2013|it|08: Don Bosco educatore: Ciò che santifica non è la sofferenza, ma la pazienza

DON BOSCO EDUCATORE

PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA


DON BOSCO RACCONTA



8.



CIÒ CHE SANTIFICA NON È LA SOFFERENZA, MA LA PAZIENZA



Ritornando da Barcellona e da Parigi



Quella sera del 12 maggio 1886 ero arrivato a Grenoble stanco e disfatto da un lungo viaggio che, in tre mesi, mi aveva portato da Torino in Francia e Spagna. Mi ero sottoposto a un autentico tour de force perché a Roma la costruzione del tempio in onore del Sacro Cuore stagnava per cronica mancanza di soldi.

Ero stato amabilmente accolto dal rettore del seminario il quale, preoccupato con il pietoso stato di spossatezza in cui mi trovavo, mi aveva rivolto fraterne parole di conforto: “Padre reverendo, nessuno meglio di lei sa quanto la sofferenza santifichi”. Al che, mi ero permesso di correggerlo affermando che “ciò che santifica non è la sofferenza, ma la pazienza”. Non era solo una frase ad effetto; era la sintesi della mia esistenza, travagliata e sofferta: 71 anni che ormai pesavano sulle mie spalle e mi avevano ridotto a “un uomo morto dalla fatica”, come, pochi giorni prima, mi aveva definito l’autorevole dott. Combal, a Montpellier quando era venuto a visitarmi, ripetendo le stesse parole dettemi a Marsiglia nel marzo 1884.



Una chiacchierata familiare e alcune confidenze


Ricordo che in una conferenza fatta ai miei salesiani avevo spiegato loro il significato della parola “pazienza” e lo avevo fatto riferendomi al verbo latino “che vuol dire patire, tollerare,, soffrire, farci violenza”. E sottolineavo con molto realismo: “Se non costasse fatica, non sarebbe più pazienza”.Poi, aggiungevo: “C’è bisogno di molta pazienza, o per dir meglio, di molta carità condita col condimento di san Francesco di Sales: la dolcezza, la mansuetudine”.

Basandomi sull’esperienza che stavo facendo e con una schiettezza che sapevo gradita, anticipavo una loro spontanea obiezione e mi aprivo confidenzialmente dicendo: “Me ne accorgo anch’io che costa. E non crediate che sia il più gran gusto del mondo stare tutta la mattina inchiodato a dare udienza o fermo al tavolino tutta la sera per dar corso alle faccende tutte, a lettere o simili. Oh!, vi assicuro che molte volte uscirei ben volentieri a prendere un po’ d’aria e forse ne avrei un vero bisogno… Non crediate che non costi anche a me, dopo di aver incaricato qualcuno d’un affare o dopo avergli mandato qualche incarico o delicato o di premura, e non trovarlo eseguito a tempo o malfatto, non costi anche a me il tenermi pacato; vi assicuro che alcune volte bolle il sangue nelle vene, un formicolio domina per tutti i sensi. Ma che? Impazientirci? Non si ottiene che la cosa non fatta sia fatta, e neppure si corregge con la furia”. E finivo con un pensiero a me molto caro: “Ciò che sostiene la pazienza deve essere la speranza. Questa ci sorregga, quando la pazienza vorrebbe mancarci”.

Più volte mi sono accorto di non essere stato capito, anzi da qualcuno sono stato duramente criticato, circa il metodo con cui (specie nei primi anni) formavo i miei futuri salesiani. Posso giustificarmi asserendo che stavo dissodando un cammino nuovo. Portavo avanti un’esperienza totalmente diversa, ma non andavo alla cieca. Mi accontentavo prudentemente del possibile, anche se il mio sguardo si spingeva oltre. Alcuni decenni dopo, facendo una rilettura del cammino percorso e ricordando le sfide affrontate, dicevo: “Molti chierici al mattino stavano a letto, alcuni non andavano a scuola, non si faceva la lettura spirituale, non la meditazione…Io vedevo tutti quei disordini e lasciavo che si tirasse avanti come si poteva. Se avessi voluto eliminare tutti i disordini in una volta, avrei dovuto chiudere l’Oratorio e mandar via tutti i giovani, perché i chierici non si sarebbero adattati a un serio regolamento, e se ne sarebbero andati via tutti. Io vedevo che di quei chierici anche divagati molti lavoravano volentieri, erano di buon cuore, di moralità a tutta prova, e, passato quel fervore di gioventù, mi avrebbero poi aiutato molto. E debbo dire che vari dei preti della Congregazione, che erano di quel numero, adesso sono fra coloro che lavorano di più, che hanno miglior spirito ecclesiastico, mentre allora sarebbero certamente andati via piuttosto che assoggettarsi a certe regole restrittive… Se per far andare tutto a perfezione mi fossi ridotto ad un piccolo gruppo, non avrei concluso nulla”.



L’arte di saper aspettare



Da buon contadino avevo saputo aspettare, imparando e praticando la lezione della pazienza, Ricordavo di aver udito tante volte dalla mamma un proverbio pieno di saggezza: “Cammin facendo si aggiusta la soma all’asinello”. Era questo il mezzo di trasporto più comune, sicuro ed economico. La merce veniva distribuita in parti e pesi uguali sui due fianchi dell’animale mediante due grosse bisacce o gerle. Durante il viaggio, gli inevitabili scossoni finivano per aggiustare definitivamente il carico. Questo ricordo della mia infanzia mi faceva dire più tardi: “Quando io incontro una difficoltà faccio come colui che andando per la strada ad un certo punto la trova sbarrata da un grosso macigno. Se non posso levarlo di mezzo ci monto sopra, o vi giro attorno. Oppure, lasciata imperfetta l’impresa incominciata, per non perdere inutilmente il tempo nell’aspettare, do subito mano ad altro. Non perdo però mai di vista l’opera primitiva interrotta. Intanto col tempo le nespole maturano, gli uomini cambiano, le difficoltà si appianano”.

Verso la fine della mia vita, aumentando il numero dei confratelli, era diventato impossibile scrivere personalmente due righe ad ognuno. Indirizzavo a tutti i miei salesiani una circolare per augurare loro un anno benedetto dal Signore e ricco di tante iniziative. Nel 1884 (6 gennaio) scrivevo: “Vogliamo andare in Paradiso in carrozza? Noi ci siamo fatti religiosi non per godere, ma – attraverso il sacrificio – procurarci meriti per l’altra vita. Animo, dunque, o cari e amati figli. Andiamo avanti. Ci costerà fatica, ci costeranno stenti: noi risponderemo: Se ci affascina la grandezza del premio, non ci devono spaventare per niente le fatiche che dobbiamo sostenere per meritarcelo”.

La morte era di casa a Valdocco. Ma non regnava quel clima plumbeo e lugubre che certi autori hanno descritto. Ogni mese offrivo ai ragazzi e salesiani l’Esercizio della Buona Morte, una pratica devozionale che già esisteva. Era un tuffo nel mistero solenne dell’eternità. Io, l’educatore della gioia e del sano divertimento, predicevo con molta naturalezza le morti imminenti di ragazzi, non per spaventarli, ma per accrescere in loro l’amore alla vita. Riuscivo a diffondere la pace anche quando parlavo della morte, perché l’ultima parola era sul Paradiso. Ne parlavo come un figlio parla della casa del proprio papà. I ragazzi che morivano a Valdocco parlavano con semplicità e convinzione del paradiso, come della loro casa, accettavano commissioni dei compagni e degli stessi educatori, spiravano col sorriso sul volto. Ricordavano senza dubbio una frase che amavo ripetere: “Il paradiso paga tutto”. La morte diventava un irresistibile appello alla bontà di un Dio che perdona, che accoglie i suoi figli e fa festa con loro.

Dovuto alla mia formazione, non ero molto incline ad accettare forme esteriori di penitenze esagerate. Dovetti frenare quel santo ragazzino chiamato Domenico Savio e gli proibii qualsiasi tipo di mortificazione. Gli permisi solo “di sopportare con pazienza gli insulti se qualcuno ti insulterà, di sopportare con pazienza il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza e tutte quelle difficoltà di salute che Dio permetterà”. Era ciò che consigliavo a tutti: “Per ricopiare in sé i patimenti di Gesù, i mezzi non mancano: il caldo, il freddo, le malattie, le persone, gli avvenimenti. Ce ne sono dei mezzi per vivere mortificati”. Sintetizzavo il mio pensiero con questa espressione: “La croce non basta baciarla; bisogna portarla”.