351-400|it|352 Come rileggere oggi il carisma del Fondatore

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COME RILEGGERE OGGI

IL CARISMA DEL FONDATORE



Introduzione. - Un’esperienza vissuta. - Due convinzioni di base. - I cammini da seguire. - La rielaborazione delle Costituzioni. - Lo spirito del Fondatore. - Dalla «missione» alla riscoperta del «carisma». - La durata e gli attori della rilettura. - Punti nevralgici nel processo di discernimento. - Urgenza di concretezza metodologica. - Animazione e governo. - Una visita dello Spirito del Signore. - Abbiamo una «carta d’identità» valida e aggiornata.

Lettera pubblicata in ACG n. 352



Roma, 8 febbraio 1995

Introduzione – a Valdocco – della Causa

di beatificazione e canonizzazione di Mamma Margherita


Cari confratelli,


oggi finalmente è iniziato a Torino nella basilica di Maria Ausiliatrice, in forma solenne, il processo ufficiale di beatificazione e canonizzazione di Mamma Margherita; proprio lì a Valdocco dove ella ha testimoniato — si può dire eroicamente per ben dieci anni — la sua generosa collaborazione con il figlio Giovanni per dar vita al provvidenziale carisma salesiano dell’Opera degli oratori. Lo sa il nostro Padre e Fondatore quanto ciò sia costato alla mamma e quanto ella stessa abbia apportato alla riuscita, allo stile, all’ambiente di famiglia, allo spirito di bontà e sacrificio, che caratterizzano ancora oggi tutta l’istituzione salesiana di Don Bosco. Ringraziamo il Signore e preghiamo perché la causa possa procedere positivamente e con rapidità.

Ebbene, in occasione di una data tanto significativa vi offro la riflessione su un argomento che mi è stato richiesto per il 20° Convegno dell’Istituto di Teologia della Vita Religiosa «Claretianum» qui a Roma il 16 dicembre 1994. Mi assegnarono il delicato e importante tema La rilettura fondazionale fatta dai Salesiani. Lo svolgimento non è stato pensato direttamente per noi, ma in un certo senso ci può risultare più utile pensarlo insieme agli altri consacrati.

Nel presentare a voi i contenuti di questa mia conversazione, intendo invitarvi a fare una attenta considerazione di sintesi storico-carismatica che serva a illuminare salesianamente i cammini di rinnovamento che stiamo percorrendo dopo il Concilio Vaticano II.



Un’esperienza vissuta


L’ottica di questa mia relazione è sostanzialmente quella di una specie di cronistoria ripensata. Il tema del «come rileggere oggi» il carisma viene sviluppato con una ottica «di fatto», non tanto per indicare il «come» si debba fare, quanto piuttosto per indicare ciò che il nostro Istituto ha fatto. È un’esperienza che io ho vissuto personalmente dal Concilio Vaticano II fino ad oggi.

L’esperienza vissuta non è una tesi da difendere, ma una realtà di vita — confortata da decenni di sperimentazione — che può anche offrire dei suggerimenti (in parte collaudati) per saper rileggere sempre meglio le proprie origini spirituali.



Due convinzioni di base


La rilettura del carisma del nostro Fondatore ci tiene impegnati ormai da ben trent’anni. Due grandi fari di luce ci hanno aiutato in questo impegno: il primo è il Concilio Ecumenico Vaticano II, il secondo è il cambio epocale di quest’ora di accelerazione della storia.

Siamo partiti dalla convinzione che il Concilio è stato una visita storica dello Spirito Santo alla Chiesa di Cristo per una nuova ora della sua missione nel mondo: il più grande evento pastorale del secolo XX in vista di un autentico rinnovamento. In esso c’erano da attingere luci e orientamenti anche per il rinnovamento della vita religiosa. Si trattava di centrarsi sui punti strategici del grande messaggio conciliare, approfondirli, assumerli e applicarli alla rilettura del nostro carisma.

In particolare, alla luce di quanto detto nella Lumen gentium, si è cercato di applicare ciò che chiedeva il decreto Perfectae caritatis al n. 2: l’«accommodata renovatio» con le sue due componenti, il «ritorno alle fonti» e l’«adattamento alle mutate condizioni dei tempi».

La complementarità dei due criteri doveva evitare la minaccia di fissismo, di sclerosi e di formalismo, e allo stesso tempo evitare la rottura con le origini.

L’applicazione di questi due criteri, semplici e chiari nell’enunciato, si è però dimostrata abbastanza complessa nella prassi.

Il cambio epocale, già descritto con acuta percezione prospettica nella Costituzione conciliare Gaudium et spes, si era presentato con vigore soprattutto in alcune zone occidentali dove opera con numerose presenze il nostro Istituto. Si affrontava una crescente problematica di novità culturali che influivano fortemente sulla missione specifica dell’Istituto e anche, almeno in parte, sullo stile di vita religiosa. D’altra parte si notavano già delle spinte in avanti di dubbia autenticità che potevano far deviare o svuotare un sano processo di rinnovamento.

La novità culturale non poteva essere esclusa e disconosciuta, ma si doveva confrontare con la novità evangelica inerente a un vero carisma. E questo apriva un orizzonte di lavoro assai vasto e delicato. Fu allora che si formulò la famosa espressione: «Con Don Bosco e con i tempi, e non con i tempi di Don Bosco!».

L’aver avuto chiara coscienza di questa ineludibile sfida spinse i responsabili dell’Istituto a dare straordinaria importanza al Capitolo Generale Speciale voluto dalla Sede Apostolica. Ci si è impegnati a prepararlo con una serietà veramente inedita attraverso la partecipazione di tutte le Province e di tutti i confratelli. Si organizzarono delle équipes di specialisti per una analisi assai dettagliata dei temi vitali da affrontare e si predispose anche un abbozzo di rielaborazione delle stesse Costituzioni. Furono redatti con cura un insieme di ben 20 volumetti ad uso dei capitolari. Si pensava a una grave responsabilità quasi di «rifondazione»: ciò che Don Bosco aveva fatto «personalmente» avrebbe dovuto essere ripensato e rielaborato, in un certo senso, «comunitariamente», in rapporto alle esigenze del cambio epocale e in piena fedeltà alle origini.

Ha aiutato molto, insieme agli studi storici, un’analisi seria, anche se sintetica, delle interpellanze dei cambiamenti culturali (la secolarizzazione, la socializzazione, la personalizzazione, la liberazione, l’inculturazione, l’accelerazione della storia, la promozione della donna, ecc.).

Mai si era fatto un lavoro così vasto e realista.



I cammini da seguire


La rilettura fondazionale non poteva essere semplicemente uno studio, più o meno scientifico, delle fonti, ma un discernimento spirituale fatto da discepoli impegnati dal di dentro nella stessa esperienza vocazionale.

È la considerazione di chi sa cogliere l’anima del proprio Istituto, la sua intenzionalità, i suoi dinamismi, il suo modo di seguire Cristo e di lavorare nella Chiesa, e di amare i giovani nel mondo così come sono. Il ritorno alle fonti non doveva essere una passeggiata archeologica attraverso documenti antichi, ma la rivisitazione dei momenti di fondazione e del cuore del Fondatore, nella sua esperienza originale di discepolo del Signore. Doveva essere una rilettura organica e dinamica che implicasse autocoscienza di comunione con il Fondatore, mediante l’esperienza collettiva di tutto un Istituto che attraverso il tempo ne ha condiviso lo spirito e la missione. Bisognava saper armonizzare, con un dosaggio appropriato, sia il momento storico, sia quello teologale, sia quello cairologico.

Per incamminarsi verso una tale rilettura è stato necessario percorrere cammini complementari e interdipendenti, cercando in ognuno di essi uno specifico apporto. I principali cammini seguiti sono stati:

a. Il cammino storico: il carisma è un’esperienza vissuta e non una teoria astratta. Si è fatto, perciò, uno studio serio delle fonti che si riferiscono alla persona del Fondatore e alla fondazione stessa: il contesto culturale e sociale e il suo influsso sul Fondatore; la sua vita e le sue opere; le persone che hanno influito su di lui e con cui ebbe speciali contatti; gli scritti, ecc.

b. Il cammino esperienziale: nella rilettura fondazionale acquista rilievo e concretezza l’esperienza vissuta dalla vasta comunità dei discepoli, i valori che questi hanno incarnato a partire dalla consapevolezza e dalla responsabilità della stessa vocazione. Il cammino di fedeltà costituisce una specie di «sensus fidelium» congregazionale. Se viene a mancare l’esperienza perseverante e fedele dei seguaci del Fondatore, si rischia

— di essere soggetti a mutazioni continue dell’identità, cercando una modernizzazione forzata del carisma secondo la moda del tempo, confondendo ciò che è caduco con ciò che è essenziale;

— di spiazzare il Fondatore con il pretesto che i suoi scopi e fini non sono più attuali.

c. Il cammino dei segni dei tempi: il cammino «storico» e quello «esperienziale» permettono di avvicinarsi con maggior sensibilità e tranquillità anche all’apporto dei segni dei tempi. Come ho già detto, ignorarli sarebbe condannare il carisma a rimanere rinchiuso — contro natura — in un museo. Se da una parte i segni dei tempi esigono approfondimenti e adattamenti da parte dell’Istituto, dall’altra permettono una comprensione nuova e di vera attualità del dono dello Spirito. Aiutano a percepire fino a quali orizzonti il Signore spinge la sua Chiesa e i suoi carismi.

d. Il cammino spirituale: è un cammino che non esclude nessuno degli anteriori, ma che li unifica e li incorpora a partire da un atteggiamento e un’ottica fondamentali: il discernimento della volontà del Signore, l’obbedienza alle sue chiamate lungo il divenire della storia. Solo persone «spirituali», che coltivano cioè una speciale docilità allo Spirito, possono percorrere questo cammino. Esso permette di oltrepassare il contesto socioculturale vissuto dal Fondatore, per far emergere nell’oggi le sue intenzioni evangeliche con le sue intuizioni fondanti, in modo tale da poterle realizzare nel contesto attuale e nei nuovi tempi, e trasformarle in «cultura» di attualità.



La rielaborazione delle Costituzioni


Nella nostra rilettura fondazionale ha svolto un ruolo importante di concretezza e di guida dei lavori l’impegno di rielaborare a fondo il testo costituzionale. Al principio ci furono delle resistenze per vari motivi; ed anche in seguito, a lavoro già avviato, qualcuno pensava che bastasse ritoccare qua e là le Costituzioni anteriori. È risultata una decisione molto saggia l’audacia di imbarcarsi a ripensare e rielaborare tutto in fedeltà.

Evidentemente il delicato lavoro è stato impostato secondo i nuovi orientamenti conciliari.1 Si doveva lavorare per arrivare a un «Codice fondamentale» in cui descrivere autenticamente l’identità, i valori evangelici, l’indole propria, la dimensione ecclesiale, le sane tradizioni, e anche le indispensabili norme giuridiche necessarie per assicurare il carattere, i fini e i mezzi dell’Istituto.

A differenza della normativa anteriore, l’Ecclesiae Sanctae ha voluto che le Costituzioni rinnovate divenissero ricche di principi evangelici, teologici ed ecclesiali; non però come un aggregato artificiale introdotto dall’esterno e ad un livello teorico, ma piuttosto come percezioni ed esplicitazioni emananti dal vissuto stesso del Fondatore e dall’interno del suo progetto di vita. Esse dovevano contenere la sintesi integrale di un progetto originale di vita consacrata, indicando i principi sostanziali con cui il Fondatore vuole che i suoi siano discepoli di Cristo con un determinato senso ecclesiale.

In esse bisognava raggiungere un’integrazione armonica tra l’ispirazione evangelica, la criteriologia apostolica e la concretezza strutturale, mettendo in vista, più in là delle esigenze istituzionali, l’esperienza storica di Spirito Santo vissuta dal Fondatore e da lui trasmessa all’Istituto.

Don Bosco, nostro Fondatore, si era sforzato al massimo di trasfondere la sua propria esperienza nelle Costituzioni (nei limiti di ciò che si poteva fare allora), per lasciare un «testamento vivo» che fosse come lo specchio che riflettesse i lineamenti più caratteristici del suo volto spirituale e apostolico. A ragione egli stesso aveva potuto affermare che «amare Don Bosco è amare le Costituzioni»; e quando ne consegnò una copia a don Cagliero in partenza per la Patagonia come capo della sua prima spedizione missionaria, esclamò con commossa persuasione: «Ecco Don Bosco che viene con voi».

Giustamente, nella rielaborazione delle Costituzioni, si è cercato di rimandare il più possibile alla realtà spirituale del Fondatore, ai suoi scritti più carismatici, alla sua esperienza collaudata, quale «modello» da cui deriva l’ottica genuina e la chiave indispensabile di rilettura fondazionale.

Non è stato facile questo lavoro; è durato oltre un decennio, ma costituisce di fatto la sintesi più chiara e autorevole della nostra rilettura fondazionale. Il tutto è stato arricchito da un autorevole commento, articolo per articolo, come valido sussidio per la retta interpretazione delle Costituzioni. Inoltre si è elaborato un libro del governo — in due volumi — uno per il Provinciale e un altro per il Superiore locale — in vista del rinnovamento dell’esercizio dell’autorità. Si è anche potuto redigere una appropriata Ratio institutionis per la formazione iniziale e permanente dei confratelli.



Lo spirito del Fondatore


Nella rielaborazione delle Costituzioni si è dato particolare rilievo alla strutturazione organica di esse, in una visione globale e unitaria. Un progetto di vita non sopporta spezzettamenti che nascondano o danneggino la portata di un disegno che è, in se stesso, vitalmente organico. Ma per poter fare questo era necessario per noi dilucidare due concetti posti alla base del tutto: quello di «consacrazione» e quello di «missione» e i loro mutui rapporti. Si può dire che su questo si scatenò una vera battaglia capitolare; essa non si risolvette tanto facilmente, come vedremo, ma, alla fine, nella sua soluzione trovammo la chiave dell’organicità.

Intanto, come elemento a sé stante e basilare (almeno per il lavoro da fare), si volle assicurare la descrizione dei tratti più significativi del volto spirituale del Fondatore. All’interno dei grandi valori evangelici comuni a tutti gli Istituti di vita consacrata bisognava saper individuare lo stile quotidiano, gli atteggiamenti personali e comunitari, le modalità di convivenza e di lavoro, ossia quel clima e quell’atmosfera di casa che costituisce la fisionomia propria; certo, anche in questo bisognava gerarchizzare le componenti perché si trattava di una rilettura in profondità con un suo centro motore, che non doveva diventare una teoria logica ma rimanere descrizione tipologica.

Nell’importante 1a Parte del nuovo testo costituzionale si è collocato un capitolo tutto nuovo di 12 articoli (dal 10 al 21) che condensano ciò che si è considerata la sostanza dello «spirito di Don Bosco».

Il Vaticano II — come abbiamo già detto — aveva invitato i religiosi a concentrare la loro attenzione sulla figura del Fondatore, come espressione originale della pluriforme santità e vita evangelica della Chiesa. Ogni Fondatore è nato da Essa ed è vissuto per Essa.

Paolo VI lo ha ricordato a tutti: «Il Concilio giustamente insiste sull’obbligo, per i religiosi e le religiose, di essere fedeli allo spirito dei loro Fondatori, alle loro intenzioni evangeliche, all’esempio della loro santità, cogliendo in ciò uno dei principi del rinnovamento in corso ed uno dei criteri più sicuri di quel che ciascun Istituto deve eventualmente intraprendere. Perché, se la chiamata di Dio si rinnova e si differenzia secondo le circostanze mutevoli di luogo e di tempo, essa richiede tuttavia degli orientamenti costanti».2

Noi abbiamo usato la terminologia di «spirito», piuttosto che quella di «spiritualità», per rimanere più fedeli alla storicità e al vissuto del Fondatore come un «kairós» divenuto modello; la «spiritualità», invece, suole far riferimento a concetti piuttosto astratti.

Il lavoro realizzato costituisce oggi certamente uno dei pregi della nostra rilettura fondazionale; siamo convinti che sarebbe piaciuto a Don Bosco stesso che, parlando con umiltà del testo costituzionale da lui redatto secondo le normative dell’epoca, diceva che lo si poteva considerare come una «brutta copia» di ciò che lui stesso desiderava, ma che essa sarebbe stata tradotta in «bella» dai suoi figli.

Il concentrare l’attenzione sullo spirito del Fondatore significava privilegiare l’interiorità e gli atteggiamenti del cuore, avere gli stessi sentimenti con cui lui ha ricopiato quelli di Cristo.

Questo fa anche capire il salto di qualità voluto dal Concilio nella concezione delle Costituzioni: da un testo piuttosto normativo e giuridico, alla sintesi geniale e stimolante dell’esperienza evangelica di un «capo-scuola» di santità e di apostolato.

Lo spirito del Fondatore è certamente legato anche alla cultura del tempo, si manifesta in essa ma la trascende, così da poter costituire un insieme di tratti spirituali incarnabili in altre culture. Esso appartiene, perciò, alla trascendenza ed alla adattabilità del carisma. La sua trasmissione, però, non si fa semplicemente con parole, ma con una continuata tradizione di vita legata di fatto a un lungo e delicato processo di sana inculturazione.



Dalla «missione» alla riscoperta del «carisma»


Ho già accennato al dibattito capitolare circa le nozioni fondamentali di «consacrazione» e «missione». L’approfondimento del mutuo rapporto tra questi due aspetti vitali è stato al centro della nostra rilettura e ha costituito una base per la sintesi conclusiva. Il Concilio ben interpretato ci ha condotti a una convergenza convinta e dinamica.

Quando si diede inizio ai lavori del Capitolo Generale Speciale si era stabilita una commissione, tra le altre, dedicata specificamente a studiare il «carisma del Fondatore». Incontrò forti difficoltà e, dopo un certo spazio di tempo, fu disciolta. Perché?

I motivi di fondo erano di due specie, fra loro mutuamente in contrasto. Alcuni non volevano lo studio del carisma perché avrebbe potuto aprire il futuro ad avventure arbitrarie; altri, invece, non lo volevano perché avrebbe sacralizzato elementi culturali e transitori del secolo scorso. La somma dei due gruppi ha prevalso numericamente; non c’era ancora una mentalità sufficientemente illuminata al riguardo.

È utile anche ricordare che nei documenti del Concilio non si usa mai l’espressione «carisma» del Fondatore, anche se vengono indicati gli elementi caratteristici dell’indole propria. Il primo uso ufficiale dell’espressione «carisma» del Fondatore lo troviamo nell’Esortazione apostolica Evangelica testificatio di Paolo VI del 1971.3 Un chiarimento autorevole più specifico e una descrizione più definita li ritroviamo poi nel documento Mutuae relationes del 1978.4

D’altra parte si era convinti che, in un’ora di rapidi cambiamenti, l’aspetto che più ne sentiva le interpellanze era quello della «missione». Così, evidentemente, la missione era al centro delle preoccupazioni di rilettura.

Ma, in che cosa consiste la «missione»? Era troppo facile dimenticare la sua natura teologica per restringerla all’ambito operativo delle attività. E così una mentalità di tipo «essenzialista» affermava il primato ontologico della «consacrazione» che non pochi pensavano dovesse precedere e guidare tutto il progetto.

Un problema non facile, alimentato tra i capitolari da concezioni riduttive e improprie sia del concetto di «consacrazione» che di «missione».

La strada che ci ha aperto il senso autentico della rilettura del carisma è stata quella di capire il significato voluto dai Padri conciliari nel famoso verbo «consecratur» della Lumen gentium n. 44. È stato un lavoro lungo e dibattuto per arrivare a far cambiare la mentalità circa il concetto di «consacrazione» religiosa.

Prima la si identificava con gli aspetti più tipici dell’interiorità (preghiera, voti) e si considerava come suo soggetto agente il singolo religioso («io mi consacro»). Questo portava a prescindere dal vero concetto di carisma e a mettere in seconda linea la «missione» con le sue esigenze, quasi si trattasse solo dell’azione e delle opere e non fosse teologicamente inerente alla consacrazione stessa. Tutto ciò influiva evidentemente sul modo stesso di strutturare le Costituzioni. Ci fu un dibattito assai sofferto per superare questo dualismo tra «consacrazione» e «missione» che intaccava alla radice l’identità della nostra vocazione apostolica.

È servito molto quanto afferma il Concilio nel n. 8 del Decreto Perfectae caritatis e, soprattutto, la considerazione che è Dio l’agente attivo sia della consacrazione che della missione. Così si è ripensato il significato della professione e se ne è rielaborata la formula.

In particolare si è approfondito il nesso teologico inseparabile tra «consacrazione» e «missione», dando un senso rinnovato a tutto il progetto dell’indole propria e aprendo la possibilità di ripensare la struttura costituzionale. Questa visione della nostra «consacrazione apostolica» è stata sintetizzata in un articolo delle Costituzioni che dice: «La nostra vita di discepoli del Signore è una grazia del Padre che ci consacra col dono del suo Spirito e ci invia ad essere apostoli dei giovani. Con la professione religiosa offriamo a Dio noi stessi per camminare al seguito di Cristo e lavorare con Lui alla costruzione del Regno. La missione apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli evangelici sono gli elementi inseparabili della nostra consacrazione, vissuti in un unico movimento di carità verso Dio e verso i fratelli. La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto, specifica il compito che abbiamo nella Chiesa e determina il posto che occupiamo tra le famiglie religiose».5

Si tratta, dunque, di vivere un’esistenza cristiana che è simultaneamente consacrata e apostolica, anzi che è apostolica perché consacrata. Il dono dello Spirito al professo comporta in lui una grazia di unità che lo rende capace di una sintesi vitale tra la pienezza della consacrazione e l’autenticità dell’operosità apostolica. «Questo tipo di vita — affermò il Capitolo Generale Speciale — non è qualcosa di fisso e prefabbricato, ma è un progetto in permanente costruzione. La sua unità non è statica, ma è un’unità in tensione, e nella continua necessità di equilibrio, di revisione, di conversione e di adattamento».6

E questa grazia di unità, frutto della carità pastorale, è stata recentemente descritta anche dal Santo Padre nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis.7 E lo stesso Giovanni Paolo II in una allocuzione fatta ai Capitolari del nostro CG23 il 1° maggio 1990: «Mi piace — disse — sottolineare anzitutto, come elemento fondamentale, la forza di sintesi unitiva che sgorga dalla carità pastorale. Essa è frutto della potenza dello Spirito Santo che assicura l’inseparabilità vitale tra unione con Dio e dedizione al prossimo, tra interiorità evangelica e azione apostolica, tra cuore orante e mani operanti. I due grandi Santi, Francesco di Sales e Giovanni Bosco, hanno testimoniato e fatto fruttificare nella Chiesa questa splendida “grazia di unità”. L’incrinatura di essa apre un pericoloso spazio a quegli attivismi o intimismi che costituiscono una tentazione insidiosa per gli Istituti di vita apostolica».8

In questa visione di sintesi vitale abbiamo trovato la scintilla prima della nostra identità, quella che scocca nell’ora zero, lì dove incomincia il tutto, dove esplode l’amicizia e si ratifica l’alleanza, dove palpita la grazia di unità. È l’incontro di due amori, di due libertà che si fondono: il «Padre che ci consacra» e «ci invia» e noi che ci «offriamo totalmente a Lui» nell’accettazione dell’«invio». In questa mutua fusione di amicizia l’iniziativa e la possibilità stessa dell’alleanza apostolica proviene da Dio, ma è confermata dalle nostre libere risposte: è Lui che ci ha chiamato, ci ha inviato e ci ha aiutato a rispondere, ma siamo noi che ci doniamo e facciamo i «missionari».

Per noi il termine «consacrazione» sottolineava soprattutto l’iniziativa di Dio: è Lui che consacra! Sapevamo bene, poi, che il termine stesso di «consacrazione» — in quanto ai suoi contenuti — non è di per sé univoco; di fatto è differenziato secondo vari livelli di vita ecclesiale. Non siamo entrati subito nella considerazione di tali differenziazioni, lasciando alla elaborazione delle Costituzioni ciò che esso avrebbe significato concretamente per noi.

Ci interessava in primo luogo mettere in evidenza il salto di qualità da parte dell’iniziativa di Dio: «consecratur a Deo»!

È questo il salto di qualità che ci ha aperto gli orizzonti.

In quest’ottica della consacrazione apostolica siamo stati portati a contemplare anche il Fondatore: Iddio, che lo ha scelto e lo ha guidato, ha fatto della sua esistenza in missione una «esperienza di Spirito Santo» da continuare e da far crescere nel tempo della Chiesa.

Ed eccoci, così, a una visione teologale del «carisma del Fondatore»: «un’esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita... con una indole propria che comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato».9

L’elemento dinamico che ha fatto maturare questa categoria teologica di «carisma» è stato appunto il riconoscimento dell’iniziativa divina nella «consacrazione» come azione specifica di Dio. Di fatto, è stato questo un vero capovolgimento conciliare che ha fatto ripensare il significato della professione e l’opera specifica del Fondatore. È servito anche a dare il nome di «vita consacrata» agli Istituti che si solevano chiamare prima «stati di perfezione».

«Consacrazione apostolica» e «carisma» sono divenute per noi due categorie teologiche che si sovrappongono e si interscambiano mutuamente. Si tratta, infatti, di una iniziativa esclusiva di Dio che non si svigorisce in un genericismo senza volto, ma consiste in un intervento peculiare che determina una missione propria e un progetto evangelico di vita per dare una fisionomia concreta («stile di santificazione e apostolato») all’Istituto.

Si può dire che la visione conciliare della «consacrazione» comporta un’ottica di iniziativa dello Spirito Santo che, applicato al travaglio storico del fondare, ci manifesta la sostanza stessa del «carisma» donato sia al Fondatore che all’Istituto, il quale ha come sorgente permanente della sua continuità la professione religiosa dei singoli soci.

Così, nella nostra rilettura fondazionale, anche se siamo partiti escludendo temporaneamente la categoria di «carisma», siamo approdati fortemente ad essa attraverso il provvidenziale approfondimento dell’evento «consacrazione» secondo il Concilio.



La durata e gli attori della rilettura


Possiamo considerare, «grosso modo», quattro tappe attraverso cui è passata questa nostra rilettura: il Capitolo Generale Speciale e i tre Capitoli Generali seguenti; si tratta praticamente di due intensi decenni di lavoro: dal ’70 a oltre il ’90.

— Il CG20 (dal 10 giugno 1971 al 5 gennaio 1972: ben sette mesi!) è stato il Capitolo “Speciale” voluto dal Motuproprio Ecclesiae sanctae ed è stato la tappa più lunga e laboriosa di ripensamento e di rielaborazione degli elementi dell’identità; rimane il Capitolo fondamentale di tutto il lavoro fatto.

— Il CG21 (dal 31 ottobre 1977 al 12 febbraio 1978) fu un tempo ulteriore di revisione e di consolidamento. Completò alcuni aspetti peculiari della nostra identità (per esempio il Sistema Preventivo, il ruolo del Direttore, la figura del Salesiano Coadiutore) in armonia con la dottrina e gli orientamenti del Vaticano II e prolungò per un altro sessennio l’esperimento delle Costituzioni rinnovate.

— Il CG22 (dal 14 gennaio al 12 maggio 1984) costituisce l’ultimo apporto e il traguardo che porta a conclusione la sperimentazione vissuta lungo due sessenni e consegna alla Congregazione le Costituzioni e i Regolamenti in forma rinnovata e organica.

— Il CG23 (dal 4 marzo al 5 maggio 1990) si differenzia dai tre Capitoli Generali anteriori perché propriamente «ordinario». I tre anteriori appartengono, in qualche modo, alla categoria del Capitolo Generale «Speciale», perché si riferiscono globalmente alla identità del carisma con svariati argomenti da discernere. Il CG23, invece, tratta solo di un argomento concreto, scelto per intensificare il cammino del rinnovamento. Può essere interessante osservare che, se i tre Capitoli «Speciali» approdano con chiarezza a una identità ormai ridescritta nelle Costituzioni, il CG23 lancia l’identità carismatica sul campo di una accelerata evoluzione per una ortoprassi della missione, ci ricorda che la rilettura dell’identità non chiude la porta, bensì la apre con più coraggio, alla ricerca di impegni da inventare nella nuova evangelizzazione. Dunque: una rilettura anche per una miglior ricerca a favore della missione.

È interessante osservare che le quattro tappe costituiscono, si può dire, un unico processo continuo e complementare. Questo significa che il testo rielaborato trascende non solo l’impegno di gruppi ristretti di determinati confratelli, ma gli stessi singoli quattro Capitoli Generali. In ognuno di essi, distanti sei anni l’uno dall’altro, è cambiata infatti una buona parte dei membri, e ogni volta c’è stata una novità di esperienza vissuta e riflessa; in ognuno dei Capitoli che venivano dopo si è potuto attutire l’eventuale influsso di elementi anteriori che fossero stati frutto di qualche considerazione circostanziale; una più profonda e prolungata riflessione ha potuto correggere imprecisioni od eventuali ambiguità; il tempo ha fatto maturare l’approfondimento di aspetti delicati, mentre l’accelerazione dei mutamenti ha portato a saper distinguere più chiaramente i valori permanenti da quelli caduchi, quelli d’identità da quelli di estrazione solo culturale, accrescendo la coscienza della dimensione ecclesiale e mondiale del progetto evangelico di Don Bosco.



Punti nevralgici nel processo di discernimento


Nella visione conciliare dell’Ecclesiae sanctae le Costituzioni dovevano essere la presentazione autorevole di un progetto di vita evangelica; si chiedeva di indicare in esse i principi fondamentali della sequela del Cristo, la sua dimensione ecclesiale, la sua originalità carismatica, le sane tradizioni e le strutture adeguate di servizio.

Esse presentano, di fatto, un’integrazione armonica tra ispirazione evangelica e concretezza di strutture. Sono il documento fondamentale del Diritto particolare della Congregazione. Più che dedicarsi a stabilire prioritariamente norme dettagliate da seguire, esse descrivono principalmente una modalità spirituale e apostolica da testimoniare secondo lo spirito delle Beatitudini. Aiutano a rileggere il mistero di Cristo nell’ottica del Fondatore, per noi nell’ottica salesiana di Don Bosco. Si è ripensata la loro struttura generale secondo un ordinamento ed uno stile che invitano ad una lettura orante e stimolano ad un impegno di vita. Se chi le medita lo fa «nella fede», ossia con occhi «nuovi», vi attinge luce e forza.

Si sono seguiti dei criteri orientativi, condivisi — magari dopo sofferte discussioni —, che si possono considerare come dei punti nevralgici nel cammino percorso. Oltre al senso vivo del Fondatore, di cui ho già parlato, enumero i seguenti:


1. La portata della professione religiosa

La rilettura del carisma ha risvegliato soprattutto la coscienza di un’ora germinale per la vita consacrata con un globale impegno di ricominciamento per rilanciare davvero il progetto del Fondatore. Questa sensibilità di rilancio ha portato con sé il ricupero del significato vitale della professione religiosa.

Si è compreso che non si può ridurre la professione alla sola emissione dei tre voti, come se essi fossero identici in tutti gli Istituti di consacrazione. Non si trattava di scrivere nelle Costituzioni una specie di trattatello generico di vita consacrata, ma offrire una descrizione tipologica di ciò che il Concilio chiama «indole propria» del progetto evangelico professato. Bisognava descrivere i tratti spirituali e gli atteggiamenti esistenziali che ci devono distinguere e caratterizzare nel Popolo di Dio. Senza dubbio questi aspetti suppongono ed esigono gli elementi costitutivi di ogni vita cristiana e consacrata, che abbiamo necessariamente in comune con gli altri fedeli e religiosi.

L’indole propria è costituita da aspetti e colorazioni esistenziali, descritti e precisati nel testo costituzionale e assunti esplicitamente nella professione come prassi di sequela del Cristo. Cosa, di fatto, né insignificante né trascurabile per i professi. Per noi il modo di essere discepoli e di vivere il Battesimo è quello di praticare la nostra «Regola di vita». Per divenire veri cristiani noi dobbiamo vivere da buoni salesiani. «Non ci sono due piani — ci diceva già il CGS —: quello della vita religiosa, un po’ più alto, e quello della vita cristiana, un po’ più basso. Per chi è religioso, testimoniare lo spirito delle beatitudini colla professione è la sua unica maniera di vivere il battesimo e di essere discepolo del Signore».

Nella professione religiosa scopriamo, in definitiva, il significato vivo e globale della nostra speciale Alleanza con Dio.


2. Il criterio oratoriano

Si riferisce anche al problema dei destinatari: un punto cruciale nel Capitolo Generale Speciale. Don Bosco ha avuto a cuore, come priorità, l’opera degli Oratori con i suoi destinatari privilegiati. Nella nostra rilettura del carisma il primo Oratorio di Valdocco è stato assunto a modello apostolico di riferimento. Tale modello non si identifica con una determinata struttura o istituzione, bensì comporta una specifica ottica pastorale per giudicare le presenze esistenti o da creare.

Al centro di questo «cuore oratoriano» c’è la predilezione per i giovani, soprattutto i più bisognosi e dei ceti popolari; prima e al di là delle «opere» ci sono i «giovani»: il discepolo di Don Bosco deve sentirsi un missionario dei giovani.

L’ispirazione di tale criterio illumina gli impegni ecclesiali voluti da Don Bosco per la Congregazione. Essi sono: l’evangelizzazione dei giovani, soprattutto poveri e del mondo del lavoro; la cura delle vocazioni; l’iniziativa apostolica negli ambienti popolari, in particolare con la comunicazione sociale; e le missioni.

Per capire fedelmente l’ambito di questo criterio conviene aver presenti alcune esigenze costituzionali a tre differenti livelli complementari:

— la scelta preferenziale dei destinatari, i giovani poveri e, simultaneamente, quelli con germi di vocazione;

— l’esperienza spirituale ed educativa del Sistema Preventivo;

— la capacità di convocazione di numerosi corresponsabili scelti soprattutto nel laicato e tra i giovani stessi.

Si tratta, quindi, di un criterio complesso ma concreto che ci invita a trascendere la materialità delle opere e ad entrare nel cuore di Don Bosco per giudicare e programmare secondo l’angolatura specifica della sua carità pastorale.

Di fatto, tale criterio è sfociato, tra l’altro, in un coraggioso Progetto-Africa che, dopo 15 anni, vede più di 800 missionari salesiani in ben 36 Paesi del continente.


3. La dimensione comunitaria

Un altro punto nevralgico della rilettura è stato quello della dimensione comunitaria, intrinseca alla vita religiosa, anche se — per noi — con un peculiare stile proprio.

Non si trattava, però, solo d’intensificare un genuino «spirito di famiglia» tra i confratelli — assai sottolineato fin dalle origini —, ma di insistere sulla speciale comunione di responsabilità nella missione: questa è affidata in primo luogo alla comunità, che ne è il soggetto responsabile.

Di qui il modo peculiare di esercitare l’autorità, di qui l’aspetto comunitario del progetto educativo-pastorale, di qui l’impegno di formularlo, di realizzarlo e di rivederlo insieme, di qui lo stimolo agli apporti personali al di fuori di ogni individualismo e di ogni arbitraria indipendenza. La comunità è chiamata a un continuo discernimento pastorale per procedere poi unita e fedele nella realizzazione apostolica del carisma.

Questo punto nevralgico è risultato di grande influsso nel lungo cammino del rinnovamento.


4. La «forma» dell’Istituto

La «forma» dell’Istituto (che sia «clericale», «laicale», «misto», «indifferente»...) comporta dei tratti costitutivi che esprimono ed assicurano, anche giuridicamente, l’indole propria e caratterizzante del carisma. Essa ha, di fatto, un’importanza teologale e spirituale nella vitalità e crescita del carisma: «Secondo la nostra tradizione — si è affermato nel testo delle Costituzioni — le comunità sono guidate da un socio sacerdote che, per la grazia del ministero presbiterale e l’esperienza pastorale, sostiene e orienta lo spirito e l’azione dei fratelli».10

La missione, che dà il tono a tutta la vita dell’Istituto, è di natura pastorale e tutto lo spirito del Fondatore promana dalla carità pastorale del suo cuore di prete.

Il nostro Istituto non è né strettamente «sacerdotale», né semplicemente «laicale», e neppure propriamente «indifferente». I soci sono «chierici» e «laici» che vivono «la medesima vocazione in fraterna complementarità»; ognuno ha coscienza di essere membro corresponsabile del «tutto», prima di considerarsi chierico o laico. «Le componenti “sacerdotale” e “laicale” della Società non comportano un’addizione estrinseca di due dimensioni affidate ognuna a categorie di confratelli in sé differenti che camminano parallelamente e sommano forze separate, bensì costituiscono insieme una comunità che è, come abbiamo visto, il soggetto vero dell’unica missione salesiana (Cost 44). Ciò esige una formazione originale della personalità di ogni socio, per cui il cuore del “salesiano-chierico” si sente intimamente attirato e coinvolto nella dimensione “laicale” della comunità, e il cuore del “salesiano-laico” si sente a sua volta intimamente attirato e coinvolto in quella “sacerdotale”».11 È, questa, una caratteristica unitaria legata alla specifica «dimensione secolare» dell’Istituto. Per questo è veramente importante tra noi promuovere simultaneamente una coscienza e una crescita armonica dei soci «chierici» e dei soci «laici» nello spirito della tradizione salesiana.

Ebbene, il servizio dell’autorità in Congregazione è legato a questa originalità della «forma». Svolge una delicata funzione di identità nello spirito e di unità nell’azione apostolica. Il suo ruolo specifico è quello di promuovere e orientare quella «carità pastorale» che è il centro e la sintesi dello spirito salesiano e l’anima di tutta la nostra attività. La grazia dell’Ordinazione sacerdotale (che è «il Sacramento della carità pastorale») ne arricchisce e avvalora la capacità di servizio e fa che un genuino criterio «pastorale» guidi tutta la nostra partecipazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa, che comprende anche la promozione umana e l’incisività sulla cultura.

Si tratta di un apporto utile a tutti i soci perché intimamente unito al criterio oratoriano.


5. Il decentramento

Si era convinti dell’urgenza di saper incarnare, con duttile metodologia, l’identità comune nelle differenze delle culture locali. È, questo, un compito arduo: richiede la chiarezza dell’identità nella formazione, e una vera sensibilità e intelligenza di discernimento per le differenze culturali.

Ci siamo sentiti in pieno accordo con il P. Voillaume: «Si manifesta oggi una tendenza a rimettere in causa l’unità di una Congregazione sotto il pretesto di sviluppare le caratteristiche regionali o nazionali delle fondazioni. Una tale tendenza è ambigua. Legittima in quanto è la reazione contro l’impegno uniforme di una espressione univoca della vita religiosa troppo dipendente da un’unica mentalità, essa rischia nondimemo di rimettere in causa una delle caratteristiche del Regno di Dio che è il situarsi al di là di ogni cultura, nell’unità fraterna del Popolo di Dio che non dovrebbe conoscere né frontiere né razze».12

Un carisma non aperto e duttile ai valori delle culture si sclerotizza e si emargina dal futuro; ma una cultura chiusa alla sfida dei segni dei tempi, all’interscambio con le altre culture e alla trascendenza del mistero di Cristo e del suo Spirito, rischia di presentarsi come un semplice museo del passato o come una interpretazione riduttiva della universalità. Si percepisce qui quanto è divenuta delicata e impegnativa oggi nell’Istituto l’attività formativa.

E insieme si coglie anche quanto sia importante un esercizio dell’autorità adeguatamente decentrato per assicurare nelle Province e nei gruppi di Province omogenee una concreta possibilità di inculturazione.


6. La Famiglia Salesiana

Convinti che il Fondatore ha lanciato il suo spirito e la sua missione più in là del nostro Istituto e che ad essa ha lasciato in eredità particolari responsabilità di animazione e di coordinamento di tante forze apostoliche, abbiamo considerato essere una delle grandi vie del nostro rinnovamento la cura di quella che si è chiamata «Famiglia Salesiana».

Essa è composta di vari gruppi istituiti (sia di Istituti di vita consacrata, sia di Associazioni laicali o di movimenti), che condividono — in forme differenziate — lo spirito e la missione di Don Bosco. Risulta, questo, un campo vasto e fecondo che vede oggi speciali possibilità nell’ambito del laicato impegnato. Ci siamo già incamminati decisamente, seguendo le orme del Fondatore, e vogliamo intensificare e perfezionare questa scelta nel prossimo Capitolo Generale 24 (1996): «Salesiani e laici: comunione e condivisione nello spirito e nella missione di Don Bosco».



Urgenza di concretezza metodologica


La rilettura fondazionale è stata, in se stessa, una intensa e non facile ricerca della nostra identità carismatica. Siamo rimasti contenti di ciò che si è fatto e ne ringraziamo il Signore.

Dobbiamo aggiungere, però, che una così lunga rilettura non ha chiuso il periodo della ricerca: affatto. Anzi, ha aperto — essa stessa — una modalità di ricerca ancor più accelerata ed intensa. È come se la rilettura fondazionale avesse scatenato tutte le energie a disposizione in vista di una maggior significatività e creatività apostolica.

Non, dunque, una lettura terminata e ormai conclusa, ma una specie di profezia che rilancia il processo di rinnovamento avviato su un doppio binario di novità: quello dell’assimilazione da parte di tutti i confratelli per un rinnovamento spirituale delle persone e delle comunità, e quello del coinvolgimento operativo nell’affrontare le sfide della nuova evangelizzazione.

Sapendo con più chiarezza e sicurezza «chi» siamo oggi nella Chiesa (= rilettura fondazionale), ci sentiamo interpellati in quanto portatori di un «carisma di attualità». E ciò richiede una speciale capacità metodologica di progettazione e di azione. Il cammino dall’identità carismatica all’attualizzazione della missione oggi (dall’ortodossia all’ortoprassi) è assai complesso. Qui si concentra tutto il grande problema pastorale della Chiesa, «il nuovo ardore, la nuova metodologia, le nuove espressioni», la capacità di progettazione, la serietà della revisione.

Quanto più chiara è la propria identità di consacrati, tanto più esigente è la ricerca di una dinamica aggiornata del carisma.

È per questo che il nostro primo Capitolo Generale «ordinario» del 1990 (CG23), dopo quelli «speciali» per la rilettura dell’identità, ha avuto come preoccupazione di far rivivere la missione di Don Bosco oggi per «educare i giovani alla fede».

Ci accorgiamo che la strada è lunga e con innumerevoli incognite e il costante avanzare su questa strada pastorale sarà la miglior riprova dell’autenticità della rilettura fondazionale.

Sentiamo l’urgenza di promuovere tutto un settore di riflessione teologica che vada più in là delle discipline della fede fondamentali e classiche. Si tratta di un tipo di «teologia pastorale», che si chini sulla vita reale entrando in dialogo anche con le scienze umane (storiche, antropologiche, filosofiche, sociologiche, pedagogiche, politiche, ecc.) tenendo saldamente in conto gli orientamenti ufficiali del Magistero che accompagnano una prassi ecclesiale animata dallo Spirito del Signore: tale prassi precede di per sé anche la riflessione scientifica. Una mentalità pastorale ha bisogno di molti apporti: insieme alla riflessione teologica di carattere biblico, storico, dogmatico e liturgico, deve saper sviluppare una appropriata metodologia di intervento, frutto di una riflessione pedagogica e metodologica che comporta strategia d’azione, studio e programmazione di tempi, di modi, di itinerari, di mezzi, ossia una elaborazione di progetti onde passare da una situazione sfidante a una soluzione positiva come meta a cui si tende.

Chi vive in missione apostolica sente l’urgenza di qualificare sempre meglio la sua mentalità pastorale; guarda con attenzione alla nascita di centri di seria «teologia pastorale»: una teologia «particolare», che non pretende di erigersi a unica interpretazione del tutto, ma che illumina la prassi. Essa «si inserisce nella vasta area teologica come una parte vitale e importante, ma non come un tutto o come l’unico criterio valido del tutto. La “pastorale” non cerca di cambiare la formalità della teologia; soprattutto, non deve cambiarla quando volge la sua attenzione e riflessione su qualcosa di concreto, urgentemente vitale. Se l’urgenza di riflessione è precisamente teologica, ossia polarizzata dalla rivelazione e dalla luce del mistero di Cristo sotto la guida del Magistero, sarebbe un grave errore il privarla (come purtroppo qualche volta è successo) di questa sua connaturale polarizzazione, sostituendola con un’ottica orizzontalista che pretendesse manipolare a suo piacimento l’interpretazione del Cristianesimo».13

Così la nostra rilettura fondazionale ci ha portato a rivedere e a rinnovare anche le strutture accademiche della nostra Università Pontificia affinché avessero una maggior proponibilità pastorale. Assicurando sempre una seria riflessione teologica, perché è appunto nell’ambito di un certo entusiasmo cosiddetto «pastorale» che si corre anche il pericolo di imboccare strade non giuste, svincolandosi a poco a poco dall’autenticità del carisma.



Animazione e governo


La concretezza metodologica in vista di una azione apostolica aggiornata e più incisiva ha fatto emergere in primo piano l’indispensabilità di un impegno di formazione permanente per tutti i confratelli: assumere con chiarezza la rilettura fondazionale e stimolare ogni comunità a una capacità di progettazione concreta per la nuova evangelizzazione.

Tale ampio impegno ha cambiato lo stile dell’esercizio dell’autorità nel governo: il segreto di tale esercizio è la competenza nell’animazione. Quante iniziative sono sorte al riguardo! Non è un lavoro semplice né a breve scadenza, ma è assolutamente indispensabile; senza di esso la rilettura fondazionale finisce in biblioteca.

Così si è constatato che in un’ora di profondi cambiamenti il concetto di «formazione» ha il suo significato fondamentale e prioritario («princeps analogatum») nella formazione permanente, che ogni casa religiosa autentica diviene centro di formazione e che la formazione iniziale va rivolta verso quella permanente per preparare i formandi ad essere soggetti capaci e impegnati nell’affrontare le svariate e incalzanti sfide del divenire culturale ed ecclesiale.

Il cambio epocale chiama tutti i religiosi a sentirsi in certa maniera ascritti a un «secondo noviziato» per rinnovare la propria professione religiosa secondo la rilettura postconciliare.

Insieme alla fedeltà nello spirito viene stimolata la creatività nella missione con sensibilità verso la pluriformità delle situazioni e spingendo il governo a strutturarsi e a muoversi in vista di un «pluralismo nell’unità» e di un’«unità nel pluralismo».



Una visita dello Spirito del Signore


Noi eravamo e siamo convinti — come ho già detto — che il Concilio Vaticano II è stato una visita dello Spirito del Signore alla sua Chiesa; è venuto a provocare un salto di qualità in tutta la pastorale, partendo dall’identità del mistero della Chiesa, dalle sue relazioni con il mondo e dalla sua presenza di fermento nella storia.

Noi ci siamo accinti a fare la nostra rilettura fondazionale in questo clima di Pentecoste. Senz’altro abbiamo avuto delle lentezze, dei residui preconciliari, delle miopie e dei timori che hanno prolungato molto la rilettura; forse sono rimaste qua e là ancora delle zone oscure da illuminare in armonia con il tutto; però consideriamo, con semplicità di fede, che tutto il lavoro fatto non si potrebbe spiegare senza la luce, la creatività, l’intuito di futuro propri di una speciale presenza dello Spirito del Signore. Guardando indietro, rileggendo le Costituzioni rinnovate, osservando lo sviluppo della vita dell’Istituto, le sue trasformazioni e la sua vitalità in tutti i continenti, noi crediamo che lo Spirito Santo, con l’intervento materno di Maria, ci ha regalato delle lenti appropriate e limpide per rileggere bene le nostre origini e rilanciarci in avanti.

Ci sentiamo così nel Popolo di Dio chiamati dallo Spirito a collaborare, attraverso la nostra specifica missione, nel faticoso cammino ecclesiale verso il terzo millennio.



Abbiamo una «carta d’identità» valida e aggiornata


Cari confratelli, ringraziamo ed esultiamo. Lo Spirito del Signore ci ha illuminati e accompagnati; ci ha indicato la nostra strada maestra; ci ha arricchiti con un tesoro di vita; ci ha tolti dalle pene delle insicurezze e delle deviazioni e ci ha assicurato la nostra identità nel Popolo di Dio; ma ci ha, proprio per questo, aperto un immenso campo di lavoro, dove c’è da ricercare, da faticare, da creare, da profetizzare con quello spirito di iniziativa e di originalità che hanno caratterizzato le origini apostoliche della nostra missione.

Maria ci guidi, attraverso questa nostra rilettura fondazionale, per rilanciare il carisma di Don Bosco verso le immense possibilità e speranze del terzo millennio.

Insieme a Mamma Margherita guardiamo al futuro con intuizione e fecondità materne.

Auguri d’impegno.

Cordialmente,

D. Egidio Viganò


NOTE LETTERA 63


1 cf. ES II, 12 - anno 1966

2 ET 11-12, Roma 1971

3 cf. ET 11

4 MR 11

5 Cost 3

6 CGS 127

7 cf. Pastores dabo vobis 23 e 24

Osservatore Romano 2.5.90

9 MR 11

10 Cost 121

11 CG22 80

12 R. VOILLAUME, La vita religiosa: conversazioni di Béni-Abbès, Città Nuova 1973, pag. 95

13 cf. E. VIGANÒ, Per una teologia della vita consacrata, LDC Torino 1986, pag. 21-22