251-300|it|295 Memoria delle origini

7.


«DAR FORZA AI FRATELLI»



Introduzione. - 1. Una sfida angustiante. - 2. «Confirma fratres tuos». - 3. Tentativo di lettura della crisi. - 4. La nostra ottica di discernimento. - 5. Alcuni impegni prioritari. - 6. I cardini della forza e del coraggio. - Conclusione.

Lettera pubblicata in ACS n. 295



Roma, 8 dicembre 1979


Carissimi,


la festa dell’Immacolata ha ricondotto, come ogni anno, il nostro animo a far memoria delle nostre origini e a rinfrescare le ragioni della nostra speranza. L’8 dicembre, data così emblematica per la vocazione salesiana, l’ho vissuta tra i cari ragazzi della casa di Arese con profonde emozioni e con una ridda di inquietanti riflessioni.

Stando con i giovani più bisognosi, sia ad Arese, come prima in India, come anche in America Latina, in Africa, in Cina, come ovunque, si percepisce con sconvolgente intuizione l’utilità storica e l’urgenza di essere pienamente salesiani: di essere più genuini, più coraggiosi, più inventivi e più numerosi, sì, proprio, anche molto più numerosi.



1. Una sfida angustiante


È, la nostra, una vocazione nata dall’affanno e dal travaglio di una irrefrenabile maternità: quella di Maria e quella della Chiesa per la crescita e la salvezza della gioventù ogni giorno più numerosa e indigente. La Chiesa, come Maria, porta in sé le energie dell’amore materno, la sua intrepidezza, la sua indefessa costanza, i suoi segreti di ricupero, il suo stile di bontà, il suo sorriso di comprensione, il suo ardimento di aspettazione, le sue ricchezze di donazione in un’intimità di gioia che, al dire del poeta, «intendere non può chi non è madre».

La maternità della Chiesa e di Maria comporta una vitalità oggettiva che introduce ogni vocazione, specialmente la nostra di dimensione mariana così intensa, nelle vertigini di un amore appassionato che arriva a toccare persino le fibre biologiche della nostra esistenza. Il Papa, scrivendo ai sacerdoti e parlando del caratteristico aspetto di paternità della loro vocazione, non esita a parlare «quasi addirittura di maternità, ricordando le parole dell’Apostolo circa i figli, che egli genera nel dolore (1Cor 4, 15; Gal 4, 19)» (Lettera a tutti i sacerdoti, 8).

Dando uno sguardo al mondo, e considerando nei vari continenti l’aumento quantitativo sempre in crescita dei nostri destinatari, e rivolgendo poi gli occhi alla responsabilità materna della Chiesa e, in essa, alla nostra missione specifica, viene da trasalire.

In Congregazione eravamo 22.000 ed ora siamo 17.000! Come mai?

È vero che viviamo un vasto dissesto culturale in cui si assiste a campagne di sgretolamento della fecondità, favorendo il divorzio, il controllo della natalità, l’aborto, ossia fomentando una cultura che mette in crisi l’essenziale mistero della maternità. Per fortuna, però, la Chiesa ha una natura che viene dall’alto, vincolata alla trascendenza della risurrezione; vive culturalmente incarnata, ma come portatrice di luce e di fecondità ad ogni cultura e ad ogni ora storica senza rimanere imprigionata nelle mode transeunti.

È urgente, quindi, riflettere, per noi che partecipiamo vocazionalmente alla natura materna della Chiesa, sul significato di un attacco così insolito alla fecondità e alla fedeltà.

Perché tante fughe dalla professione perpetua? Perché così numerosi sacerdoti laicizzati? Perché cresce il numero dei religiosi disturbati nell’equilibrio psichico e nella vita di fede? Perché così poche vocazioni, soprattutto in tante regioni dell’occidente? Come aver forza e coraggio per perseverare? Non saremo stati o non saremo ancora troppo succubi di certe mode e concezioni secolariste tanto deleterie? Ecco una sfida che angustia la nostra fedeltà religiosa.



2. «Confirma fratres tuos»


Nell’ultima riunione dei Superiori Generali tenuta a Villa Cavalletti, nel novembre scorso, si è affrontato appunto questo argomento con studi di specialisti e con interscambio di esperienze, di riflessioni e di speranza soprattutto negli arricchenti lavori di gruppo. Il tema è stato studiato e discusso in vista della responsabilità che incombe ai Superiori; ognuno, però, lo deve estendere a sé stesso, perché il Signore ci ha incaricati, proprio tutti, senza eccezioni, di essere servitori e animatori dei propri fratelli.

Il significato di un simile compito è stato riassunto sinteticamente nell’espressione di Cristo a Pietro: «confirma fratres tuos», tu preoccupati di dar forza ai tuoi fratelli! (Lc 22, 32).

Noi siamo deboli e volubili, ma Dio è forte. Anzi soltanto Dio è la fonte del coraggio e della sicurezza. Egli solo può fortificarci (Rm 16, 25), Egli solo ci manterrà saldi fino alla fine (1 Cor 1, 8); è Lui che ci ha messi su quel solido fondamento che è Cristo (2 Cor 1, 21), Egli è fedele e ci darà forza e ci proteggerà dal male (2 Tess 3, 3), a Lui appartiene la forza per sempre (1 Petr 5, 10). Sappiamo, però, che Dio agisce nella vita quotidiana tramite noi; fa arrivare a noi il vigore della sua presenza e il dinamismo della sua grazia attraverso uomini scelti da Lui. Così si spiega la missione di Pietro, quella degli Apostoli, quella delle guide di ogni Comunità, quella di ciascuno verso il suo prossimo; sono partecipazione vera e concreta alla efficacia di rafforzamento e di rinvigorimento propria della potenza di Dio.

Paolo, ad esempio, dice ai Tessalonicesi che ha inviato tra loro Timoteo precisamente «per fortificarli e incoraggiarli nella fede» affinché nessuno si lasci spaventare dalle difficoltà che deve affrontare (1 Tess 3, 2).

C’è, dunque, in noi, per bontà ed elargizione del Signore, una vera capacità di dar forza e di rassicurare gli altri nella vocazione battesimale e religiosa. È un dono che comporta impegno, discernimento, iniziative e tribolazioni, ma che arreca anche la gioia propria di un ministero di amore fecondo. Riascoltiamo Pietro nella sua prima lettera: «Ora mi rivolgo a quelli che in mezzo a voi sono i responsabili della comunità. Anch’io sono uno di loro [...]. Voi, come pastori, abbiate cura del gregge che Dio vi ha affidato [...], di buona voglia [...], con entusiasmo. Non comportatevi come se foste padroni delle persone a voi affidate, ma siate un esempio per tutti. E quando verrà Cristo, il capo di tutti i pastori, voi riceverete una corona di gloria che dura per sempre» (1 Petr 5, 1-4).

Vorrei, in questa lettera, saper trasmettere agli Ispettori, ai Direttori, ai Confessori, ai Formatori e, in definitiva, a tutti i Confratelli, un supplemento di coscienza e di diligenza circa la loro responsabilità di rafforzamento degli altri e una testimonianza viva della soddisfazione e della gioia che proviene dal farlo. Dar forza ai fratelli è un aver parte con Cristo a un po’ della sua solidità di fondamento, è un collaborare con Pietro nel suo compito di roccia, è un esperimentare il dinamismo fecondo della maternità di Maria e della Chiesa, è un condividere con Don Bosco la certezza della validità soprannaturale della vocazione salesiana.

I tempi in cui viviamo esigono atteggiamenti nuovi appropriati alle difficoltà emergenti. La crisi di fedeltà e di fecondità a cui assistiamo ci richiede la capacità di dar forza e di incoraggiare: una capacità che comporta una programmazione di virtù nuove da praticare. Bisognerà pensarci su un poco e farsene un buon proposito di vita.



3. Tentativo di lettura della crisi


Le numerose uscite che ha registrato la Congregazione in questi anni si iscrivono in un fenomeno più vasto di crisi e di defezioni religiose e sacerdotali e di calo impressionante di vocazioni nella Chiesa d’occidente. È un abbassamento che provoca degli interrogativi inquietanti sia circa le possibili cause, sia circa il significato attuale dei valori di fedeltà e perseveranza, sia circa le prospettive di futuro.

Interpellando gli usciti e i loro superiori nelle motivazioni da essi espresse per giustificare il passo fatto, dialogando con coloro che si trovano attualmente in uno stato angustioso di dubbio e di ripensamento, riflettendo sugli atteggiamenti dei rassegnati o degli indifferenti, osservando quelli che reagiscono senza equilibrio con movenze torpidamente conservatrici o superficialmente progressiste, ma soprattutto approfondendo l’impegno di coloro che, di gran lunga i più numerosi, perseverano attivamente e si sforzano di affrontare tante gravi difficoltà, si percepisce subito la necessità di distinguere un doppio livello di lettura del fenomeno di crisi: il livello personale proprio di ognuno, da considerare caso per caso nel suo proprio ambiente, e il

livello culturale, sociale ed ecclesiale da scrutare in una visione d’insieme in solidarietà con i Pastori e con i saggi del pensiero e della scienza.

Si tratta di due aspetti che si sovrappongono e si compenetrano di fatto, ma la cui differenziazione giova a un più intelligente tentativo di lettura della crisi.


A Livello Personale

Ci riferiamo qui principalmente agli usciti: la loro crisi, giunta alle decisioni estreme, può servire ad illuminare le altre. Sappiamo che i casi di abbandono sono stati assai numerosi. Il fenomeno, preso globalmente, ci offre dei dati concreti: debolezza della libertà umana, carenze di selezione e di formazione, deviazioni ideologiche, deficienze istituzionali, anacronismo di alcuni aspetti della forma di vita, moralismo nella pratica dei voti e dell’osservanza della regola, ecc.

Possiamo aggiungere qualche considerazione, approfittando soprattutto di alcune analisi realizzate dal nostro caro consigliere per la formazione, don Giovenale Dho, in riferimento alle richieste di dispensa presentate in questi ultimi dieci anni.

Ci sono, nei motivi addotti per chiedere la dispensa, due punti di vista, quello del soggetto interessato e quello dei superiori e testi; sono due angolature che si completano nella descrizione dei motivi. Il soggetto interessato presenta il suo stato d’animo, considera la sua propria situazione come esperienza vissuta; il teste, invece, descrive il comportamento osservabile così come è stato percepito da lui o da altri nella comunità.

Non possiamo tralasciare, innanzitutto, di ricordare l’alto e grave significato dell’atto di libertà con cui si emette la professione perpetua, o con cui se ne chiede la dispensa. Si tratta di una decisione libera, di opzione globale che influisce su tutto un progetto di esistenza, tocca necessariamente il santuario intimo della coscienza, lasciando intorno a sé una zona impenetrabile per ogni osservatore, anche per lo stesso interessato. Quindi, indicare dei motivi per una scelta d’abbandono non significa ancora stabilirne le cause: «parlare di “motivi” e parlare di “cause” non è esattamente la stessa cosa. Il discorso sulle cause è necessariamente molto più ampio e va dallo studio delle innumerevoli variabili ambientali, attuali e storiche, a quelle personali; mentre quello sui motivi si restringe agli elementi che prossimamente conducono la persona ad una decisione e che sono da essa visti come la “ragione” di tale decisione» (G. Dho).

Noi partiamo, qui, dal livello dei motivi presentati, sia dai soggetti come dai testi.

Una prima valutazione semplicemente «quantitativa» (e, quindi, ancora da approfondire per non formulare dei giudizi superficiali ed erronei) ci presenta come prima indicazione, numericamente assai superiore alle seguenti, quella della castità, dell’affettività e della sessualità. Più in basso appaiono, in ordine decrescente, le difficoltà di personalità, di carattere e di disturbi psichici; poi, l’immaturità generale; l’abbandono della preghiera e il disinteresse per la vita spirituale; la perdita del significato della vocazione; le fissazioni ideologiche; l’inadattabilità alla vita comune; la rottura con i superiori, il disaccordo e la contestazione; infine, ed è importante, anche la costatazione della non esistenza della vocazione. Oltre a questi motivi si danno pure delle situazioni concrete ormai irreversibili.

L’alta frequenza quantitativa dei motivi riguardanti la castità, l’affettività e la sessualità non deve essere giudicata certamente come una «causa» del fenomeno attuale di crisi. Essa non può essere guardata isolatamente, perché prende il suo vero significato dalla interrelazione che ha con gli altri motivi a cui è collegata, e dal contesto globale della persona situata concretamente in un tessuto di vita e in un clima culturale e spirituale.

Ci sembra più oggettivo e penetrante, invece, un tentativo di sintesi generale dei vari motivi presentati, che riesca a descrivere più acutamente la crisi delle defezioni. Una lettura sintetica dell’insieme può venir riassunta con la descrizione di uno stato d’animo abbastanza complesso. Si tratta, in genere, di uno stato d’animo che rivela scontentezza e frustrazione per la vocazione religiosa e sacerdotale, rifiuto di norme, orientamenti, direttive, strutture: il tutto fortemente in relazione con tre elementi significativi:

indebolimento del senso soprannaturale e decadimento spirituale generale;

scelte ideologiche che tendono a giustificare l’abbandono;

bisogno immaturo e compulsivo di affetto, con cadute più o meno frequenti nell’ambito della castità.

Senza dubbio, nel considerare questo stato d’animo in ogni singolo caso, bisognerà tener conto della sua cronistoria che va dall’infanzia, all’ambiente familiare e sociale, all’educazione e agli studi, alla formazione religiosa, al lavoro fatto, alla situazione di convivenza in comunità, ecc.; inoltre dovrà essere messo in confronto con il colossale fenomeno di trapasso culturale in cui viviamo, che ha anch’esso la sua storia e il suo sviluppo, più o meno accelerato e diversamente accentuato, secondo le regioni e i paesi in cui si vive; inoltre non si potrà tralasciare di considerare anche il forte processo di rinnovamento sorto nell’ambito specifico della Chiesa dopo il Vaticano II, che ha esigenze di cambiamenti delicati e ritmo di dinamismo spirituale e apostolico con differenti espressioni concrete nelle diverse regioni.

Dall’analisi dei motivi risultano anche due ben distinte categorie di abbandoni: la prima è di coloro che manifestano una non-autenticità iniziale della vocazione religiosa, rimasta latente per lunghi anni ed esplosa in circostanze assai differenti; la seconda è di coloro che denotano un indebolimento progressivo della vocazione fino alla rottura della perseveranza religiosa.

Nell’analizzare queste due categorie di fratelli ci sentiamo certamente tutti messi in causa e chiamati a giudizio. Sono motivazioni coinvolgenti: faciloneria nelle ammissioni, superficialità nel discernimento delle vocazioni, insensibilità verso i pericoli di certe ideologie devianti, imborghesimento, assenza di spinta spirituale e apostolica, situazioni comunitarie irregolari o ingiuste e improprie, incomprensioni e contrasti, eccesso di lavoro in quantità e qualità, condizionamento di sospetti, di pettegolezzi, di calunnie, strumentalizzazione delle doti personali ed assenza di spazio per lo spirito di iniziativa, isolamento e frustrazione provocati dal non trovare nella comunità la genuina comunione e comprensione della carità.

Ci sono, dunque, non poche responsabilità personali, sia da parte di chi ha abbandonato sia da parte dei molti che sono rimasti. Questo è oggettivo, ma non giustifica di per sé le defezioni. La libertà personale vive avvolta, come abbiam già detto, da un manto di mistero; non possiamo analizzarla esaurientemente: essa ci invita a non condannare.

Però, anche se è certo che la libertà soffre l’impatto dell’ambiente, non si può accettare una spiegazione determinista delle crisi personali: la vocazione è un fatto dialogale intessuto di originalità nei rapporti di ciascuno con Dio; implica relazioni personali libere e sincere con Lui attraverso le vicissitudini e gli eventi della vita, e attraverso mediazioni di altre persone concrete. È assoluta la certezza di fedeltà da parte di Dio alla chiamata da Lui stesso fatta e all’intervento della sua misericordia per sorreggere le deboli capacità di perseveranza della libertà. Il peso dell’ambiente non toglie la responsabilità a nessuno, anche se include la libertà dei singoli in un quadro di riferimento da non tralasciare.

Fatta questa precisazione, rimane ad ogni modo da assumere tutta la nostra responsabilità, non solo per l’influsso personale che ci può essere stato nella complessa oggettività di non poche motivazioni, ma soprattutto per accettare la sfida che ci lancia la crisi, ed affrontare con saggezza, costanza e prospettiva la sua problematica.


A Livello Culturale, Sociale ed Ecclesiale


Nell’attuale divenire umano si registra un processo intenso di mutamenti tanto nella cultura, come nella società e nella Chiesa, in corrispondenza ai segni dei tempi emersi in questo secolo ed esplosi soprattutto dopo l’ultima guerra mondiale.

La grande svolta antropologica, come si suol chiamare, con il senso di attiva partecipazione sociale, di approfondimento della dignità della persona, di emancipazione dai miti e dalle superstizioni, di promozione umana della giustizia sociale, di enorme crescita delle scienze e della tecnica, ci ha messi tutti alla ricerca di un nuovo progetto-uomo.

I vasti e rapidi cambiamenti strutturali sociopolitici, puntati verso la costruzione di una nuova società, pensata con l’aiuto di svariate ideologie spesso non cristiane ed estranee allo spirito del Vangelo, hanno suscitato tensioni e lotte e un pluralismo culturale che disorienta.

L’insieme di questi fenomeni segnala un’ora di crescita dell’umanità, e presenta i segni annunciatori di una nuova epoca storica. «L’umanità — ci dice il Concilio — vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, sullo stesso uomo si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e di agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa. E come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà» (GS 4).

D’altra parte, il profondo rinnovamento ecclesiale promosso dal Vaticano II con l’approfondimento del mistero della Chiesa nella comunione e nella missione, la centralità data alla Parola rivelata, il concetto complementare e di servizio di ogni ministero e carisma, il rilancio della Chiesa locale con le sue esigenze di decentramento e di pluriformità pastorale, l’apostolato dei laici, la prospettiva ecumenica e il dialogo con le religioni non cristiane, la libertà religiosa, il ripensamento del ministero sacerdotale come compito di «pastore» e di «guida» della comunità, la dimensione collegiale dell’Ordine, la nuova presenza della Chiesa nel mondo quale esperta in umanità, la sua natura sacramentale e la riscoperta del senso ecclesiale della consacrazione religiosa, hanno toccato a fondo tutti gli aspetti della realtà cristiana, rimuovendo una certa tranquillità di vita, ma anche sconvolgendo gli animi e prestandosi, a volte, a interpretazioni soggettivistiche, a differenze di pareri nelle cose più sante e sicure, e persino ad abusi e deviazioni.

Ecco, quindi, che a causa dei numerosi e profondi mutamenti sia a livello socio-culturale che a livello ecclesiale sorgono non poche difficoltà, caratteristiche di un trapasso storico. Già lo ha detto il Concilio: tutto ciò «favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi ed a sintesi nuove» (GS 5).

Le incertezze causate dai mutamenti profondi hanno provocato una delicata insicurezza dottrinale nell’ambito della fede con dubbi, indeterminatezze e anche equivoci o aberrazioni, e una crisi d’identità nella stessa Chiesa e, in genere, nella vita religiosa, fino a toccare più concretamente ogni singolo Istituto.

La novità di presenza della Chiesa nel mondo ha provocato una crisi di spiritualità e dei metodi apostolici nell’interpretazione dei mutui rapporti tra promozione umana e vangelo di salvezza e, in par-ticolare, della visione ascetica della «fuga mundi» e della morale cristiana.

Il processo di secolarizzazione ha messo in crisi i valori di ogni consacrazione, mentre il senso più democratico della partecipazione sociale ha fatto esplodere la contestazione dell’autorità, e l’accelerazione della storia ha sconvolto il campo delle strutture e delle istituzioni.

Per tutto questo, non pochi Religiosi si interrogano sul problema angoscioso della possibilità di futuro o su quello inquietante di un futuro diverso. Vengono posti sul tavolo della discussione i principi stessi della vita religiosa: il vero valore della professione perpetua, l’essenza permanente dei singoli voti, il rilievo del progetto evangelico del Fondatore, l’importanza della forma di vita comunitaria, i criteri di ammissione all’Istituto e la metodologia di formazione.

Tutto questo enorme complesso di valori emergenti, di problemi e di difficoltà influiscono assai più sui singoli di quel che non viene esplicitato nei motivi presentati a livello personale, riguardo al fenomeno di crisi e di abbandono.

Il Concilio, però, anche se riconosce l’aumento delle contraddizioni e degli squilibri (GS 8), non ci parla di catastrofe umana, ma bensì dell’aurora «di un periodo nuovo della sua storia» (GS 4) e del positivo impegno della Chiesa e dei cristiani per aiutare con sempre maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo a sforzarsi di costruire una nuova società e una nuova era. Da ciò si deduce che il Vaticano II ci spinge a interpretare il fenomeno globale in forma sostanzialmente positiva, anche se lascia più che sufficiente spazio a tante angustie, insicurezze, deviazioni e influssi negativi che ripercuotono il loro peso e il loro travaglio sulle vocazioni religiose e sacerdotali.

Dunque: una prospettiva di speranza. Essa lancia, però, una grossa sfida alla vita religiosa contemporanea nella sua stabilità e nelle sue possibilità di futuro.



4. La nostra ottica di discernimento


Per noi, il trapasso culturale a cui assistiamo ci invita alla conversione e alla ripresa. Non risulta difficile scoprire in esso le ricchezze proprie del mistero della storia, che porta viva in sé la presenza di Cristo suo Signore. La nostra lettura dell’insieme dei fenomeni può divenire, senza diffìcoltà, una meditazione dei segreti piani di Dio. Nelle vicissitudini, prospere o avverse, possiamo percepire come un passaggio del Signore che ci sveglia, ci corregge, ci stimola, ci aiuta a crescere e ci invita a perseverare e a progredire.

Nessun Istituto religioso potrà oggi rimanere fedele nell’immobilismo; e neppure potrà esserlo in un vacuo mobilismo fine a se stesso, che intacca o trascura la vitalità del carisma iniziale. Il Signore che passa ci invita a un «equilibrio dinamico», che attui la fedeltà nel movimento con un ritmo di velocità adeguato alle richieste delle situazioni. Così l’impegno per dei cambiamenti giusti e urgenti entra a fare parte viva della stessa genuinità religiosa.

Ma per saper vedere e interpretare il passaggio del Signore occorre capacità di preghiera, oggettività di analisi, rapporto vivo con le origini, attenzione ai segni dei tempi e alla condizione dei destinatari che influiscono profondamente sulla storicità della propria missione, continuo e illuminato riferimento al Vaticano II, agli orientamenti del Magistero, alle direttive degli ultimi Capitoli Generali e all’animazione concreta dei principali responsabili della Congregazione.

È importante saper coltivare questo tipo di meditazione in solidarietà comunitaria, senza atteggiamenti individualisti o di autosufficienza, e senza pressioni di gruppi ideologici.


Enumeriamo alcuni sintomi positivi

Coi Superiori generali a Villa Cavalletti si sono potuti individuare alcuni elementi positivi che illuminano il panorama e consentono di congetturare una prospettiva seria di perseveranza e di fecondità. Eccone alcuni:

• la coscienza e la costatazione che questa nuova stagione di Dio ci sta muovendo realmente in una via di rinnovamento, e non di agonia e di sepoltura;

• l’esercizio ormai intensificato di scrutare con intelligenza di fede i segni dei tempi e di aver preso in sufficiente considerazione la svolta antropologica aprendoci al vasto apporto delle scienze umane, ci ha avviato a una sintesi superiore senza far consistere la fedeltà in una restaurazione;

• lo sforzo crescente di approfondire il deposito della fede, sia nella sua struttura personale come nel suo contesto sociale ci ha svegliati a iniziative importanti per una formazione intellettuale permanente;

• la visione conciliare della Chiesa come mistero sta restituendo il primato della dimensione contemplativa alla vita religiosa;

• la sensibilità per i piccoli e i poveri comporta un ricupero della testimonianza dei voti e di una maggior sensibilità di comunione;

• la sfida di tanti mutamenti ha mosso i Capitoli Generali a precisare e chiarire l’identità vocazionale dei singoli Istituti; la necessità di programmare il futuro con intelligente prospettiva ha spinto a un ritorno oggettivo e penetrante verso il carisma del Fondatore;

• la situazione di instabilità e di ricerca ha contribuito a far rivedere, a rinnovare e a riaffermare il valore delle Costituzioni come progetto evangelico che inquadra la professione religiosa;

• la diminuzione di quantità numerica nei professi ha stimolato a ricercare e a curare «la qualità» nei vari aspetti essenziali della vocazione, nella selezione, nella ammissione, nella formazione iniziale;

• la crisi, in generale, ha risvegliato le responsabilità e stimolato lo studio delle priorità spirituali e pastorali da coltivare.

Certo, insieme a questi segni di speranza, rimane aperto, come dice il Papa nella sua enciclica Redemptor hominis, un panorama «di inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti [...] in varie direzioni e vari gradi d’intensità» (RH 15).

Di qui l’importanza e l’urgenza di saper trovare il modo, in un periodo di transizione, di dar forza e di infondere coraggio a tutti i fratelli.



5. Alcuni impegni prioritari


Intanto, dall’analisi fatta in un’ottica di speranza, risultano già concretamente vari compiti irrinunciabili e pressanti; dobbiamo sottolinearli perché diventino l’oggetto privilegiato del nostro impegno di programmazione del rinnovamento. Si tratta di alcuni punti-chiave sui quali i dati analizzati ci portano a rivolgere la nostra volontà operativa di intervento.


— In primo luogo, l’approfondimento del significato della fede e del suo patrimonio dottrinale, centrato sul mistero pasquale di Cristo nel contesto della problematica attuale. Esso comporta per noi una speciale attenzione alla riflessione teologale sulla vita religiosa e una coscienza rinnovata dei suoi valori portanti, soprattutto della professione perpetua.


— In secondo luogo, la qualità della formazione sia iniziale che permanente, preceduta da una selezione oculata dei candidati. Il processo formativo deve essere tutto rivolto a raggiungere «la persona nel suo profondo, e non solo la sua intelligenza e il comportamento esteriore, per aiutarla ad una libera percezione e riconversione delle proprie motivazioni» (G. Dho).


— Inoltre, l’urgenza di ricuperare e di dare rilievo pratico alla direzione spirituale è un tratto che emerge frequentissimo nelle analisi. I Superiori generali l’hanno considerata come una necessità vitale ed hanno chiesto di trovare il modo di sensibilizzare al problema tutti gli Istituti religiosi. In questa stessa linea si è insistito sulla figura e sul ruolo del superiore come maestro di «vita nello Spirito», così come è stato descritto nel documento Mutuae Relationes (MR 13).


— Poi, l’importanza della comunione fraterna e delle relazioni umane all’interno della vita consacrata e fuori; essa riveste una speciale urgenza nella comunità religiosa per favorire l’equilibrio della persona e per stimolare la fedeltà, oggi particolarmente difficile. Se è vero che ogni professo si è impegnato con la comunità, è ancor più vero che la comunità è chiamata a curare ogni confratello (Cost 4, 50-53, 54). Urge sottolineare oggi le grandi possibilità di prevenzione e di terapia che può offrire una genuina comunione di vita: ogni comunità deve arrivare ad essere «una comunità confermatrice», che sa dar forza e infondere coraggio ai suoi membri.


— Infine, la cura di un’igiene psichica e spirituale: la salute psichica ha bisogno, come la salute fisica, di un insieme di condizioni che la conservino e la favoriscano. «Molte defezioni si vedono chiaramente collegate con una serie di tensioni, conflitti, ansie, che rivelano spesso, alla base, un modo di vivere, sia comunitario che personale, fuori di ogni norma di igiene psichica, e anche di buon senso» (G. Dho). Converrà tener conto, soprattutto in certi casi, dei mezzi attuali di opportune cure terapeutiche di ispirazione cristiana, svolte, se necessario, in appositi centri.

D’altro canto anche la vocazione ha bisogno di una sua igiene spirituale: «un vivere abitualmente con uno stile in disarmonia con i valori vocazionali autentici non può far altro che indebolirli progres-sivamente» (G. Dho).



6. I cardini della forza e del coraggio


Il tentativo di lettura dell’attuale crisi religiosa ci ha aperto orizzonti di speranza, ma ha confermato anche le preoccupazioni e le angustie, presentandoci una problematica enorme e ambivalente, assolutamente superiore alle nostre capacità d’intervento e che conserva, quindi, anche il suo peso e aspetto scoraggiante. Non si tratta, qui, di fare gli ottimisti o i pessimisti, ma di essere credenti.

La perseveranza e la fedeltà sono possibili; anzi sono l’unico atteggiamento valido e costruttore di futuro.

Infatti, rimanere fedeli ed avere la capacità di dar forza agli altri e di infondere loro coraggio, non proviene da un entusiasmo ingenuo di chi non ha sentore dei problemi e non s’accorge delle gravi corrosioni di cedimento e dei complessi pericoli che incombono sul futuro della vita religiosa. Però, anche dando per scontati il turbamento naturale e l’avanzata insidiosa di un sottile secolarismo che penetra in tutti gli ambienti e che fa barcollare il significato evangelico di ogni consacrazione, rimane indiscutibile una certezza di perseveranza. Sappiamo dal Vangelo che Cristo è il vincitore nella storia (Gv 16, 33) e che la nostra fede è veramente una vittoria (1 Gv 5, 4).

La fonte da dove zampilla la capacità di confermare i fratelli proviene dalla presenza salvatrice di Dio in noi; e tale presenza affonda le sue radici nella grazia che santifica il nostro essere e lo fa agire attraverso i dinamismi teologali della fede, della speranza e della carità.

Sono appunto i tre grandi cardini su cui si muove il servizio di confermazione dei confratelli oggi: quello della verità, illuminato dalla «fede»; quello della prospettiva, animato dalla «speranza»; e quello della bontà, sorretto e pervaso dalla «carità». Vogliamo riflettere brevemente su queste energie offerteci dall’alto.

Qui dobbiamo supporre i grandi orizzonti cristiani della fede, della speranza e della carità: ci limitiamo ad alcuni aspetti strategici che da tali orizzonti rifluiscono sulla nostra vita religiosa ed esigono una speciale attenzione e dei propositi pratici di applicazione.

Dalla fede, desumiamo alcuni orientamenti strategici di verità; dalla speranza, alcuni appelli per la missione; dalla carità, alcune priorità per la comunione.


La Verità illuminata dalla «Fede»


Innanzitutto, per dar forza e infondere coraggio in casa, bisogna saper rendere limpida la verità sulla vita religiosa.

Il Concilio, il Magistero, i Capitoli Generali e i Superiori responsabili di tutta la Congregazione hanno offerto in proposito, durante questi anni, un materiale abbondante di chiarificazione. Anche buoni teologi hanno concorso nella Chiesa, con opportune riflessioni, a individuare i centri nevralgici della consacrazione religiosa.

Purtroppo si sono anche sparse ideologie peregrine o interpretazioni superficiali e infondate, e mode secolaristiche, che deviano le persone fragili o poco mature. Al riguardo, non converrebbe dimenticare che gli Apostoli hanno usato giudizi sferzanti sui falsi maestri che allontanano i fratelli dalla verità (cf. 2 Cor 11, 1 ss; 1 Tim 6, 3 ss; Tit 1, 10 ss; 2 Pt 2, 10 ss; 1 Gv 2, 18 ss; Gdt 1, 3 ss).

Urge assicurare la chiarezza di percezione e la convinzione di coscienza sui valori che accompagnano alcune verità basilari per la nostra vocazione.

Concentriamo la nostra strategia su due: la «Professione religiosa» e l’«Indole propria» della Congregazione.


— La riscoperta dei valori della «Professione perpetua», nella sua qualità di opzione fondamentale e definitiva, da parte del soggetto, e di consacrazione specifica da parte di Dio e della Chiesa. Con la professione perpetua il religioso lancia tutta la sua esistenza in una ben determinata orbita ecclesiale. La professione perpetua è una opzione e consacrazione totalizzante, che diviene metro di giudizio e criterio di discernimento di tutte le scelte posteriori; comporta un’ottica originale e una testimonianza speciale nel progetto globale della propria vita; nulla sfugge o evade dalle prospettive della sua angolatura. Non si è religiosi a tempo intermittente: l’oblazione della professione e la sua consacrazione intima è l’impegno radicale che qualifica tutti gli aspetti dell’esistenza del religioso.

Nella formula con cui noi emettiamo la professione perpetua (Cost 74) si trovano le caratteristiche dell’«alleanza» biblica: l’incontro di due fedeltà in un impegno di esistenza; un’amicizia a senso nuziale che coinvolge tutta la vita e orienta tutto il dinamismo della propria attività; è la fusione di due libertà a tempo pieno e a piena esistenza.

Giustamente S. Tommaso parlava di un «voto di professione», al singolare (cf. S. Th. II-II, q. 186), considerando l’atto del professante non spezzettato ma piuttosto esplicitato nei tre voti, come un atto unico e globale del «voto di religione» (cf. Tillard, Devant Dieu et pour le monde, ed. du Cerf., Paris 1974).

Il motore interno della professione perpetua, il segreto del suo dinamismo e tutta la sua mistica, è la «sequela di Cristo». L’amore e l’entusiasmo per Lui costituiscono la fonte prima e la meta della vita del religioso.

Nella celebrazione della professione perpetua dobbiamo sottolineare la sua dimensione pubblica che assicura e proclama autorevolmente il marchio ecclesiale e il significato sociale e comunitario della consacrazione. Infatti la celebrazione della professione perpetua manifesta un particolare intervento del Signore attraverso il ministero della Chiesa. Anticamente a questo intervento si dava il nome di «consacrazione» (anche il nuovo Ordo professionis religiosae, pagg. 30, 49, 73, 92 usa il termine «consecratio seu benedictio» per la professione perpetua). Ed è precisamente in questo senso che il Concilio ha parlato di «consacrazione» del religioso: «(egli da Dio) viene consacrato più intimamente al servizio divino» (LG 44, testo latino).

Se l’intervento di Dio è consacrazione e benedizione che scende dall’alto, l’atto del professante è oblazione ed olocausto che sale dal basso.

La vocazione di ognuno è una chiamata divina particolare alla quale la libertà personale risponde con la sua oblazione definitiva, contrassegnata da una consacrazione speciale da parte di Dio, per cui tutto l’essere dell’uomo viene introdotto, con un nuovo titolo, ad una nuova unione d’amicizia con Lui che abbraccia tutta la sua vita ed ogni sua attività, e che gli assegna un particolare ruolo nella sacramentalità generale della Chiesa.

Non per nulla la professione perpetua si emette come parte integrante di una celebrazione liturgica e il suo significato più profondo «nasce da un atto di culto ed è inseparabile dalla liturgia» (G. Philips, commentando la Lumen gentium). Attraverso la professione si è consacrati dal Signore nel Suo Popolo, in quanto Sacramento universale di salvezza, per partecipare più specificatamente alla sua missione tra gli uomini. Così la vita religiosa acquista una dimensione «sacramentale» in partecipazione alla natura della Chiesa, per manifestare e comunicare alla società umana un aspetto del mistero di Cristo (LG 46), non semplicemente come progetto privato di un individuo o di un gruppo, ma come un compito ufficiale, o meglio come un carisma pubblico ed ecclesiale per il bene di tutti. Il religioso, così, entra con la professione a far parte di una specie di «corpo specializzato» (di un «ordine») o di una «categoria testimoniale» nell’organismo vivo del Corpo di Cristo che è la Chiesa.

Dunque: riscoprire e proclamare la verità circa i valori della professione perpetua, per prepararsi ad essa e per viverla con coerenza, è un primo elemento per infondere forza e coraggio ai fratelli, per far conoscere la grandezza e la responsabilità della vocazione, per andare contro all’indifferenza, alla superficialità, e a certe interpretazioni ideologiche che snaturano il valore della vita religiosa o che, più frequentemente, indeboliscono i fondamenti della perseveranza.

Possiamo citare qui, perché di analoga profondità, quanto il Santo Padre ha scritto ai sacerdoti: «A tutto ciò bisogna pensare soprattutto nei momenti di crisi, e non già ricorrere alla dispensa, intesa quale “intervento amministrativo”, come se in realtà non si trattasse, al contrario, di una profonda questione di coscienza e di una prova di umanità. Dio ha diritto a tale prova nei riguardi di ciascuno di noi, se è vero che la vita terrena è per ogni uomo un tempo di prova. Ma Dio vuole parimenti che usciamo vittoriosi da tali prove, e ce ne dà l’aiuto adeguato» (Lett. ai Sacerdoti 9).

Il «confirma fratres tuos» va intimamente legato alla comunicazione della verità circa la natura della professione perpetua: è, infatti, la fede che sostiene le certezze della speranza e i beni deIla carità.


Sincera adesione all’«indole propria» della Congregazione. Un altro aspetto di verità nella vita religiosa, su cui urge insistere oggi con accurata chiarezza, è quello dell’identità carismatica del proprio Istituto per assicurare e sviluppare concretamente un deciso senso d’appartenenza. La professione religiosa, infatti, non si emette in astratto, ma secondo un progetto evangelico concreto, concepito e vissuto dal Fondatore e descritto con autorevolezza nelle Costituzioni. Alle origini, i nostri primi confratelli esprimevano il loro progetto religioso di vita con una frase semplice, ma densa di ricchezza esistenziale: «Voglio restare con Don Bosco!».

L’identità di un Istituto non si trova in un’idea o in una definizione, ma in un’esperienza di «vita nello Spirito». La Congregazione, a cui ci si incorpora con la professione, è una realtà storica con nomi di persone, con date, con tradizione, con uno stile di santità e di apostolato, con obiettivi particolari da raggiungere e con adeguati criteri di azione. La vita religiosa nella Chiesa non è un qualche cosa di generico, sussistente «in sé», ma è l’insieme di svariati Istituti ben definiti che prolungano vitalmente il patrimonio spirituale di S. Benedetto, di S. Francesco, di S. Domenico, di S. Ignazio, di S. Alfonso, di Don Bosco, ecc.

L’indole propria di un Istituto nasce per iniziativa dello Spirito Santo quando ha donato al Fondatore un determinato carisma. Non la si inventa in ogni generazione, ma profluisce omogeneamente dalle origini; infatti il carisma del Fondatore «si rivela come un’esperienza nello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita. Per questo la Chiesa difende e sostiene l’indole propria dei vari Istituti religiosi (LG 44; cf. CD 33; 35, 1; 35, 2; ecc.). Tale indole propria, poi, comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato, che stabilisce una sua determinata tradizione in modo tale che se ne possono convenientemente cogliere le componenti oggettive» (MR 11).

Cè dunque, nell’indole propria della Congregazione, uno spessore storico che non dipende da interpretazioni ideologiche e che non può restare in balia dell’arbitrio dei singoli, o di gruppi di pressione, ma che è realisticamente ancorato a due dati di fatto assai concreti: il Fondatore, ossia una persona ben definita, che ha ricevuto e ha incominciato a vivere nella storia un dono speciale dello Spirito Santo; e una Comunità di discepoli, arricchita ininterrottamente con nuove vocazioni dallo stesso Spirito Santo, e strutturata organicamente per curare e sviluppare nel tempo la permanenza del carisma del Fondatore.

Lo sviluppo e la creatività lungo i secoli hanno bisogno di sintonia con tali realtà storiche, evitando distorsioni sia di senso temporalista nell’ambito socio-politico, che di arbitrii spiritualistici nell’appellarsi soggettivamente al vento della Pentecoste. I fatti ci dicono, purtroppo, che attualmente esistono degli abusi in questi due versanti.

Il servizio di dar forza e di infondere coraggio esige, allora, una conoscenza chiara dell’«indole propria» della Congregazione, come un’orbita ben definita per lanciare in essa le energie nuove e i progetti di sviluppo in vista di una crescita omogenea e sana del carisma del Fondatore.


La prospettiva, animata dalla «Speranza»


Per dare forza e infondere coraggio ai fratelli bisogna curare anche un secondo cardine: quello di una prospettiva che dimostri l’attualità e l’importanza della nostra missione tra gli uomini.

Oggi si guarda all’avvenire, al nuovo Avvento del 2000, nel ritmo genuino del Vangelo che implica sempre novità. In tale atteggiamento, però, si deve essere coscienti del futuro, ma senza lasciarsi condizionare da una certa magicità del futuro. Sul futuro influiamo noi! Non stiamo camminando in una via ferrea tracciata da una visione determinista, ma creativamente, con criteri validi di discernimento che guardano simultaneamente al carisma dell’Istituto e ai segni dei tempi per costruire, noi con sforzo, una sintesi vitale superiore.

Quando, dopo più di un decennio di crisi, si incomincia a parlare di ricupero di certi valori o di stanchezza per un mobilismo esagerato, non si sta a indicare un semplice ritorno al passato con una pianificazione di restauro: sarebbe la negazione della crescita e un’adulterazione statica della fedeltà. Neppure si tratta di una stanchezza passeggera, quasi fosse una tregua operativa senza vere convergenze superiori e apporti positivi di una nuova sintesi.

Ormai assistiamo chiaramente a una rivalutazione di parecchi valori; cresce una critica costante e sofferta del cambiamento per il cambiamento; non si tratta di stanchezza o di sosta fugace, ma di un assai concreto passo avanti.

Il ricupero, di cui si parla, è il contrassegno dell’inizio di una sintesi superiore tra i grandi valori permanenti e i nuovi aspetti positivi emersi dai segni dei tempi. Si intravede un maggior equilibrio tra i principi sempre validi, ieri e domani (perché trascendenti la moda effimera dell’ora che passa), e i valori emergenti nel divenire umano. Non è un equilibrio statico per chi si è installato su un piedistallo, ma un vero equilibrio nel movimento dove la stessa velocità interviene come uno dei fattori che assicurano la stabilità nell’avanzamento.

Il trapasso culturale verso una nuova epoca storica è solo incominciato; la Chiesa, i Pastori, gli Istituti religiosi devono pensare la loro missione al di dentro di una società umana in transizione, convinti di essere chiamati a una coraggiosa ricerca.

L’equilibrio in movimento esige il possesso di alcune certezze, chiare e robuste, che costituiscano come una piattaforma di lancio verso tante orbite nello spazio; esige di saper vivere «stabilmente» in una «situazione instabile». Il santo, ad esempio, con la sua obbedienza, con la sua castità e con la sua povertà, è un uomo per tutte le stagioni; è portatore di valori che sono per ogni tempo; rappresenta un centro d’interesse non solo del passato, ma anche del futuro. Ebbene: quali sono i principi permanenti che lo muovono? Sarà necessario saper individuarli per farli entrare in simbiosi con i segni dei tempi e raggiungere così la sintesi superiore.

Ecco in che direzione bisogna saper trovare gli elementi di sicurezza in una situazione di ricerca. La speranza è per se stessa lanciata al futuro, ma s’appoggia su delle certezze irrefutabili già esistenti. Conta sulla onnipotente bontà e misericordia di Dio che ci ama e ci accompagna; conta sulla presenza viva e attiva di Cristo che ci guida nella storia; conta sull’intercessione e sull’intervento materno di Maria che comparte, nella risurrezione, l’impegno del Signore per costruire il Regno di Dio nei secoli.

Per avere una prospettiva di coraggio e di entusiasmo nella nostra missione urge assicurare i grandi punti di appoggio della speranza cristiana che ci danno la capacità di equilibrio in un ancor lungo periodo di transizione.

Qui, però, ricorderò per noi solo due aspetti derivati che considero strategici e urgenti: «l’ascolto operativo dell’appello dei giovani» e il rinnovamento della nostra «criteriologia apostolica».


L’ascolto operativo dell’«appello dei giovani» è indispensabile per un impegno apostolico di futuro. Ci consideriamo servitori dell’uomo perché inviati dal Padre ad essere missionari della gioventù. La nostra prospettiva di futuro ha due poli inseparabili, l’aiuto dall’alto che ci sorregge e ci lancia, e i ragazzi e i giovani che ci chiamano e ci provocano nella loro concreta condizione giovanile.

Stiamo tra i giovani perché vi ci ha inviati Dio, e scrutiamo la loro condizione giovanile in tutta la sua problematica perché, attraverso essa, è Cristo stesso che ci interpella. La patria della nostra missione è la gioventù bisognosa. La sua condizione oggettiva è lo stimolo pratico che misura gli impegni della nostra speranza, ci offre elementi di valutazione delle nostre opere e ci mette in crisi di revisione e di riprogettazione.

Oggi si sente impellente il bisogno di una «novità di presenza» apostolica; essa è tale che non condanna le opere per sé stesse, ma ne esige un magnanimo ripensamento insieme anche a esperimenti inediti, debitamente programmati e valutati. Gli ultimi due Capitoli Generali ci hanno orientati precisamente in tale senso.

Il muoversi in questa direzione non diminuisce i problemi, piuttosto ne fa nascere dei nuovi; non favorisce né la comodità né la tranquillità, ma risveglia i sentimenti più genuini dell’apostolo; non si è comodi, ma ci si sente chiamati a collaborare con Cristo Redentore alla liberazione integrale del giovane. La forza e il coraggio s’afflosciano quando si rinchiudono in una situazione d’imborghesimento; invece il loro clima più adatto è quello della problematica e delle necessità altrui, soprattutto dei destinatari prediletti. La nostra vocazione è nata in tempi difficili e il coraggio di viverla è cresciuto affrontando le difficoltà reali e complesse del momento.


Rinnovamento della nostra «criteriologia apostolica», perché sia valida per il futuro. Essa è contenuta, ci ha segnalato il CG21, nel Sistema Preventivo. Siamo fortemente impegnati, dopo il bel documento capitolare, a riattualizzarne i grandi principi portanti. È, questo, un lavoro indispensabile per la nostra prospettiva apostolica.

Nel Sistema Preventivo troviamo quel particolare «stile di santificazione e di apostolato» (MR 11) che lo Spirito del Signore ha suscitato in Don Bosco; esso costituisce un elemento dall’alto che fonda la nostra speranza.

Orbene: in una situazione di transizione non ci servono le formule fatte, ma piuttosto i grandi criteri di azione che suscitano e guidano tante possibili e differenziate programmazioni Abbiamo bisogno di criteri che animino con nuova vitalità gli impegni pastorali, anche se ci stiamo muovendo, anzi appunto perché ci stiamo muovendo, in un’incertezza socioculturale.

Curiamo, dunque, una prospettiva pedagogica di principi d’azione, robusti e collaudati dall’esperienza, che accompagni e renda operativa la nostra speranza (cf. lettera-circolare su Il progetto educativo salesiano, ACS 290).

Quanto più si approfondiranno e si sapranno tradurre in orientamenti pratici quei grandi criteri pedagogico-pastorali che ci ha lasciato Don Bosco nel Sistema Preventivo, tanto più si contribuirà, senza dubbio, a confermare meglio i fratelli.


La bontà, sorretta e pervasa dalla «Carità»


Infine, il terzo cardine della forza e del coraggio è quello della bontà sorretta e pervasa dalla carità.

La bontà è un atteggiamento che non condanna, che non aggredisce, che comprende, che perdona, che intuisce, che pazienta, che confida, che aspetta, che prende a cuore, che conforta, che anima, che stimola, che loda, che corregge con umiltà e fiducia. Vien da pensare all’inno della carità della prima lettera ai Corinti: «Chi ama è paziente e premuroso. Chi ama non è geloso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio. Chi ama è rispettoso, non va in cerca del proprio interesse, non conosce la collera, dimentica i torti. Chi ama rifiuta l’ingiustizia, la verità è la sua gioia. Chi ama, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, non perde mai la speranza» (1 Cor 13, 4-7).

Certamente in un clima compenetrato da questa bontà risulta facile la mutua comunicazione e l’efficacia di un dialogo animatore. Ricordiamo l’incontro del giovane muratore Bartolomeo Garelli con Don Bosco nella chiesa di S. Francesco d’Assisi a Torino: la bontà del prete novello ha reso possibile un’amicizia che inaugurò la nuova missione storica della Famiglia Salesiana a favore della gioventù.

Dell’importanza della bontà siamo tutti convinti, e tutti siamo facili a rimpiangere il cuore di Don Bosco, che non troviamo sempre nel clima delle nostre comunità. È più facile criticarne l’assenza che concorrere ad aumentarne la presenza.

Non c’è dubbio che chi è «buono» irradia calore e speranza negli altri. Ciò che fa problema, però, è conoscere ed usare i mezzi per coltivare la bontà.

Mi soffermo anche qui a ricordare semplicemente due aspetti strategici che assicurano, per chi lo vuole, la crescita nella bontà; derivano dal dono della carità, infusa in noi dallo Spirito del Signore. Essi sono: il ricupero del «primato della dimensione contemplativa» e l’intensa cura della «comunione fraterna».


Il ricupero del primato della «dimensione contemplativa» implica l’esercizio e lo sviluppo della carità nei nostri rapporti con Dio: l’ascolto della sua parola, la considerazione del suo mistero di salvezza, la meditazione della sua misericordia, lo stupore per l’eroismo del suo sacrificio, l’ammirazione per la benignità e la fermezza del suo comportamento, la gioia per la generosità dei suoi doni, l’entusiasmo per la gratuità del suo amore.

La bontà che procede dalla carità non è propriamente un dato temperamentale o una bonomia di convivenza, ma un frutto cosciente ed esigente della profondità del proprio amore per Dio.

Quanto più si diffonda in Congregazione una certa atmosfera intrisa di ateismo pratico, tanta minor capacità di vera bontà esisterà tra i confratelli.

La fonte di quella bontà che è al centro dello spirito salesiano è Dio, in una coscienza di profonda amicizia con Lui; essa fluisce dall’esercizio di una carità che contempla, con intuizione d’amore, il cuore del Padre. Si tratta di una contemplazione dove l’attività dell’intelligenza è al servizio dell’amore, e dove i propositi della volontà si traducono in testimonianza di servizio come partecipazione al mistero adorato.

Per ricuperare quota nel dar forza e coraggio ai fratelli attraverso la bontà, bisogna approfondire la capacità di stare in continua conversazione con Dio, scelto come l’Amico sommamente amato nella professione religiosa. Di qui l’importanza e l’urgenza di curare i tempi di preghiera personale e comunitaria; l’Eucaristia, la Penitenza, la meditazione della Parola di Dio, la liturgia delle ore, la devozione a Maria: sono questi i mezzi indispensabili per rendere quotidianamente possibile la nostra bontà.

La capacità d’incoraggiamento degli altri poggia tutta sulla coscienza viva dell’amicizia con Dio.


Intensa cura della «comunione fraterna». Un altro campo concreto per la coltivazione della nostra bontà è l’esercizio di comunione con gli altri.

Si è parlato tanto in questi anni di interscambi personali, di amicizia, di comunione fraterna, di comunità ideale. Bisogna che siamo realisti e che non contribuiamo a fare della comunità un mito. Non esiste nella storia la comunità perfetta; essa vive in pienezza solo nella Gerusalemme celeste. Qui, tra noi pellegrini, la comunione

fraterna è oggetto di ricerca e sforzo di costruzione; cresce con gli apporti della bontà di ciascuno. Una bontà contenta di donare con lo stile della gratuità appreso nel mistero di Dio.

Il fenomeno delle defezioni e della crisi profonda di non pochi fratelli ci ha ricordato un aspetto particolare, forse un po’ troppo trascurato negli affanni del lavoro quotidiano: c’è in tutti qualche momento o grado di debolezza e di peccato e anche di disturbo psichico; c’è un livello di patologia più o meno intenso anche tra i religiosi cosiddetti normali; la nostra vita non è solo logica e ascesi.

Il realismo delle costatazioni di debolezza, di manchevolezza, di squilibrio e di malattia, ci ha ricordato che la bontà ha anche un aspetto di comprensione, di perdono e di terapia. Nel promuovere la formazione permanente in ogni comunità si dovrebbe riservare un posto non secondario alla sua «dimensione terapeutica», che molte volte previene e altre sana le cadute e i sintomi patologici di qualche suo membro. Per dar forza e coraggio a non pochi fratelli è necessaria una intelligente applicazione alla cura di questo aspetto. La rieducazione di ogni comunità deve portarci a saper affrontare le manchevolezze e le crisi personali con lo stile della bontà che è amore comprensivo e rispettoso, anche se poggiato sulla forza e la lealtà di Dio e non sul disinteresse, sul permissivismo, sulla connivenza o sul timore della correzione.



7. Concludo


Abbiamo percorso insieme, cari confratelli, un po’ alla svelta e in una presentazione assai sintetica, alcuni dati di lettura dell’attuale crisi, scoprendo dei segni di speranza e individuando dei compiti prioritari di lavoro. L’abbiamo fatto considerando l’abbandono di non pochi, lo scoraggiamento di alcuni, il tentennamento di altri, il calo delle vocazioni e l’ansia di tutti di avere una più chiara prospettiva di futuro.

L’epoca in cui viviamo mette a prova la fecondità e la fedeltà. Come reagire? Chi ci darà la forza e il coraggio per affrontare tanti problemi?

Il Signore è la fonte della fedeltà; Maria e la Chiesa ci proclamano il mistero cristiano della maternità feconda; tutti i consacrati sono stati incaricati di portare fiducia e gioia ai loro fratelli. I cardini su cui si muove tale ministero d’incoraggiamento sono la fede, la speranza e la carità; esse ci invitano a concentrare il «servizio della confermazione» sulla verità della nostra vita consacrata, sulle prospettive della nostra missione, e sulla bontà inerente al nostro stile di vita.

Se consideriamo i punti concreti a cui ci siamo riferiti nel parlare dei tre cardini, constateremo che si tratta di un programma di rinnovamento già approfondito e stabilito dai nostri due ultimi Capitoli Generali. Si vede proprio che lo Spirito del Signore ci ha assistito in quelle assise per costruire una strategia valida di futuro, per chiarire i valori della nostra identità, per stimolare gli impegni della perseveranza.

Concentriamoci, dunque, intelligentemente e generosamente, su questi punti strategici per rinvigorire tra noi la fedeltà e la fecondità.

Don Bosco ha testimoniato con tutta la sua esistenza, sia la fedeltà, sia la fecondità, sia la capacità d’incoraggiamento. È vissuto in tempi difficili ed ha trovato proprio in essi una ragione ancor più forte a favore della sua vocazione. Forse ci stavamo dimenticando che appartiene all’essenza stessa della nostra vocazione esistere appunto per risolvere problemi, piccoli e grandi. Anche la Chiesa esiste per affrontare le difficoltà e vincere il male.

I pensatori di alcuni secoli fa si chiedevano se Cristo si sarebbe incarnato nel caso che non esistesse il peccato nella storia: noi sappiamo che la sua incarnazione è, di fatto, opera di redenzione e di liberazione in una lotta serrata contro il mistero dell’iniquità.

Anche la dimensione mariana della nostra spiritualità ci ricorda l’aspetto di patrocinio e di aiuto da parte di Maria appunto nei tempi difficili, affinché sappiamo lottare ed essere costanti fino alla fine.

Risvegliamo, dunque, con fiducia e speranza, l’entusiasmo e la profondità della nostra professione religiosa, ricordando quanto diceva l’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto: «Dio vi manterrà saldi fino alla fine, e così nessuno vi potrà accusare quando nel giorno del giudizio verrà Gesù Cristo, nostro Signore. Dio stesso vi ha chiamati a partecipare alla vita di Gesù Cristo, suo Figlio e nostro Signore, e Dio mantiene le sue promesse»! (1 Cor 1, 8-9).

Cordiali auguri di forza e di coraggio a tutti!

Vi assicuro il mio affetto e un ricordo quotidiano nell’Eucaristia e nel Rosario.

Vostro nel Signore,

D. Egidio Viganò