Italia-Medio Oriente|La pastorale vocazionale tra passato e presente

La pastorale vocazionale tra passato e presente

Comunicazione al Seminario sulla Pastorale giovanile e vocazionale

Ispettoria Sicula

Messina San tommaso 24 aprile 2006




Una giustificazione doverosa

Carissimi confratelli, vi ringrazio di cuore dell’invito a condividere con voi la riflessione e la passione sulla pastorale vocazionale. Non sono propriamente un esperto. Posso solo offrire il contributo di chi ha vissuto il passaggio da due diversi stili di pastorale vocazionale facilmente individuabili: quello del passato concentrato sulla esperienza dell’aspirantato classico e quella che, a partire dalla fine degli anni ’70 potremmo definire della sensibilità vocazionale “diffusa” e che, con risultati alterni, perdura tuttora.

Questa esperienza dei primi anni dieci anni della mia vita sacerdotale è stata poi seguita da un'altra non meno ricca, nei dieci anni successivi, quella cioè di trovarmi ad animare comunità ed attività non primariamente vocazionali. Ed infine, da due anni a questa parte, una terza fase costituita dalla possibilità di visitare molteplici comunità salesiane italiane e, dunque, di fare sintesi ed osservare costanti. Prendete dunque le mie osservazioni, come un contributo più di tipo esperienziale e storico che sistematico, che vuole aprire la riflessione più che concluderla..


Un fatto che ci interpella

Se è vero che stiamo svolgendo un seminario sull’accompagnamento vocazionale, il presupposto indispensabile è che ci siano persone da accompagnare. Quest’anno la nostra Regione Italia e Medio Oriente conta in tutto 18 novizi, dei quali 15 sono italiani. Credo che sia il dato più basso in assoluto da un secolo a questa parte. Tenendo conto che i salesiani nella regione sno 2631 e che le comunità sono 230 (188 Parrocchie ed oratori, 23 Scuole elementari, 52 Scuole Medie, 48 Scuole superiori, 54 Centri di Formazione Professionale, 36 Pensionait universitari) c’è abbondante materia su cui riflettere.

Dinanzi a questo dato sono possibili vari atteggiamenti: l’indifferenza (il dato viene semplicemente ignorato, o se conosciuto non provoca alcuna reazione), la rassegnazione (è così e basta, finchè le cose, “inshallah”, non cambieranno), la attribuzione delle responsabilità (è così perche i tempi corrono tristi, perche noi siamo poco propositivi, è un fenomeno comune, ecc.). E’ legittimo chiedersi, come avrebbe reagito Don Bosco. Ho motivo di credere che Don Bosco, nella sua concretezza di uomo delle colline dell’Astigiano, consapevole che non si raccoglie uva dalla vigna senza il sudore della fronte, avrebbe reagito in altro modo, con una robusta decisione. (cfr. MB X, 367). Fatta questa premessa entriamo nel vivo del problema, con un po’ di storia.


Una rete ampia e capillare

Chi scriverà la storia della Congregazione in Italia, fra circa 50-100 anni, rimarrà sorpreso da una dato evidente. Nel giro di pochi anni, nell’arco di un decennio (1970-1980) in tutte le Ispettorie italiane sono state chiuse quasi contemporaneamente le Case di Aspirantato. Ma qual’era la situazione dal nord al sud? Nel 1975 l’Annuario della Congregazione in Italia registrava la seguente situazione. La Centrale aveva 3 aspirantati (Castelnuovo Don Bosco, Ivrea, Cumiana), la Subalpina 2 (Chieri e Peveragno), la Novarese aveva un Aspirantato per coadiutori (Muzzano) e 4 Scuole Medie di orientamento apostolico (Asti, Borgomanero, Muzzano, Vercelli), la Lombarda Emiliana aveva un aspirantato (Chiari) e 2 Scuole Medie di orientamento apostolico (Montechiarugolo e Vendrogno), la Veneta est aveva 1 aspirantato (Castello di Godego), la Veneta ovest 1 aspirantato (Trento), l’Adriatica aveva un aspirantato (Fossombrone), la Romano-Sarda aveva 3 aspirantati (Arborea, Lanusei, Genzano), la Meridionale aveva 1 aspirantato (Torre Annunziata) e 2 Scuole Medie di orientamento apostolico (Cisternino e Santeramo in Colle), la Sicula aveva l’aspirantato (Pedara) e 2 Scuole Medie di orientamento apostolico (Alcamo e Caltanissetta, definite per la precisione Centro di orientamento apostolico). Per la Ispettoria Ligure Toscana, l’annuario del 1975 non riporta per nessuna casa la dicitura “aspirantato”

Il totale di queste presenze, dunque, assommava a ben 11 aspirantati e 14 Scuole di orientamento apostolico.


Un sistema coerente e razionale

Il quadro presentato non era andato componendosi casualmente, ma era il risultato di precise scelte organiche, a tal punto da configurarsi in un vero e proprio “sistema” coerente e razionale. Ne enucleiamo alcuni elementi cardine. Anzitutto la distribuzione lungo tutto il territorio che faceva degli aspirantati salesiani e delle scuole di orientamento apostolico una vera rete nazionale con ben 25 presenze. La ubicazione degli aspirantati non era casuale, ma rispondeva anch’essa a dei criteri: essi venicano collocati in aree considerate “strategiche” perché ritenute più “feconde” vocazionalmente, o in località più amene e riservate, o in strutture ritenute più adeguate allo scopo, o in zone prive di “competitors”, per cui la Scuola Media e Ginnasio annesso, spesso risultavano l’unico centro di studi con convitto della zona.

Il legame con il territorio era decisivo (la Brianza, la Valtellina, il Trevigiano, l’Ogliastra, il Frosinate, le Murge, l’area etnea, ecc.), perché l’aspirantato si alimentava attraverso canali che dovevano attingere proprio nelle famiglie cristiane di quei territori, o presso parrocchie di parroci amici ed attenti al carisma salesiano.

Una figura chiave, entro questo sistema, era il “cercatore vocazionale”, o “promotore vocazionale”, un interessante ed originale di Salesiano “on the road”, un vero mago delle “relazioni esterne” che doveva intessere buoni, anzi eccellenti rapporti, con i parroci di quell’area, maestre e maestri sensibili alle vocazioni, doveva avvicinare le famiglie per convincere, rassicurare, concordare i costi delle rette (con ampie agevolazioni), doveva inoltre accompagnare il pre-adolescente nella delicata fase del passaggio dalla propria famiglia all’aspirantato, che restava pur sempre un collegio. Ricordiamo delle figure interessanti (Don Curto, Don Pollice, Don Fausto Ruggeri, ecc.). Questi PR ante litteram, o agenti d’area, dovevano avere delle caratteristiche ben precise: fede forte, entusiasmo nel proporre la figura di Don Bosco e la vocazione salesiana, eccellenti doti di comunicazione (dovevano parlare a fanciulli e ragazzi, incontrare maestri, parroci, famiglie), una mobilità a tutta prova, percorrendo in lungo e in largo l’area loro assegnata, disponibilità nel collaborare con i parroci per tridui, novene e feste, collegamento con la “base” (la casa di aspirantato), in cui svolgevano il compito di “tutor” per i primi periodi e di discreti accompagnatori nelle fasi successive (erano pur sempre loro che avevano stabilito i primi contatti e conoscevano bene la situazione del paese e della famiglia di provenienza). Il cercatore vocazionale era dunque una figura decisiva per garantire il flusso di aspiranti dai paesi all’ aspirantato, a metà strada tra il missionario itinerante e l’ esperto di “marketing” religioso.

Circa gli strumenti adoperati, ai tradizionali contatti “faccia a faccia” con parroci, maestri, famiglie, si aggiunse, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, il famoso “campo-scuola”, una parola magica che ebbe una fortuna immensa, perché facilitò di molto il compito del nostro cercatore. I ragazzi venivano concentrati in gran numero in turni successivi, ed in un clima gioioso e fortemente propositivo (per temi, modelli visibili, ecc.) veniva fatto l’invito a passare all’aspirantato, con il sottile sottinteso che sarebbe stato un po’ la continuazione di quei giorni così belli, una sorta di “campo scuola” annuale.

Con l’ingresso in aspirantato, il sistema passava dalla fase del reclutamento e della selezione alla fase della formazione. Anche per questa fase, nulla era lasciato al caso. Decenni di esperienza nella gestione di “convitti” o “collegi” o “internati” avevano affinato delle strutture organizzative molto ben collaudate (ruoli, spazi, orari, ecc.). A questa struttura l’aspirantato aggiungeva alcuni due tocchi decisivi. Il primo era il personale salesiano destinato ad esso che veniva scelto con molta cura, specie per quanto riguarda le figure-chiave (Direttore, catechista, assistenti, confessore): doveva essere, come si diceva allora, “personale formativo”. Il secondo tocco riguardava il programma che, se per ogni collegio era intensamente religioso, nell’aspirantato doveva essere più curato, specie in alcuni aspetti (il piccolo clero, la condivisione di piccole responsabilità al fianco dei salesiani, piccoli impegni apostolici, la vita sacramentale più consapevole e regolare, la direzione spirituale, il colloquio col Direttore, le letture suggerite, le buonenotti, ecc.). Gli aspirantati, poi, considerati universalmente come “la pupilla degli occhi” dei Superiori, erano meta di frequenti visite dell’Ispettore, di missionari e vescovi che dovevano aprire orizzonti e suscitare sogni apostolici.

Aggiungiamo, inoltre, la attenzione al criterio della gradualità: la contemporanea presenza di Scuole di orientamento apostolico e di aspirantati diceva “passaggio” ad una fase decisionale più precisa; ma anche il passaggio al ginnasio era implicitamente considerato quasi l’ingresso in una fase di “postulato” o “prenoviziato”, termini allora inesistenti.

Evidenziamo ancora un elemento vistoso del sistema. Se le famiglie buone delle zone ancora considerate “vergini” dovevano offrire all’aspirantato i candidati alla vita religiosa, l’aspirantato, a sua volta, doveva offrire alla Ispettoria i religiosi. C’erano le vocazioni (in larga misura) perché c’erano gli aspirantati. Il flusso vocazionale di una Ispettoria era legato intrinsecamente al buon funzionamento degli aspirantati. “Quanti ne mandate quest’anno al noviziato”, chiedevano coerentemente i Confratelli al Direttore dell’aspirantato. Per cui il sistema si alimentava ordinariamente dall’esterno delle case salesiane, ingenerando, con ciò irresistibilmente, la convinzione che, al di là delle affermazioni ed esortazioni di principio, alle vocazioni della Ispettoria provvedevano non le case, ma l’aspirantato, il quale a sua volta attingeva a fonti esterne.

Non ci meravigliamo dunque del fatto che, usando termini informatici, nel “sistema operativo” di moltissimi confratelli non sia mai stato caricato il programma “vocazioni”, così come oggi ampiamente si constata.

L’aspirantato, inoltre, non era solo la casa di formazione degli aspiranti, ma era anche il Centro di orientamento vocazionale dell’ispettoria: in esso si concentravano i ruoli (cercatore vocazionale, Direttore, Catechista, Chierici propositivi) ed il know how vocazionale (annuncio vocazionale, prima proposta personale, direzione spirituale, discernimento vocazionale, accompagnamento personale verso la decisione)


Il crollo del sistema

Questa sistema complesso e cosi ben articolato, diffuso a rete su tutto il territorio nazionale con 25 centri, migliaia di ragazzi e centinaia di salesiani, era in realtà un gigante dai piedi di argilla. Difatti l’elemento piu fragile su cui poggiava era la parte “hard” del sistema e cioè l’internato. L’aspirantato, per quanto fornito di personale scelto, per quanto offrisse un programma spirituale e formativo interessante, era pur sempre un collegio, comportava cioè il distacco dalla famiglia. Faceva dunque parte di un modello educativo che era entrato rapidamente in crisi negli anni ’70, fino a scomparire quasi del tutto, dappertutto e contemporaneamente, quello cioè della delega della educazione ad istituzioni esterne alla famiglia, ritenute migliori. Si aggiunga inoltre la diffusa scolarizzazione che rendeva inutili i servizi offerti dai Collegi. Ricordiamo, di passaggio, anche lo spostamento verso la maggiore età richiesto per la ammissione al noviziato. La percezione che una esperienza decennale andava ormai esaurendosi, veniva confermata anche dalla sproporzione tra i mezzi adoperati (centinaia di confratelli, decine di strutture) ed i risultati che andavano diventando via via più modesti. Anche dagli aspirantati non erano più masse coloro che decievano di passare in noviziato.


La percezione di sentieri interrotti

In pochissimi anni venne meno, per diverse cause, una esperienza secolare, con la conseguente dispersione di un patrimonio fatto di personale e di competenze (know how vocazionale specifico per l’annuncio, la proposta, l’accompagnamento vocazionale). Si può, quindi constatare, come il ridimensionamento delle opere sia iniziato in realtà negli anni ’70, con la chiudura degli aspirantati. E’ possibile dunque avanzare una ipotesi. La forte contrazione numerica delle vocazioni a partire dagli anni ’70 non si spiega soltanto con macrofenomeni sociali (secolarizzazione, crisi del sacerdozio e della vita religiosa, crisi familiare, valori o disvalori veicolati dai mass media, ecc.), o con la situazione di malessere che sfociò per diversi salesiani nell’abbandono della vita religiosa (specie negli anni ’70), ma essa ha nel contemporaneo crollo del sistema che per decenni aveva “tenuto” un elemento non irrilevante.

La teoria che io chiamo della “tristezza dei tempi” (secolarizzazione, denatalità, crisi delle famiglie, visione negativa del sacerdote, difficoltà nella fedeltà a lungo raggio, ecc.) è un fattore assai rilevante nella spiegazione del crollo quasi generalizzato del numero delle vocazioni di speciale consacrazione in Occidente, eppure a me sembra scontrarsi con un dato altrettanto evidente: soprattutto in “tempi tristi” sono sorte vocazioni di eccezionale valore, in ambienti che – sociologicamente – avremmo definito “refrattari”.

Anche la seconda teoria (quella che fa riferimento alla nostra infedeltà) si scontra con un dato sperimentale evidente: in tutte le Ispettorie italiane mi sembra che il numero dei confratelli vocazionalmente sereni sia decisamente superiore rispetto a quello degli insoddisfatti e delusi, nonostante le difficoltà immancabili di ogni cammino.

Rimane quindi valida, a mio parere, senza minimizzare le due tesi precedenti, la percezione di sentieri interrotti, e cioè la incapacità di sostituire il vecchio con il nuovo, di far evolvere un modello antico (la cui efficacia, in termini di risultati numerici, non era tra l’altro assoluta) in qualcosa di nuovo, altrettanto stabile ed organico.


Alla ricerca di un nuovo “sistema”

Chi volesse leggere nelle parole fin qui dette il desiderio nostalgico di far rinascere gli aspirantati italiani degli anni ‘60, avrebbe frainteso totalmente il mio pensiero. Non ho affatto la nostalgia per una “età dell’oro” del passato; quel mondo era segnato da luci ed ombre. Sulle prime si è detto, sulle seconde ci sarebbe molto da scrivere: problematicità del distacco precoce dall’ambito familiare, clima tipicamente collegiale, limitata educazione alla libertà e responsabilità delle scelte dato il controllo continuo esercitato nell’’ambiente, idealizzazione eccessiva della vocazione religiosa, ecc.

Ma è possibile recuperare alcune intuzioni di fondo di quel mondo, salvandole da una strana ed ingiustificata “damnatio memoriae”? Va detto, per inciso, che il termine “aspirantato” è un termine tuttora legittimo perché presente nei nostri Regolamenti generali (Reg. 17), ed è inoltre una realtà visibile in forme nuove e ben funzionante in diverse ispettorie della Congregazione.

Il tentativo che mi accingo a compiere è quello di individuare gli elementi-chiave di un nuovo possibile “sistema”, che raccolga del passato alcuni elementi non caduchi, e li integri con dei nuovi. Provo ad esplicitare.


a) L’assoluta indispensabilità di un approccio basato sulla fiducia e sulla speranza.

Il vecchio “cercatore” vocazionale “batteva” i territori considerati fecondi nella certezza che in ciascun paese o parrocchia o classe elementare o media vi erano ragazzi “generosi”. Egli si basava su quella incrollabile convinzione della tradizione salesiana, risalente a Don Bosco, secondo la quale una significativa percentuale di ragazzi e giovani ha in sé germi di vocazione. L’approccio era dunque basato sulla convizione incrollabile che le vocazioni c’erano e non che non c’erano; che c’erano e che bisognava scoprirle. Quindi si trattava un approccio positivo, basato sulla fede e sulla speranza. L’approccio al tema “vocazioni” solo in termini sociologici (carenza, mancanza, tristezza dei tempi, ecc.) può oscurare in noi questa convinzione che viene dalla fede: Dio non ha accorciato il suo braccio, egli continua a seminare con larghezza nel cuore degli uomini. Il rischio di una eccessiva analisi, può condurre alla paralisi operativa perché disegna uno scenario a tinte fosche che non lascia spazio alla speranza. Tale lettura inoltre non è una lettura “teologale” della storia, perché priva della categoria della speranza. Lo scenario sociologico se ha il pregio della evidenza, confermata dal linguaggio implacabile dei numeri e delle percentuali, ha il rilevante difetto della generalizzazione che impedisce di vedere “i 50, i 40 , i 10 giusti” che pure sono presenti nella città al 99% infedele. “Siamo convinti che tra i giovani molti sono ricchi di risorse spirituali e presentano germi di vocazione apostolica” (Cost. 28). D’altro canto, la convinzione di Don Bosco non è confermata dalla nostra quotidiana esperienza dell’incontro con tanti “bravi ragazzi” nelle nostre opere?


b) Lo stile missionario

Se può far sorridere il ricordo dei vecchi “cercatori” vocazionali impegnati a percorrere i paesini per fare “retate”, c’è un elemento su cui riflettere. Quello che a noi può sembrare una “battuta di caccia” non era forse un tratto missionario molto bello della nostra Congregazione nella quale alcuni erano inviati all’esterno a diffondere il carisma? Il seminatore della parabola “uscì” a seminare la sua semente, Gesù “percorreva le città ed i villaggi della Galilea” e lungo il cammino chiamò primi discepoli. Oggi è certamente impensabile entrare in scuole o parrocchie per cercare aspiranti, ma come esprimere oggi uno stile missionario che ci porta a guardare “fuori le mura”? La stragrande maggioranza delle Congregazioni religiose non ha migliaia di giovani dentro le proprie opere, come noi Salesiani. Ecco allora sorgere convocazioni giovanili, missioni popolari, evangelizzazione di strada, disponibilità per progetti di intervento nelle scuole su temi legati alla preventività, alla legalità o alla educazione alla mondialità.E precisamente questo è il loro modo ordinario di avvicinare i giovani per un primo annuncio e testimonianza vocazionale.


c) Risorse sufficienti, anzi abbondanti per le vocazioni

La chiusura degli aspirantati non fu seguita dal nulla, dal vuoto. In alcune Ispettorie, ma non in tutte, partì subito una nuova formula: la comunità-proposta. Oltre alla incertezza sulla identità di tale comunità (è un centro di animazione vocazionale? E’ un aspirantato? E’ un prenoviziato? E’ tutte e tre le cose insieme?), oltre alla difficoltà nell’elaborare un programma formativo e nel gestire la vita quotidiana (spesso con pochissimi membri e per giunta di età non omogenee), tali comunità proposta soffrirono nel loro nascere e nel loro crescere di un ben documentabile turn over di personale, ridotto di numero e spesso improvvisato nelle competenze. I 120-150 confratelli che reggevano strutture stabili e collaudate nel tempo, divennero di colpo poche unità, in strutture spesso precarie anche dal punto di vista logistico, ubicate come appendici di opere più grandi, semi-autonome o dipendenti (come un settore) da esse.

La chiusura inevitabile degli aspirantati è stata accompagnata dalla convizione teoricamente valida, ma rivelatasi nella pratica infeconda, in base alla quale non c’e bisogno di designare un confratello come “promotore vocazionale” ispettoriali, perché quello di promuovere le vocazioni dovrebbe essere impegno di ciascun salesiano. Tale teoria ha conosciuto alcune varianti: ogni Direttore è animatore vocazionale, ogni catechista è animatore vocazionale, in ogni casa deve essere designato un confratello “ad hoc” con compiti di animatore vocazionale, ecc. Si aggiunga inoltre l’altra variante, secondo la quale, non si deve nominare un promotore vocazionale (o incaricato vocazionale) ispettoriale, perché con tale scelta si perpetuerebbe la mentalità di delega da parte dei confratelli, mentre ciascuno di essi deve sentirsi un incaricato vocazionale.

Dopo anni di insistenza su questa impostazione, è lecito chiedersi: “Questo obiettivo è stato raggiunto? Si è davvero diffusa una attenzione generalizzata alle vocazioni di speciale consacrazione? Sono maturate almeno nei confratelli su indicati delle competenze specifiche nell’annuncio, proposta, accompagnamento vocazionale? Si sono stabilizzate in ogni opera itinerari vocazionali con tempi ed interventi specifici (settimane vocazionali, esperienze di accoglienza in comunità, giornate di preghiera per le vocazioni, ecc.)?”. Lascio ai presenti la risposta. Mi sembra evidente che questi obiettivi a lungo termine, per essere raggiunti nella realtà e non solo nelle intenzioni, suppongano una continua azione di stimolo, supporto, consulenza, comunicazione, coinvolgimento, da parte di una équipe che abbia il compito non di sostituire, ma di animare le comunità locali.

Un obiettivo così ambizioso (passare da una pastorale vocazionale chiusa nell’aspirantato ad una diffusa cultura vocazionale, da competenze di discernimento ed accompagnamento ristrette a pochi confratelli ad una competenza solida di tutti i Direttori o di tutti i catechisti o addirittura tutti i confratelli, da un unico ambiente di promozione vocazionale a far sì che ogni comunità sia un ambiente capace di elaborare itinerari di pastorale vocazionale) non richiedeva forse un cospicuo investimento di confratelli che fossero “agenti del cambiamento” auspicato ed accompagnassero con tempi lunghi comunità e confratelli ad acquisire competenze e metodologie quasi del tutto assenti nella prassi ordinaria (fare scuola, oratorio, formazione professionale)? Come è stato possibile ritenere che un cambiamento di tale portata potesse avvenire solo in forza di abbondanti dichiarazioni di principio contenute in documenti?

Aggiungo: un tema cosi delicato come quello della genesi ed accompagnamento delle vocazioni di speciale consacrazione che coinvolge la spiritualità, la psicologia, la pedagogia non richiede forse degli “specialisti”, che promuovano presso i confratelli su indicati specifiche competenze, offrano consulenze, affianchino nella elaborazione di interventi, supervisionino le esperienze in atto, sperimentino e diffondano modelli, siano di riferimento per l’accompagnamento di giovani che gravitano fuori dell’orbita delle nostre comunità?

Inoltre, dove sono i successori di quei non meno di 120-150 confratelli scelti che 30 anni fa lavoravano nelle ispettorie italiane in quello che allora era il “sistema” di promozione delle vocazioni? E’ lecito chiedersi, come mai si è reperito personale per la emarginazione, la scuola, la formazione professionale, la comunicazione sociale, gli oratori e non si è provveduto a presidiare con personale numericamente adeguato e preparato l’area della “cura particolare per le vocazioni aspostoliche”, che rientra, al secondo posto, tra le quattro finalità della nostra Congregazione (Cost. 6, 28, 37)?

E’ legittimo allora adoperare l’espressione “sentieri interrotti” ed affermare che il ridimensionamento è iniziato in Italia 30 anni fa, in modo discutibile, non tanto per la chiusura inevitabile degli aspirantati, quanto per la dispersione di quelle risorse umane specializzate che sono state sottratte al fronte della promozione delle vocazioni e destinate ad altri fronti. Di qui la sensazione di un ridimensionamento che nei fatti è intervenuto sugli acquedotti che alimentavano la città.


d) La necessità di Centri di orientamento vocazionale

Il riferimento alla storia degli ultimi 30 anni delle Ispettorie italiane è illuminante anche sotto un altro punto di vista. La chiusura degli aspirantati fu accompagnata non solo dalla proclamazione che ogni Salesiano sarebbe dovuto diventare un promotore delle vocazioni, ma anche che ogni comunità sarebbe stata chiamata ad essere responsabile in prima persona della promozione vocazionale. E’ difficile dubitare del fatto che “Il clima di famiglia, di accoglienza e di fede, creato dalla testimonianza di una comunità che si dona con gioia, è l’ambiente più efficace per la scoperta e l’orientamento delle vocazioni” (Cost. 37).

La realtà dei fatti è stata diversa: i confratelli hanno continuato a fare ciò che avevano sempre fatto (scuola, formazione professionale, oratorio,…), non avendo integrato tra i propri obiettivi prioritari (nel proprio “sistema operativo” dicevamo poco fa), quello della promozione delle vocazioni, a cui tradizionalmente provvedeva l’aspirantato. La proclamazione continua di un principio valido non ha creato “ispo facto” le condizioni di attuazione, le convizioni, le competenze, le strategie.

E’ vero che non sono mai state interrotte svariate inziative vocazionali (in particolare gruppi di ricerca vocazionale, un “Anno per il tuo futuro”, campi vocazionali estivi per lo piu per adolescenti e giovani, in larga misura provenienti dalle comunità salesiane), ma l’obiettivo a cui si mira da 30 anni e cioè che ogni comunità percepisca se stessa come un ambiente di promozione delle vocazioni, mi sembra sia stato raggiunto se non in misura marginale, più come eccezione che come regola. Esaminando i verbali dei Consigli delle comunità locali, mai o quasi mai (come eccezione appunto) si trova all’ordine del giorno una seria riflessione sulla promozione delle vocazioni e meno ancora c’è traccia di decisioni e di verifiche conseguenti. Dove è finita “la pupilla degli occhi dei Superiori?”

Un confronto con i Regolamenti è illuminante. All’art. 9, parlando del nostro servizio educativo e pastorale (da svolgere dunque in ogni comunità locale) affermano: “Con l’aiuto di educatori preparati e programmando attività idonee ci si impegni nell’orientamento vocazionale dei giovani. Si abbia una particolare sensibilità nell’individuare e seguire con iniziative adeguate quei giovani che manifestano segni di vocazione laicale, religiosa e sacerdotale”. E’ una traccia precisa che descrive esattamente ciò che dovrebbe fare ogni comunità se vuole dirsi attenta alla promozione delle vocazioni. Ma tale impegno non è sufficiente od autarchico. La Congregazione prevede altre due strutture a servizio delle vocazioni: i Centri di orientamento vocazionale e l’aspirantato. L’art. 16 traccia una precisa fisionomia dei primi: essi “accolgono ed accompagnano i giovani che si sentono chiamati ad un impegno nella Chiesa e nella Congregazione”. Tale servizio, si dice, “può essere svolto anche organizzando incontri locali o regionali, istituendo gruppi specifici o inserendo in giovani in qualche nostra comunità”. Non si tratta quindi solo di una struttura, ma di un servizio che richiede necessariamente, però, per essere efficace, un ambiente fisico e del personale preparato: una sola persona, per di più raramente a tempo pieno, o non piuttosto un’ équipe di animazione vocazionale dell’ispettoria? Difatti come garantire quell’insieme di interventi di consulenza e di animazione sui confratelli (Direttori, Catechisti, Incaricati d’Oratorio, giovani confratelli), e sui giovani stessi, se il confratello incaricato è solo o se varia troppo frequentemente nel tempo?

Infine, senza smettere di sollecitare ciascuna comunità a garantire in ogni attività educativa la finalità evangelizzatrice, e ad assicurare nei fatti la educazione dei giovani alla fede (maturità umana, incontro con Cristo, appartenenza ecclesiale, impegno per il Regno secondo specifiche vocazioni), non è il caso di invididuare e qualificare 2-3 comunità per ogni Ispettoria che sperimentino forme di accoglienza sistematica dei giovani dell’opera medesima, nello stile del “Vieni e vedi”? (un week end, una settimana di comunitàil periodo del Grest, ecc.)? Sappiamo dalla nostra storia che decide di “restare con Don Bosco”, “frate o non frate”, chi ha già conosciuto Don Bosco, chi è rimasto affascinato dalla sua figura, chi ha condiviso un po’ la sua spiritualità e la sua missione. Queste 2-3 comunità possono essere fornite di un confratello competente nel discernimento spirituale, con uno specifico compito (il Direttore è sempre il più libero per tale scopo?), secondo un programma specifico di accoglienza, concordato insieme ed affinato dall’esperienza. Consolidata tale esperienza, si può convolgere gradualmente qualche altra comunità.


e) La legittimità di una specifica pastorale vocazionale

La presenza in tutte le Ispettorie di Aspirantati e di Scuole di orientamento apostolico esprimeva nei fatti la consistenza di una specifica pastorale vocazionale. Oggi in una visione più organica si ribadisce il legame tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale. Per dirla con una espressione sintetica si può affermare: la pastorale vocazionale sta alla pastorale giovanile come il frutto alla pianta. Le vocazioni sono il frutto di una pastorale giovanile matura ed organica. Non maturano vocazioni se non lì dove c’e una efficace pastorale giovanile, Questo dato è evidente e difficilmente contestabile. Un mediocre cristiano non diventerà mai un buon religioso. Dio – si dice può far nascere fiori nei deserti – ma è evidente che abitualmente i fiori nascono in giardini ben irrigati e coltivati.

Se è vero, però, che la pastorale vocazionale è l’espressione di una pastorale giovanile matura ed organica (e non di quella pastorale di intrattenimento o di quella della “bassa soglia”, che resta sempre alla fase della accoglienza e non conduce mai all’incontro con Cristo ed alla appartenenza ecclesiale), è anche vero che la pastorale giovanile autentica richiede e non annulla una vera pastorale vocazionale. L’animazione e l’orientamento vocazionale sono un elemento essenziale di una Pastorale Giovanile che aiuta ogni giovane a fare scelte responsabili di vita alla luce della fede. “Oggi la migliore pastorale giovanile non genera vocazioni consacrate senza un’attenzione specifica all’annuncio vocazionale esplicito, alla proposta personale decisa, all’accompagnamento spirituale costante” (P. Chavez).

Riprendo ciascuno di questi tre passi segnalati dal Rettor Maggiore come caratterizzanti ogni cammino di pastorale vocazionale

Annuncio. La distinzione fra vocazione comune battesimale e vocazioni di speciale consacrazione è un dato difficilmente contestabile che affonda le sue radici nel vangelo. Alcuni sono chiamati a lasciare effettivamente casa, padre, madre, campi per il regno. Quanto più la vocazione al ministero ordinato ed alla vita consacrata risultano lontane ed incomprensibili alla mentalità corrente, tanto più esse necessitano di essere evangelizzate. In altre parole, occorre valorizzare turre le occasioni per parlare della “bella notizia”, più che del “problema” delle vocazioni, per presentarle nella loro orginalità e ricchezza, per correggere pregiudizi e luoghi comuni, per raccontare la propria storia vocazionale. Ci sono delle occasioni naturali di annuncio delle vocazioni ed in particolare di quelle di speciale consacrazione, che potrebbero costituire un calendario vocazionale di ogni comunità locale. Per esempio: la quarta domenica di Pasqua (giornata mondiale di prghiera per levocazioni), la Pentecoste, l’ Immacolata, la Festa di Don Bosco, la liturgia delle Domeniche per annum con tema esplicitamente vocazionale, gli anniversari di professione e di ordinazione sacerdotale, la settimana vocazionale. Che dire poi di gran parte della catechesi per il Sacramento della Confermazione che è tutto un itinerario vocazionale?


Proposta. Se l’annuncio deve essere ampio, libero e liberante, la proposta deve essere individualizzata ed animata da franchezza (la “parresia” degli Atti), frutto di preghiera e di discernimento. Si tratta, infatti, di assumere la acutezza dello sguardo del Signore di fronte al giovane ricco: “Ora Gesù fissando su di lui lo sguardo, lo amò e gli disse” (O de Iesùs emblèpsas autò egàpesen autòn). E’ il solo Marco (10, 21) che usa questa espressione intensissima, là dove Matteo e Luca hanno un generico “disse” (efe, eipen). Cosa vuol dire “fissare lo sguardo”? Vuol dire rivolgere l’attenzione a quella persona specifica, leggere in profondità, dentro quella struttura di personalità (en blepo), al di là delle apparenze superficiali. E’ il famoso discorso della “stoffa” di cui parla don Bosco nel dialogo con Domenico Savio. Significa prestare attenzione, alla luce della fede, a quei segni di chiamata che emergono nella vita di un giovane. Fare una proposta vocazionale non è corteggiare, ma indicare con lealtà al giovane a quei “segni” che possono far pensare ad una chiamata del Signore. Richiesto per la terza volta di interpretare la misteriosa voce che chiamava nella notte, Eli inizia a pensare ad una vera, possibile, chiamata del Signore ed offre la sua consulenza: “Se ti chiamerà ancora, di’: Parla, o Signore che il tuo servo ti ascolta”.

Lo amò” (egàpesen auton) sta a significare la ricerca disinteressata del bene dell’altro, il servizio da rendere alla sua libertà e non una cattura né di tipo affettivo (“le mie vocazioni”), né di tipo istituzionale (reperire vocazioni per la salvezza dell’Istituto o delle case dell’Istituto).

Quando facciamo un aproposta vocazionale personale, noi non immettiamo dall’esterno qualcosa che non c’è nel giovane (come fa la propaganda) propaganda), al contrario facciamo emergere (= educazione) qualcosa che è da sempre nel cuore del giovane, ma di cui lui non è ancora consapevole. Fare proposte vocazionali individuali non è dunque una forma di reclutamento, ma un servizio alla libertà del giovane, un modo, appunto, per amarlo nella verità.

Nel racconto della scelta dei Dodici nel vangelo secondo Marco (3, 13), troviamo un passaggio illuminante. Si legge alla lettera: “E sale sul monte e chiama a sé quelli che egli voleva” (proskaleitai ous ethelen). E’ interessante l’uso intensivo del verbo “volere”. Non significa “quelli che gli passarono in mente”, ma “quelli che portava nel cuore, quelli che da tempo aveva in animo di chiamare”. E dunque la proposta non è un fatto episodico, ma, per il chiamante, il frutto di una riflessione-preghiera-discernimento maturati anzitutto nel proprio cuore. Dalla scena della chiamata dei Dodici narrata da Marco evinciamo un altro tratto decisivo della “pastorale vocazionale” di Gesù. Egli individua tra la folla 12 persone e le chiama esplicitamente per nome, dunque passa da una pastorale di massa (una gran moltitudine polù plètos vv. 3,7.8, la folla tòn òklon v. 9 che rischiava di schiacciarlo, i molti pollùs v. 10 che egli cura) ad una attenzione individualizzata. La pastorale vocazionale è dunque la attenzione alla individualità alla singolarità della persona. E per consentire questo passaggio è necessario uno stacco, o meglio un distacco. Egli sale sul monte, (anabàinei èis tò òros v. 13), prende distanza dalla folla, vuole discernere con chiarezza (il monte è il luogo del discernimento al cospetto del Padre), vuole vedere alla giusta distanza.

Quando fare la proposta? Il tempo propizio non lo fissiamo noi: non c’è età esclusa dall’appello di Dio. Se le decisioni sono proprie dell’età matura, la emozione privilegiata piò avvenire in qualsiasi età, anche nella fanciullezza (“Chissà che non abbia a diventare sacerdote”, fu detto ad un bambino di 9 anni).

La proposta non è mai un “prendere o lasciare” (“dimmi: sì o no?”), ma più spesso è inaugurare dei cammini. Fare proposta vocazionale è suscitare interrogativi, non provocare risposte. Ci vuole tempo e pazienza. E’ proposta anche l’invito a un concreto “vieni e vedi” missionario, mettendo il giovane a contatto con una situazione che diventa per lui appello, proposta, luogo di prima verifica tra le proprie inclinazioni più profonde e quel genere particolare di vita. In ogni caso cuore di ogni proposta è condurre il giovane alla persona del Signore, perché si realizzi l;incontro dei due sguardi. Le vocazioni di speciale consacrazione maturano solo ad una elevata temperatura spirituale, poiché nessuno segue uno sconosciuto e nessuno rinuncia a beni appetibili e radicali del cuore dell’uomo, se non in presenza di un bene e di un amore più intenso e profondo.

Accompagnamento. L’esperienza passata ed odierna, nostra ed altrui ci conferma nel ritenere che, senza accompagnamento personale, ordinariamente non matura una vocazione di speciale consacrazione. Senza il sacrificio del tempo da dedicare all’ascolto ed all’accompagnamento sistematico del singolo giovane, difficilmente avviene una maturazione vocazionale.

Don Antonio Domenech, nell’ultima Visita d’Insieme della Regione Italia e Medio Oriente, ha acutamente osservato: “Nell’orientamento e discernimento vocazionale è fondamentale l’accompagnamento personale che aiuta a chiarire e maturare le motivazioni e i criteri, ad assimilare i valori e le esperienze vissute, a personalizzare le proposte, a sostenere l’impegno di maturazione nella fede e a realizzare un vero discernimento.

Tutti ne siamo convinti, ma sovente la pratica dell’accompagnamento è lasciata alla buona volontà dei confratelli, impegnati in molte altre cose. E’ dunque necessario che l’ispettoria dedichi salesiani a quest’accompagnamento dei giovani, in particolare di quelli con germi vocazionali. Conviene anche favorire la formazione di queste persone, mediante incontri di riflessione e condivisione della loro prassi, per imparare da essa ed evitare un eccessivo personalismo.

Si deve anche fare attenzione ai confessori dei giovani, curare la loro preparazione, promuovere nell’ispettoria qualche incontro per condividere con loro la preoccupazione vocazionale, favorire la collaborazione tra loro e gli animatori pastorali e vocazionali”.

Annuncio, proposta, accompagnamento tre cerchi concentrici che qualificano la pastorale vocazionale e la sostanziano: la franchezza dell’annuncio, il coraggio della proposta, la pazienza dell’accompagnamento. Ma esse, senza una precisa intenzionalità e conseguenti decisioni (Chi? Quando? Come?), restano parole vuole o auspici.

A titolo di esempio di una specifica pastorale vocazionale, riporto alcune costanti in atto presso diverse Diocesi da me visitate (Roma, Milano, Rimini, Ferrara, Catania, Palermo, Messina)

  • Il Seminario è il Centro di orientamento vocazionale della Diocesi

  • Gruppi di orientamento con incontri stabili mensili, (spesso) esercizi spirituali, campo scuola estivo ed appositi itinerai calibrati per fasce dei età: fanciulli/ministranti, medie, biennio, triennio, universitari.

  • Settimana vocazionale parrocchiale o giornata diocesana del seminario come “tempo forte” di annuncio vocazionale

  • Esperienza di accoglienza residenziale, nello stile del “Vieni e vedi”, presso il seminario Diocesano, per periodi brevi, determinati.

  • Incontri di preghiera mensili presso il Seminario, aperti ai giovani.

  • Una settimana all’anno di missione dei seminaristi presso un paese della Diocesi.

  • Disponibilità del Rettore e dell’equipe del seminario alla direzione spirituale stabile di giovani in ricerca vocazionale


f) E la preghiera per le vocazioni?

L’invito di Gesù a pregare il padrone della messe richiama al misterioso sviluppo del Regno che è di Dio e non nostro. Né chi pianta, né chi irriga è qualcosa, perché è Dio che fa crescere, eppure ordinariamente c’è bisogno della cooperazione umana per la crescita del Regno. Se è vero che la preghiera non muta Dio, stimolandolo ad essere più generoso, ma modifica l’orante suscitando in lui le condizioni per accogliere il dono, la preghiera per le vocazioni non è mai la attesa che qualcosa succeda o piova dai cieli. Essa cambia lo sguardo dell’orante perché veda attorno quei segni di chiamata che Dio a piene mani sparge nel campo; dona coraggio e libertà nel proporre, luce e saggezza nel saper accompagnare. Le vocazioni, si sa, non le porta la cicogna. Esigono l’impegno e la fede dei credenti: bussate, cercate, chiedete…!

g) E la situazione in Sicilia?

Dal contatto con tutte le comunità della vostra Ispettoria e dal colloquio personale con tutti i confratelli ho evinto le seguenti tre convinzioni:

- Ci sono in Sicilia condizioni ottimali per lo sviluppo futuro del carisma salesiano.

Alcuni indicatori, a mio parere sono i seguenti: la lunghissima tradizione salesiana che affonda le radici in Don Bosco stesso e che è stata irrobustita da eccellenti e santi confratelli salesiani, ricchi di fede e di entusiasmo; la chiara identità delle comunità salesiane attuali impegnate sul fronte dei giovani e in particolare dei più poveri (CFP, quartieri difficili, presenze popolari); l’enorme credito di stima e di simpatia verso i Salesiani; la presenza di una base di giovani non pregiudizialmente ostili, ma culturalmente disponibili al fatto religioso (tradizioni religiose popolari ancora solide); la presenza di numerosi giovani sensibili spiritualmente e disponibili ad un coinvolgimento apostolico.

- I confratelli contenti ed entusiasti della propria vocazione sono numerosi.

Ci sono certamente anche dei confratelli delusi o che recano nella propria vita ferite personali o familiari o vocazionali e dunque non sono disposti a proporre ad altri il medesimo cammino, ma tali presenze (da accogliere ed amare con attenzione fraterna) non sono maggioritarie.

- L’obiettivo della pastorale vocazionale è di fatto assente

Pur soffrendo una penuria vocazionale cronica, e nonostante i numerosissimi richiami e le dichiarazioni ufficiali di impegno, priorità, urgenza, non vi è traccia in nessun verbale di Consiglio locale dell’argomento. Vengono realissati incontri ispettoriali per varie fascie di età, ma iniziative locali significative di annuncio, proposta, accompagnamento (eccetto qualche sporadica eccezione di invito di qualche giovane in comunità) sono pressochè totalmente assenti. Gli obiettivi che i confratelli e le comunità perseguono sono, di fatto altri. L’urgente (Marta che si agita e si affanna per molte cose) soppianta l’importante (la parte migliore scelta da Maria). La folla assorbe tutte le attenzioni. La massa resta massa, i dodici restano anonimi che nessuno chiamerà mai.

Di fronte a questa situazione possiamo nella verità affermare che le vocazioni non ci sono?

Crisi di chiamati o assenza di chiamanti? Tristezza dei tempi o mancanza di speranza? Infedelta generalizzata o poca parresia?

Che il Signore dia a tutti noi la passione e il coraggio di Don Bosco, l’entusiasmo nel chiamare di tanti confratelli salesiani che sono alla origine della vocazione di ciascuno di voi.




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