401-450|it|411 L'inculturazione del carisma salesiano

1. LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE

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L’INCULTURAZIONE DEL CARISMA SALESIANO


«Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti

per guadagnarne il maggior numero» (1Cor 9,19)



1. “Legge di ogni evangelizzazione”. 2. Cambio di paradigmi culturali. La globalizzazione. - Il dialogo interreligioso - La situazione giovanile. - Un continente, il digitale, da lievitare. 3. La chiesa primitiva, modello e norma di evangelizzazione inculturata. Una missione riuscita perché ben inculturata. - Unità nella fede, diversità nel suo vissuto. - Ricordarsi dei poveri. - Una convivenza problematica come risultato. - Il fatto e il principio. 4. Guardando Don Bosco. Un gesto molto mirato. - “Alcuni ricordi speciali” - «Noi vogliamo anime, e non altro». - «Ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i fanciulli poveri e abbandonati». - «Cominciata una missione, lo sforzo sia sempre a fare e stabilire delle scuole». - «Dio chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni ecclesiastiche fra la gioventù povera». - «Tutti, tutti, potete essere veri operai evangelici». - «Fate che il mondo conosca che siete poveri». - «Con la dolcezza di San Francesco di Sales i salesiani tireranno a Gesù Cristo le popolazioni dell’America». - «Raccomandate costantemente la divozione a Maria Ausiliatrice ed a Gesù Sacramentato». Conclusione.


16 Agosto 2011

Anniversario della nascita di Don Bosco


Carissimi confratelli,


vi scrivo nel giorno in cui do avvio al triennio di preparazione al bicentenario della nascita di Don Bosco. Scambievolmente ci auguriamo d’essere una fedele incarnazione del nostro amato Padre per diventare, come lui, segni dell’amore di Dio, specialmente per i giovani.

Ho voluto prendere come spunto per questa circolare un bellissimo e significativo testo della prima lettera ai Corinzi in cui San Paolo, rinunciando al diritto derivante dalla sua libertà, dichiara di essersi fatto servo di tutti volontariamente, per portare alla fede di Cristo il maggior numero di persone. Si è fatto “giudeo con i giudei”, uomo senza legge mosaica con quelli che non sono sottomessi alla legge mosaica, si è fatto “debole con i deboli”; in una parola, si è fatto “tutto a tutti”. E così conclude: “tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro” (cf. 1 Cor 9,19-23). Troviamo qui il modello del missionario: egli è colui che si identifica, in modo totale, con ciascuno dei suoi destinatari, al solo scopo di guadagnarne il maggior numero possibile al suo Signore!

Nella mia ultima lettera vi ho invitati, cari confratelli, “a vivere con un autentico spirito missionario in ogni parte del mondo”; per questo vi offrivo “una riflessione sulla missionarietà della Chiesa e della Congregazione e, in particolare, sulla evangelizzazione come orizzonte della attività ordinaria della Chiesa”, come della Congregazione. Oggi voglio riflettere con voi su un tema che, in strettissima relazione con quelli precedentemente trattati, sviluppa un aspetto estremamente importante per assicurare autenticità ed efficacia alla nostra missione nella Chiesa. Intendo parlarvi dell’inculturazione del carisma salesiano, un compito di cui avverto l’estrema urgenza quanto più vado conoscendo la realtà dell’intera Congregazione.

Il carisma salesiano, “principio di unità della Congregazione”, è, e potrà rimanere, “all’origine dei modi diversi di vivere l’unica vocazione salesiana” (Cost 100), se riusciamo ad impiantarlo, allo stesso tempo con fedeltà e creatività, là dove siamo stati inviati e dove operiamo. Possiamo dire che questo “piantare il carisma” nelle diverse culture è impegno più che centenario della nostra Congregazione, a partire dalle prime missioni avviate da Don Bosco in Argentina; e possiamo riconoscere che non sono mancati consolanti frutti. Tuttavia dobbiamo ammettere che la sfida è oggi molto più impegnativa, trovandoci presenti in tutti i continenti e a contatto con le più diverse culture. Siamo convinti che, per restare fedeli a Dio che ci invia, e ai giovani che sono i nostri destinatari privilegiati, dobbiamo vivere con generosità l’identità salesiana; ma questo non significa che la si debba attuare, dappertutto, in modo identico. La missione salesiana sarà significativa ed efficace, ed avrà perciò futuro, se riuscirà a presentarsi allo stesso tempo fedele a se stessa ma anche ‘a casa sua’ nell’ambito culturale in cui si svolge, vale a dire se Don Bosco saprà assumere, grazie ai suoi figli, il volto proprio di ogni cultura che lo accoglie.


1.“Legge di ogni evangelizzazione”


La vocazione salesiana ci situa nel cuore della Chiesa e ci pone interamente al servizio della sua missione” (Cost 6). Sono ancora le Costituzioni a riconoscere che “la missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto” e “specifica il compito che abbiamo nella Chiesa” (Cost 3). Ciò significa che la missione fa parte della nostra identità carismatica; così che il fallimento della missione comporterebbe il fallimento del carisma. Una missione non adeguatamente inculturata è, senza dubbi, una missione fallita: “l’annuncio ‘inculturato’ [accomodata praedicatio] della parola rivelata deve continuare ad essere la legge di ogni evangelizzazione”.1

Non dalla Chiesa nasce la missione, ma dal Signore Risorto (cf. Mt 28,19; At 1,8), che l’ha affidata ai suoi testimoni (cf. Lc 24,46-48) assicurando loro la presenza e l’assistenza del suo Spirito (cf. Gv 20,22-23). Del resto, la stessa missione di Cristo non da Lui trae origine, ma dal Padre che “tanto amò il mondo” (Gv 3,16) da mandare “il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5). La missione è sorta, dunque, dall’intimità di Dio, che ha generato il Figlio e l’ha inviato per incarnarsi nella storia e, rivelando così il suo amore, portare a termine l’opera di salvezza. Da Dio Padre procede pure il Paraclito che Gesù ha inviato alla sua Chiesa (Gv 15,26); essa, come già era avvenuto per Gesù (Lc 4,18-19), ha iniziato la sua missione quando ha ricevuto ed accolto il dono dello Spirito (At 2,1-33). Come per la Chiesa, così è per la Congregazione: missione non è primariamente quanto, in qualche modo, si fa a favore di altri; missione è piuttosto il farsi presente Dio nella persona dei suoi inviati: il Figlio, lo Spirito, la comunità. In tal modo, la missione viene scaricata del peso eccessivo della responsabilità circa i risultati e diventa proclamazione efficace e visibile dell’amore di Dio quale traspare nell’essere, prima, e nell’operare poi, dei suoi inviati. La Chiesa ha senso solo come segno e strumento per comunicare questo amore “missionario” del Dio Trino; infatti, “tutte le attività della Chiesa sono pervase dell’amore” divino, che è “la fonte della missione della Chiesa”.2 Ed è a questa missione che, per vocazione, noi siamo associati, essendo “nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani, specialmente i più poveri” (Cost 2).

Dunque, quando “venne la pienezza del tempo”, e Dio volle riscattare coloro che erano sotto la legge e farli figli adottivi, “mandò il suo Figlio” tra di noi: l’eterna Parola del Padre (Gv 1,14), entrò a far parte della storia umana calandosi nel grembo d’una donna come nel contesto d’una cultura particolare. È questo “rimpicciolirsi” del Verbo, questo assumere la condizione di servo senza aggrapparsi alla sua uguaglianza con Dio ma svuotando se stesso (cf. Fil 2,6-7), ed è questo farsi contingente nel tempo e nello spazio – non per finzione ma in verità – che rivela l’accondiscendenza di Dio per l’uomo, proclamando il suo infinito amore. Ecco infatti Gesù di Nazaret assumere pienamente la cultura dei contemporanei con tutta la sua grandezza e i suoi limiti, figlio di un popolo specifico, l’Israele di quel tempo. Davvero obbediente al Padre e davvero obbediente all’uomo!

Ed è proprio obbedendo a questa economia che il Figlio è diventato nostro Salvatore. «Quod non est assumptum, non est sanatum»; «quod semel assumpsit numquam dimisit»3: i due conosciuti assiomi patristici esprimono bene questa legge paradossale della salvezza: non c’è salvezza senza incarnazione, né incarnazione senza inculturazione. Affermare, dunque, “la nativa indole missionaria della Chiesa significa testimoniare essenzialmente che il compito dell'inculturazione, come integrale diffusione del Vangelo e sua conseguente traduzione in pensiero e vita, continua ancor oggi e costituisce il cuore, il mezzo e lo scopo della nuova evangelizzazione”.4


2.Cambio di paradigmi culturali


Soggetto della missione salesiana nel mondo è oggi una comunità di circa sedicimila membri presenti in tutti i continenti e sparsi in ben 132 paesi diversi. Anche se non tutti i confratelli ne sono consapevoli, il noto fenomeno della globalizzazione è un fatto vissuto nella nostra Congregazione. Il che ci confronta con la sfida, sempre più incalzante, di realizzare l’unico carisma salesiano in una molteplicità di variegati contesti sociali, religiosi e culturali. Non c’è dubbio che il carisma salesiano è uno, valido per tutti e per ciascuno; ma non può essere vissuto in forma univoca; se non ben radicato nella cultura in cui la comunità svolge la sua missione, non saprà sprigionare le virtualità di salvezza che racchiude, non risulterà significativo nell’oggi della nostra storia, né potrà sussistere nel domani.

Non di rado, durante le mie visite nelle Ispettorie, ho l’impressione che tanti dei nostri confratelli, presi dalle urgenze apostoliche del momento, non prestino la dovuta attenzione a tale responsabilità. Viene anche qualche dubbio circa la formazione iniziale: è ovvio che, negli anni di formazione, si favorisca nel giovane confratello l’appropriazione personale del carisma, ma forse si trascura o non si dà il giusto valore all’educazione d’una adeguata sensibilità culturale, con particolare riguardo alle culture giovanili.

Stiamo vivendo un cambiamento epocale, al quale non sfugge né la Chiesa né la Congregazione, cambiamento che genera crisi ed insicurezza, ma nondimeno suscita nuove aspettative e propone vere opportunità, appena immaginabili qualche tempo fa. Mi sembra doveroso accennare qui, anche se brevemente, ad alcuni dei fatti che meglio identificano il cambiamento in atto e che mettono in discussione la nostra forma di vivere da consacrati educatori e di attuare la nostra missione.


La globalizzazione


La globalizzazione caratterizza, senza dubbio, il momento storico in cui viviamo. Fenomeno inarrestabile e recente che riguarda, in primo luogo, le nuove forme dell’organizzazione giuridica, produttiva e finanziaria, sorte nel cosiddetto ‘primo mondo’ con l’intenzione precisa di creare su scala mondiale un unico mercato e massimizzare i profitti, la globalizzazione è riuscita non solo ad unificare e omogeneizzare le condizioni economiche ma anche gli stili di vita, la cultura e, più in generale, le ideologie ‘politicamente corrette’ in conformità col modello occidentale. La globalizzazione ha eliminato distanze e frontiere, ha avvicinato popoli e persone; oggi è possibile inviare in ogni parte del mondo un numero pressoché infinito d’informazioni. Questa possibilità di collegare in pochi secondi luoghi distanti migliaia di chilometri ha finito col condizionare anche i sistemi di produzione e di commercializzazione: i capitali non hanno più patria, né più sono garantiti i posti fissi di lavoro o la sicurezza dei cittadini, visti i flussi migratori ed i fenomeni ad essi legati. Va riconosciuto che la globalizzazione ha offerto ed offre indubbi vantaggi, ma va anche detto che ha condizionato e condiziona ogni contesto della società attuale, ormai convertita in un "villaggio globale", così che società fino a ieri distinte per culture, tradizioni, credenze e mode si trovano sprofondate in un amalgama che minaccia le loro identità peculiari.

Si tratta, dunque di una realtà ambigua, che tende a livellare tutto e tutti secondo parametri che non rispettano le differenze ed escludono chi non vi si adegua. “Si ha l'impressione che i complessi dinamismi, suscitati dalla globalizzazione dell'economia e dei mezzi di comunicazione, tendano a ridurre progressivamente l'uomo ad una delle variabili del mercato, ad una merce di scambio, ad un fattore del tutto irrilevante nelle scelte più decisive. L'uomo rischia di sentirsi in tal modo schiacciato da meccanismi di dimensioni mondiali e senza volto e di perdere sempre più la sua identità e la sua dignità di persona. A motivo di tali dinamismi, anche le culture, se non accolte e rispettate nella loro originalità e ricchezza, ma adattate forzatamente alle esigenze del mercato e delle mode, possono correre il pericolo dell'omologazione. Ne deriva un prodotto culturale connotato da un sincretismo superficiale, in cui si impongono nuove scale di valori, derivanti da criteri spesso arbitrari, materialistici e consumistici e restii a qualsiasi apertura al Trascendente”.5

In Congregazione, come nella Chiesa, non siamo estranei a questo processo e dovremmo prendere sul serio la sfida di promuovere e tramandare “una cultura viva, una cultura in grado di promuovere la comunicazione e la fraternità fra diversi gruppi e popoli e fra i diversi campi della creatività umana. In altre parole, il mondo di oggi ci sfida a conoscerci e a rispettarci l'un l'altro nella diversità delle nostre culture e attraverso di essa”.6 Attraverso le nostre presenze apostoliche, e prima di tutto all’interno delle nostre comunità religiose, sempre più pluriculturali, siamo chiamati a vivere e testimoniare una comunione nella quale “l'attenzione reciproca aiuta a superare la solitudine, la comunicazione spinge tutti a sentirsi corresponsabili, il perdono rimargina le ferite …. In comunità di questo tipo, la natura del carisma mobilita le energie, sostiene la fedeltà ed orienta il lavoro apostolico di tutti verso l'unica missione. Per presentare all'umanità di oggi il suo vero volto, la Chiesa ha urgente bisogno di simili comunità fraterne, le quali con la loro stessa esistenza costituiscono un contributo alla nuova evangelizzazione, poiché mostrano in modo concreto i frutti del «comandamento nuovo»”.7

Vivendo da fratelli tra noi e da operatori di pace e solidarietà con tutti, promoviamo l’unità della famiglia umana e la trasformazione del mondo secondo il cuore di Dio; “dalla fede vissuta con coraggio scaturisce, anche oggi come in passato, [quella] feconda cultura fatta di amore alla vita”8, che contraddistingue il carisma salesiano. Così possiamo rispondere con efficacia al nostro compito ed offrire un contributo originale, quello cioè di “affrontare creativamente la sfida dell’inculturazione e conservare nello stesso tempo la [propria] identità”9.


Il dialogo interreligioso


Nel quadro della nostra attività apostolica, oltre al processo di inculturazione, ci vediamo sempre di più confrontati, e a volte sfidati, dal pluralismo culturale e in specie da quello religioso, fenomeni che pervadono il mondo attuale. Alla tendenza a livellare tutto, che caratterizza il processo di globalizzazione in atto, si oppone una forte affermazione di culture particolari e di religioni, sia antiche che recenti; esse esigono riconoscimento e rispetto, cercano di affermarsi o di proteggersi, manifestando a volte reazioni fondamentaliste, quando avvertono minacce alla loro identità e alla libertà di espressione. Così che, nelle attuali circostanze storiche, il dialogo interreligioso ha assunto una nuova e imprescindibile urgenza, divenendo un elemento strategico della missione.

La Chiesa si è impegnata da tempo a “costruire ponti di amicizia con i seguaci di tutte le religioni, al fine di ricercare il bene autentico di ogni persona e della società nel suo insieme”.10 Anche se il vangelo continua ad essere “la priorità permanente” della sua missione, “il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa”11: dedicandosi, dunque, all’evangelizzazione, ognuno dei fedeli e tutte le comunità cristiane sono chiamate a praticare questo dialogo.

Per i salesiani che operano, oggi, a favore di giovani in tutti gli scenari possibili, missio ad gentes inclusa, il dialogo interreligioso non può essere ritenuto un’attività marginale nel vivere da credenti e nel porsi a servizio della fede, né una scelta puramente personale o di Congregazione, ma va riconosciuto come “un servizio necessario all’umanità,”12 anzi, “qualcosa che sorge dalle esigenze proprie della fede. Sgorga dalla fede e deve essere nutrito dalla fede”.13

Infatti, dialogare tra credenti di diversa fede, e pure con non credenti, “è un cammino di fede”;14 esso non richiede di rinunciare ad elemento alcuno della nostra identità cristiana, sia di quanto crediamo sia di quanto pratichiamo, e neppure di metterlo tra parentesi o addirittura in dubbio; ben al contrario: i nostri interlocutori, siano essi i ragazzi che educhiamo o persone che condividono il nostro lavoro educativo, desiderano, e con pieno diritto, conoscere chiaramente chi siamo, cosa pensiamo e per Chi lavoriamo. Certo, educhiamo ed accompagniamo i giovani cristiani nel loro cammino di fede; ma siamo altresì consapevoli che, in modo sempre più massiccio, giovani o collaboratori appartenenti ad altre religioni o indifferenti dal punto di vista religioso, e persino miscredenti, cercano noi come educatori, compagni di viaggio e guide. Li avviciniamo, perciò, con cordiale interesse, viviamo e lavoriamo con loro nel rispetto assoluto della loro libertà, sempre proponendoci come testimoni gioiosi di Gesù Cristo e membri leali di una comunità di fede.

Per noi il dialogo, più che un ‘metodo’ per svolgere la missione salesiana, è il ‘modo’ stesso per realizzarla. E se c’è un “dialogo dell’azione” che ci sprona a cercare forme concrete di leale collaborazione, “mentre applichiamo le nostre intuizioni religiose [e carismatiche] al compito di promuovere lo sviluppo umano integrale, lavorando per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato”, dovremmo soprattutto centrarci, come educatori, sul “dialogo della vita” che implica semplicemente di “vivere fianco a fianco ed imparare l’uno dall’altro, in maniera di crescere nella reciproca comprensione e nel reciproco rispetto”.15

È così che il dialogo si converte in annuncio: “due modi di implementare la missione della Chiesa”.16 Noi lo realizziamo da credenti ed educatori: dialogando con altri credenti testimoniamo Cristo e lo imitiamo “nella sua preoccupazione e compassione per ciascuno e nel rispetto per la libertà della persona”.17 In un mondo segnato dal pluralismo religioso, proclamare la propria fede ha risonanze nuove, ancora da esplorare; consegnati completamente a Dio, camminiamo assieme a persone di diversa fede e cultura verso l’unico Padre, mettendole al centro delle nostre preoccupazioni, ascoltando e appropriandoci delle questioni che le assillano e cercando insieme le risposte che danno senso alla nostra comune storia.


La situazione giovanile


Mentre globalizzazione e dialogo interreligioso sono avvenimenti che interpellano oggi la missione salesiana ‘dall’esterno’, provengono cioè dal cambiamento nel paradigma culturale attuale, mi sembra di percepire in Congregazione un fenomeno assai preoccupante, che può mettere a rischio l’ineludibile responsabilità che abbiamo d’inculturare il carisma salesiano a favore dei giovani, attraverso l’educazione e l’evangelizzazione. Qua e là registro tra i confratelli una resistenza più o meno consapevole, e talora una incapacità dichiarata, ad accostarsi con simpatia, ad illuminare con perspicacia, frutto di studio, e ad accogliere cordialmente le nuove forme di espressione che caratterizzano i giovani d’oggi, non meno che le esperienze collettive con le quali danno forma ai loro ‘spettacolari’ stili di vita18, quelle cioè che, normalmente, si affermano nel tempo libero, quasi sempre ai margini delle consuete istituzioni sociali.

Frutto del profondo cambio culturale in cui siamo immersi nel nostro Occidente sono, ad esempio, l’interpretazione della realtà più come storia mutante che come natura stabile, e la rivendicazione dell’individuo che si vede e si vuole come valore assoluto, in continua ricerca di sé, provvisto di una quasi illimitata libertà di sperimentazione e fiero della sua autonomia personale. In questo contesto, i giovani – la metà della popolazione mondiale è sotto i 20 anni – diventano purtroppo più vittime che protagonisti. Privi di radici e sganciati da riferimenti solidi, sono costretti a procurarsi da soli un’identità personale e scegliersi un cammino preciso di realizzazione. Essi non trovano nella società, e spesso neppure nella Chiesa, modelli da assumere, mete attraenti da perseguire e nemmeno guide affidabili cui rivolgersi, tanto più che la famiglia è assente o impreparata, mentre la scuola si mostra lontana dal mondo giovanile ed inefficace nelle metodologie sia educative che didattiche.19 Usufruendo sempre più di una libertà senza norme e senza orizzonti, immersi in un clima culturale sempre più complesso e confuso, avvolti e talora travolti da un mercato di molteplici e variegati valori religiosi e morali, sono obbligati a “inventare la propria vita senza un manuale di istruzioni”.20

Il CG 26 illustra questa situazione quando, parlando delle nuove frontiere, afferma: “riconosciamo pure le attese dei giovani spiritualmente e culturalmente poveri, che sollecitano il nostro impegno; giovani che hanno perso il senso della vita, carenti di affetto a causa della instabilità della famiglia, delusi e svuotati dalla mentalità consumista, indifferenti religiosamente, demotivati dal permissivismo, dal relativismo etico, dalla diffusa cultura di morte”.21

Questa solitudine affettiva non è l’unica, né direi la più estesa forma di povertà esistenziale, in cui i giovani d’oggi si imbattono. La stragrande maggioranza di quelli che popolano il cosiddetto ‘Terzo Mondo’ conosce bene l’indigenza economica, la precarietà familiare, la discriminazione razziale, le carenze educative e culturali, l’impreparazione al lavoro, lo sfruttamento ignobile da parte di terzi, l'impiego abusivo come mano d'opera, la chiusura di orizzonti che soffoca la vita, dipendenze varie e altre devianze sociali.

La mappa attuale dello smarrimento giovanile è un quadro così desolante che chiama ad un’urgente conversione alla compassione (cf. Mc 6,34; 8,2-3) non meno che all’azione (cf. Mc 6,37; 8,4-5), perché tutti quanti ci sentiamo inviati a essere per loro “segni e testimoni dell’amore di Dio” (Cost 2). Basti un semplice elenco di situazioni per capire l’urgenza del momento:

I milioni – cento circa – di ragazzi di strada, che hanno preferito prendere la strada come ‘habitat’ naturale, talmente insopportabile era la loro situazione familiare. Alcuni trovano rifugio in tane o fogne, un migliaio solo a Bucarest, un milione nell’Europa Ovest, 12 milioni nel mondo.

I circa 300.000 ragazzi-soldato, che operano nell’esercito regolare o come sicari, appena giovani ma già al servizio della morte.

Il numero sempre in crescita di ragazzi violati, vittime della pedofilia e del cosiddetto turismo sessuale: un milione di bambini, secondo i dati dell’UNICEF, verrebbero introdotti ogni anno nel commercio sessuale, un mercato che muove 13 miliardi di dollari ogni anno.

Si contano sui 250 milioni i minorenni, bambini e bambine tra i 5 e i 15 anni, costretti a lavori vietati per pericolosità fisica, psichica o mentale, talora resi schiavi, e questo a più di un secolo dalla abolizione legale della schiavitù.

La cifra dei giovani poveri ed emarginati, privi di accesso a tutti quei beni ai quali ha diritto ogni persona va oltre qualsiasi previsione: più di 600 milioni di bambini vivono sotto la soglia della povertà, 160 milioni quelli denutriti; 6 milioni ogni anno muoiono di fame: 17 mila al giorno, 708 ogni ora...

I ragazzi di nessuno, senza genitori, casa, patria, sono circa 50 milioni. Quelli senza istruzione, analfabeti, arrivano a 130 milioni. Almeno 6 milioni di bimbi sono stati mutilati e si parla di 4 milioni di donne e bambini donatori forzati di organi.

Ogni minuto nei cinque continenti 5 bimbi contraggono l’AIDS. Sono quasi 11 milioni i minori che hanno contratto il virus. E solo in Africa si registrano 13 milioni di orfani causati dall’AIDS. Quanti, poi, i bimbi attaccati da tubercolosi, malaria, meningite, epatite, colera, ebola…?

Sono più di 50 milioni i bambini profughi e/o rifugiati vittime di odi razziali, guerre, persecuzioni, ammassati in campi profughi o dispersi qua e là.

Dinanzi a questo panorama, così drammatico, delle piaghe del mondo giovanile, noi Salesiani non possiamo non essere, come Don Bosco, “dalla parte dei giovani, perché abbiamo fiducia in loro, nella loro volontà di imparare, di studiare, di uscire dalla povertà, di prendere in mano il proprio futuro … Siamo dalla parte dei giovani, perché crediamo nel valore della persona, nella possibilità di un mondo diverso, e soprattutto nel grande valore dell’impegno educativo”. Tanta sventura ha sollecitato le nostre coscienze: il 20 aprile 2002, alla fine del CG 25, io e 231 rappresentanti dei Salesiani nel mondo abbiamo sottoscritto un appello, rivolto sì a tutti quelli che hanno responsabilità nei confronti dei giovani, ma che innanzitutto obbliga noi: “Prima che sia troppo tardi salviamo i ragazzi, il futuro del mondo”22.


Un continente, il digitale, da lievitare


La Chiesa, se vuol rimanere fedele alla sua missione, deve imparare i linguaggi degli uomini e delle donne di ogni tempo, etnia e luogo. E noi, Salesiani, in modo particolare, dobbiamo imparare e utilizzare il linguaggio dei giovani […] In fondo, si tratta di un problema di comunicazione, d’inculturazione del vangelo nelle realtà sociali e culturali, un problema di educazione alla fede per le nuove generazioni”.23 Questo sforzo d’inculturare la visione salesiana della vita nel mondo attuale, deve includere necessariamente nel suo scopo il nuovo continente digitale, il quale non è una realtà puramente strumentale; esso infatti conforma nuovi codici culturali; e se è vero che crea inedite possibilità di interazione comunicativa, presenta pure pericoli finora ignorati.

Il termine “continente digitale” è una felice intuizione di Papa Benedetto XVI, espressa nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2009, in un contesto che chiamava i giovani ad evangelizzare i loro compagni.

C’è un’immagine biblica che può aiutarci a capire che cosa significhi inculturare il carisma nel continente digitale. La troviamo in Mt 13,33 (e Lc 13,20-21): la donna che ‘nasconde’ il lievito in tre misure di farina “perché tutta si fermenti”. Che cosa può significare far “lievitare” il continente digitale? Ê un’immagine semplice, ma che esprime bene la nostra preoccupazione nel momento in cui il WEB di circolazione mondiale (solo per fare un esempio) sta passando da Web 2.0 a Web 3.0; da un Web che si concentrava nell’allacciamento interattivo delle persone, ad uno che fa interagire dati in modo significativo. È un cambiamento che si sta verificando in forma sottile sotto i nostri occhi, e che non è dissimile da quello del lievito nella massa. Chi di noi non ha cliccato il link di una grande città e non ha visto apparire un’infinità di opzioni – alberghi dove alloggiare, eventi a cui partecipare, posti da visitare - e il tutto in obbedienza ai suoi interessi personali? Forse che il computer conosceva questi suoi interessi? No di certo, ma sapeva come fare per creare un collegamento tra significati, in questo caso tra interessi ed offerte. La risposta è nella semantica (scienza dei significati), ma soltanto gli esseri umani possono (lo possono! è ciò che noi non dobbiamo perdere di vista) offrire queste semantiche in modo che le macchine riescano a interpretarle.

La tradizione spirituale cristiana classica ci offre un’altra immagine che può aiutare in questo contesto. La troviamo nel Castello interiore di S. Teresa d’Avila, testo che nella sua applicazione non conosce limiti del tempo. “Ho incominciato a pensare all’anima come se fosse un castello, fatto con un solo diamante o con un solo cristallo molto chiaro”24, ella dice, e poi ci guida attraverso sette “mansioni” o stanze, costituente ognuna un luogo del percorso verso la definitiva unione con Dio, che è posto al centro del castello. Può essere un’altra immagine che aiuta a muoversi nel continente digitale. Pensiamo al castello come al continente digitale, con molte “stanze” e “allacciamenti”. Come troviamo la strada per muoverci verso il centro? Le varie stanze sono collegate in modo significativo? È possibile trovare percorsi per arrivare alla meta? Il centro è ancora Dio, naturalmente, e Cristo è la guida, ma “… l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo”.25

Una terza immagine ci può venire in soccorso: pensiamo ad un giardino, forse alquanto trascurato ma non privo di sentieri e con un’infinità di rampicanti e liane. Potremmo muoverci nel giardino seguendo i sentieri o servendoci delle liane. Ma possiamo anche immaginare come vanno le cose nel sottosuolo dove tutto si sviluppa in un ecosistema complesso, forse disordinato, ma eminentemente pieno di vita!

Ognuna delle tre immagini – lievito, castello, ecosistema – ci aiuta a cogliere più pienamente il senso di cosa significhi inculturare il carisma nel continente digitale. È uno dei compiti della Nuova Evangelizzazione. In certo senso si tratta di un compito nascosto, ma con indicazioni che possiamo seguire. C’è una vera Guida al castello virtuale se aiutiamo le tecnologie a servire la missione. E siamo invitati a entrare nel complesso, forse disordinato, ecosistema pieno di vita, coscienti che Gesù vuole che siamo lì nel Suo nome!

Non possiamo evitare di vivere, o almeno di vivere parzialmente, nel continente digitale d’oggi. Come saggiamente afferma Manuel Castells: “Uno potrebbe dire: «Perché non mi lasci in pace? Non voglio saperne del tuo Internet, della tua civiltà tecnologica, della tua società dei network. Voglio vivere tranquillamente la mia vita». Se questa è la tua posizione, ho una brutta notizia per te. Se non ti preoccupi dei notiziari, i notiziari si preoccuperanno comunque di te. Fin quando vorrai vivere in questa società, in questo tempo e in questo posto, dovrai vedertela con la società delle comunicazioni”.26

Invece di essere trascinati contro voglia nel continente digitale, abbiamo il dovere di trovarci lì in modo reale ed efficace. Oggi ciò vuol dire, tra l’altro, curare strutture significative, introdurre collegamenti validi nei nostri documenti e dati. Possiamo guidare tecnologie di ricerca, per esempio, con documenti che puntino più alla struttura semantica che al fatto di apparire “belli” ed attraenti. Il primo compito compete a ogni salesiano che 'tweetta', comunica con ‘email’ o scrive! L’ultimo compito, a chi ha la responsabilità delle migliaia di website salesiane nel mondo.

Quest’ultimo gruppo non è una schiera piccola nella Congregazione! Pochissime comunità, centri, opere sono prive di un sito web. I responsabili – sia salesiani che collaboratori laici – disimpegnano un ruolo sempre più significativo nel modo in cui il carisma è compreso e inculturato nel continente digitale. Essi possono, infatti, far sì che “carisma” diventi una parola di ricerca importante oggi, e portare a contesti che noi desideriamo determinare, invece di lasciarli a motori di ricerca, che li indovinano in modo casuale o sbagliato.

In altre parole, entrare ed agire in questo ambito esige chiarezza di idee, viva coscienza etica, spiccata sensibilità educativa e spirituale, non meno che un’adeguata conoscenza degli strumenti e delle logiche che li governano. Il settore della Comunicazione Sociale sta lavorando in questo campo e può già offrire a confratelli e collaboratori laici riflessioni interessanti, in certi casi consigli tecnici puntualizzati. Non si tratta di consigli dati per il gusto di consigliare, né di tecnologia offerta per il gusto della moda tecnologica. Il settore delle Comunicazioni Sociali lavora in pieno accordo con quelli della Pastorale, della Formazione e delle Missioni a favore del carisma e della comune missione. Insieme ci aiutano a inculturare, e con ciò a proporre e a divulgare nel nostro mondo, in continuo e rapido cambiamento, una prospettiva di fede fondata sulla visione del nostro padre Don Bosco.


Riassumendo: la Congregazione si è impegnata, mediante l’educazione e la prevenzione, a ridare la parola ai giovani, ad aiutarli a ritrovare se stessi, ad accompagnarli con pazienza e fiducia nel cammino della loro costruzione personale, ad offrire loro strumenti per guadagnarsi la vita; ma, allo stesso tempo, siamo impegnati a proporre un modo loro confacente di relazionarsi con Dio. E lo vogliamo fare, abitando il loro mondo e parlando il loro linguaggio, affiancandoci a loro non solo come a nostri destinatari privilegiati ma, sopra tutto, come a compagni di viaggio. O non ha niente da dirci il fatto che siamo nati, come Congregazione, un lontano 18 dicembre 1859 tra ragazzi, per l’esattezza da 16 di essi, adolescenti tra i 15 e i 21 anni, che, avendo sperimentato su di sé l’opera di riscatto e di promozione di Don Bosco, vollero partecipare alla sua missione assumendo un ruolo di soggetti protagonisti?

Per ricreare il carisma salesiano nelle più variegate situazioni dove ci troviamo, non basta adattarlo ai diversi contesti giovanili; ancor più, occorre investire sui giovani, facendoli diventare soggetti protagonisti e collaboratori fidati, senza mai dimenticare che sono la ragione della nostra consacrazione a Dio e della nostra missione.


3.La chiesa primitiva, modello e norma di evangelizzazione inculturata27


Il vangelo è nato, è stato formulato e proclamato dentro una particolare cultura. Sappiamo che le prime affermazioni sulla risurrezione di Gesù (cf. 1 Cor 15,3-5; At 2,24-35), sulla sua messianicità (cf. At 5,42; 9,22) e signoria universale (cf. At 2,36), come anche gli inviti alla conversione (cf. At 2,40; 3,19), tutto questo è stato formulato in categorie culturali proprie di Israele. Mentre questa nuova fede veniva presentata ai giudei, non c’era bisogno di aggiungere né lunghe spiegazioni dei termini (cf. At 3,21-26), né una introduzione al pensiero sottostante (cf. At 2,25-32.34-35). Basterebbe pensare alla prima predicazione di Pietro a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste (cf. At 2,14-41) per trovare un buon esempio di una evangelizzazione perfettamente inculturata nella mentalità religiosa sia del predicatore che dei suoi ascoltatori.28


Una missione riuscita perché ben inculturata


Solo venticinque anni dopo la morte di Gesù e grazie ad una mirabile espansione missionaria portata avanti dal gruppo degli ‘ellenisti’ (cf. At 6,1; 9,29), nelle comunità cristiane divennero maggioranza i credenti di origine e di cultura pagana. È ovvio che i più antichi discepoli del Signore non erano preparati ad affrontare la situazione che si era venuta creando come conseguenza dell’apertura dei gentili al vangelo e della loro incorporazione nella vita della comunità.

Non si trattava più di trovare un posto nella comunità per singoli individui, come fu il caso dell’eunuco (At 8,26-40) o del centurione Cornelio (At 10,1-11,18). Occorreva adattarsi alla presenza di intere comunità di estrazione etnica, mentalità e costumi diversi, all’interno dell’unico e definitivo popolo di Dio. La stessa comunità di Gerusalemme, dove fin dal principio vi erano stati credenti di diversa provenienza culturale (cf. At 2,5-12; 6,1; 9,29), aveva sperimentato le difficoltà che comportava la convivenza (At 6,1-6) e aveva persino sofferto persecuzione a causa di ciò (At 8,1-3). In gioco era l’identità stessa della nuova vita comune nata dall’unica confessione di Cristo Gesù.

La dettagliata informazione che ci forniscono le fonti conferma l’importanza che a questo conflitto attribuirono sia Paolo, uno dei protagonisti della vicenda (Gal 2,1-10), che Luca (At 15,1-35). Anche se ambedue le narrazioni non sono un resoconto protocollare completo e nemmeno neutrale, da esse si può cogliere l’essenziale; il dibattito si centrava sul problema della circoncisione: bisognava o no imporla ai nuovi cristiani non giudei? Al fondo c’era il desiderio di integrare i pagani nel popolo giudaico come condizione sine qua non all’inserimento nella comunità cristiana. La circoncisione era stata, e doveva continuare ad essere, il segno dell’alleanza (Gn 17,11), la marca d’identità del popolo di Dio e la prova della sua fedeltà; in conseguenza, non si riteneva sufficiente credere in Gesù; questa fede, la si doveva innestare nel regime della legge mosaica.

La prassi degli ellenisti cristiani, che non avevano imposto la circoncisione – come invece facevano i giudei con i ‘timorati di Dio’ – per non ostacolare la conversione dei pagani, era considerata da alcuni una tattica opportunista, aliena alla volontà salvifica di Dio. Dobbiamo a Paolo l’essersi reso conto con lucidità e l’aver difeso con passione una pratica missionaria che non imponeva la giudeizzazione dei credenti giunti dal paganesimo; è vero che non era stato lui ad avviare questa prassi, ma l’aveva fatta propria con coerenza e convinzione (At 11,22). Paolo parla della distinzione tra il ‘vangelo della incirconcisione’ da lui predicato e il ‘vangelo della circoncisione’ (Gal 2,7), che faceva capo a Pietro. Da notare che si tratta di due espressioni uniche in tutta la letteratura antica. In tal modo l’unico vangelo (Gal 1,6-9) viene accolto diversamente, secondo la prospettiva ‘culturale’ degli ascoltatori; ad essere predicato è sempre e solo Cristo Gesù; ma non nello stesso modo e non con le stesse applicazioni pratiche, per giudei e gentili.


Unità nella fede, diversità nel suo vissuto


Dietro queste vicende si nasconde un paradigma, ossia una norma che può orientare l’azione: inizia infatti un grande cambiamento nella storia del giudaismo, al quale nasce un erede delle proprie promesse; questo non si sente obbligato ad osservare la legge, che fino allora costituiva l’unica garanzia per partecipare all’alleanza con Dio. Tale fatto è ancor più decisivo per l’origine della comunità cristiana, poiché si stava già vivendo il vangelo di Gesù, ‘indipendente dalla legge mosaica’ (Rm 3,21), liberato, quindi da quella cultura ebraica che fino ad allora era stata suo grembo e rivestimento.

Era in gioco nientemeno che la [auto]coscienza della comunità cristiana, la quale si vedeva progressivamente slegata dalla legge di Mosè e, quindi, non più solo giudea. Non che la legge fosse diventata inutile; essa aveva conservato il suo valore, ma solo per alcuni, mentre la fede nel Signore Gesù era offerta a tutti e per la salvezza di tutti. I seguaci di Cristo, giudei o gentili che fossero, diventavano, da quel momento e per sempre, il nuovo popolo di Dio, il vero Israele.

Se ai convertiti dal paganesimo non si doveva imporre altra servitù se non il giogo soave della fede in Cristo, le comunità pagano-cristiane venivano riconosciute membra a pieno diritto del corpo che è la Chiesa; al suo interno tutti vivevano l’unica fede, ma non tutti in modo uguale. Come Paolo scriverà a metà degli anni cinquanta, ognuno deve continuare a vivere ‘secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore’ (1 Cor 7,17): come il pagano non deve farsi giudeo per poter essere cristiano, ugualmente il giudeo non dovrà smettere di vivere da giudeo per diventare cristiano. In tal modo la vita cristiana si declina in una pluralità di culture poiché non esiste un’unica cultura esclusivamente cristiana.

Per le comunità giudeo-cristiane e per l’evangelizzazione dei giudei rimanevano in vigore le prescrizioni valide fino a quel momento. Ma si era infranta quella concezione giudaica della legge, della storia della salvezza e del popolo di Dio, che non tollerava accanto a sé l’esistenza di un’altra via di salvezza. Questo supponeva un grande cambiamento – doloroso certamente – per i primi cristiani che erano tutti giudei: potevano continuare ad obbedire alla legge (1 Cor 9,20-21), come parte dei loro usi e costumi ancestrali, ma non potevano escludere i fratelli non giudei dalla fede. Si mirava così non alla fusione di gruppi culturalmente eterogenei, puntando sulla fraterna convivenza, ognuno conservando la propria identità.


Ricordarsi dei poveri


L’accordo raggiunto da ambedue le parti sanciva la possibilità d’un annuncio del vangelo ad un doppio uditorio, quello dei pagani e quello degli ebrei, ed affermava l’uguaglianza di diritto tra le due missioni, del resto ormai in atto: si poteva, anzi si doveva, essere cristiani alla maniera dei giudei o alla maniera dei pagani (cf. Gal, 2,14). Diversa risultava la forma di vivere la fede, mentre essa rimaneva unica, come unica era la vita comune.

Questa unità, suggellata da una stretta di mano “in segno di comunione” (Gal 2,9), fu confermata da una richiesta di “ricordarsi dei poveri” che Paolo e Barnaba si affrettarono ad assumere. Il fatto non è insignificante. Paolo confessa subito che prese molto a cuore tale impegno; ed infatti, raccogliere soldi per i poveri di Gerusalemme diventò per lui parte integrante della sua missione evangelizzatrice (cf. Gal 2,10; Rm 15,25-26; 1 Cor 16,1-3; 2 Cor 8-9). I ‘poveri’ da ricordare erano i cristiani giudei della Palestina, che in un momento di grande entusiasmo per un immediato ritorno del Signore, avevano messo a disposizione della comunità “proprietà e sostanze” (At 2,45; 4,32-35). Non dimenticarli diventò per Paolo un compito pastorale importante per irrobustire la comunione tra le chiese diverse (cf. 1 Cor 11,23-26; Rm 15,27), tanto decisivo che arrivò a considerarlo come culto e lui come ministro di Cristo (Rm 15,16).

Il ‘ricordo’ non si riduceva solo ad un aiuto economico, ma realizzava concretamente l’unità delle Chiese; era come saldare un vicendevole ‘debito d’amore’ tra di esse (Rm 13,8). Paolo non poteva concepire che un credente, giudeo o pagano, pensasse di non aver bisogno dell’altro (cf. 1 Cor 12,14-26).


Una convivenza problematica come risultato


Una questione importante lasciata irrisolta dall’assemblea, a giudicare dalla testimonianza di Paolo stesso (cf. Gal 2,11-21), fu la libera partecipazione alla mensa comune da parte dei cristiani provenienti dal mondo pagano. La resistenza sociale e culturale dei cristiani giudei a sedere a tavola con chiunque (Lv 17,8-14; 18,6-9) rispondeva ad un timore ancestrale e profondo – logico presso comunità sempre in minoranza – di venire assimilati e di perdere la propria identità. Due modelli di missioni, con diverse esigenze rituali e culturali, non potevano che mettere in difficoltà la vita d’insieme. La convivenza tra giudei e pagani, all’interno della stessa comunità cristiana, veniva così minacciata. Non sarebbe stato meglio confessare la stessa fede in comunità separate da barriere sociali, culturali, religiose?

Anche se per motivi diversi, né Luca né Paolo assecondarono tale proposito; Luca menziona il così chiamato ‘decreto apostolico’ (cf. At 15,13-29; 21,25). In esso si proibisce di mangiare carne sacrificata agli idoli (Lv 17,8; 1 Cor 8,10), si ordina di astenersi dal sangue (Lv 17,10-12) e dalla carne di animali soffocati (cf. Gn 9,4; Lv 17,15; Dt 14,21); si ordina di evitare unioni illegali (matrimonio tra consanguinei?) (cf. Lv 18,6-18; 1 Cor 5,1-13). Questi precetti, cultuali in origine, si basavano su ordinanze vetero-testamentarie per pagani residenti in Israele (cf. Lv 17-18); e, secondo la tradizione rabbinica, facevano parte dei sette comandamenti che avrebbero dovuto obbligare ogni uomo.

La stessa esistenza del decreto presuppone nella comunità cristiana una duplice presenza, ebraica e pagana, ed attesta il permanere di difficoltà in quella vita comune che la missione tra i gentili aveva fatto sorgere. I divieti, di cose ‘abominevoli’, riguardavano l’appartenenza alla comunità giudeocristiana degli ‘etnico cristiani’, e puntavano a facilitare i rapporti tra i due gruppi, miravano quindi a favorire la convivenza, eliminando le connotazioni più ripugnanti che gli ebrei associavano ai pagani. Imponendo solo questi obblighi agli ‘etnico cristiani’ (At 15,29), non si metteva in discussione la loro identità cristiana; anzi si sanciva la libertà dalla circoncisione e dalla legge, ma si chiedevano alcune rinunce, di tipo culturale, per facilitare ai giudei cristiani la comunione di vita. Di qui un principio: più importante della propria cultura è il fratello per il quale Cristo è morto, come dirà Paolo altrove (1 Cor 8,11).

Paolo pare ignorare questa imposizione: non ne fa parola nella sua cronaca dei fatti (Gal 2,9) e non compare mai nelle sue lettere, anche se in qualche occasione ha dovuto affrontare problemi simili (cf. 1 Cor 5-6; 8,1-11,1; Rm 14). In ogni caso, presto divenne evidente la mancanza di una regolamentazione che riconoscesse, a tutti gli effetti, i cristiani provenienti dal paganesimo come fratelli amati da Dio.


Il fatto e il principio


In ragione di queste tensioni, all’interno della comunità cristiana degli anni cinquanta si era creata una pericolosa situazione prossima allo scisma, che l’assemblea di Gerusalemme volle e seppe superare. Si riconobbe, non senza fatica, che il cristianesimo nascente non era solo un movimento messianico di stampo giudaico. Se viva poteva essere la coscienza della propria identità, ancor più viva doveva essere la difesa dell’universalità della salvezza.

L’assemblea di Gerusalemme ci offre degli spunti per dare soluzione ai nostri problemi nell’inculturazione del vangelo, offrendoci delle piste circa il modo di affrontarli e di risolverli. Possiamo imparare a vedere:

1°Che i veri problemi delle comunità cristiane sono quelli che nascono dalla predicazione del vangelo. La preoccupazione per salvare il vangelo in tutta la sua verità (Gal 2,5.14) fu posteriore al lavoro svolto nella missione e risulta una logica conseguenza del medesimo. Ancora: riguardo al problema trattato a Gerusalemme, i cristiani non avevano soluzioni previe; le cercarono in comunità, attraverso il dialogo e il discernimento fraterno.

2°Che la predicazione del vangelo, dovendo adattarsi a giudei e gentili, obbedisce alla concretezza storica e deve adattarsi alle necessità degli uditori; proprio per questo non mancheranno problemi per la confessione dell’unica fede e per la vita in comune. Ma tali problemi, per quanto inevitabili, non possono rompere la comunione che nasce dall’unica vocazione alla salvezza.

Se per comunicare la salvezza all’uditore della Parola, la predicazione del vangelo deve essere ‘inculturata’, per vivere la comune salvezza la cultura propria è negoziabile; è lo stesso Paolo che lo testimonia: “Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i giudei per guadagnare i giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge … Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro” (1Cor 9:19-23). Invece è il fratello per il quale è morto il Signore che non può mai essere sacrificato. Il limite invalicabile nell’annuncio del Vangelo non è dunque la cultura che lo veicola né quella che lo accoglie, ma il compagno di fede a cui non si può mai rinunciare. La ragione è che la stessa cultura, per quanto importante, non ha valore assoluto, perché assoluto è solo l’amore.


4.Guardando Don Bosco


Negli anni settanta Don Bosco arrivò “all’acme della sua intraprendenza e dalla sua operosità”, guidato unicamente dal “fine primario assunto da sempre come missione di vita: la salvezza dei giovani, l’assistenza, l’educazione”29: alla cura e all’espansione delle ormai numerose opere giovanili si erano aggiunte le sollecitudini e i faticosi processi per dar vita ed ottenere il riconoscimento giuridico delle organizzazioni di sostegno e di animazione, quali erano la Congregazione salesiana, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e l’Unione dei Cooperatori salesiani. “Contemporanea a questa sorgeva nel 1875 l’ultima iniziativa, quella missionaria … Ne conseguiva rapidamente l’universalizzazione dei metodi educativi e del cosiddetto spirito salesiano, dando vita a un movimento operativo e spirituale virtualmente vasto come il mondo”.30

L’ideale missionario aveva sempre accompagnato Don Bosco31: visse in un periodo di forte risveglio missionario, per cui la sua chiamata ad essere apostolo dei giovani nacque e si sviluppò come “un’estensione dell’idea germinale …, quella della conquista delle anime mediante l’educazione cristiana della gioventù, particolarmente povera, e mediante lo stile e i mezzi per essa concepiti” 32 nel suo sistema pedagogico. E così, per Don Bosco le missioni diventarono “l’area privilegiata dove poter esercitare la sua peculiare vocazione di apostolo dei giovani”. 33 Man mano che andava scoprendo i disegni di Dio, si orientava verso due progetti diversi ma complementari: “continuò a rivolgere la sua attenzione al problema missionario e, contemporaneamente, cominciò a carezzare l’idea della fondazione di un proprio Istituto”.34

Certo, l’evangelizzazione della Patagonia fu missio ad gentes, vera plantatio Ecclesiae, che venne preceduta intenzionalmente dalla presenza dei missionari salesiani tra gli emigrati italiani a Buenos Aires e a San Nicolás de los Arroyos, 250 km a nordovest della capitale, non solo per ragioni di vicinanza culturale e di appoggio affettivo, (infatti “non si sarebbero trovati isolati, ma tra amici, tra connazionali”35), ma soprattutto perché la disastrosa situazione religiosa e morale degli immigrati rendeva “più necessaria la presenza tra gli italiani che tra gli indigeni”.36 Don Bosco accettò che i suoi si adoperassero in primo luogo nel ministero sacerdotale e nell’educazione dei ragazzi delle famiglie operarie italiane, un apostolato non molto diverso da quanto i Salesiani portavano avanti ovunque, ritenendo, tra l’altro, che così i suoi missionari avrebbero potuto prepararsi meglio alla missione tra i “selvaggi”, come lui li chiamava37, in obbedienza al comando del Signore.38 Nella sua più profonda intenzione, infatti, il primato spettava alle ‘missioni’ nella Patagonia.39

Ma tanto nell’apostolato tra gli immigrati italiani quanto nelle presenze missionarie tra gli aborigeni, Don Bosco privilegiava i giovani più bisognosi e curava l’offerta educativa: “Noi, e l’ho veduto io nel sogno – è Don Bosco che parla -, sappiamo che va avanti e può fare gran bene il missionario che sia circondato da una buona corona di giovani”.40 E parlando con il Papa dell’evangelizzazione della Patagonia, dice che pensava di “tentare di fare un cordone di collegi che la circuissero, quasi dividendola dal resto dell’America”.41 “Qui appunto, racconta Don Barberis, egli fondava le sue rosee speranze di un avvenire felice delle proprie missioni, nell’attaccarsi dei nostri alla gioventù povera: chi si mette per questa strada, affermò il Beato, non dà più indietro”.42

L’opzione di “attaccarsi alla massa del popolo coll’educazione della povera gioventù”43 non fu solo un indovinato, perché efficace, metodo di evangelizzazione44 ma fu ed è la scelta strategica che definisce la dimensione missionaria del carisma salesiano45: “senza educazione, in effetti, non c’è evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura”.46

Le missioni apparivano fino al 1966 nelle Costituzioni come una delle opere apostoliche “a pro’ della gioventù, specialmente povera ed abbandonata” (art. 7) e nelle attuali Costituzioni si dice che il lavoro missionario, ravvisato come “lineamento essenziale della nostra Congregazione”, “mobilita tutti gli impegni educativi e pastorali propri del nostro carisma” (Cost 30).

Alla morte di Don Bosco la presenza salesiana in America si era insediata in Argentina, Uruguay, Brasile, Cile ed Ecuador. Diverse nazioni, bisogni e risposte differenti, ma la strategia missionaria di Don Bosco restò invariata. Egli aveva tale fiducia in questa sua intuizione che non dubitò di predire (1876) un futuro lusinghiero alla sua strategia missionaria: “Col tempo sarà adottato anche in tutte le altre missioni. Come fare diversamente per l’Africa e per l’Oriente?”.47

Impegnati come siamo nel portare Dio ai giovani, accogliamo, cari confratelli, la sfida dell’inculturazione del carisma salesiano come parte fondamentale della nostra missione, “come un appello a una feconda collaborazione con la grazia nell’approccio con le diverse culture”48 dei giovani con i quali e per i quali lavoriamo. Guardiamo allora a Don Bosco, perché possiamo, anzi dobbiamo imparare da lui e dalla sua lungimirante sapienza apostolica, resa evidente nel trapianto della vita e missione salesiana in America, “la più grande impresa della nostra Congregazione”.49

Per questo voglio presentarvi alcuni elementi che considero irrinunciabili per impiantare e sviluppare il nostro carisma ovunque noi portiamo avanti, da Salesiani, la missione della Chiesa. Vivendo e lavorando in tutti i contesti politici, sociali, culturali e religiosi pensabili, abbiamo bisogno di essere identificati sempre con Don Bosco, con le sue non negoziabili opzioni pastorali e con la sua azzeccata metodologia pedagogica.


Un gesto molto mirato


Quando il Venerabile Don Bosco inviò i primi suoi figliuoli in America”, scriveva don Rua il 1° dicembre 1909, “volle che la fotografia lo rappresentasse in mezzo a loro nell’atto di consegnare a Don Giovanni Cagliero, capo spedizione, il libro delle nostre Costituzioni. Quante cose diceva Don Bosco con quell’atteggiamento! Era come dicesse: Voi traverserete i mari, vi recherete in paesi ignoti, avrete da trattare con gente di lingue e costumi diversi, sarete forse esposti a gravi cimenti. Vorrei accompagnarvi io stesso, confortarvi, consolarvi, proteggervi. Ma quello che non posso fare io stesso, lo farà questo libretto”.50

Don Rua si riferiva alla storica fotografia che oggi - indovinata scelta! - fa parte delle nostre Costituzioni, introducendo il testo.51 In essa, e con una posa espressamente scelta da lui, Don Bosco immortalava la consegna personale del libro delle Costituzioni a Don Cagliero; per mezzo di esse, consegnava se stesso. Che Don Bosco sia presente nelle Costituzioni non è una creazione ingegnosa dei suoi successori;52 l’identificazione proviene dallo stesso Don Bosco, infatti voleva che i suoi figli considerassero le Costituzioni come caro ricordo di lui, suo testamento vivo53: “Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire colla esatta osservanza delle nostre costituzioni”, scrisse nel suo Testamento spirituale.54 A ragione, la tradizione salesiana, da Don Rua in poi, ha visto nelle Costituzioni “sempre presente Don Bosco, il suo spirito, la sua santità”.55

L’inculturazione del carisma salesiano ha, dunque, come requisito previo e ineludibile la pratica delle Costituzioni, una pratica gioiosa e fedele, sine glossa, ma confacente ai tempi e luoghi della missione, aperta alla cultura dell’ambiente e dei giovani, una pratica tale che, oltre a assicurarci l’obbedienza alle sue parole e l’assimilazione delle sue scelte, sia l’espressione credibile dello “stare con lui” e impegno filiale di “fare come lui” per la salvezza dei giovani. Don Bosco ci potrà accompagnare là dove siamo stati inviati, ci conforterà e consolerà, ci proteggerà e guiderà, se noi ci immedesimeremo con lui, vivendo come lui. Vivere le Costituzioni è incarnare Don Bosco: il salesiano che pratica le Costituzioni rappresenta Don Bosco e lo fa ritornare ai giovani. Per essi, nulla di più urgente: ne hanno bisogno, e ne hanno diritto.


Alcuni ricordi speciali”


Nel discorso tenuto durante la solenne ed emozionante celebrazione di congedo dei primi salesiani missionari56 l’11 novembre 1875, Don Bosco promise di lasciar loro “alcuni ricordi speciali, quasi paterno testamento a figli che forse non avrebbe più riveduti. Li aveva scritti a matita nel suo taccuino durante un recente viaggio in treno, e fattene tirare copie, le consegnò di sua mano ai singoli, mentre si allontanavano dall’altare di Maria Ausiliatrice”.57

Autografo e quasi senza correzioni, il breve testo sembrerebbe una raccolta di svariati consigli di natura in prevalenza ascetica; sono, in realtà, “spunti per un vero trattato di pastorale missionaria pratica,”58 “una breve sintesi di pastorale e di spiritualità missionaria,”59 centrata in quattro idee-forza: zelo per la salvezza delle anime; carità fraterna, apostolica ed educativa; profonda vita religiosa ed elementi di strategia missionaria.

Quando Don Bosco redasse i ‘Ricordi’ tra il settembre e l’ottobre del 1875, la sua esperienza missionaria era scarsa, ed inesistente quella dei suoi figli. Scrive poco prima di inviare la prima spedizione, forzato dalle circostanze e preso da una tenerezza paterna verso i suoi giovani missionari con la quale “si studiava di contentarli, comunicando ad essi i tesori della sua esperienza”60, un’esperienza acquisita nel contatto, personale o epistolare, con grandi missionari durante e dopo il Concilio Vaticano I, e che lui stesso andrà maturando durante gli anni successivi mentre realizzerà il suo progetto missionario in America.61

Ciò nonostante, Don Bosco insistette ripetutamente perché i ‘Ricordi’ non venissero dimenticati. Erano ancora i primi missionari in alto mare verso l’Argentina e già chiedeva a Don Cagliero di leggere “insieme i ricordi che vi ho dato prima della vostra partenza”62, ed è una richiesta che ripeterà sovente.63 Infatti, durante la decade 1875-1885 la sua corrispondenza non sarà altro che “una calda raccomandazione, esplicita o implicita, dei ‘Ricordi’”.64

Perché Don Bosco dava tanto valore a questi consigli, pur non essendo un esperto missionario e non avendo specifica competenza sul tema? Senza dubbio, perché gli interessava che i suoi giovani missionari curassero la vita religiosa, personale e comunitaria, mantenendosi fedeli alle opzioni tipicamente salesiane; questo riteneva più importante ancora dell’essere e presentarsi come abili apostoli e competenti missionari. Tutto nasceva dalla consapevolezza che la missione in Argentina era la prima missio ad gentes che intraprendeva, che i suoi giovani missionari avrebbero dovuto dar vita a nuove forme di apostolato, sia tra gli emigrati che con gli indigeni, che avrebbero dovuto trapiantare un carisma non ancora ben definito e per di più lontani da lui e dall’ambiente religioso e culturale nel quale erano cresciuti.

A mio avviso, nei ‘Ricordi ai missionari’ si può cogliere la preoccupazione del Fondatore, quasi l’apprensione del Padre65 per il destino della missione; e ciò fin dagli albori di quella stupenda impresa salesiana che fu la presenza in Argentina. Sono da identificare pure direttive per spronare attività e presenze missionarie e, più decisive ancora, alcune tracce sicure per affrontare con sicurezza la sfida attuale dell’inculturazione del carisma salesiano. Quanto sto per accennare non è, certo, tutto ciò che si deve fare, ma, e ne sono convinto, è l’essenziale; altro potrà esserci, ma questo non dovrà mancare. È lo stesso Don Bosco che ci parla:


«Noi vogliamo anime, e non altro»


L’obiettivo assoluto, ragione fondamentale, dell’avventura missionaria, punto di partenza e criterio di verifica per qualsiasi sforzo d’inculturazione salesiana, non è diverso – non poteva esserlo – da quello della Congregazione, la salvezza cioè delle anime, nient’altro. Don Bosco lo ribadisce fin dal primo momento ai missionari, nelle parole di congedo (“Dio […] vi manda pel bene delle loro anime”66) e nel primo dei ricordi consegnati (“Cercate anime, ma non denari né onori, né dignità”67). Lo ripeterà costantemente nelle lettere ai missionari – fatto significativo – più giovani.68 Dieci anni dopo scriverà a Don Lasagna: “Noi vogliamo anime e non altro. Ciò procura di far risuonare all’orecchio dei nostri confratelli”. E nel letto di morte, in un momento di “grande travaglio”, disse a Mons. Cagliero “queste sole parole: Salvate molte anime nelle missioni”.69


«Ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i fanciulli poveri ed abbandonati»


Tra i tratti caratteristici della strategia missionaria di Don Bosco il più originale e significativo fu la sua “scelta di classe”, “una scelta costante e indeclinabile, quella che si muove sulle due linee parallele dei poveri e dei giovani … Nei luoghi di missione questo è di una evidenza solare”.70 Don Bosco volle che l’opzione fondamentale, sua personale e della giovane Congregazione, fosse trapiantata in America dai suoi primi missionari: lo manifesta nel quinto consiglio (“Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri”71), che ripeterà quasi con le stesse parole dieci anni dopo: “abbi una cura speciale dei fanciulli, degli ammalati, dei vecchi”.72

Non era passato un anno dalla prima spedizione e già stava pensando ad inviare altri “venti eroi per l’altro mondo”, quando scrive a Don Cagliero: “Fa’ quello che puoi per raccogliere giovanetti poveri, ma preferisci quelli, se è possibile averne, che provengono dai selvaggi”;73 e quindici giorni dopo insisteva: “Ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i Pampas e i Patagoni e verso i fanciulli poveri ed abbandonati”.74 Che questa predilezione non fosse semplice tattica opportunistica risulta palese nel suo ‘Testamento’, quando dopo aver augurato “un lieto avvenire” alla Congregazione “preparato dalla Divina Provvidenza”, aggiunge: “Il mondo ci riceverà sempre con piacere fino a tanto che le nostre sollecitudini saranno dirette ai selvaggi, ai fanciulli più poveri, più pericolanti della società”.75 Servire ed evangelizzare i giovani, e tra essi i più bisognosi, è la nostra ragione d’essere nella Chiesa (Cost 6), un tratto “molto specifico del carisma di Don Bosco”.76 Là dove saremo inviati, dovremmo scegliere i giovani, e tra essi i più sviati o abbandonati, se vogliamo essere veri salesiani. Sta a noi, presenti in tutto il mondo e vicini a tanti giovani, incarnare Dio ed inculturare la missione salesiana.


«Cominciata una missione, lo sforzo sia sempre a fare e stabilire delle scuole»


I missionari inviati da Don Bosco in Argentina non ‘dovevano’ aprire scuole per assistere gli immigrati italiani né per evangelizzare gli indigeni. Se si azzardarono a farlo fu per indicazioni precise di Don Bosco. “Cominciata una missione all’estero … – annotò nel ‘Testamento spirituale’ – lo sforzo sia sempre a fare e stabilire delle scuole”.77 E infatti la strategia missionaria messa in atto nella Patagonia, per la quale Don Bosco stesso confessava: “Desidero solamente di impiegare gli ultimi giorni della mia vita”78, si realizzò mediante scelte pienamente educative: “aprire collegi nelle città confinanti con le terre degli Indi, accogliervi figli di selvaggi, avvicinare per loro mezzo gli adulti. Era una tattica analoga a quella che nella lunga esperienza di educatore e dirigente di opere educative aveva trovato efficace nei paesi civili”.79

Missio ad gentes e educazione non erano per Don Bosco due attività apostoliche diverse o successive; era convinto (ed è una caratteristica propria del suo fare missione nella Chiesa)80 che per una missione efficace ci si doveva prodigare nell’educazione della gioventù. “Il fulcro dell’azione e il principio vitale della missiologia salesiana è […] la redenzione degl’infedeli per mezzo del ministero educativo tra la gioventù e i fanciulli … Dove la missione è salesiana, accanto e insieme alla funzione sacerdotale, si vuole che vi sia il ministero e il magistero della scuola. Tutte le case salesiane […] sono una scuola …, uno strumento specifico della penetrazione cristiana”.81

Questa scelta strategica di Don Bosco, cari confratelli, ci deve far pensare; e ci invita a ripensare, e magari, perché no, a riorganizzare la nostra offerta apostolica: se i giovani sono “la patria della nostra missione” (Don Egidio Viganò), la loro educazione è il nostro cammino ordinario per avvicinarli e il modo stabile di restare con loro come portatori del Vangelo. Una nostra presenza che non sia chiaramente educativa, un’Ispettoria che non promuova la formazione, formale o informale, dei giovani, … come si potrebbe chiamare salesiana? Moltiplicare e irrobustire la nostra offerta educativa in tutto il mondo e in ciascuna delle nostre opere è un modo autentico di inculturare il nostro carisma.


«Dio chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni ecclesiastiche fra la gioventù povera»


Appena dato avvio ad una missione, lo sforzo per stabilire delle scuole ebbe come obiettivo di “tirare su qualche vocazione per lo stato ecclesiastico o qualche suora tra le fanciulle”.82 Cercare e formare delle vocazioni fu per Don Bosco il progetto ‘nascosto’ che guidava le sue scelte più decisive, soprattutto nel campo educativo.83 Come scrisse nel ‘Testamento spirituale’, era convinto che “Dio chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni ecclesiastiche fra la gioventù povera e di bassa condizione”.84

Erano appena trascorsi sei mesi dalla prima spedizione quando, nel luglio del 1876, aveva chiesto e ricevuto la facoltà di aprire un noviziato in America; i salesiani – solo dieci e molto giovani85 - avevano trovato, racconta a Pio IX, “parecchi giovani, che manifestano volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, e sette di essi dietro loro domanda vennero accettati nella Congregazione Salesiana. Loro desiderio si è di farsi missionari e recarsi, dicono essi, a predicare tra i selvaggi”.86

Oltre a segnalare l’entusiasmo vocazionale che provocò la presenza dei giovani missionari, questa annotazione svela pure l’intenzionalità profonda di Don Bosco: far sì che “i patagoni evangelizzassero i patagoni”. Avere vocazioni indigene era per lui “lo strumento più adatto per attrarre gli adulti alla fede, per dare alla Patagonia il suo nuovo volto cristiano e civile”.87 Le vocazioni native erano, dunque, il mezzo da privilegiare per portare avanti ed assicurare l’educazione e l’evangelizzazione nelle missioni. “Hanno già cominciato a manifestarsi [vocazioni] tra gli indigeni, e spero che di qui a qualche anno non saranno più necessarie se non rare spedizioni [di nuovi missionari]”.

Dovunque andrai – scrive a don Fagnano, appena nominato Prefetto Apostolico della Patagonia meridionale – cerca di fondare scuole, fondare anche dei piccoli seminari a fine di coltivare o almeno cercare qualche vocazione per le suore e pei salesiani”.88 E nel memoriale presentato a Leone XIII, enumererà tra gli scopi delle missioni salesiane in America, “aprire ospizi in vicinanza de’ selvaggi perché servissero di piccolo seminario e ricovero per i più poveri ed abbandonati. Con questo mezzo farci strada alla propagazione del vangelo tra gli indi”.89

Don Bosco era così convinto dell’urgenza di una promozione vocazionale tra gli indigeni e dell’immediato successo che avrebbe conosciuto, che prima di inviare i missionari, offre loro, sempre nei ‘Ricordi’, un “piccolo trattato” per coltivare le vocazioni ecclesiastiche, centrato tutto sull’amore, la prevenzione e la frequenza dei sacramenti.90

Che lui vivente non abbia visto realizzato il suo sogno,91 non toglie, anzi rinforza, il vigore della sua convinzione. Come lui, noi Salesiani, “siamo convinti che tra i giovani molti sono ricchi di risorse spirituali e presentano germi di vocazione apostolica” (Cost. 28). La mancanza di vocazioni vissuta in alcune Ispettorie e la fragilità vocazionale che ci colpisce un po’ dappertutto ci sfidano ancor più che nei giorni di Don Bosco a “creare una cultura vocazionale in ogni ambiente, in modo che i giovani scoprano la vita come chiamata”.92

Una pastorale, anche se ben progettata ed efficace nei risultati, ma che non promuova una cultura vocazionale nelle nostre presenze non sarebbe salesiana. Norma, criterio e percorso d’inculturazione del carisma salesiano è stata e deve rimanere la promozione delle vocazioni nella Chiesa. Il risveglio delle vocazioni non è solo prova dell’efficacia del nostro lavoro apostolico; ancor più esso è realizzazione del nostro specifico carisma.


«Tutti, tutti, potete essere veri operai evangelici»


Nel trapiantare vita e missione salesiana in America, Don Bosco sempre fece affidamento su tutte le forze vive che vi si potevano trovare, sia all’interno della sua famiglia religiosa, sia nella Chiesa e nella società. Primi fra tutti, i Salesiani coadiutori, che non mancheranno in nessuna spedizione a partire dalla prima; infatti, tra gli otto pionieri della missione in Patagonia, nel gennaio 1880, ci sarà pure un coadiutore, come aveva promesso Don Bosco all’Arcivescovo di Buenos Aires, oltre che per il lavoro catechistico,93 per insegnare “l’agricoltura con le arti e i mestieri più usuali”.94

Più caratteristica del pensiero di Don Bosco fu la presenza tempestiva e numerosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Le sei prime Salesiane – tre dei quali erano minori di età, mentre la Superiora, Sr. Angela Vallese, aveva appena 24 anni – si unirono al progetto missionario di Don Bosco nella terza spedizione, alla fine del 1877.95 La loro presenza era alquanto inusuale: “è la prima volta che si vedranno Suore […] in quelle remote regioni”. Ma fu presto giudicata provvidenziale; la loro proverbiale carità contribuì “senza dubbio moltissimo alla conversione degli indi”,96 e all’educazione di fanciulle povere ed abbandonate. Nel 1884 avevano educato un centinaio circa di ragazze e condotto altrettante verso una vita edificante. Nel 1900 c’erano già le prime professe indigene.97 Accomunati nella missione pratica, Salesiani e Salesiane, trapiantarono insieme la vita e il carisma salesiano in America.

Coapostoli della Patagonia”, “strumento di salute di migliaia di giovanetti”,98 furono i Cooperatori, presenti ed operanti nell’antico e nel nuovo continente, e visti da Don Bosco come il fronte esterno, l’appoggio morale, spirituale e materiale alle sue iniziative apostoliche. Quando “invitato formalmente a prendere cura dei Patagoni”, dice di essere giunto “il tempo di misericordia per quei selvaggi”, scrive ai Cooperatori testimoniando che solo “pieno di fiducia in Dio e nella vostra carità ho accettato l’ardua impresa”.99 Fede in Dio e fiducia nella carità dei buoni furono le risorse che sottostavano ai suoi sogni apostolici. Proprio per questo vedeva la presenza dei Cooperatori “quasi una necessità per ogni casa salesiana, perché abbia vita e riceva incremento”.100

Sempre spinto dalla necessità di soddisfare i bisogni “di personale e di danaro” dei missionari, Don Bosco volle incrementare il gruppo dei Cooperatori: giovani ed adulti, sacerdoti e laici, vescovi e persino il Papa101, erano da lui invitati ad assumere il suo progetto apostolico: “quanti siete qui”, dirà nella celebre conferenza a Valdocco il 19 marzo 1876, “e preti, e studenti e artigiani e coadiutori, tutti, tutti, potete essere veri operai evangelici”.102

Non c’è dubbio; ravvisata l’illimitatezza del suo progetto missionario, e cosciente dell’insufficienza sua e delle sue istituzioni, Don Bosco ricercò collaborazioni sempre più vaste, dando origine di fatto, e non inconsapevolmente, a un movimento sia ecclesiale che civile, “un vasto movimento di persone che, in vari modi, operano per la salvezza della gioventù [e] vivendo nel medesimo spirito e in comunione tra loro, continuano la missione da lui iniziata” (Cost 5). Fare della Famiglia salesiana “un vero movimento apostolico a favore dei giovani”103 è per noi, oltre che un processo da attivare per convertire cuori, mentalità e strutture, una vera via di inculturazione del carisma. È un esercizio di fedeltà a Don Bosco. Sta a noi convalidare quanto a Don Bosco stava così a cuore e promuoverlo al suo stesso modo e per gli stessi fini.


«Fate che il mondo conosca che siete poveri»


Primo tra i ‘Ricordi’, quasi come principio basilare dell’impegno evangelizzatore dei missionari, Don Bosco registrò: “Cercate anime, ma non danari”. Non era all'oscuro della situazione in cui vivevano in Argentina la maggior parte dei preti italiani che erano venuti per accompagnare le migliaia di immigrati. “La maggioranza vengono, mi stringe il cuore a dirlo – gli scrisse l’Arcivescovo di Buenos Aires –, per far quattrini e niente altro”104.

Proprio perché la scarsità di risorse, di personale e di finanziamenti, era proverbiale nelle imprese apostoliche di Don Bosco, e poiché “la nostra deve essere povertà di fatto … nella cella, negli abiti, nella mensa, nei libri, nei viaggi, etc.”,105 i primi missionari vivevano nella strettezza e in mezzo a grandi difficoltà; quando a Don Tomatis fu domandato cosa mangiavano di solito in comunità, rispose con un sorriso: “Di mattina, pane e cipolla; alla sera, cipolla e pane”.106

Nulla di strano che Don Bosco non insistesse troppo su questo argomento nelle lettere che inviava ai missionari; si mostrava piuttosto preoccupato, e tanto, dei debiti contratti o delle restituzioni di prestiti, un tema, questo, presente nelle regolari comunicazioni ai Cooperatori. La sua fu una povertà austera, industriosa, ricca di iniziative (“nelle nostre strettezze faremo ogni sacrificio per venirvi in aiuto”107), sorretta da un’incrollabile fiducia nella Provvidenza. Ma proprio perciò, poiché le prime comunità missionarie sussistevano “da prestiti e senza una cooperazione organizzata”108, risulta molto più rilevante il consiglio di Don Bosco: “Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni, e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini”.

Per Don Bosco era valore indiscusso la povertà nella vita personale, e non l’indigenza di mezzi nelle opere educative.109 Come raccomandazione fondamentale diretta a tutti i Salesiani, lasciò scritto nel suo ‘Testamento spirituale’: “Amate la povertà […] Procurate che niuno abbia a dire: questa suppellettile non dà segno di povertà, questa mensa, questo abito, questa camera non è da povero. Chi porge motivi ragionevoli di fare tali discorsi, egli cagiona un disastro alla nostra congregazione, che deve sempre gloriarsi del voto di povertà. Guai a noi se coloro da cui attendiamo carità potranno dire che teniamo vita più agiata della vita loro”. E mise il futuro della Congregazione annodato alla povertà di vita dei suoi membri: “La nostra congregazione ha davanti un lieto avvenire preparato dalla divina Provvidenza […] Quando cominceranno tra noi le comodità e le agiatezze, la nostra pia società ha compiuto il suo corso”.

Come Gesù inviò i suoi primi apostoli poveri ordinando loro che non prendessero nulla per il viaggio, poiché avevano il vangelo (cf. Mc 6,8), Don Bosco volle che i suoi salesiani fossero poveri per avere nei giovani poveri il loro tesoro: “le nostre sollecitudini saranno dirette ai selvaggi, ai fanciulli più poveri, più pericolanti della società. Questa è per noi la vera agiatezza che niuno invidierà e niuno verrà a rapirci” .110

I nostri destinatari prioritari, i giovani più bisognosi, sono la ragione del nostro ‘sposare’ la povertà apostolica, la cui testimonianza “aiuta i giovani a superare l’istinto del possesso egoistico e li apre al senso cristiano del condividere” (Cost. 73). Annunciare con la vita che Dio è l’unico nostro tesoro, ci distacca da tutto ciò che rende insensibili a Dio, mentre ci fa aperti e disponibili alle esigenze dei giovani. Vivere realmente la povertà evangelica là dove siamo stati inviati, oltre a realizzare il significato vero del cetera tolle, ci aiuterà a incarnare il carisma salesiano: è infatti un criterio sicuro che guida il suo impianto e verifica qualsiasi sua realizzazione storica.


«Con la dolcezza di San Francesco di Sales i salesiani tireranno a Gesù Cristo le popolazioni dell’America»


Don Bosco pensò l’attività missionaria in America in continuità con quanto aveva fatto e stava pensando di fare in Torino e nelle altre presenze d’Europa. “Gli obietti vagheggiati da questa missione” scriveva al Papa, erano “provvedere agli italiani e tentare un passo nei pampas […] Al primo si è già posto mano […] In quanto al secondo, di portar il vangelo tra selvaggi, si era stabilito di aprire dei collegi, degli ospizi, dei ricoveri vicino a quelle tribù”.111 La preferenza salesiana per la scuola e per i giovani nelle missioni era per Don Bosco convinzione assodata; però, evangelizzare educando o come lui si esprime “attaccarsi alla massa del popolo coll’educazione della povera gioventù”, era, in quanto metodo missionario, una novità non a tutti comprensibile. Inoltre, se già in uso, prestava il fianco ad alcuni insuccessi, perché, pensava Don Bosco, “coloro a cui si affidano giovanetti da educare, o non usano un metodo adatto, o non hanno spirito o sono inabili”.112

Proprio perciò, nei ‘Ricordi’ ai missionari, richiama l’attenzione al Sistema Preventivo. In realtà, non ce n’era bisogno. Lanciando i suoi nelle terre di missione, non faceva altro che trapiantare le grandi scelte, la metodologia pedagogica e lo stile di educazione che aveva adoperato a Valdocco ed in cui erano cresciuti ed educati i suoi stessi missionari. Ciò nonostante, insisterà che la carità apostolica (“Cercate anime …”, “prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri …) sia vissuta come carità fraterna (“Amatevi, consigliatevi, correggetevi, ma non portatevi mai né indivia, né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti … )113 e pedagogica (“Carità, pazienza, dolcezza, non mai rimproveri umilianti, non mai castighi, fare del bene a chi si può, del male a nissuno. Ciò valga pei salesiani tra loro, fra gli allievi, ed altri, esterni od interni”)114.

Benché Don Bosco desse per scontata la pratica del suo stile educativo, non fu facile il suo impianto in terre americane. Non tutte le case salesiane, scrive Don Rua a Mons. Cagliero, “son dirette con dolcezza e col sistema preventivo”; e Don Bosco invierà a Don Costamagna, Ispettore dal 1880, dopo la morte di Don Bodrato, una lettera che può considerarsi un breve trattato del pensiero educativo del Fondatore: “Il sistema preventivo sia proprio di noi; non mai castighi penali, non mai parole umilianti, non rimproveri severi in presenza altrui … Si faccia uso dei castighi negativi, e sempre in modo che coloro che siano avvisati, diventino amici nostri più di prima, e non partano mai avviliti da noi ... La dolcezza nel parlare, nell’operare, nell’avvisare guadagna tutto e tutti”.115

Oggi come ieri, in altri continenti come nel passato lo fu in America, ci sono vere sfide per la messa in pratica del sistema preventivo, dovute a ragioni culturali o alle mutate condizioni giovanili. Nel primo caso si constatano qua e là difficoltà per capirlo ed applicarlo e sovente si giustifica un atteggiamento non salesiano nei confronti dei giovani dicendo che in tale luogo del mondo la voce e il protagonismo appartengono agli adulti e che ai giovani corrisponde soltanto l’obbedire; in altri casi, lo stile educativo è improntato ad una forma di autoritarismo che non lascia spazio alla ragione e meno che meno alla amorevolezza. Infine, in altre parti del mondo diventa veramente difficile saper interpretare ed incarnare il sistema preventivo, specialmente dove i cambiamenti culturali hanno portato i giovani ad un alto livello di autonomia, così che sentono di avere tutti i diritti possibili senza alcuna responsabilità.

È assolutamente necessario conoscere bene il sistema preventivo per poter sviluppare le sue grandi virtualità, modernizzarne le applicazioni, reinterpretare le grandi idee di fondo (la maggior gloria di Dio e la salute delle anime; la fede viva, la ferma speranza, la carità teologico-pastorale; il buon cristiano e l’onesto cittadino; l’allegria, studio e pietà; sanità, studio e santità; la pietà, moralità, cultura; l’evangelizzazione e civilizzazione), i grandi orientamenti di metodo (farsi amare prima di farsi temere; ragione, religione, amorevolezza; padre, fratello, amico; familiarità, soprattutto in ricreazione; guadagnare il cuore; ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento). Tutto ciò per la formazione di giovani nuovi, capaci di trasformare questo mondo.

Mi sta a cuore dire che il sistema preventivo è un elemento essenziale del nostro carisma, che va conosciuto, aggiornato secondo lo sviluppo filosofico, antropologico, teologico, scientifico, storico, pedagogico, e che la sua inculturazione nella varietà dei contesti economici, sociali, politici, culturali e religiosi dove abitano i nostri destinatari è indispensabile, se vogliamo davvero essere fedeli a Don Bosco e inculturare il suo carisma. Mi azzardo a dire che questo è uno dei compiti più urgenti della Congregazione.


«Raccomandate costantemente la divozione a Maria Ausiliatrice ed a Gesù Sacramentato»


Elemento essenziale nella missione salesiana è la presenza di Maria, una convinzione tipicamente evangelica (cf. Gv 2,1.12; At 1,14) e certezza di fede vissuta intensamente da Don Bosco.116 Questa presenza attiva di Maria nella vita della Chiesa è stata ben descritta dal titolo di Ausiliatrice. Il ricordo di Don Bosco ai missionari raccomanda tale “divozione” che va coltivata con assiduità. “Noi qui – disse nel discorso di congedo – non lasceremo passare mai giorno senza raccomandarli [i primi missionari] a Maria Ausiliatrice e mi pare che Maria, la quale ora benedice la partenza, non potrà far a meno che benedire il progresso della missione”.117

Con l’imporsi del titolo di “Maria Ausiliatrice” il carisma salesiano si aprì all’orizzonte missionario e l’agire missionario salesiano si caratterizzò per la diffusione popolare della devozione a Maria Ausiliatrice, la celebrazione delle principali festività mariane, la pubblicazione di libretti e immagini, la costruzione di Santuari mariani in ogni parte del mondo, espressione tangibile di irradiazione del carisma apostolico ed educativo di Don Bosco. “La santa Vergine Maria – scrisse nel ‘Testamento spirituale’ – continuerà certamente a proteggere la nostra congregazione e le opere salesiane, se noi continueremo la nostra fiducia in Lei e continueremo a promuovere il suo culto”.118

La tradizione ininterrotta dal 1875 di consegnare il crocifisso ai missionari partenti nella Basilica di Maria Ausiliatrice esprime tale convinzione ed insieme diventa condizione originante e rinnovante il carisma salesiano nel tempo: Maria, come è rappresentata nella pala del Lorenzone, è Madre della Chiesa e Regina degli apostoli, che aiuta e accompagna l’opera salesiana nel mondo. Il crocifisso che viene consegnato esprime la possibilità concreta d'essere chiamati da Dio verso orizzonti di generosità senza limiti. Per tanti figli di Don Bosco il coraggio e la fedeltà li hanno resi capaci di dare la vita col martirio.

Frutto tipico di tale stile pastorale ed educativo, che visibilizza la presenza di Maria Ausiliatrice mediante l’innalzamento di santuari e l’erezione di statue a Lei dedicate, è la vittoria sulle logiche di contrapposizione e le azioni di violenza per la promozione di una cultura di pace e di riconciliazione tra popoli, gruppi e famiglie, esaltando la sua presenza di “Stella dell’evangelizzazione” nella nascita e nella crescita della Chiesa.

Originale è l’accostamento della devozione mariana al rapporto sacramentale con il Signore Gesù nell’Eucaristia. Ciò esprime che il nostro affidamento a Maria trova il suo vertice nell’accoglierla come “donna eucaristica”119: quanto più Maria ci rende eucaristici, tanto più realizza la sua missione, quella di portarci a Gesù, di farci portare Cristo in noi, di insegnarci a fare della nostra vita un sacrificio a Dio gradito, in unione al perfetto sacrificio del Figlio. In ottica tipicamente salesiana l’azione educativa e l’opera evangelizzatrice trovano nel rapporto con il Signore Gesù e Maria le “colonne”, il sostegno e l’espressione di una fede forte in Dio a cui nulla è impossibile e fiducia in Maria in cui Dio “ha fatto grandi cose” (Lc 1,49).

Cosa pensare, cari confratelli, di presenze salesiane, a volte più che centenarie, dove non siamo riusciti a far sentire ai nostri giovani e ai collaboratori la presenza materna di Maria o, peggio ancora, dove si è lasciato dilagare un progressivo allontanamento da Cristo Eucaristia? Potremmo chiamarle ‘salesiane’, anche se continuano ad educare ed evangelizzare? Credo, sinceramente, che se vogliamo restare fedeli al progetto originale del nostro Padre, Maria deve ritornare come motivo e guida della nostra evangelizzazione e l’Eucaristia come il suo centro di gravità e la sua forma missionaria.


Conclusione


Carissimi confratelli, come Congregazione noi abbiamo una splendida storia di inculturazione del Vangelo in terre di missione. Ci sono stati e ci sono Salesiani che si sono pienamente inseriti nei popoli, imparando la loro lingua, ricostruendo la loro cosmovisione, raccogliendo le loro tradizioni e costumi, elaborando grammatiche e dizionari, difendendo le loro terre e la loro organizzazione, costituendo federazioni di popoli indigeni. È una storia di cui non possiamo non essere fieri. Ad essi il nostro riconoscimento, la nostra stima ed ammirazione, la nostra riconoscenza. Tuttavia, in questa lettera, ho voluto piuttosto affrontare il tema della inculturazione dalla prospettiva non tanto del vangelo ma del carisma, ad indicare che in qualsiasi continente (Europa, America, Asia, Africa, Oceania, Digital Continent), in qualsiasi contesto (sociale, politico, culturale e religioso) e tipo di opera (di educazione formale, non formale, informale, primaria, secondaria, universitaria, di evangelizzazione o missione, di promozione sociale) il carisma deve essere inculturato. Ecco il perché dell’impegno ad evidenziare i criteri indicati dallo stesso Don Bosco nei suoi ‘Ricordi’ ai primi missionari. Essi continuano infatti ad essere il nostro punto di riferimento. Né destinatari, né missione, né metodo sono per noi un optional. Essi ci sono stati dati come eredità da assumere, custodire e sviluppare.

Mi piace concludere con due testi tanto eloquenti quanto impegnativi della Esortazione post-sinodale “Vita Consecrata”, che parlando appunto dell’arricchimento vicendevole tra inculturazione e carisma dice: “La sfida dell'inculturazione va accolta dalle persone consacrate come appello a una feconda collaborazione con la grazia nell'approccio con le diverse culture. Ciò suppone seria preparazione personale, mature doti di discernimento, fedele adesione agli indispensabili criteri di ortodossia dottrinale, di autenticità e di comunione ecclesiale. Col sostegno del carisma dei fondatori e delle fondatrici, molte persone consacrate hanno saputo avvicinarsi alle diverse culture nell'atteggiamento di Gesù che «spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2, 7) e, con un paziente ed audace sforzo di dialogo, hanno stabilito contatti proficui con le genti più varie, a tutte annunciando la via della salvezza”.120 E al numero seguente aggiunge: “Un’autentica inculturazione aiuterà, a sua volta, le persone consacrate a vivere il radicalismo evangelico secondo il carisma del proprio Istituto e il genio del popolo col quale entrano in contatto. Da questo fecondo rapporto scaturiranno stili di vita e metodi pastorali che potranno rivelarsi un’autentica ricchezza per tutto l’Istituto, se risulteranno coerenti con il carisma di fondazione e con l’azione unificante dello Spirito Santo.”121


Insieme a voi inizio questo triennio di preparazione al bicentenario della nascita di Don Bosco, che dovrà essere per tutti noi un’autentica rinascita spirituale, missionaria, educativa, carismatica. A Maria Ausiliatrice, nostra madre ed educatrice, affido tutti e ciascuno di voi.

Don Pascual Chávez V., SDB

Rettor Maggiore

1 GS 44.

2 Cf. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla X Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Roma, 7 giugno 2008.

3 Cf. A. Grillmeier, LThK 8, pp. 954-955; Id., Jesus der Christus im Glauben der Kirche. I, Freiburg 1979.

4 Giovanni Paolo II, Discorso al termine dei lavori del Consiglio Internazionale per la Catechesi, Roma, 26 settembre 1992.

5 Giovanni Paolo II, Discorso ai membri delle Pontificie Accademie in occasione della sesta seduta pubblica (8 novembre 2001).

6 Giovanni Paolo II, Discorso ai Rappresentanti del mondo della cultura e della scienza, (Tbilisi, Georgia, 9 novembre 1999).

7 VC 45. Cf. Benedetto XVI, Omelia nella Solemnità del Corpus Domini (23 giugno 2011).

8 Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea del II Convegno di Aquileia (7 maggio 2011), Il Regno. Documenti 56 (2011) pp. 322-323.

9 VC 51. “La sfida dell'inculturazione va accolta dalle persone consacrate come appello a una feconda collaborazione con la grazia nell'approccio con le diverse culture” (VC 79).

10 Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti delle Chiese e comunità ecclesiali e di altre Religioni non cristiane, Roma, 25 aprile 2005..

11 Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio. Enciclica circa la permanente validità del mandato missionario, 44.55. Roma 12 settembre 1990.

12 Jean Luis, card. Tauran, Intervento nella VI Conferenza di Doha sul Dialogo interreligioso (13 maggio 2008).

13 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali sulla Spiritualità del Dialogo (3 marzo 1999) 1..

14 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla X Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Roma, 7 giugno 2008.

15 Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti istituzionali e laici di altre religioni, Londra, 17 settembre 2010.

16 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Dialogue and Proclamation. A Reflection and Orientations on Interreligious Dialogue and the Proclamation of the Gospel of Jesus Christ, 82. Roma, 19 maggio 1991.

17 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali sulla Spiritualità del Dialogo, 6. Roma, 3 marzo 1999.

18 Cf. J. González-Anleo – J. M. González-Anleo, La juventud actual, Verbo Divino, Estella 2008, 44. Per una descrizione degli stili di vita giovanili nelle società occidentali, vedi la monografia “De las ‘tribus urbanas’ a las culturas juveniles”, Revista de estudios de Juventud 64 (2004) pp. 39-136.

19 “Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura?” (U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 13).

20 J. A. Marina, Aprender a vivir, Ariel, Barcelona 2004, p. 183.

21 CG26, 98

22 Cf. CG 25, “Appello per salvare i giovani del mondo”, La Comunità Salesiana oggi. Documenti Capitolari, ACG 378 (2002), pp. 110-112.

23 Pascual Chávez, “Discorso alla chiusura del CG 26, in “Da mihi animas, cetera tolle”. Documenti Capitolari. CG26, Editrice S.D.B., Roma 2008, p. 140.

24 Teresa d’Avila, (1515-1582), Moradas del castillo interior I, 1,1, in Obras Completas, Efrén de la Madre de Dios – Otger Steggiink (eds), BAC, Madrid 1982, p. 365.

25 Benedetto XVI, Messaggio per la LXIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (24.01.2009).

26 Cf. M. Castells, The Internet Galaxy: Reflections on the Internet, Business, and Society, University Press, London 2001, p. 282.

27 Per questa riflessione biblica mi sono appoggiato in Juan J. Bartolomé, Paolo di Tarso. Una introduzione alla vita e all’opera dell’apostolo di Cristo, LAS, Roma 2009, pp. 177-192.

28 Un altro bel esempio di inculturazione del vangelo, questo però non riuscito, è il discorso di Paolo ad Atene, “città piena di idoli” (At 17,16-31). Mentre Paolo parlò ad un auditorio incuriosito su un Dio a loro sconosciuto, lo lasciarono parlare finché menzionò la risurrezione di un morto…, una affermazione culturalmente inaccettabile.

29 Pietro Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. II, LAS, Roma 32009, p. 9.

30 Pietro Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. I, LAS, Roma 32009, p. 370.

31 Cf. MB X, pp. 53-55. “Le antiche aspirazioni missionarie, che negli anni del Convitto lo avevano spinto a imparare un po’ di spagnolo e a preparare i bauli per unirsi agli Oblati di Maria Vergine, confessa Don Bosco stesso, non si erano mai estinte” (Pietro Stella, Don Bosco nella Storia della Religiosità cattolica. Vol I: Vita e Opere, LAS, Roma 21979, p. 168).

32 Cf. Alberto Caviglia, “La concezione missionaria di Don Bosco e le sue attuazioni salesiane”, in Omnis terra adoret Te 24 (1932) p. 5.

33 Luigi Ricceri, “Il Progetto missionario di Don Bosco”, in Centenario delle Missioni Salesiane 1875-1975. Discorsi commemorativi, LAS, Roma 1980, 14.

34 Agostino Favale, Il progetto missionario di Don Bosco e i suoi presupposti storico-dottrinali, LAS, Roma 1976, p. 10. Il progetto missionario di Don Bosco provocò un incremento vocazionale notorio; lo riconobbe lui stesso: “il moltiplicarsi delle domande di entrare in Congregazione […] era appunto uno degli effetti prodotti dalla spedizione dei missionari” (MB XI, p. 408).

35 Cf. Pietro Stella, Don Bosco nella Storia della Religiosità cattolica. Vol I: Vita e Opere, LAS, Roma 21979, p. 171.

36 Don Cagliero, Lettera a Don Bosco (04.03.1876), ASC A1380802.

37 “ ‘Selvaggi’ sotto penna di Don Bosco è termine comprensivo, indicando tutti gli abitatori del territorio patagonico, non più tutti Indi allo stato selvaggio; il che spiega come si potesse sperare di trovar figli di Indi suscettivi di essere preparati al sacerdozio” (Eugenio Ceria, Commento alla lettera 1493, A don Giovanni Cagliero, 12.09.1876: Epistolario III Ceria, 95). Cf. Francis Desramaut, Don Bosco en son temps (1815-1888), SEI, Torino 1996, pp. 957-958.

38 Si veda il discorso di commiato di Don Bosco, nel rito d’addio del 11 novembre 1875, in Giulio Barberis, Cronichetta, quad. 3 bis, 3-9; Documenti XV, 311-319. L’idea della missio ad gentes riapparirà nell’addio di Don Bosco ai missionari partenti negli anni successivi.

39 Cf. Pietro Braido, ‘Dalla pedagogia dell’Oratorio alla pastorale missionaria’, in Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore. Scritti e Testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 200.

40 MB XII, p. 280.

41 MB XII, p. 223.

42 MB XII p. 280 (il corsivo è mio)

43 L’espressione sembra di Don Bosco, presa da una lunga conversazione con Don Barberis avvenuta il 12.08.1876. Cf. Giulio Barberis, Cronichetta, Quaderno 8, pag. 75: ASC A0000108.

44 “Poiché attirati i giovani, si potrà coll’educazione dei figli farsi a diffondere la religione cristiana anche fra i genitori” (Giulio Barberis, “La Repubblica Argentina e la Patagonia”, in Letture Cattoliche 291-292 [1877] 94).

45 “Una missione ‘salesiana’, cioè, nel suo sforzo di formare il nucleo primo del popolo di Dio, lascerà nella Chiesa nascente il marchio della sensibilità del carisma di Don Bosco, soprattutto per l’educazione delle nuove generazioni e per l’interesse ai problema giovanili” (AA.VV., Il Progetto di Vita dei Salesiani di Don Bosco. Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane, Editrice SDB, Roma 1986, pp. 279-280).

46 Lettera di Sua Santità Benedetto XVI a Don Pascual Chávez, Rettor Maggiore S.D.B. in occasione del Capitolo Generale XXVI, in “Da mihi animas, cetera tolle”. Documenti Capitolari. CG26, Editrice S.D.B., Roma 2008, p. 91.

47 Giulio Barberis, Cronichetta, Quaderno 8, pag. 84: ASC A0000108. Cf. Jesús Borrego, “Originalità delle Missione Patagoniche di Don Bosco”, in Mario Midali (a cura di), Don Bosco nella Storia. Atti del 1º Congresso Internazionali di Studi su Don Bosco, LAS, Roma 1990, p. 468.

48 VC 79.

49 Don Bosco, Lettera a don Giuseppe Fagnano (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 14. Negli inizi della missione aveva scritto al Papa che la Patagonia era “oggetto principale della missione salesiana” Cf. Lettera a Pio IX (09.04.1876): Epistolario III Ceria, p 34.

50 Don Michele Rua, Lettere circolari ai salesiani, Direzione Generale Opere Don Bosco, Torino 1965, p. 498.

51 Fu la prima fotografia espressamente voluta da Don Bosco, che si servì dal noto, e costoso, studio torinese di Michele Schemboche. Don Bosco volle immortalare l’evento e renderlo pubblico; il Sig. Giovanni B. Gazzolo, console dell’Argentina, che è stato fatto venire da Savona, é in grande uniforme; i missionari vestono alla spagnola, col mantello caratteristico, spiccando il crocifisso; Don Bosco indossa la veste delle grande occasioni. “Possiamo ritenere quindi questa immagine come emblematica di Lui, la sua ‘fotografia ufficiale’” (Giuseppe Soldà, Don Bosco nella fotografia dell’800 (1861-1888), SEI, Torino 1987, p. 124).

52 “Possiamo dire che nelle Costituzioni abbiamo tutto Don Bosco; in esse il suo unico ideale di salvezza delle anime; in esse la sua perfezione con i santi voti; in esse il suo spirito di soavità, di amabilità, di tolleranza, di pietà, di carità e di sacrifizio” (Don Filippo Rinaldi, “Il Giubileo d’oro delle nostre Costituzioni”, ACS 23 [1924] p. 177)

53 “Fate che ogni punto della Santa Regola sia un mio ricordo” (MB X, p. 647. Cf. MB XVII, p. 296)

54 Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 410.

55 AA.VV., Il Progetto di Vita dei Salesiani di Don Bosco. Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane, Editrice SDB, Roma 1986, p. 74.

56 Si può trovare una emotiva, e contemporanea, cronaca dell’evento in Cesare Chiala, Da Torino alla Repubblica Argentina. Lettere dei missionari salesiani, in Letture Cattoliche 286-287 (1876) pp. 41-60; “Partenza dei missionari salesiani per la Repubblica Argentina”, in L’Unità Cattolica 266 (1875) p. 1062: MB XI, pp. 590-591.

57 MB XI, p. 389.

58 Angel Martín, Orígen de las Misiones Salesianas. La evangelización de las gentes según el pensamiento de San Juan Bosco, Instituto Teológico Salesiano, Guatemala 1978, p. 172.

59 Pietro Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. II, LAS, Roma 32009, p. 156.

60 MB XI 391. Cf. Cesare Chiala, Da Torino alla Repubblica Argentina. Lettere dei missionari salesiani, in Letture Cattoliche 286-287 (1876) pp. 57-58.

61 Così Agostino Favale, Il progetto missionario di Don Bosco e i suoi presupposti storico-dottrinali, LAS, Roma 1976, p. 76; Francis Desramaut, Il pensiero missionario di Don Bosco. Dagli scritti e discorsi del 1870-1885, in Missioni Salesiane 1875-1975, LAS, Roma 1976, pp. 49-50.

62 Lettera a Don Cagliero (04.12.1875): Epistolario II Ceria, p. 531.

63 Cf. Lettera a Don Cagliero (14.11.1876): Epistolario III Ceria, p. 113; Lettera a Don Valentiino Cassinis (07.03.1876): Epistolario III Ceria, p. 27.

64 Jesús Borrego, “Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros misioneros. Edición crítica –Posibles fuentes – Breve comentario en la correspondencia de Don Bosco”, RSS 4 (1988) p. 181, nel quale sono citate parecchie lettere di Don Bosco ai missionari in Argentina.

65 Nel discorso d’addio diceva Don Bosco ai missionari: “Soltanto vi dico che se l’animo mio in questo momento è commosso per la vostra partenza, il mio cuore gode di una grande consolazione nel mirare rassodata la nostra Congregazione”. “Non dimenticate che qui in Italia avete un padre che vi ama nel Signore, una Congregazione che ad ogni evenienza a voi pensa, a voi provvede e sempre vi accoglierà come fratelli” (MB XI pp. 386.387).

66 MB XI, p.385.

67 MB XI, p. 389.

68 Cf. Lettera al chierico A. Paseri (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 10; Lettera al chierico A. Peretto (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 11; Lettera al chierico L. Calcagno (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 13; Lettera al chierico J. Rodríguez (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 17.

69 MB XVIII, p. 530.

70 Sebastiano card. Baggio, “La formula missionaria salesiana”, in Centenario delle Missioni Salesiane 1875-1975. Discorsi commemorativi, LAS, Roma 1980, p.43.

71 MB XI, p. 389.

72 Lettera a don Pietro Allavena (24.09.1885): Epistolario IV Ceria, p. 339.

73 Lettera a don Giovanni Cagliero (13.07.1876): Epistolario III Ceria, p. 72.

74 Lettera a don Giovanni Cagliero (01.08.1876): Epistolario III Ceria, p. 81. Don Cagliero presto se ne persuaderà.

75 MB XVII, p. 272. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 437.

76 Pascual Chávez, Discorso alla chiusura del CG 26, in “Da mihi animas, cetera tolle”. Documenti Capitolari. CG26, Editrice S.D.B., Roma 2008, p. 138.

77 MB XVII, p. 273. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 438.

78 Don Bosco, Lettera al card. Alessandro Franchi (10.05.1876): Epistolario III Ceria, p. 60.

79 Pietro Stella, Don Bosco nella Storia della Religiosità cattolica. Vol I: Vita e Opere, LAS, Roma 21979, p. 174. Cf. Jesús Borrego, “Estrategia misionera de Don Bosco, in Pietro Braido (ed.), Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e testimonianze, LAS, Roma 1987, pp. 152-164.

80 La preferenza di Don Bosco per l’educazione presto destò sorpresa e alcune critiche: “Alcuni osservano di Don Bosco, che le sue missioni in America non consistono ormai che in aprir collegi e far ospizi” (Giovanni B. Francesia, Francesco Ramello, chierico salesiano, missionario nell’America del Sud, Tip. Salesiana, San Benigno Canavese 1888, p. 117). E don P. Colbachini, scalabriniano, scriveva a un amico prete nel 1887: “I salesiani di Rio, di San Paolo, di Montevideo, Buenos Aires, e tutti i salesiani del mondo non si occupano di missione, eccetto pochi della Patagonia […] Essi vengono a fare da maestri e da prefetti dei collegi di arti e mestieri…: é una grande missione, ma è in tutto diversa da quello che dai più si pensa” (M. Francesconi, Inizi della Congregazione Scalabriniana (1886-1888), CSE, Roma 1969, p. 104).

81 Alberto Caviglia, “La concezione missionaria di Don Bosco e le sue attuazioni salesiane”, in Omnis terra adoret Te 24 (1932) pp. 5-10.12.20.24-26.

82 MB XVII, 273. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 438.

83 Cf. Arthur J. Lenti, Don Bosco. Historia y Carisma. I: Origen: De I Becchi a Valdocco. Juan J. Bartolomé – Jesús G. Graciliano (eds.), CCS, Madrid 2010, pp. 495-96; Arthur J. Lenti, Don Bosco. Historia y Carisma. II: Expansión: De Valdocco a Roma. Juan J. Bartolomé – Jesús G. Graciliano (eds.), CCS, Madrid 2011, pp. 558-559. 574.

84 MB XVII, p. 261. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 415.

85 Tutti tra i 37 anni di Don Cagliero e i 20 del chierico Giovanni B. Allavena.

86 MB XII, p. 659. Lettera a Pio IX (07.1876): Epistolario III Ceria, p. 70,

87 Pietro Scoppola, Commemorazione civile di Don Giovanni Bosco nel centenario della sua morte. Tipografia Don Bosco, Roma 1988, 22.

88 Lettera a don Fagnano (10.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 334. “Se nelle missioni ed in qualunque altro modo tu giungi a ravvisare qualche giovanotto che dà qualche speranza pel sacerdozio, sappi che Dio ti manda tra mani un tesoro” (Lettera a don Pietro Allavena (24.09.1885): Epistolario IV Ceria, p. 339. Il corsivo è mio)

89 Memoriale sulle Missioni salesiane presentato a Leone XIII (13.04.1880): Epistolario III Ceria, p. 569.

90 Jesús Borrego, “Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros misioneros. Edición crítica –Posibles fuentes – Breve comentario en la correspondencia de Don Bosco”, RSS 4 (1988) p. 203. Il testo del consiglio 18º si trova in p. 208. Nel ‘Testamento spirituale’ raccoglierà, ampliandoli, questi spunti di pastorale vocazionale.

91 Si dovrà aspettare fino al 1900 per avere nell’aspirantato di Bernal, Argentina, due ragazzi figli d’indigeni tra 12 provenienti dalla regione di Río Negro (Lino Carbajal, Le missioni salesiane nella Patagonia e regioni magallaniche. Studio storico-statistico, Tip. Salesiana, San Benigno Canavese 1900, p. 104).

92 CG26, 53.

93 “Don Bosco diede loro il titolo ufficiale di catechisti” (Cesare Chiala, Da Torino alla Repubblica Argentina. Lettere dei missionari salesiani, in Letture Cattoliche 286-287 (1876), p. 36.

94 Lettera a mons. Aneiros (13.09.1879): Raúl A. Entraigas, Los Salesianos en la Argentina. III, Plus Ultra, Buenos Aires 1969, p. 85

95 MB XIII, pp. 314.322-324.

96 “Los verdaderos héroes del desierto”, in La América del Sur 4 (1880) 1152.

97 Vedi Lino Carbajal, Le missione salesiane nella Patagonia e regione magallaniche. Studio storico-statistico, Tip. Salesiana, San Benigno Canavese 1900, pp. 63-64.104-105.

98 “Tre pensieri di Don Bosco ai Cooperatori e alle Cooperatrici” (28.01.1886), in Bollettino Salesiano 3 (1886) p. 32.

99 Cf. “Don Bosco ai benemeriti Cooperatori e Cooperatrici”, in Bollettino Salesiano 1 (1886) p. 3. E preparando la spedizione del 1886 si appella di nuovo alla loro carità: “ascoltate anche voi al pari di me la voce dei cari missionari e il grido che ci mandano tanti poveri derelitti da quelle lontanissime contrade” (Circolare ai Cooperatori [15.10.1886]: Epistolario IV Ceria, p. 362).

100 “Monsignor Cagliero nel Chilì”, in Bolletino Salesiano 9 (1887) 110.

101 Cf. Lettera a don Giovanni Cagliero (01.08.1876): Epistolario III Ceria, p. 81. MB XIII, pp. 496. 606.

102 MB XII, p. 626.

103 CG26, 31.

104 Lettera di Mons. Aneiros a Don Bosco (18.12.1875): MB XI, p. 603.

105 MB IX, p. 701.

106 Cronaca di San Nicolás de los Arroyos (1875-1876) pag. 10: ASC F910.

107 Lettera a don Giovanni Cagliero (06.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 328. Cf. Lettera a Don Giacomo Costamagna (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 7; Circolare ai Cooperatori Salesiani (15.10.1886): Epistolario IV Ceria, pp. 360-363.

108 Juan E. Belza, Luis Lasagna, el obispo misionero. Introducción a la historia salesiana del Uruguay, el Brasil y el Paraguay, Editorial Don Bosco, Buenos Aires 1969, p. 169.

109 Se legga l’aneddotto, raccontato da don Rinaldi, sul pensiero di Don Bosco sulla povertà salesiana: MB XIV, pp. 549-550

110 Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 435. 437-438.

111 Relazione ufficiale a Pio IX (16.06.1876), pag. 4: ASC A8290109.

112 Don Giulio Barberis, Cronichetta, Quaderno 8, pag. 75: ASC A0000108. Cf. MB XII, pp. 279-280.

113 MB XI, pp. 389-390. Jesús Borrego, “Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros misioneros. Edición crítica –Posibles fuentes – Breve comentario en la correspondencia de Don Bosco”, RSS 4 (1988) pp. 207-208.

114 MB XVII, p. 626

115 Lettera a Don Giacomo Costamagna (10.08.1885): Epistolario IV Ceria, pp. 332-333.

116 È costante l’augurio di Don Bosco ai missionari: Maria vi guidi per guadagnare molte anime, o per andare in cielo: cf. Lettera a Mons. Cagliero (10.02.1885): Epistolario IV Ceria, p. 314; Lettera a Don Costamagna (10.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 333; Lettera a Don Tomatis (14.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 337; Lettera a Don Lasagna (30.09.1885): Epistolario IV Ceria, pp. 340-341.

117 MB XI, p. 386. La vigilia dell’imbarco Don Bosco consegnò a Don Cagliero una lista manoscritta di consigli e commissioni, che chiudeva così: “Fate quello che potete: Dio farà quel che non possiamo far noi. Confidate ogni cosa in Gesù Cristo Sacramentato ed in Maria Ausiliatrice e vedrete che cosa sono i miracoli” (MB XI, p. 395)

118 MB XVII, p. 261. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 415.

119 Cf. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia. Lettera enciclica sull’Eucarista nel suo rapporto con la Chiesa (17.04.2003) 53-58.

120 VC 79.

121 VC 80.

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