2013|it|06: Don Bosco educatore: Ho sempre avuto bisogno di tutti




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DON BOSCO EDUCATORE

PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA


DON BOSCO RACCONTA


HO SEMPRE AVUTO BISOGNO

DI TUTTI



Sono nato povero, eppure nelle mie mani sono passate somme incredibili, cui non ho mai attaccato il cuore. Per me essere poveri voleva dire essere liberi, di quella vera libertà che il Signore ci aveva insegnato con l’esempio e le parole. Liberi, non impastoiati! Povero com’ero, ho conosciuto e frequentato molti benestanti. Avevo un’idea fissa che non sempre fu compresa, anzi mi sollevò un vespaio di critiche noiose ed asfissianti. Dicevo e ripetevo spesso: “La carità non sono i ricchi che ce la fanno, ma noi la facciamo loro, offrendo così l’opportunità di fare un po’ di bene”. Più chiaro di così… Ero convinto che “ai signori non c’è nessuno che osi dire la verità”. Ricordo di aver scritto una letterina che, pur nella sua brevità, riuscì a disturbare spesse volte il sonno a un ricco banchiere: “Voi dovete assolutamente salvarvi l’anima, ma voi dovete dare ai poveri tutto il vostro superfluo: prego Dio che vi conceda questa grazia straordinaria”.

Ho scritto migliaia di lettere; la maggior parte è per sollecitare sovvenzioni dagli organi pubblici e dai benefattori. In tutte, però, c’è sempre un “grazie”, una parola di sincera gratitudine. L’avevo imparato da mia mamma! Affermavo: “Non è possibile che chi ha la riconoscenza non abbia anche le altre virtù”.

Vissi chiedendo e ringraziando.

Anche se non conoscevo e, quindi, non ho mai usato la parola “marketing”, pure questa tecnica – a modo mio – la usavo, e come! Ecco come mi esprimevo: “Siamo in tempi in cui bisogna operare. Il mondo è divenuto materiale, perciò bisogna lavorare e far conoscere il bene che si fa”. Le offerte che ricevevo, modeste o generose che fossero, non ammuffivano in cassaforte; i benefattori erano contenti nel vedere a cosa servivano gli aiuti dati. Ed erano anche… stimolati a continuare!

Ringraziare lo considerai sempre uno stretto dovere di giustizia. Così vivevo e così insegnavo nella mia pedagogia spicciola di ogni giorno. Ai ragazzi ero solito ripetere: “Gli ingrati noi li compiangiamo, perché sono infelici” . L’ingratitudine era per me una delle peggiori forme di cecità perché non ci permetteva di scorgere i benefici, i gesti d’amore, i segni della bontà paterna di Dio. E qui veniva a galla la catechesi che Mamma Margherita ci faceva quando ci aiutava a capire come Dio si manifesta nelle vicende, liete o meno, della vita: e lei trovava sempre un motivo sufficiente per aprirci al ringraziamento. La riconoscenza è la memoria del cuore, perché solo il cuore ha la facoltà di ricordare. Chi ringrazia porta-nel-cuore l’amore di Dio e di questo gioisce. Noi siamo ciò che ricordiamo! I miei ragazzi respiravano questo clima. Fu certamente un momento di intima commozione quello che provai quella sera, la vigilia del mio onomastico, quando sentii bussare alla porta del mio ufficio così disadorno. All’aprire, trovai Felice Reviglio e Carlo Gastini che venivano a porgermi gli auguri; poi, mi offrirono due piccoli cuori d’argento in segno di riconoscenza. Rimasi senza parole per il dono così eloquente che avevo ricevuto; quel gesto mi faceva capire di aver imboccato la strada giusta, perché questi ragazzi avevano capito quel benedetto e stupendo spirito di famiglia cui tanto tenevo. E così restai, nemmeno so per quanto tempo, a fissare quei due cuoricini, mentre gli occhi si riempivano di lacrime!

Gli anni che trascorsi a Chieri prima come studente e poi come seminarista. (10 anni meravigliosi!), erano anche stati anni di molte rinunce e, a volte, anche di fame. Il piatto di minestra che il signor Pianta mi passava per i vari lavori fatti nel suo bar non bastava per lo stomaco di un robusto diciottenne. Giuseppe Blanchard mi aiutava come poteva. Sua mamma vendeva frutta al mercato; spesso mi portava un po’ di mele, castagne e altre frutta. Certi favori, che vanno a beneficio di uno stomaco vuoto, non si dimenticano facilmente. E così, tanti anni dopo, mi trovavo a Chieri, sul mezzogiorno. Stavo chiacchierando con alcuni sacerdoti che erano stati miei compagni di seminario, quando, rasente al muro vidi passare qualcuno che non potevo davvero dimenticare, l’amico Blanchard. Lo presentai ai miei colleghi preti come un mio insigne benefattore. E raccontai la storia della frutta di tanti anni prima. Poi lo invitai a venirmi a trovare a Valdocco. Questo fatto avvenne nel 1876. Dieci anni dopo, il mio amico riuscì finalmente a mantenere la parola. Io non stavo bene. Ci furono mille difficoltà in portineria, altrettante nell’anticamera. “Gli dica, per lo meno, che Blanchard è venuto a trovarlo”. Riconobbi la sua voce e lo feci entrare. Chiacchierammo a lungo. Quando fu l’ora di pranzo mi scusai per non poter scendere, ma avvisai il segretario: “Farai accomodare questo mio amico nel refettorio dei Superiori, al mio posto”. E così un anziano signore, tutto impacciato, quel giorno si sedette tra coloro che guidavano la giovane congregazione salesiana. Era il minimo che potevo fare per dirgli, a distanza di 50 anni, il mio grazie…