ACG 336 , Appello del Papa per le missioniI

ACG 336 - 1991


APPELLO DEL PAPA PER LE MISSIONI



Introduzione - Il cuore missionario di Don Bosco. - Egli ha sognato i suoi al Sud e all’Oriente. - La nostra è una Congregazione missionaria. - Il messaggio del Papa nell’Enciclica Redemptoris missio. - L’ardore nella «missione» procede dal mistero di Dio. - L’attività missionaria occupa il primo posto nell’evangelizzazione. - Il missionario è invitato a rinnovarsi senza deviare. - Uno sguardo alle missioni di Don Bosco oggi. - Spiritualità salesiana per i nostri missionari. - Tutti: in comunione e partecipazione attiva. - Il Signore prepara una nuova primavera della fede.

Lettera pubblicata in ACG n. 336



Roma, 24 febbraio 1991


Cari confratelli,


vi scrivo nel clima liturgico che ci prepara a rivivere il mistero pasquale di Cristo. Guardiamo a Lui come centro della nostra esistenza e di tutta la storia umana. Egli è il Buon Pastore, «inviato» dal Padre per dar vita a una Chiesa tutta «missionaria» tra le genti. In essa ha suscitato anche la nostra vocazione come uno speciale carisma di evangelizzazione.

Vorrei invitarvi, prendendo occasione dalla recente enciclica del Papa, a riflettere sulla nostra dimensione missionaria nella Chiesa.

Nella precedente lettera circolare abbiamo meditato insieme sull’evento ecclesiale dell’ultimo Sinodo dei vescovi, per prepararci anche a commemorare i 150 anni dell’ordinazione sacerdotale di Don Bosco.

In questa, credo opportuno intrattenervi su un altro evento ecclesiale, qual è la pubblicazione dell’enciclica Redemptoris missio. È bene sintonizzarci, nella preghiera e nella riflessione, con gli eventi orientatori della Chiesa.

L’enciclica tratta un tema vitale per tutti i fedeli; essa tocca da vicino anche noi.

D’altra parte nella città di Lima, capitale del Perù, si è appena celebrato con grande concorso il COMLA-4 (Quarto Congresso Missionario Latinoamericano) per rinvigorire in quelle nazioni, culturalmente cristiane, l’impegno missionario. Anche questo evento ci stimola a riflettere sull’importanza delle missioni.

Inoltre anche durante il nostro CG23 si è trattato della dimensione missionaria della Congregazione proponendo sinteticamente un orientamento operativo per la verifica e il progressivo coordinamento delle nuove presenze salesiane nel continente africano.1 Tale orientamento è stato considerato attentamente dal Rettor Maggiore con il suo Consiglio, stabilendo alcune disposizioni, ormai in via di realizzazione.2

Questo insieme di circostanze, oltre ai numerosi viaggi «missionari» — programmati in quest’anno dal Rettor Maggiore e da vari Consiglieri generali —, ci invitano a concentrare l’attenzione su un tema che è certamente vitale. Esso ci fa vibrare con gli impegni più coraggiosi assunti dalla Congregazione. Ci fa però anche approfondire un lineamento qualificante che il Papa ci ha ricordato più volte: quello di essere noi, ovunque, veri «missionari dei giovani». C’è qualcosa nel termine «missionario» che ci riconduce alle radici della fede e ci fa percepire più esplicitamente il significato stesso della nostra vocazione salesiana.

Prima di addentrarci negli aspetti più sostanziali dell’enciclica, è utile che riconsideriamo insieme la dimensione missionaria della nostra Congregazione (e Famiglia). Questa caratteristica, in casa, è più che pacifica. Non lo è, però, tanto chiaramente fuori. Così, ad esempio, certi elenchi, più o meno ufficiali, non sogliono annoverarci (con le corrispondenti conseguenze) tra gli Istituti missionari.

È utile che consideriamo brevemente insieme innanzitutto il cuore missionario di Don Bosco, poi i suoi profetici sogni missionari, per poter affermare con ragione la dimensione missionaria della nostra Congregazione.



Il cuore missionario di Don Bosco


Possiamo dire che Don Bosco può essere annoverato nella grande schiera di missionari del secolo XIX, anche se non è mai stato personalmente nelle missioni «ad gentes».

«L’idea missionaria — scrive Eugenio Ceria — crebbe, si può dire, con lui».3 È un’idea intrinseca al suo progetto vocazionale di Fondatore e coestensiva alla sua esistenza. Prima allo stato embrionale ed inconscio, poi — gradualmente — in forma sempre più chiara e distinta.

Lo affermano, in termini più incisivi o più sfumati, sia don Paolo Albera che don Filippo Rinaldi, i quali fanno risalire la visione missionaria di Don Bosco al sogno dei nove anni.

Le missioni «ad gentes», scrive don Albera, «furono sempre l’aspirazione più ardente del cuore di Don Bosco, né temo errare dicendo che Maria SS. Ausiliatrice fino dalle prime sue materne manifestazioni gliene aveva concessa, giovanetto ancora, una chiara intuizione... Egli ne parlava continuamente a noi suoi primi figli, che pieni di meraviglia ci sentivamo trasportati da santo entusiasmo... Attorno al letto di un suo caro giovanetto, Giovanni Cagliero, moribondo, vede i Patagoni che attendono da lui la redenzione ed egli gli predice la guarigione e gli apre in parte i futuri suoi destini».4

Don Rinaldi, a sua volta, afferma: «Commemorando quel primo sogno del venerabile Padre noi abbiamo implicitamente festeggiato il centenario dell’inizio di tutta l’Opera Salesiana; fu in quella prima visione ch’egli venne, si può dire, consacrato apostolo della gioventù, padre di una nuova famiglia religiosa, missionario dei popoli “non-cristiani”; essa infatti gli suscitò in cuore anche un vivissimo desiderio di vita religiosa e di evangelizzazione degli infedeli».5

Realmente l’ideale missionario, già vivo in lui sul finire dei suoi studi ginnasiali,6 si sviluppa e matura nel tempo.

Concluso il periodo di formazione pastorale nel Convitto di S. Francesco d’Assisi a Torino (1844), egli pensa di entrare tra gli Oblati di Maria Vergine, che avevano aperto una fiorente missione in Indocina (Vietnam), per poter divenire presto missionario. Si prepara con la preghiera e con lo studio di qualche lingua. Don Cafasso, sua guida spirituale, lo lascia fare, ma al momento opportuno lo blocca con un “no” deciso e lo fa rimanere a Torino trovandogli un posto presso il rifugio della marchesa Barolo, dove potrà occuparsi di tanti giovani. Egli ubbidisce, e la Provvidenza lo guiderà per le sue vie. Ma il lavoro apostolico tra i giovani, non che attenuare la sua fiamma missionaria, la ravviva di più limpida luce e la riveste di originalità.

Sappiamo che le imprese missionarie, riportate negli Annali della Propagazione della Fede — una delle sue letture preferite — lo colpivano profondamente.7 C’erano di mezzo tante anime da salvare delle quali si sentiva, in qualche modo, corresponsabile.

Fin dal 1848 don Rua ed altri lo udirono esclamare più volte: «Oh, se avessi molti preti e molti chierici vorrei mandarli ad evangelizzare la Patagonia, la Terra del Fuoco...».8

Fu visto, in quegli stessi anni, gettare lo sguardo su qualche carta geografica e fremere al pensiero che «tante regioni giacessero ancora nell’ombra della morte».9

Quando, dopo inenarrabili sacrifici, può finalmente lanciare le sue missioni (1875: la più grande impresa della Congregazione!), il suo cuore missionario esulta e, all’apparenza, sembra vibrare solo più per esse. Lo attestano i suoi primi successori: «D’allora in poi — scrive don Albera — le Missioni furono il cuore del cuor suo e parve vivesse più soltanto per esse... Ne parlava con tanto entusiasmo, che si restava meravigliati e fortemente edificati dall’ardore suo accesissimo per le anime».10

Con non minore intensità don Rinaldi, evocando ricordi lontani, così si esprime: «Nel suo gran cuore erano accumulati da anni ed anni gli ardori apostolici d’un Francesco Saverio, alimentati da una fiamma superna che gli andava rischiarando l’avvenire attraverso i sogni... Per me, penso che forse nessun missionario è stato propagandista più zelante e infaticabile di lui. Lo rivedo, il Padre amatissimo, nei lontani ricordi della mia vocazione salesiana, proprio negli anni del suo maggior fervore missionario; e l’impressione che me n’è rimasta è indelebile: era un vero missionario, un apostolo divorato dalla passione delle anime».11

Ma Don Bosco non si accontentò di vivere in proprio l’ideale missionario, lo trasmise alla sua Congregazione (e Famiglia) come elemento costitutivo del suo patrimonio spirituale e apostolico. Il pro-memoria inviato nel 1880 al Papa Leone XIII è esplicito: «Le missioni estere furono sempre oggetto vagheggiato della Congregazione salesiana».12

Volle, dunque, che la sua fondazione fosse veramente anche missionaria «ad gentes».

Vale la pena considerare, anche se brevemente, alcuni «sogni» di Don Bosco che manifestano con chiarezza il suo progetto di Fondatore.



Egli ha sognato i suoi al Sud e all’Oriente


Di sogni Don Bosco ne ha fatti parecchi: giustamente lo si è chiamato «il Santo sognatore».

La loro classificazione è un problema spinoso; e ancora di più lo è la loro interpretazione. Non disponiamo fino ad oggi di un completo studio critico-scientifico al riguardo, e non è neppure facile realizzarlo.13

Questo non significa, però, che alcuni dei suoi sogni non abbiano una importanza storica e profetica; hanno sostanziato la sua personalità carismatica, spingendolo a coraggiose iniziative umanamente inspiegabili.

Commentando il sogno cosiddetto del personaggio dei 10 diamanti,14 dicevo che si può parlare dei sogni di Don Bosco a un livello differente e più vitale di quello critico-scientifico (pur tanto desiderabile per la necessaria serietà d’investigazione). Si tratta del livello d’influsso esistenziale nell’animo stesso del Fondatore e nella vita dei suoi.

Alcuni sogni sono da considerarsi «rivelatori»; non si possono spiegare con la sola analisi della interiorità personale del Santo.

Don Giacomo Costamagna — poi vescovo — (che aveva constatato in America Latina il valore carismatico di vari sogni) e che vedeva senz’altro in Don Bosco una «personalità profetica», dopo la lettura di un sogno missionario dell’85 scriveva a don Lemoyne riferendogli una frase dettagli confidenzialmente dallo stesso buon Padre: «Fra tutte le Congregazioni e Ordini religiosi, forse la nostra fu quella che ebbe più Parola di Dio».15

Tra i cosiddetti «sogni rivelatori» ce ne sono cinque che si riferiscono proprio alle missioni «ad gentes»:

— uno sulla Patagonia, fatto nel 1872: gli è servito per decidersi ad iniziare le missioni;

— un altro che descrive un viaggio attraverso l’America Latina, fatto nel 1883: contiene molti dati non solo sconosciuti a Don Bosco, ma anche agli studiosi dell’epoca;

— un terzo sul cono sud dell’America, fatto nel 1885: è quello che ha spinto don Costamagna, già in America, a riferire la famosa frase che abbiamo citato;

— un quarto sull’Africa, l’Asia e l’Oceania, fatto anch’esso nel 1885: lo consideriamo oggi con speciale meraviglia perché ne vediamo già ben sviluppata la prodigiosa realizzazione;

— e il quinto sul viaggio «aereo» da Valparaiso a Pechino, fatto nel 1886: io l’ho voluto in qualche modo controllare geograficamente con differenti viaggi per invitare tutti a riaprire con speranza il nostro coraggio al «Progetto-Cina».16

Questi «sogni missionari» ci aiutano a conoscere la mente del Fondatore, a capire la sua magnanimità e l’audacia delle sue iniziative. In essi si vede collocata senz’altro la Congregazione tra i gruppi ecclesiali impegnati, come tali, nelle missioni «ad gentes»; ed esattamente in quel Sud e in quell’Oriente di cui parla l’enciclica: profetizzano la fecondità vocazionale tra gli autoctoni; e aprono spazi di futuro da verificare...fra 500 anni!17

Il tempo trascorso dalla prima spedizione missionaria (1875) fino ad oggi dimostra la realizzazione di tali sogni, anche se rimangono ancora aperte le frontiere di crescita, specialmente in Cina, dove peraltro le missioni salesiane furono avviate con successi insperati e bagnati dal sangue dei nostri primi martiri.

Sono sogni che — fatto forse unico nella storia — hanno tracciato, con l’anticipo di vari decenni, le linee di percorso sulle quali si sono incamminati i suoi. E non senza ragione Don Bosco è sentito oggi, nelle più disparate regioni del globo, come presenza precorritrice e paterna, come amicizia culturale e come protezione potente.

In numerosi viaggi intercontinentali io stesso ho potuto in qualche modo verificare più volte la portata profetica di tali sogni, che conservano sempre un sollecitante fascino di futuro. L’ho potuto constatare in America Latina, in Africa e Madagascar, in Asia, nel Giappone e nelle Filippine, in Australia e in Oceania. I nostri confratelli di quelle regioni rileggono quei sogni considerandoli provvidenziali messaggi profetici. In qualche caso sono persino stato interpellato a risolvere accese discussioni circa alcune precisazioni geografiche.

Sono sogni che hanno inciso veramente, di fatto (e influiscono tuttora), sulla vita missionaria in Congregazione. Vengono a confermare, a loro modo, un aspetto costitutivo della stessa vocazione salesiana nella Chiesa.



La nostra è una Congregazione missionaria


La mente e il cuore del Fondatore e la tradizione vissuta ininterrottamente in Famiglia, confermano apertamente che la dimensione missionaria è «elemento essenziale» del nostro carisma.18 Le missioni «ad gentes», per noi Salesiani, non sono semplicemente un «insieme di opere» uguali alle altre, con la sola differenza di essere collocate in Paesi lontani e di culture differenti: no, no. Esse rappresentano — assai più profondamente — un aspetto costitutivo, una dimensione peculiare della nostra identità di Salesiani di Don Bosco nella Chiesa. È vero che la Congregazione non è inserita nell’Annuario pontificio tra gli «Istituti missionari» in senso stretto (ossia tra quelli che si dedicano solo alle missioni estere); però in essa — e precisamente in quanto istituzione ecclesiale — il Fondatore ha voluto un vero impegno di missioni «ad gentes». Il suo è stato un progetto veramente provvidenziale. Oggi dobbiamo riconoscere che le missioni sono state lo strumento storico per l’universalizzazione e l’inculturazione del carisma salesiano nel mondo. È un grande merito.

Tra noi si sono coltivate fin dall’inizio le vocazioni missionarie in senso stretto, ossia la cura di quei confratelli — non pochi — arricchiti dalla “vocazione speciale” che costituisce la nota caratteristica di ogni vero missionario. E tale vocazione speciale non è in essi a maniera di eccezione in confronto con gli altri confratelli, bensì l’espressione più viva e più generosa della vocazione di tutti. Infatti essa manifesta una condizione interna all’indole propria del carisma comune; ogni confratello è di per sé disponibile, in dialogo di obbedienza, ad essere inviato in missione.

Abbiamo iniziato — da più di 100 anni — le nostre missioni in America Latina; 50 anni dopo ci siamo rivolti all’Asia e ultimamente (50 anni dopo!) ci siamo impegnati, come progetto d’insieme, in Africa. Possiamo dire che ci siamo veramente rivolti, come suggerisce il Papa, verso il Sud e l’Oriente,19 dove si constata la maggior crescita demografica dell’umanità: molta gioventù e tanta povertà.

Le nostre missioni stanno a dimostrare, in tre grandi tappe successive e a livello mondiale, la concreta opzione preferenziale della Congregazione per i giovani poveri e bisognosi.

Nei due ultimi decenni c’è stato tra noi un nuovo rilancio missionario. È una iniziativa provvidenziale che sta rivitalizzando il carisma e che ci proietta con speranza nel futuro. Nella circolare su «Il nostro impegno africano»,20 vi dicevo che l’apertura di questa nuova frontiera missionaria era inerente alla nostra tradizione di vita e portatrice di preziose benedizioni del Signore. Stiamo vedendo confermata tale affermazione. L’impegno missionario ci sta liberando dai pericoli dell’imborghesimento, della superficialità spirituale e del genericismo. Nelle missioni percepiamo il gusto delle origini, sperimentiamo la permanente validità del criterio oratoriano, e ci sembra di veder rivivere Don Bosco nell’autenticità primigenia della sua missione giovanile e popolare.

Il CG23 fa rivolgere la nostra attenzione particolarmente al Progetto-Africa, ma qui desidero invitarvi a riflettere allo stesso tempo su tutte le altre frontiere missionarie, alcune delle quali sono espressioni di iniziative recenti, come quella delle «missioni di altezza» in America Latina, quelle della Papuasia e isole Samoa, l’apertura all’Indonesia e alla Cambogia e, con speranza e preparazione, il ritorno all’immenso continente cinese.

In quanto all’impegno africano, possiamo dire che stiamo iniziando una nuova tappa, la quale si caratterizza per una più chiara e crescente coscienza d’inserimento nella cultura di quei popoli, per il consolidamento e lo sviluppo delle presenze, per una sempre più appropriata prassi di evangelizzazione della gioventù e, in modo particolare, per la cura delle vocazioni locali e della loro adeguata formazione con la creazione delle strutture necessarie. Si sta facendo un grande passo innanzi, che dovrebbe aiutarci a rivedere e ad approfondire la significatività di tutti i nostri impegni.

Per procedere con saggezza ed efficacia in questa nuova tappa è bene rafforzare, non solo in coloro che sono direttamente impegnati, bensì in tutti i confratelli, una più genuina mentalità missionaria.

L’occasione ci è offerta dalla recente importante enciclica sulle missioni. La precisazione di ciò che è, ancor oggi, l’attività specificamente missionaria approfondisce e rende concreto il significato di tutta la nuova evangelizzazione: si tratta per tutti di ripensare l’autenticità della fede: quella dell’apostolo e quella del catecumeno.

Il Santo Padre insiste nell’affermare che la finalità interna dell’enciclica è, in definitiva, «il rinnovamento della fede e della vita cristiana. La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni».21

Cerchiamo di far tesoro di queste riflessioni ed orientamenti magisteriali. In tutti noi c’è una radice missionaria che esige alla nostra fede di impegnarsi a trasmetterla. Anche il CG23 ci ha ricordato che il nostro apostolato va dalla fede (la nostra) alla fede (dei giovani) sotto l’impulso della spiritualità salesiana che ci muove lungo il cammino.

Giovanni Paolo II, d’altra parte, ricorda a tutti che «la fede si rafforza donandola».22



Il messaggio del Papa nell’Enciclica «Redemptoris missio»


In occasione del 25° anniversario del decreto conciliare Ad gentes (dicembre 1965), il Santo Padre ha pubblicato l’enciclica Redemptoris missio per affermare chiaramente la permanente validità del mandato missionario nella Chiesa. Essa rappresenta un grande appello del Papa ad affrontare con maggior responsabilità le missioni «ad gentes». Essa, inoltre, offre riflessioni e chiarificazioni, tenendo in conto delle importanti evoluzioni che si sono verificate in questi decenni.

Il titolo dell’enciclica ci riporta a quella proclamazione rivolta a tutti da Giovanni Paolo II al primo inizio del suo pontificato: «Aprite le porte a Cristo!». Grido che ha trovato poi un ampio commento nella sua prima enciclica Redemptor hominis, in cui afferma che la «prima via della Chiesa» è l’uomo vivente. A questi ed altri appelli il Papa ha poi aggiunto la sua testimonianza personale nel modo di esercitare il ministero di Pietro. Giustamente lo hanno chiamato, per i suoi molteplici viaggi apostolici, «il primo missionario del mondo».

Si può dire che l’esortazione di aprire le porte a Cristo è la linea portante di tutto il suo pontificato; in particolare costituisce la prima grande finalità di questa nuova enciclica: «La missione di Cristo Redentore, affidata alla Chiesa, è ancora agli inizi!... dobbiamo impegnarci con tutte le forze».23 Basta che guardiamo l’umanità contemporanea: su più di 5 miliardi di abitanti, soltanto un terzo conosce Gesù Cristo, e di questi solo il 18 per cento si dice cattolico (e tra i cattolici non tutti sono veri credenti). Nel continente asiatico, poi, dove vive il 60 per cento dell’umanità, i battezzati non raggiungono il 2 per cento. E, un po’ ovunque, cresce più in fretta il numero di coloro che non lo conoscono, che non quello di coloro che lo seguono.

Urge, perciò, rilanciare la preoccupazione missionaria; essa stimolerà a rinnovare tutti gli impegni di evangelizzazione e presenterà la Chiesa come vero sacramento di salvezza nel mondo.

L’enciclica prende in conto le evoluzioni avvenute e apre delle prospettive nuove.

Possiamo indicarne alcune: la novità conciliare del denso contenuto teologale della «missione»; la novità della differenziazione dell’attività specificamente missionaria, in rapporto sia alla cura pastorale dei fedeli che alla rievangelizzazione dei paesi di antica tradizione cristiana ora in accelerata via di secolarizzazione; la novità dei criteri per descrivere specificamente l’attività missionaria: non solo criteri «geografici», ma anche «sociologici» e «culturali»; la novità del risalto dato alle giovani Chiese ancora bisognose di ulteriore maturazione; la novità dell’inclusione di impegni promozionali per lo sviluppo dei popoli attraverso l’educazione delle coscienze.

L’enciclica ci viene a dire, in sintesi, che l’attività missionaria aiuta la Chiesa a rispondere all’immensa sfida di una svolta epocale, mai vista finora nei secoli per la sua vastità, profondità e celerità. In tale svolta l’impegno missionario appare come «l’attività primaria della Chiesa, essenziale e mai conclusa».24

Invito ognuno a rileggere con attenzione il documento pontificio.

Qui rifletteremo insieme su alcuni aspetti che ci aiuteranno a metterci coraggiosamente in sintonia con il cuore missionario di Don Bosco.



L’ardore nella «missione» procede dal mistero di Dio


Il concetto di «missione» è alla base di tutto il rinnovamento ecclesiologico portato dal Concilio Vaticano II; esso è intimamente connesso con la natura stessa della Chiesa, corpo storico del mistero di Cristo. La sua dimensione missionaria, infatti, è radicata nelle missioni trinitarie: in quella del Verbo inviato dal Padre a farsi uomo, e, tramite la risurrezione di Cristo, in quella dello Spirito Santo. La Chiesa, Sacramento universale di salvezza, armonizza organicamente in sé le due missioni trinitarie e diviene la grande evangelizzatrice di tutti i popoli.

Il Concilio, nel proclamare la natura missionaria della Chiesa (specialmente attraverso la Lumen gentium e il decreto Ad gentes), afferma la straordinaria vitalità di questo suo innato dinamismo, soprattutto in rapporto all’attuale cambio epocale «dal quale nasce una nuova condizione dell’umanità».25 Non solo c’è nel mondo una cultura emergente, che di per sé non nasce cristiana, ma i popoli stessi sono in movimento e il numero degli uomini che non conoscono Cristo è sempre in aumento; gli orizzonti e le possibilità dell’impegno missionario si allargano. L’attività missionaria della Chiesa è ben lontana dal suo compimento; anzi — afferma il Papa — è solo ai suoi inizi. Gli «ultimi confini della terra» indicati dal Vangelo non sono semplicemente geografici; e possiamo dire che, invece di essere più vicini, si stanno allontanando. Di qui l’urgenza missionaria. I credenti sono tutti invitati ad allargare il loro sguardo agli immensi orizzonti del mondo non cristiano.26

Questa visione conciliare ha infuso un ardore nuovo alla Chiesa. In certo modo ha fatto confluire la considerazione delle «missioni “ad gentes”» nell’alveo unico e fondamentale della «missione» di evangelizzazione (propria di tutto il Popolo di Dio) incorporando così organicamente la missiologia nell’ecclesiologia. La qual cosa è servita a illuminare meglio tutta l’attività evangelizzatrice della Chiesa rinforzandone gli stretti rapporti che deve coltivare verso l’uomo contemporaneo, alle cui incalzanti sfide deve saper dare una risposta di salvezza.

È in questa prospettiva globale che è nata l’esigenza della «nuova evangelizzazione» che guida, oggi, l’intero rinnovamento dell’azione ecclesiale. Tutto è radicato nelle missioni trinitarie che si incarnano e si fondono storicamente nell’unica fondamentale missione della Chiesa.



L’attività missionaria

occupa il primo posto nell’evangelizzazione


Di fronte alla visione unificatrice del Concilio non è mancato chi si sia chiesto se era ancora opportuno parlare di attività missionaria specifica; non basterebbe parlare semplicemente di missionarietà inerente ad ogni attività ecclesiale?

Certamente bisognerà riconoscere che, se la missione della Chiesa è unica, essa dovrà trovarsi concretamente presente in ognuna delle attività ecclesiali Ciò, però, non comporta come conseguenza di identificare tra loro tutte queste attività. L’enciclica è tutta protesa ad affermare che permane fondamentale e indispensabile l’attività delle missioni «ad gentes»: «Occorre guardarsi — afferma — dal rischio di livellare situazioni molto diverse e di ridurre, se non di far scomparire, la missione e i missionari “ad gentes”».27

Il decreto conciliare aveva già detto che la differenziazione nelle attività evangelizzatrici non nasce dalla natura ecclesiale della missione, la quale è sempre la stessa nella sua identità di fondo, ma è provocata dalle condizioni esistenziali dei destinatari. Tali condizioni dipendono sia dalla Chiesa, sia anche dai popoli, dai gruppi o dagli uomini a cui la missione è indirizzata.28 Così, nell’alveo dell’unica missione, si distinguono varie attività evangelizzatrici: tutto è evangelizzazione — anzi, dopo il Concilio, tutto deve essere «nuova evangelizzazione»,29 — ma è necessario distinguere tra loro alcune attività con peculiari caratteristiche.

Già il decreto Ad gentes distingueva la specifica attività missionaria da quella pastorale (nei riguardi dei fedeli) e da quella ecumenica (nei riguardi della ricomposizione dell’unità dei cristiani).30

La recente enciclica presenta in generale tre differenti forme dell’attività evangelizzatrice: a) l’«attività missionaria» tra le genti che non conoscono Cristo; b) la «cura pastorale» tra i fedeli cristiani; c) la «riproposta del Vangelo» nei paesi di antica tradizione cristiana ormai secolarizzati.

I confini tra le tre modalità non sono pienamente definibili; certamente queste attività non si identificano una con l’altra, né si escludono mutuamente, come se si potesse isolare ciascuna di loro in una specie di compartimento-stagno. Sono intercomunicanti; con una condizione, però: che l’attività specificamente missionaria significhi anche per le altre l’espressione prima e qualificante di tutta l’evangelizzazione: «senza di essa la Chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attrazione esemplare».31 La noncuranza di essa o il suo indebolimento dimostrerebbe mancanza di fervore e sarebbe un segno di crisi della fede.

Così, nella visione conciliare dell’unica missione, il distinguere l’attività specificamente missionaria dalle altre, invece di indebolirla o posporla, ne rafforza l’identità e la consistenza e ne ripropone l’alto valore di servizio, il primo, che costituisce il fondamento e l’anima dinamica anche delle altre.

Ma come precisare, oggi, le note proprie delle missioni «ad gentes»? Qui si apre una problematica non facile; ci sono ad ogni modo elementi che aiutano a giudicare le differenti situazioni; soprattutto aiutano ad affermare come principio di fondo l’importanza di due aspetti mutuamente connessi: che, cioè, tutte le attività evangelizzatrici procedono dall’unica missione della Chiesa, e che l’attività specificamente missionaria è la radice e lo stimolo primo delle altre attività evangelizzatrici.

L’enciclica approfondisce, in forma articolata ed elaborata, il significato dell’attività missionaria in senso specifico. «Essa si distingue dalle altre attività ecclesiali, perché si rivolge a gruppi ed ambienti non cristiani per l’assenza o insufficienza dell’annuncio evangelico e della presenza ecclesiale».32 Il suo obiettivo centrale è quello di fondare comunità cristiane «abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente ed annunziarla ad altri gruppi».33

Si prendono in considerazione, dunque, anche gli aspetti sociali e culturali: «si tratta di un grande e lungo lavoro, del quale è difficile indicare le tappe precise, in cui cessa l’azione propriamente missionaria e si passa all’attività pastorale».34

Al criterio geografico con cui si solevano delimitare le «terre di missione» — e che in parte rimane ancora valido (l’enciclica parla di Sud e di Oriente) —, si aggiunge un criterio di ordine sociologico che tiene conto di alcune grandi trasformazioni che caratterizzano oggi il divenire sociale (come l’esplosione demografica in alcuni popoli, il mondo giovanile e quello del lavoro, l’urbanizzazione e le migrazioni, i profughi e gli esiliati, ecc.), e infine anche un criterio proprio della cultura emergente dove appaiono — come si esprime l’enciclica — degli «areopaghi moderni» (riferendosi simbolicamente — con San Paolo — all’areopago di Atene, che rappresentava il centro culturale dei cittadini), quali la vasta area della comunicazione sociale, della promozione della donna, della solidarietà internazionale, degli impegni per la pace, la liberazione e la giustizia, la complessa area della ricerca scientifica, ecc. Considerando i criteri proposti nell’enciclica, si vede subito che l’attività specificamente missionaria è divenuta oggi pluriforme e duttile; non la si può più rinchiudere nella sola area territoriale, né ridurre a una visione di sapore romantico, con selve e solitudini. C’è, dice l’enciclica, «un rivolgimento di situazioni religiose e sociali, che rende difficile applicare in concreto certe distinzioni e categorie ecclesiali, a cui si era abituati».35

Le diversità sociologiche e culturali, però, non fanno perdere le note sostanziali che caratterizzano e distinguono l’attività specificamente missionaria sia dalla pastorale, sia dalla riproposta del Vangelo ai gruppi secolarizzati.

A noi interessa approfondire alquanto questa elasticità nel concetto dell’attività specificamente missionaria applicata al nostro carisma. Per adesso ci basta sapere che l’enciclica ne assicura la permanenza, anzi che essa «è solo agli inizi».36 Prima di procedere oltre interessa dare rilievo ad alcune dimensioni nuove assai positive; intorno ad esse l’enciclica dissipa alcuni dubbi ed ambiguità che sono sorti e le accompagnano.


Il missionario è invitato a rinnovarsi senza deviare


Tra le novità che l’enciclica apprezza e mette in rilievo, ce ne sono tre particolarmente significative: la visione conciliare del «Regno di Dio», più ampia di quella della Chiesa; il processo di personalizzazione che approfondisce i valori della soggettività, evitando nell’attività evangelizzatrice tutto ciò che sappia di proselitismo; e i nuovi esigenti valori sia dell’ecumenismo, che del dialogo interreligioso e dell’urgenza dell’inculturazione del Vangelo.

Sono delle prospettive recenti che entrano a far parte importante della nuova evangelizzazione e che devono venir assunte in ogni attività apostolica della Chiesa. Così il missionario è chiamato a rinnovarsi seguendo l’orbita del Vaticano II: deve saper incorporare nella sua attività evangelizzatrice i valori creaturali del Regno; deve seguire una metodologia capace di muovere la libertà e la coscienza personali; deve evitare i toni polemici e apologetici per dare spazio a un intelligente e ben preparato dialogo interreligioso. Non può più contentarsi con una specie di sacramentalismo magico.

Come tutte le novità, anche queste che ho indicate, hanno portato con sé delle ambiguità e fatto nascere dei dubbi finora inediti.

L’enciclica offre una preziosa illuminazione per chiarirli. Sono apparse infatti, al riguardo, delle interpretazioni superficiali che, invece di rinnovare, pretenderebbero di emarginare e indebolire, qua e là e in modi differenti, la stessa attività missionaria. Ci interessa seguire l’enciclica nella chiarificazione delle tre più significative novità indicate.


Il pericolo di favorire un senso riduttivo del «Regno»

Il Concilio Vaticano II ha proposto una necessaria distinzione tra «Chiesa» e «Regno di Dio».37 La realtà incipiente del Regno può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa nell’umanità intera; anzi il Popolo di Dio ha la missione di coordinare e perfezionare anche i valori evangelici delle culture e dell’ordine temporale in rapporto al mistero del Cristo: la Chiesa, infatti, è «germe ed inizio» del Regno nella storia.38

Questa esplicita visione conciliare assicura un orizzonte più ampio dell’attività missionaria e, per noi, serve a mettere in risalto lo stile salesiano dell’interscambio e mutua circolarità tra evangelizzazione e promozione umana.

Alcuni, però, interpretando male la distinzione, sono andati proponendo in questi anni una concezione secolarista del Regno. Concentrano l’attenzione sui valori umani dell’ordine temporale e sottovalutano la missione specifica della Chiesa (perché bisogna evitare, dicono, ogni ecclesiocentrismo). Mentre approfondiscono i valori dell’ordine della creazione (cosa evidentemente positiva), sorvolano sul mistero di Cristo-Redentore (la cui prescindenza snatura il Cristianesimo). Mettendo in evidenza solo le ricchezze della laicità nella realtà storica delle culture, arrivano a concludere che «ciò che conta sono i programmi e le lotte per la liberazione socio-economica, politica ed anche culturale» in vista di un progresso puramente terreno.39

Con tale ottica ideologizzata si emargina l’attività specificamente missionaria; il primo obiettivo da raggiungere non sarebbe l’annunzio di Cristo, ma quello della giustizia sociale, soprattutto tra i popoli più bisognosi. È un pericolo da evitare. Ma non basta evitarlo; il missionario deve saper incorporare la novità di questa visione conciliare nella sua attività di inviato del Signore.

La nuova evangelizzazione, infatti, s’impegna a valorizzare di più il mistero della creazione;40 evidentemente ciò va fatto in correlazione piena e indispensabile con il mistero della redenzione, mettendo in luce la novità del Vangelo e la necessità storica e teologale della croce.41 Il Regno di Dio, afferma il Papa, «non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzitutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile».42 È in Lui e attraverso di Lui che la nuova evangelizzazione privilegia la dimensione sociale della carità.43 È proprio il mistero di Cristo che salva e valorizza l’ordine temporale. Lo stesso Concilio ha ricordato esplicitamente che «l’opera della redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale... permeandolo e perfezionandolo con lo spirito evangelico».44

Dal mistero di Cristo — creatore e redentore — nasce e cresce, per esempio, la vocazione e missione dei fedeli laici nel mondo e l’urgenza di saper formare adeguatamente la loro coscienza. Quali orizzonti di novità si aprono qui per l’attività del missionario!

La retta visione del Regno non emargina né pospone l’attività missionaria; ne esige piuttosto una più aggiornata realizzazione. Ossia: una prospettiva autentica della realtà storica del Regno, invece di indebolire, fortifica e allarga i fondamenti e le finalità degli impegni missionari e illumina il nostro «evangelizzare educando».


La tentazione di non impegnarsi per la «conversione» e il «battesimo»

Un’altra ambiguità chiarificata dall’enciclica è la tentazione di ridurre il Cristianesimo a una specie di religione equivalente: una tra tante. E siccome in ogni religione si troverebbero le possibilità di salvezza, verrebbe svuotata di senso l’attività che cerca le conversioni. Chi è cresciuto in una cultura aliena al mistero di Cristo, ma pervasa di una certa religiosità, non dovrebbe essere sconvolto nelle sue credenze, ma fatto crescere in esse per rafforzarne la trascendenza religiosa; l’invitarlo alla «conversione» sarebbe «proselitismo» e minaccerebbe la dignità stessa della sua persona. Così il rispetto per la libertà e la coscienza escluderebbe l’attività missionaria in quanto tendenzialmente orientata verso la conversione.

E c’è di più: anche nel caso di conversioni personali a Cristo, questo fatto non dovrebbe portare con sé come conclusione necessaria l’amministrazione del sacramento del Battesimo (che in casi concreti è oggetto di sospetti sociali); così esso non sarebbe più necessario per la salvezza. Iddio supplirebbe con gli elementi positivi delle varie religioni. E tale interpretazione dovrebbe offrirsi ai missionari come un aggiornamento antropologico da seguire nelle loro programmazioni.

L’enciclica fa riflettere sulla totale originalità del Cristianesimo: esso non è semplicemente una «religione» (nata dalla ricerca umana), ma è una «fede» che scende dall’alto attraverso eventi storici. Nessuna religione umana è, di per sé, portatrice di salvezza; lo è solo l’evento-Cristo: «nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me».45 La «buona novella» di questo evento storico non è una concezione culturale aliena alle varie mentalità dei popoli che non ne abbiano ricevuto notizia, ma è un fatto che appartiene anche a loro, anzi di cui essi hanno urgente bisogno. Di qui l’importanza missionaria del «primo annunzio»: non si può tacere: «Per me è un dovere — esclama San Paolo —; guai a me se non predicassi il Vangelo!».46 A tutti, poi, è possibile percepire in qualche modo il mistero di Cristo perché non lo si esprime con concetti astratti, ma narrando gli eventi reali della sua vita (nascere, fare del bene, insegnare la verità, patire, morire, vivere). Non c’è nessuna struttura culturale che impedisca di capire questa «buona novella», indispensabile ad ogni persona ed appartenente a ciascun popolo. La fede è interamente concentrata sulla realtà storica di Gesù Cristo; è solo in Lui che si sa «chi» è e «come» è Dio; è solo per mezzo di Lui che c’è una via di uscita: «in nessun altro c’è salvezza».47

Ed è proprio questo dato oggettivo che costituisce il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria.

L’enciclica, quindi, fa vedere perché l’annuncio e la testimonianza del Cristo, fatti in modo rispettoso delle coscienze, sono una proposta offerta alla libertà dell’uomo per favorirne e perfezionarne la dignità.48 La conversione a Cristo è un dono di Dio; ogni persona ne ha diritto, perché attraverso la propria esistenza ognuno è personalmente chiamato alla salvezza. Pietro e gli Apostoli proclamavano esplicitamente l’urgenza di rivolgersi a Cristo: «convertitevi!» 49

E la conversione è stata connessa da Gesù stesso con il sacramento del Battesimo.50 Separare la conversione dal Battesimo significherebbe oscurare il genuino significato della fede cristiana; Cristo ha voluto permanere concretamente nella storia (a favore di ogni uomo) attraverso la Chiesa quale suo proprio Corpo «sacramentale» portatore di tutti gli elementi vitali della salvezza e «luogo» in cui è possibile incontrarsi con Lui in modo sicuro e con frequenza.

Il Battesimo è il grande «sacramento della fede»; incorpora ognuno, in forma oggettiva e organica, nella Chiesa quale Corpo di Cristo ora e qui.51 È vero che intorno alla celebrazione del Battesimo possono essersi accumulate delle modalità sociologiche (e magari anche superstiziose), ma questo può offrire, in tutti i casi, una ragione di più per metterne meglio in vista la natura propria e l’indispensabilità teologale.

Dunque: l’attività missionaria, ripensata e rilanciata con i criteri dell’ecclesiologia conciliare, è chiamata a rinnovare i suoi metodi anche in considerazione dell’approfondimento della soggettività e delle caratteristiche di ogni cultura; deve puntare sulla coscienza e sulla libertà. Ma appunto per questo è stimolata da Cristo stesso e dalla prassi secolare della Chiesa a sollecitare, con intelligente pedagogia, la conversione delle persone a Cristo, accompagnata da un’appropriata preparazione al Battesimo, quale sacramento della generazione alla novità di vita che incorpora alla comunità dei credenti per l’edificazione della Chiesa locale.


I rischi di un relativismo religioso

Il fatto che dopo il Concilio si siano intensificati l’ecumenismo tra le varie denominazioni cristiane — per le ricchezze battesimali comuni — e il dialogo con le altre religioni (soprattutto: Buddhismo, Induismo, Islam) — in vista dei semi di verità evangeliche in esse presenti —, ha portato alcuni a supporre che la specifica attività missionaria sarebbe quasi sostituita (in tali regioni) da appropriati rapporti interreligiosi. Considerando poi che varie religioni sono fortemente incarnate nelle culture dei popoli che le professano, si suggerisce che per inculturare la fede cristiana in quei popoli bisognerebbe saper accettarne tante modalità di vita, anche in delicati aspetti della condotta personale, familiare e sociale, pensando (ed è anche vero) che il Vangelo non è propriamente una morale.

L’enciclica mette in guardia contro simili interpretazioni che snaturano l’attività missionaria della Chiesa.

Innanzitutto l’«ecumenismo» va inteso ed assunto in profondità; non è da identificarsi semplicemente con gli incontri di dialogo e i rapporti di una certa collaborazione, anche se questi ne esprimono la natura. Tali iniziative possono riuscir bene in alcune regioni e non tanto in altre; possono inoltre anche aver avuto dei difetti. L’ecumenismo lanciato dal Concilio comporta un cambio personale di mentalità, un atteggiamento di ricerca della verità, inerente alla concezione stessa della nuova evangelizzazione; è «una dimensione fondamentale di tutte le attività della Chiesa». Esige una formazione adeguata in tutti, anche nei missionari, per approfondire e ripensare il Vangelo con una mentalità di comprensione delle altre chiese, nella consapevolezza della propria identità cattolica. Ciò implica una speciale formazione del credente che, invece di renderlo polemico, lo abilita alla ricerca dei punti comuni nella verità e al dialogo; una tale formazione arricchirà anche il modo di realizzare l’attività missionaria, valorizzando le comuni ricchezze del Battesimo e della Scrittura; evidentemente bisogna saper evitare di cadere in un deleterio «irenismo», soprattutto quando si tratta di sette mosse più da una vaga religiosità che da vera fede nel Cristo.

Quanto al «dialogo con le altre religioni», si tratta di un atteggiamento simile a quello dell’ecumenismo, in riferimento ai valori positivi propri di ogni religione. Ciò esige conoscenza delle religioni e rapporti di dialogo; saperli intavolare apporta certamente un arricchimento reciproco. Non si tratta semplicemente di cambiar di tattica, ma di capire che anche nelle altre religioni ci sono i cosiddetti «semi del Verbo» che possono crescere e fruttificare in pienezza con l’aiuto della preghiera e della potenza dello Spirito Santo. Giustamente afferma l’enciclica che «le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la Chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza di Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l’integrità della Rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti».52

Non è facile avere questa mentalità e la corrispondente competenza di dialogo, ma è certo che è un atteggiamento inerente alla nuova evangelizzazione lanciata dal Vaticano II e che deve, perciò, formar parte costitutiva della rinnovata attività missionaria della Chiesa.

C’è poi da dedicarsi coraggiosamente all’inculturazione della fede, evitando però d’interpretarla in forma superficiale, portandola avanti senza il dovuto discernimento e prescindendo per leggerezza dai criteri di comunione con la Chiesa locale.

In ogni cultura (e nella religiosità umana che la permea) ci sono, uniti a tanti valori, anche dei disvalori e degli errori; in particolare ci può essere una visione precristiana che non ha preso in conto l’apporto storico dell’evento di Cristo; quindi si tratta non solo di una cultura «plurimillenaria» (ricca di tanta esperienza umana), ma anche di un pensiero religioso fermo a «più di duemila anni fa» (in quanto carente dell’esperienza di fede iniziata nel Cristo). La Chiesa, se da una parte è sollecitata all’inculturazione del Vangelo nella pluriformità delle Chiese locali, dall’altra è inviata da Cristo stesso a «evangelizzare le culture», quindi a discernerne i valori ed a purificarne i disvalori. E questo secondo aspetto porta con sé anche incomprensioni, difficoltà e persecuzioni. Tutti gli Apostoli sono morti martiri. Il mistero dell’incarnazione del Verbo, mentre ci mostra l’audacia e il realismo del «farsi vero uomo», ci parla anche del coraggio della testimonianza e della pazienza (passione e morte) nella proclamazione della verità salvifica. Cristo corregge anche e purifica, sempre in coerenza con la propria identità di Salvatore.

Sapendo che l’atteggiamento ecumenico e interreligioso ha davanti a sé vie lunghe e difficili da percorrere (specialmente con l’Islam), il Papa incoraggia i missionari a perseverare con fede e carità nella loro testimonianza quotidiana, convinti che «il dialogo è una via verso il Regno e darà sicuramente i suoi frutti, anche se tempi e momenti sono riservati al Padre».53



Uno sguardo alle missioni di Don Bosco oggi


L’attività missionaria è divenuta oggi pluriforme e duttile: al criterio geografico se ne sono aggiunti anche altri sociologici e culturali. C’è, dunque, una evoluzione e una mobilità che non si possono adeguare facilmente a elencazioni fisse. Il Papa insiste però nell’affermare che rimangono chiare le note sostanziali che specificano l’attività missionaria.

A noi fa del bene meditare su questa evoluzione e su questa permanenza, riferendole alle nostre missioni.

Oggi, infatti, per merito di tanti missionari, sono maturate non poche Chiese particolari tra i popoli che decenni fa non conoscevano ancora Cristo. Tuttavia in quelle stesse regioni «esistono tuttora vaste aree in cui le Chiese locali sono del tutto assenti o insufficienti rispetto alla vastità del territorio e alla densità della popolazione»,54 ossia, dove la fase della «plantatio Ecclesiae» non è sufficientemente cresciuta; «il moltiplicarsi delle giovani Chiese nei tempi recenti — riconosce l’enciclica — non deve illudere».55

Dunque: in tali aree rimane ancora vivo il compito di formare comunità cristiane che siano davvero segno della presenza di Cristo nella vita umana, anche se c’è già stabilita una fondamentale struttura diocesana: urge continuare un lavoro di più profonda evangelizzazione.

D’altra parte ci possono essere settori di popolazione o speciali ambiti socioculturali che non conoscono ancora Cristo.

E questo ci fa pensare a un altro aspetto da considerare seriamente: quello di vari carismi (per esempio, il nostro) approvati dalla Sede Apostolica per la Chiesa universale e che sono stati suscitati dallo Spirito appunto per evangelizzare determinati settori sociali o ambiti culturali.

Il nostro carisma è stato suscitato a favore del mondo giovanile e dei ceti popolari. «Direte — osservava Don Bosco parlando delle missioni — che vi sono (in quelle terre lontane) già altre Congregazioni. È verissimo; ma noi andiamo in loro aiuto e non per pigliare il loro posto, ricordatevene bene! Generalmente essi si occupano piuttosto degli adulti; noi dobbiamo occuparci in special modo della gioventù, massime di quella povera e abbandonata».56

La Congregazione, infatti, assume soprattutto il compito di apportare alle Chiese giovani (di quei paesi lontani) il dono della propria specialità evangelizzatrice: ossia la capacità di educare alla fede i giovani più bisognosi e i ceti popolari. È chiaramente un dono per collaborare all’edificazione della Chiesa locale in settori od ambiti con speciale carenza di Vangelo.

Certo, questo può verificarsi anche in Chiese già sufficientemente stabilite; infatti i tre distinti livelli indicati dall’enciclica (attività missionaria, cura pastorale e rievangelizzazione) si incontrano facilmente e si sovrappongono anche nei paesi cosiddetti cristiani.

Ma se è così: non diventiamo forse missionari quasi dovunque?

In un senso generale, sì: quello della missione fondamentale della Chiesa, che stimola il nostro zelo apostolico per far conoscere Cristo e il suo Vangelo ai giovani (siamo ovunque «missionari dei giovani»).

Però, non lo siamo dappertutto nel senso proprio e specifico delle missioni «ad gentes». Per essere missionari in questo senso stretto, anche nella nostra Congregazione, si richiedono alcune condizioni peculiari, soprattutto le seguenti:

— vivere personalmente (per ispirazione o per particolare disponibilità nell’obbedienza) una vocazione caratteristicamente missionaria «ad gentes»: «Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che Egli vuole, perché siano con Lui e per inviarli a predicare alle genti»; così i missionari «sono insigniti di una vocazione speciale»;57

— essere inviati dalla legittima autorità per portare la fede presso coloro che sono lontani da Cristo;58 questo comporta, di fatto, di uscire dalla propria patria e dalla propria cultura;

— essere generosamente impegnati nei servizi dell’evangelizzazione integrale senza limiti di forze e di tempo;59

— dedicarsi costantemente, anche se costa, ad inserirsi il più possibile nel popolo e nella cultura dei nuovi destinatari;

— desiderare di rimanere impegnati «ad vitam»; è questo un aspetto, dice l’enciclica, che conserva oggi tutta la sua validità: «esso rappresenta il paradigma dell’impegno missionario della Chiesa, che ha sempre bisogno di donazioni radicali e totali, di impulsi nuovi ed arditi... senza lasciarsi intimorire da dubbi, incomprensioni, rifiuti, persecuzioni».60

Se noi diamo uno sguardo ai cento anni di attività missionaria realizzata dalla nostra Congregazione, constateremo che in varie zone essa è stata dedicata (e in alcuni casi lo è ancora) anche alla «plantatio Ecclesiae». In genere, però, soprattutto ultimamente, si è andata inserendo in giovani Chiese del Sud e dell’Oriente per realizzarvi la peculiare missione giovanile e popolare del carisma di Don Bosco. In alcuni casi, poi, dopo aver portato a una certa maturazione l’edificazione della Chiesa locale (ormai stabilita in «diocesi»), ha trasformato la sua presenza passando dalla responsabilità globale a quella peculiare del proprio carisma.

Ciò che vale la pena di mettere in rilievo è che tutte queste attività specificamente missionarie non sono state compiute da singoli individui con un piano personale, ognuno per conto suo, ma che proprio in forza della loro stessa vocazione salesiana sono stati inviati a collaborare a un progetto missionario comune, gestito dalla Congregazione. Essa stessa, in quanto Istituto di vita consacrata, ha un’anima missionaria e ne assume generosamente le responsabilità; tra l’altro si fa carico dei missionari in quanto tali: della loro speciale vocazione, della loro formazione e della loro destinazione, seguendoli lungo tutto lo sviluppo del loro impegno «ad gentes».

Il Fondatore ci ha lasciato in eredità la convinzione che noi Salesiani abbiamo nella Chiesa un compito missionario da curare e da promuovere, e lui stesso ce ne ha dato l’esempio con grandi sacrifici.61

Già il decreto conciliare Ad gentes ci invitava a chiederci seriamente se nell’attualità eravamo in grado di estendere di più il nostro impegno missionario, rivedendo magari alcune presenze nei paesi già cristiani per dedicare maggiori forze alle missioni.62 Per grazia di Dio possiamo dire d’aver risposto generosamente a questo appello: tante Ispettorie si sono fatte avanti con sacrifici ed audacia, e continuano ad impegnarsi.

Certamente si può sempre fare di più e di meglio. Ed è appunto questo l’appello che noi desideriamo raccogliere dalla nuova enciclica.

Non si tratterà solo di un’intensificazione di sacrifici, ma anche di un vero ed abbondante arricchimento di autenticità salesiana.

Il CG23 ci ha chiesto in genere di migliorare, in tutte le nostre presenze, la qualità pastorale. Ebbene, l’enciclica ci assicura che incrementando l’attività specificamente missionaria troveremo il segreto e la spinta per raggiungere un più alto livello in tutta l’attività pastorale: nelle missioni, infatti, si sperimenta meglio che il Vangelo è la preziosa «buona notizia» per l’oggi, e che la fede degli stessi confratelli si risveglia proclamando gli eventi di Cristo.

L’attività missionaria ci fa riscoprire anche l’originalità della nostra peculiare pastorale giovanile. Basta che pensiamo, per esempio, all’oratorio salesiano. In alcune benemerite diocesi ci sono degli esempi ammirevoli di oratori parrocchiali per i figli delle famiglie cristiane della comunità locale; fanno tanto del bene. Ma l’oratorio di Don Bosco è concepito con una prospettiva missionaria per i giovani senza parrocchia perché «la missione è più vasta della comunione»;63 in esso, un gruppo di giovani più maturi nella fede divengono apostoli dei compagni («giovani per i giovani»!) mentre i confratelli si sentono chiamati a considerarsi concretamente «missionari dei giovani».

Dunque: l’impegno missionario della Congregazione oggi è chiamato a crescere in intensità e qualità e anche a stimolare la qualità pastorale di tutte le presenze e a rilanciare l’oratorio di Don Bosco come criterio permanente di discernimento e di rinnovamento di ogni nostra attività e opera.64



Spiritualità salesiana per i nostri missionari


L’attività missionaria non si fonda direttamente sulle capacità umane, anche se queste disimpegnano un loro ruolo importante. Il soggetto protagonista di tutta la missione della Chiesa è lo Spirito Santo: Egli chiama, illumina, guida, dà coraggio ed efficacia; la sua opera rifulge eminentemente nella missione «ad gentes».65 Il missionario è invitato ad entrare in speciale sintonia con lo Spirito del Signore.

L’enciclica, nel suo ultimo capitolo, tratta appunto della spiritualità missionaria. Leggendone con attenzione i brevi paragrafi possiamo applicarne i contenuti all’eredità spirituale lasciataci da Don Bosco, così come l’abbiamo descritta nella circolare sulla «spiritualità salesiana per la nuova evangelizzazione».66 Quella missionaria, per noi, non è un’altra spiritualità, ma è la stessa, intensificata e particolarmente illuminata dall’ottica dell’invio «ad gentes».

Innanzitutto si tratta che i nostri missionari si sentano fortemente «radicati nella potenza dello Spirito Santo»; Egli ha reso missionaria tutta la Congregazione. Ciò comporta in essi un’intensificazione di quella esperienza di fede speranza e carità che fa vivere in un costante atteggiamento di unione con Dio, in un penetrante atteggiamento di esodo che fa pensare alla kénosi e all’incarnazione del Verbo. L’enciclica mette appunto come prima condizione quella di «lasciarsi condurre dallo Spirito»: «la missione è difficile e complessa e richiede il coraggio e la luce dello Spirito: ...occorre pregare».67 E il Papa aggiunge: «Il contatto con i rappresentanti delle tradizioni spirituali non cristiane, in particolare di quelle dell’Asia, mi ha dato conferma che il futuro della missione dipende in gran parte dalla contemplazione».68 Non sarà mai superfluo insistere sulla necessità della meditazione della Parola a confronto con la mentalità e le situazioni della gente e sul continuo sforzo di costruire «comunità» con una costante e adeguata predicazione del Vangelo.

Quanto agli elementi principali (esposti nella citata lettera circolare) possiamo osservare che:

— l’interiorità apostolica, caratterizzata dalla carità del «da mihi animas» (con la sua «grazia di unità» che unisce dall’interno consacrazione e missione), colloca il missionario salesiano in situazione di saper tradurre la sua contemplazione di Dio in «estasi dell’azione». La sua fede disponibile e operativa è calcata su quella di Abramo, padre dei credenti, che lascia tutto e va; un esodo che porta con sé l’effusione della propria interiorità diffondendo nel mondo una concreta «spiritualità giovanile»;

— la centralità di Cristo-Buon Pastore che esige dal salesiano un peculiare atteggiamento pedagogico-pastorale, aiuterà il missionario a privilegiare gli approcci con i destinatari — partendo dal contesto dei più poveri e abbandonati — attraverso la bontà dialogante, come faceva Gesù apostolo del Padre. L’enciclica sottolinea, appunto, il saper vivere il mistero di Cristo «inviato», come lo descrive San Paolo: «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Una spoliazione di sé che esprime l’amore che si fa tutto a tutti69 e che convive con i destinatari non tanto come «destinatari» ma come fratelli in Cristo nella stessa comunione di speranza;

— l’impegno educativo come missione: è una nota caratteristica che procede dall’indole propria del carisma salesiano: si tratta di una spiritualità che dia vero risalto agli aspetti educativi con la strategia di Don Bosco. Ciò invita il missionario a prendere sul serio tanti elementi di maturazione umana, che non deviano dall’evangelizzazione, ma che la promuovono realisticamente. Sarebbe interessante, al riguardo, dare uno sguardo agli impegni concreti affrontati dai nostri primi missionari in tal senso: pensiamo, ad esempio, alle opere di promozione nella Patagonia o all’esempio di Mons. Cimatti che percorse le principali città del Giappone dando concerti di musica. Anche l’enciclica parla di «promuovere lo sviluppo educando le coscienze».70 Il Papa inoltre, scrivendo ai Religiosi dell’America Latina, ricorda loro che molti missionari nella convivenza con gli indigeni «si sono fatti contadini, falegnami, costruttori di case e di chiese, maestri di scuola e apprendisti della cultura autoctona, e anche promotori di un artigianato originale».71

Lo stile salesiano nell’educazione comporta inoltre la facilità di convivenza con la gente, la austerità di vita, il senso pedagogico del quotidiano, il clima di simpatia nella semplicità:

— la concretezza ecclesiale situa ogni salesiano nel cuore della Chiesa, perciò il missionario vive ed opera in essa e per essa, soprattutto nella delicata tappa della sua edificazione. La convinta adesione al magistero del Papa e dei Pastori è per noi una forte eredità spirituale da far crescere in ogni Chiesa locale. L’enciclica afferma che «solo un amore profondo per la Chiesa può sostenere lo zelo del missionario. Questo amore, spinto fino a dare la vita, è per lui un punto di riferimento»;72

— la gioia dell’operosità ricorda a noi Salesiani che siamo nati sul “Colle delle Beatitudini giovanili” e che l’allegria è una nota caratteristica della nostra spiritualità giovanile; il missionario si sentirà perciò incalzato a diffondere intorno a sé il profumo della gioia cristiana. L’enciclica ricorda appunto che ogni missionario dev’essere l’uomo delle Beatitudini: «La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede. In un mondo angosciato e oppresso da tanti problemi, che tende al pessimismo, l’annunziatore della ‘buona novella’ deve essere un uomo che ha trovato in Cristo la vera speranza»;73

— la dimensione mariana: tutta l’attività salesiana, con maggior ragione quella missionaria, è considerata in Congregazione come partecipazione alla maternità ecclesiale di Maria, invocata come Ausiliatrice. L’enciclica auspica che alla vigilia del terzo millennio tutta la Chiesa sappia radunarsi (come gli Apostoli) «nel cenacolo “con Maria, la Madre di Gesù”, per implorare lo Spirito ed ottenere forza e coraggio per adempiere il mandato missionario...: è Lei, Maria, il modello di quell’amore materno, dal quale devono essere animati tutti quelli che, nella missione apostolica della Chiesa, cooperano alla rigenerazione degli uomini».74

Se la dimensione missionaria è davvero un elemento essenziale del nostro carisma, vorrà dire — da una parte — che esige dalla nostra spiritualità una luce e una forza speciali per rendersi presente e operante nelle missioni, e — dall’altra parte — che l’ottica missionaria approfondisce e rende più genuina la stessa spiritualità salesiana.



Tutti: in comunione e partecipazione attiva


Le missioni salesiane si appoggiano vitalmente, già dai tempi di Don Bosco, su una «responsabilità» e una «cooperazione» che oltrepassano l’impegno diretto dei missionari; esse coinvolgono tutta la Congregazione e, attraverso di essa, la grande Famiglia Salesiana. È certamente importante dar rilievo a questi due aspetti di ampia responsabilità e di vasta cooperazione.

Se la nostra Congregazione è missionaria, vorrà dire che tutti i suoi membri ne condividono la responsabilità; non solo quelli che disimpegnano in essa un ruolo di animazione e guida (soprattutto Rettor Maggiore e Consiglio generale, Ispettori e Consigli ispettoriali), ma anche le comunità locali e ogni confratello. Un senso di convinta solidarietà deve muovere tutti a suscitare iniziative di conoscenza, di preghiera, di appoggio, di aiuto e di condivisione.

In particolare quelle Ispettorie (e sono tante!) che si sono impegnate concretamente in qualche regione estera, dovranno accompagnare con seria attenzione e con generosa collaborazione le indicazioni di coordinamento che, per volontà del CG23 e determinazione del Rettor Maggiore con il suo Consiglio, darà il Consigliere generale per le missioni.

Abbiamo detto che, al riguardo, si inizia una tappa nuova. Ciò non significa la sospensione o la diminuzione degli impegni ispettoriali, ma piuttosto un modo più coordinato nel crescere. E questo esige una prestazione ancor più generosa e più qualificata di sostegno e di interventi, soprattutto nell’ambito della formazione del personale autoctono.

Tra le iniziative da sviluppare nelle Ispettorie e nelle Case, in vista di una vasta cooperazione, c’è quella assai cara a Don Bosco di risvegliare la sensibilità missionaria nei vari gruppi della Famiglia Salesiana, attraverso i mezzi d’informazione, nei movimenti giovanili, nella pastorale vocazionale e, in genere, tra la gente che nutre ammirazione per le missioni.

E qui mi pare doveroso ricordare l’importanza che ha sempre avuto il Bollettino Salesiano nel far conoscere le nostre missioni. Oggi va diffuso ancor più di prima ed i missionari devono sentirsi coinvolti in prima persona inviando i loro interessanti «reportages» e un materiale fotografico ben scelto ed espressivo, come esige l’odierna editoria.

Un aspetto da promuovere con cura è quello del «volontariato», non solo tra i giovani ma anche tra gli adulti. Ci sono già degli esempi assai positivi al riguardo.

Sono da lodare e da promuovere le varie «Procure» (con le loro differenti fisionomie) che non solo hanno aiutato e sostengono in modo provvidenziale tante attività missionarie, ma che si sono fatte anche centri di informazione e di animazione.

Vale la pena rilevare, infine, che l’enciclica mette al primo posto la cooperazione spirituale. «La preghiera deve accompagnare il cammino dei missionari, perché l’annunzio della Parola sia reso efficace dalla grazia divina... Alla preghiera è necessario unire il sacrificio: il valore salvifico di ogni sofferenza, accettata e offerta a Dio con amore, scaturisce dal sacrificio di Cristo... Il sacrificio del missionario deve essere condiviso e sostenuto da quello dei fedeli... Raccomando — esorta il Papa — di istruire gli ammalati circa il valore della sofferenza, incoraggiandoli ad offrirla a Dio per i missionari. Con tale offerta i malati diventano anch’essi missionari».75

Bisogna proprio riconoscere che la dedizione alle missioni scuote spiritualmente e avvicina più intimamente al mistero di Cristo.



Il Signore prepara una nuova primavera della fede


Il Santo Padre, pur riconoscendo che la Chiesa affronta un impegno assai complesso e veramente superiore alle proprie forze, usa nell’enciclica un entusiasmante tono ottimista. Non è che non veda i problemi e gli aspetti difficili e poco incoraggianti: «Se si guarda in superficie il mondo odierno — afferma —, si è colpiti da non pochi fatti negativi, che possono indurre al pessimismo». Ma se lo sguardo è potenziato da un’autentica fede e dalla contemplazione della bontà misericordiosa del Padre, della incommensurabile solidarietà umana di Cristo, e della presenza e potenza trasformatrice dello Spirito, allora si apre una prospettiva di forte speranza. E il Papa ci tiene a datare, in qualche modo, questa speranza; vede nel grande giubileo del 2000 un punto concreto di riferimento: «in prossimità del terzo millennio della Redenzione — afferma —, Dio sta preparando una grande primavera cristiana, di cui già si intravvede l’inizio».76

Si può davvero pensare che il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato il gran segno d’avvio, seguito da tanti altri segni promettenti.

Anche il nostro CG23 descrive con ottimismo, in rapidi tocchi, il cammino percorso dalla Congregazione verso la nuova evangelizzazione.77 E l’enciclica aggiunge che «tutta la Chiesa è (oggi) ancor più impegnata per un nuovo avvento missionario: ... la causa missionaria deve essere la prima, perché riguarda il destino eterno degli uomini e risponde al disegno misterioso e misericordioso di Dio».78

Alla vigilia, dunque, del terzo millennio ci sentiamo invitati a sperare, a rinnovare con gioia l’entusiasmo delle origini, a impegnarci ancora di più, a poggiare il rilancio di tutta l’attività evangelizzatrice sull’impegno missionario, a sentirci contagiati — perché Salesiani — da quanto il Concilio ha proclamato ai giovani, presentando loro il volto ringiovanito della Chiesa, che è «ricca di un lungo passato sempre in essa vivente e, camminando verso la perfezione umana nel tempo e verso i destini ultimi della storia e della vita, è la vera giovinezza del mondo. Essa possiede ciò che fa la forza e la bellezza dei giovani: la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste».79

La stimolante affermazione che «l’attività missionaria è solo agli inizi» va interpretata all’interno di questo atteggiamento di speranza per vivere questi «inizi» con il forte impulso delle origini (sia quello della Chiesa che del nostro carisma). «Gli orizzonti e le possibilità della missione si allargano», ma viviamo un’ora speciale di Spirito Santo che è il vero «protagonista della missione».

Siamo invitati ad imitare gli Apostoli radunati nel Cenacolo «con Maria» per implorare e ottenere la presenza e la potenza dello Spirito.

Il Santo Padre affida tutto l’impegno missionario all’amore materno della Vergine Maria. Noi confidiamo filialmente in Lei, Madre della Chiesa e Ausiliatrice di tutti i popoli.

Don Bosco aveva consegnato a don Giovanni Cagliero — capo della prima spedizione missionaria e futuro cardinale — un documento (in data 13 novembre 1875) di ricordi per i confratelli missionari; li esortava così: «Fate quello che potete: Dio farà quello che non possiamo fare noi. Confidate ogni cosa in Gesù Cristo sacramentato ed in Maria Ausiliatrice e vedrete che cosa sono i miracoli».80

Con questa fiducia, che è per noi sacra eredità, intensifichiamo ovunque il nostro impegno per Cristo e il suo Vangelo: moltiplicando l’impegno missionario diventeremo tutti, in Congregazione, più «missionari dei giovani».

A tutti, specialmente ai missionari «ad gentes», un saluto riconoscente e il mio ricordo quotidiano nell’Eucaristia.

Con affetto in Don Bosco,

D. Egidio Viganò


NOTE LETTERA 47


1 cf. CG23 310

2 ACG 335, pag. 60-61

3 E. CERIA: Annali della Società Salesiana I - SEI, Torino, pag. 245

Lettere circolari di D. Paolo Albera, Direz. Gen. Opere D. Bosco, Torino 1956, pag. 132-133

5 ACS, anno VI, 24 giugno 1925, pag. 364

6 cf. MB I, 328

 7 cf. MB III, 363

 8 MB III, 363

 9 MB III, 546; IV, 424

10 Lettere circolari di D. Paolo Albera, o.c., pag. 134

11 ACS, anno VI, 24 giugno 1925, pag. 367

12 MB XIV, 624

13 cf. FAUSTO JIMÉNEZ, Los sueños de Don Bosco, ed. CCS, Madrid 1989

14 cf. ACS n. 300

15 MB XVII, 305

16 cf. ACG n. 323

17 cf. MB XVII, 645

18 cf. Cost 30

19 cf. Redemptoris missio 40

20 cf. ACS n. 297

21 Redemptoris missio 2

22 Redemptoris missio 2

23 ib. 1

24 Redemptoris missio 31

25 AG 1

26 cf. Redemptoris missio 40

27 Redemptoris missio 32

28 cf. AG 6

29 cf. ACG n. 331

30 cf. AG 6

31 cf. Redemptoris missio 33-34

32 ib. 34

33 ib. 33

34 ib. 48

35 Redemptoris missio 32

36 ib. 30

37 cf. LG 5

38 cf. ib.

39 Redemptoris missio 17

40 cf. ACG n. 331

41 cf. Relazione finale del Sinodo-85

42 RM 18

43 cf. Strenna 1991, Commento del Rettor Maggiore don Egidio Viganò

44 AA 5; cf. 7

45 Gv 14, 6

46 1 Co 9, 16

47 At 4, 12

48 cf. Redemptoris missio 7

49 At 2, 37-38; 3, 19

50 cf. Mt 28, 19

51 cf. Redemptoris missio 46. 47

52 Redemptoris missio 56

53 Redemptoris missio 57

54 Redemptoris missio 49

55 ib. 37

56 MB XVIII, 49

57 AG 23

58 cf. ib.

59 Redemptoris missio 65

60 Redemptoris missio 66

61 cf. ACS n. 297: «Il nostro Fondatore ci ha veduti in Africa»

62 cf. AG 40

63 Redemptoris missio 64

64 cf. Cost 40

65 cf. Redemptoris missio cap. 3

66 ACG n. 334

67 Redemptoris missio 87

68 ib. 91

69 cf. Redemptoris missio 88

70 ib. 58

71 Lettera apostolica di Giovanni Paolo II ai Religiosi e alle Religiose dell’America Latina in occasione del V Centenario dell’Evangelizzazione del Nuovo Mondo, Osservatore Romano, 27 luglio 1990

72 Redemptoris missio 89

73 ib. 91

74 ib. 92

75 Redemptoris missio 78

76 Redemptoris missio 86

77 CG23 1-14

78 Redemptoris missio 86

79 Messaggio ai giovani, 8 dicembre 1965

80 MB XI, 365