 Ts 2,17-18; Flp 1,8; 22,26; Rm 1,11) o mandarle un emissario personale (1 Ts 3,1-2; 2 Cor 12,17-18), anche se di rado preferì la lettera a una visita. (2 Cor 2,4; 7,5-16; 12,20-21). Lungi dal rappresentare un semplice passatempo, impensabile in un uomo d’azione come Paolo, le sue lettere nacquero non come frutto di passione letteraria né, molto meno, dal voler fissare il proprio pensiero teologico. Sorte come reazione personale a certe determinate circostanze (cf. 1 Cor 1,14; 7,1; 16,23), avendo come diretti destinatari un gruppo determinato di persone – mai più di un centinaio – le lettere di Paolo furono da lui pensate come scritti di occasione, il modo più efficace di intervenire in una determinata situazione comunitaria. Che ci sia arrivato un buon numero di esse si deve probabilmente al fatto che lui reagiva di forma immediata e vigorosa a polemiche inasprite da antagonisti (Gal 1,6-9; 2 Cr 10-13; Flp 3,2-6) o alle necessità delle comunità di venire da lui istruite e consolate (Flp 2,1-18; 1 Ts 4-5).


Ad eccezione di 1 Ts, redatta mentre l’apostolo evangelizzava Corinto (At 18,5), le altre videro la luce probabilmente durante il suo lungo soggiorno ad Efeso (At 19,1-20,3). Nonostante la sua origine circostanziale, l’epistolario paolino costituisce la sua più preziosa eredità: il motivo principale del suo influsso permanente nella chiesa, la testimonianza letteraria più antica e, senza dubbio, quella meglio riuscita della novità del cristianesimo nascente.


Bisognerebbe, quindi, correggere quell’idea, così estesa, circa la missione paolina che la considera come opera di un unico apostolo, possibile grazie agli sforzi di un solo uomo. Paolo riuscì a impiantare un’organizzazione di grande ampiezza in cui anche le lettere erano usate come strumento di politica ecclesiale. Solo così si può spiegare l’affermazione di Paolo che dice di avere completato, in pochi anni, la predicazione del vangelo da Gerusalemme fino all’Illiria, cioè Siria, Asia Minore, Macedonia e Grecia (Rm 15,19).










II. Memoria Pauli




Paolo arriva a Efeso, il porto più importante dell’Asia, nell’autunno del 52 circa; viene da Antioquia ed ha attraversato le regioni montuose dell’Asia Minore (At 19,1) dopo un viaggio di oltre 800 km., che gli avrebbe richiesto più di un mese. Crogiolo di razze e religioni, era celebre per il tempio di Artemide Polimaste, una delle sette meraviglie del mondo. Paolo aveva voluto recarsene qualche anno prima (At 16,6) e, infatti, qualche mese prima, nell’estate del 52, la aveva ormai visitata per breve tempo, nel suo viaggio – ‘secondo’ – di ritorno da Corinto ad Antioquia, accompagnando Aquila e Priscila che lasciò lì (At 18,18-21).


La città, la più grande dell’Anatolia – intorno ai 300.000 abitanti – dopo Antiochia di Siria, divenne presto sua sede strategica, dove risiederà tre anni. Contava con una presenza ebrea cospicua. Accolto bene nella sinagoga all’inizio (At 18,20; 19,8), dopo tre mesi dovette staccarsi dai giudei e affittare una stanza nella casa di Tiranno per insegnare nelle ore più calde della giornata (At 19,9). La strana vicenda dei discepoli che soltanto conoscevano il battesimo di Giovanni, Apollo tra altri (At 18,23-26), può suggerire che non era stata evangelizzata prima o non a sufficienza.


Durante la sua dimora, “due anni… tutti gli abitanti della provincia d’Asia, giudei e greci, poterono ascoltare la parola di Dio” (At 19,10). Coadiuvato da un gruppo di collaboratori (Timoteo e Erasto: At 19,22; Gaio e Aristarco: At 19,29; Tito ed altri: 2 Cor 12,18), l’apostolo mantenne contatti con le comunità fondate in precedenza, sia in Grecia sia in Asia Minore; e scrisse 1 Cor (1 Cor 16,9), forse pure Gal e, in prigione, Fil e Flm. La missione a Efeso non gli fu però facile (1 Cor 1,8-9); conobbe successi (At 20,20-21) e contrasti (lo scontro con esorcisti giudei: At 19,11-20; la sommossa di Demetrio e gli argentieri: At 19,23-41), “lacrime e prove” (At 20,19); ebbe da combattere “bestie feroci” (1 Cor 15,32) e fu gettato in prigione (Rom 16,3.7; 2 Cor 11,23).


Anche se i più belli monumenti riportati alla luce, risalgono ad epoca più tarda, al tempo di Paolo Efeso (l’attuale Selçuk è ubicata a 2 km. al nord-est dell’antica città) godeva di notevole prosperità economica. A causa di un processo di insabbiamento i resti della città oggi distano una decina di km. dal mare.


Oggetto di scavi sistematici, è diventata il sito archeologico più esteso e importante dell’Asia Minore. Sono state reperite vie lastricate (via del porto, l’ ‘Arcadia’, che portava dal teatro al mare; via di Marmo, risalente al secolo I, fiancheggiata da portici, portava dalla biblioteca al teatro; via dei Cureti, sacerdoti incaricati del fuoco di Vesta, con colonne risistemate); piazze pubbliche (l’agorà statale, un rettangolo di metri 160x56 ca., sede del mercato e centro amministrativo, circondato da varie stoa con colonne); fontane (la fontana di Pollio, costruita prima del passo di Paolo per Efeso e quella di Traiano, da inizi del secolo II), suntuosi edifici pubblici (il Prytaneion, il municipio che conservava il fuoco sacro; l’Odeon, teatro per 1.500 persone, del secolo II; il piccolo tempio di Adriano, di stile corinzio e della prima parte del secolo II), bagni pubblici e latrine, ricche case private in zone residenziali del periodo ellenistico e bizantino (sul Monte Coressos), un grande teatro (iniziato sotto Claudio, 41-54, e finito sotto Traiano, 98-117, per 25.000 persone, dove avvenne la sommossa contra Paolo); la biblioteca di Celso (edificio a tre piani, del secolo II, con una monumentale facciata ricostruita); tempi, come quello di Domiziano (51-96), quello di Adriano (76-136), e soprattutto l’Artemision, che sorgeva a un paio di chilometri dal resto della città; dai 110m di lunghezza e dei 117 colonne che si alzano fino a 18 m. non resta che una colonna, ricostruita, e alcuni blocchi di pietra su un campo sommerso dall’acqua.


Secondo una antica tradizione,1 Efeso fu pure l’ultimo soggiorno di Giovanni. L’Apocalisse conserva una lettera indirizzata a questa chiesa (Ap 2,1-7): le si riconosce la sua fede operosa e la sopportazione di persecuzioni, anche se è decaduta ‘dal suo amore di prima’ (Ap 2,4). Pochi anni dopo, Ignazio scrivendo da Smirne loda la sua unità nella fede. In effetti, la comunità di Efeso manterrà a partire del secolo II una posizione predominante sulle chiese asiatiche. Nel 431 ebbe luogo il III Concilio Ecumenico, nella chiesa dedicata a Maria, dove fu proclamata Theotokos nella prima sessione. La storia della chiesa di Efeso è alquanto movimentata (nel 449: ‘Latrocinio efesino’, controversia sul monosifismo, risolta in Calcedonia nel 451).


La Basilica del Concilio, chiesa di Maria Theotokos, eretta ai tempi di Costantino su un edificio romano del secolo II, situato nei pressi del porto. Struttura lunga e strette è il rifacimento di una stoa precedente. Più tardi, verso il 400 circa, all’interno della basilica fu costruita una più piccola, in cui si celebrarono due concili (431.449).


La Grotta dei Sette Dormienti, antico luogo di culto nei pressi di una necropoli, ai piedi del monte Pion, fuori dalla zona archeologica. Restano poco rovine di chiese di epoca bizantina. Narra la leggenda, molto diffusa in Oriente, che sotto la persecuzione di Decio (250) sette giovani cristiani trovarono rifugio in una grotta; presi dal sonno, risvegliarono al tempo di Teodosio III (401-450).


La Basilica de san Giovanni, costruita da Giustiniano, nel secolo VI, su una prima del secolo IV, guarda, si crede, il sepolcro dell’apostolo nel sito dove era l’altare maggiore. Di dimensioni imponenti (mt 110x40), a tre navate, presentava una pianta a croce con sei cupoli. Durante scavi realizzati nella cripta sottostante, furono trovate tre tombe, una delle quali è stata identificata come il sepolcro di Giovanni.


Si visita a Efeso la così detta casa di Maria (Gv 19,27), sulle colline a sud di Efeso, la cui identificazione si deve a una rivelazione avuta, nel secolo diciannovesimo, da una suora tedesca. Sembra che la casa è medioevale, però. Al diciassettesimo secolo, invece, risale l’accertamento di una torre, parte delle mura di fortificazione ellenistica, come la prigione di san Paolo.

Visitate le comunità della Macedonia e della Grecia, ritornando verso Gerusalemme al termine del suo ‘terzo’ viaggio, Paolo fece chiamare gli anziani della comunità di Efeso, riunendoli a Mileto, nella primavera del 57/58, approfittando una fermata di soli pochi giorni. Mileto, a 32 km. a sud di Efeso, era un porto di transito per la rotta navale Lesbo-Chio-Samos verso il sud.


Luca ci trasmette un discorso di addio, vero testamento spirituale (At 20,17-35), un capolavoro letterario, carico di intensità drammatica, in cui l’apostolo fa un riassunto del suo operato, ricorda la sua missione in Asia (At 20,18-21), manifesta la sua percezione della situazione attuale: esprime i timori che la salita a Gerusalemme gli provoca (At 20,22-28) e si congeda dai suoi esortandoli alla fedeltà e vigilanza (At 20,29-32) e all’amore fraterno (At 20,33-35). Al momento di una separazione definitiva, l’apostolo confida ai successori le chiese e il vangelo; nel discorso traspaiono il suo affetto profondo e la grande sofferenza che lascia la separazione in essi (At 20,36-38). Secondo 1 Tim 4,20 Paolo sarebbe ritornato a Mileto, dopo la ‘prima’ prigionia romana; e vi avrebbe lasciato Trofimo, un discepolo di Efeso (At 21,29) a causa di una malattia.


Da Mileto (Balat), la grande città portuale sul estuario del fiume Meandro, a un’ottantina di chilometri a sud di Efeso, solo rimangono oggi rovine. Anche se in epoca romana, aveva splendidi monumenti (santuario di Apollo Delfinio, tempio di Atena, tempio di Augusto, un grandioso teatro per 25.000 persone, l’importanti terme di Faustina), oggi soltanto sono da vedere resti del teatro addossato a una collina, della monumentale via Sacra e rovine di una basilica bizantina a tre navate.






1 Ireneo di Lione, verso il 190, dice di aver trovato, da bambino, Policarpo, vescovo di Smirne, che aveva conosciuto l’anziano Giovanni a Efeso (Adv. Haer. III 3,4). Una lettera del vescovo Policrate al vescovo di Roma Vittore sulla controversia in torno alla data di Pasqua, verso il 190, conferma la morte di Giovanni a Efeso (Eusebio, HE V 24,2-3).

16