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C’È ANCORA TERRENO BUONO PER I SEMI



Introduzione. - I 150 anni di Bartolomeo Garelli. - Un appello pressante del CG23: fede e vocazione. - La vocazione e le vocazioni. - Nuova prospettiva della pastorale giovanile. - Sfide del contesto attuale. - Risveglio del trascendente e itinerari da elaborare. - Essere comunità propositiva. - «Personalizzare» l’itinerario di fede. - Curare esperienze maturanti. - Saper chiamare e accompagnare. - Conclusione: i primi responsabili.

Lettera pubblicata in ACG n. 339



Roma, 8 dicembre 1991

Solennità dell’Immacolata


Cari confratelli,


un saluto cordiale anche dai membri del Consiglio Generale. Siamo rientrati già da alcune settimane dalla Terra Santa, dove abbiamo vissuto una profonda esperienza di contemplazione della storia della salvezza in un corso speciale di esercizi spirituali.

Si commemoravano i 100 anni della presenza salesiana in Palestina. Abbiamo partecipato alle celebrazioni dei confratelli (SDB) e delle sorelle (FMA) di quelle Ispettorie, tanto provate e insieme tanto benemerite. Abbiamo pregato per tutte le comunità e per ogni confratello, mentre ci immergevamo nel mistero dell’Incarnazione (con Maria e con Giuseppe) e ci sentivamo coinvolti negli eventi pasquali della passione e morte di Gesù, della sua risurrezione e del dono pentecostale dello Spirito.

Siamo rientrati ripieni dei sentimenti di Cristo e rinnovati nella volontà d’impegno per la sua missione nella storia.

Quanto avrebbe meditato e goduto il nostro caro padre Don Bosco per un’esperienza così intensa nella terra della santa Famiglia e degli Apostoli, se già quando andava a Roma visitava con estremo interesse le testimonianze dei martiri cristiani e il luogo della tomba di S. Pietro. Il suo primo successore, il beato Michele Rua, andò pellegrino ben due volte in Terra Santa (1895 e 1908) in atteggiamento di gratitudine e in ricerca di una spinta sicura per il futuro della Congregazione.

Anche noi in Terra Santa ci siamo sentiti rappresentanti di tutta la Famiglia di Don Bosco. Il conferimento della cittadinanza onoraria di Betlemme al Rettor Maggiore e alla Madre Generale è stato come un gesto simbolico che ci unisce tutti più intimamente con la radice davidica del Signore.

Da parte mia ho chiesto per la Congregazione, a Betlemme nel tempio della natività, il dono di saper rinnovare efficacemente la dimensione vocazionale della nostra pastorale.

La Terra Santa è la patria della più documentata e ricca storia di vocazioni. Iddio ha intrapreso la sua avventura nell’umanità privilegiando queste regioni. Ha chiamato molti collaboratori assai differenti tra loro: patriarchi, condottieri, profeti, giudici, re, sacerdoti, eroi, uomini e donne per missioni concrete. Li ha chiamati a tutte le età, dal seno materno (come Giovanni Battista), fino all’età adulta (come i dodici Apostoli e Saulo di Tarso).

A Betlemme, a Nazaret e a Gerusalemme era stimolante meditare l’esortazione del Signore: la messe è molta e gli operai sono pochi, chiedete insistentemente al padrone della messe che aumenti il numero degli operai.1 È suggestivo pensare che proprio Gesù è il primo operaio della vigna, sempre in cerca di collaboratori; è Lui che, nella parabola del seminatore, ci ha insegnato che parte del seme è caduta in terreno buono ed ha fruttificato. Bisogna proprio riconoscere che c’è sempre nei secoli, quindi anche oggi tra noi, del terreno buono dove può fruttificare il seme lanciato dal Signore, sempre vivo e attivo nella sua Chiesa.


I 150 anni di Bartolomeo Garelli


In questo 8 dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione, sono stato a Torino per commemorare il 150° anniversario di quell’umile evento che Don Bosco considerò come l’inizio dell’Opera degli Oratori. Fu sua permanente convinzione che all’origine di quest’Opera c’è stato il materno intervento della Vergine Maria. «Lei ha fatto tutto», dirà più tardi. Per intercessione di Maria l’incontro di Bartolomeo Garelli con Don Bosco è stato come il piccolo granello di senape di un rigoglioso carisma nella Chiesa. Un carisma che, tra l’altro, affida alla Madonna tutto l’orientamento vocazionale dei giovani; Essa ha guidato lo stesso Don Bosco a fondare una Congregazione con il coinvolgimento di vocazioni giovanili: quei 22 che il 14 maggio 1862 emisero con lui i primi voti salesiani sono la miglior prova storica della dimensione vocazionale, sorretta da Maria, presente in tutto il divenire salesiano. Don Bosco si dedicò intensamente alle vocazioni non solo per l’Opera degli Oratori, ma per la Chiesa tutta nei suoi differenti ministeri, carismi e servizi.

Nella sua indefessa attività vocazionale il nostro Fondatore fu anche originale e creativo, soprattutto nella maturazione dei candidati. Organizzò pure la cura delle cosiddette “vocazioni tardive”; nonostante le numerose difficoltà incontrate (anche da parte di Mons. Gastaldi), istituì l’OMA (Opera di Maria Ausiliatrice) precisamente per coltivare le vocazioni di giovani più maturi in età. Filippo Rinaldi fu una di esse, divenendo poi ottimo loro formatore.

Certo: i tempi sono oggi assai cambiati, ma non ci abbandonano mai né la creatività dello Spirito del Signore, né l’aiuto materno di Maria: il seminatore continua sempre a gettare del seme in terreno buono.



Un appello pressante del CG23: fede e vocazione


L’ultimo Capitolo Generale ci ha presentato la fede come energia di vita e come culmine della nostra attività educativa, vivificata e coronata da un clima di spiritualità.

Una deliberazione capitolare ci ricorda che «il cammino di fede dei giovani richiede che la comunità salesiana ponga particolare attenzione al loro orientamento vocazionale».2

Il testo parla del «cammino di fede dei giovani» nella sua unità e integralità, ossia di tutto il cammino, considerandolo in ogni fase dell’attività educativa; se in qualche stadio del percorso venisse a mancare l’orientamento vocazionale, questo verrebbe emarginato di fatto dall’autenticità del nostro educare alla fede.

Da tempo il tema delle vocazioni è stato oggetto di attenta riflessione da parte dei nostri Capitoli Generali; già il Rettor Maggiore don Luigi Ricceri vi dedicò una speciale lettera circolare.3 Soprattutto il CG21(4) ha presentato una sintesi ancor oggi valida; e, seguendo una delle sue indicazioni,5 il dicastero per la Pastorale giovanile ha offerto, nel 1982, un opportuno sussidio alle Ispettorie.

L’originalità del CG23 è quella di aver inserito la dimensione vocazionale nel cammino di fede dei giovani e di aver concepito lo stesso cammino come una risposta graduale e progressiva ad una chiamata personale. Pensiamo alle quattro aree indicate dal Capitolo: esse sono simultanee anche se con differenti sottolineature e intensità. Ebbene, ciascuna di esse indirizza richiami vocazionali, mentre la quarta area, quella dell’impegno per il Regno, si concentra esplicitamente sull’appello vocazionale, come condizione indispensabile di autenticità di tutto il cammino.

Così, sin dall’inizio dell’educazione alla fede, l’attenzione viene posta pedagogicamente sulla dimensione vocazionale: i passi che il giovane va facendo verso la maturità umana (prima area), i traguardi che va percorrendo nella sua conoscenza e partecipazione al mistero di Cristo (seconda area), il suo inserimento graduale nella vita stessa della Chiesa (terza area), dovrebbero portarlo all’interesse personale per il Regno (quarta area) «impegnando la propria vita per la causa di Dio, salvatore dell’uomo».6

Il processo vocazionale non è un momento «ultimo», «casuale», «elitario», «eccezionale», ma l’asse portante di tutto il cammino, in ognuna delle sue tappe.



La vocazione e le vocazioni


È utile ricordare, anche se succintamente, che all’origine della vita di fede c’è il sacramento del Battesimo: esso comporta una opzione fondamentale per Cristo e un coinvolgimento nel progetto operativo del suo Regno.

Il Concilio Vaticano II ha fatto emergere la verità battesimale della vocazione comune di tutto il Popolo di Dio, operando una specie di capovolgimento copernicano nel modo di concepire la realtà della vocazione. Questa, infatti, si deve considerare pensando innanzitutto al piano globale di Dio per salvare l’uomo. Alla base c’è Cristo e la sua Chiesa con la missione di condurre l’umanità verso la meta della salvezza: la costruzione del Regno.

Il sacramento del Battesimo incorpora a Cristo e alla Chiesa, investendo ogni cristiano della grande vocazione del Popolo di Dio. Essere laico, divenire prete e farsi religioso significa assumere una maniera speciale di mettersi al servizio della vocazione comune e collaborare nella missione della Chiesa. Le «vocazioni» sono tutte radicate nell’unica «vocazione» fondamentale e da essa illuminate. Questo ha speciale importanza per la progettazione della nostra pastorale vocazionale.

Certo: quando noi parliamo di «vocazioni» ci riferiamo in particolare a quelle dei vari gruppi di vita consacrata, del sacerdozio ministeriale o di un laicato esplicitamente e concretamente impegnato.

Per la cura di queste vocazioni, se da una parte non basta presentare solo la vocazione battesimale di fondo, perché c’è da far capire l’indispensabilità di ministeri, di testimonianze e di servizi appunto per poter realizzare la missione comune; da un’altra parte, però, è precisamente nel Battesimo — sacramento della fede — che si trova la ragione sostanziale di ogni vocazione cristiana, ed è da lì — ossia, dalla cura della comune vocazione cristiana — che si deve progettare tutta l’attività a favore delle vocazioni. In altre parole: per noi la cura delle vocazioni va inclusa costitutivamente nella stessa pastorale giovanile, con la quale intendiamo educare i giovani alla vera fede cristiana. Nessuno può educare un giovane alla fede senza sviluppare in lui la vocazione fondamentale del Battesimo.

Possiamo anche andare oltre e affermare che l’esistenza di ogni persona umana è vocazione: creata per vivere «ad immagine e somiglianza di Dio», la persona è chiamata a collaborare, in comunanza di destino, con gli altri uomini in una storia che porta tutto il mondo alla meta del Regno.

Il Concilio ha approfondito i concetti stessi di «mondo» e di «Chiesa», superando la dicotomia tra «profano» e «sacro». Mondo e Chiesa convergono in un’unica storia orientata, di fatto, a costruire il Regno; essi non sono mutuamente estranei, ma si uniscono (anche se in sé sono uno profondamente differente dall’altra) in una concreta e comune esistenza storica; il mondo a maniera di «massa», e la Chiesa a maniera di «fermento»: «La Chiesa — dice il Concilio — nel prestare il suo aiuto al mondo e nel ricevere dal mondo molteplici aiuti, solo pretende una cosa: l’avvento del Regno di Dio e la salvezza di tutta l’umanità».7 Perciò, in questa visione conciliare, si può affermare che la Chiesa (con la sua vocazione cristiana) è per il mondo, ma anche che il mondo (con la sua vocazione umana) è per la Chiesa: evidentemente per differenti ragioni. Distinguendo, infatti, nella Chiesa il suo duplice aspetto di «istituzione di salvezza» e di «inizio del Regno», si deve riconoscere che come «istituzione di salvezza» la Chiesa è totalmente per il mondo — ossia, è rivolta operativamente alla salvezza dell’uomo —; ma che, come «incoazione del Regno», la Chiesa è il vero traguardo a cui tende il divenire del mondo, tutto teso storicamente verso una nuova creazione.

Così la dimensione vocazionale, in una valida educazione cristiana, tende simultaneamente a sviluppare sia il significato umano dell’esistenza di una persona, sia il suo ingresso nell’orbita della fede attraverso il Battesimo e gli ulteriori impegni.

Perciò la vocazione e le speciali vocazioni cristiane non sono estranee o antitetiche alla vocazione esistenziale della persona; ne sono piuttosto una esplicitazione qualificata per un risultato positivo della storia. Essere «cristiano», e poi divenire «prete», o «consacrato» per testimoniare le beatitudini, o «laico» particolarmente impegnato, significa realizzare un compito vitale della Chiesa a servizio del mondo perché raggiunga la grande meta del Regno.

La vocazione del Popolo di Dio e le vocazioni specifiche che ne attuano i dinamismi appaiono oggettivamente, nella storia, non come una fuga dal campo di battaglia o una alienazione, ma come un impegno, tra i più responsabili, per la vittoria del bene; non sono un rifugio antimondano per salvare la propria anima, ma la collaborazione generosa con Cristo per portare l’uomo alla pienezza delle sue potenzialità. Il mondo senza Cristo comporterebbe la sconfitta globale della storia; la vocazione e le vocazioni sono nate per evitare tale sconfitta. Non c’è nulla di più prezioso per il corso della storia umana che la vocazione di Cristo e le vocazioni dei suoi discepoli.



Nuova prospettiva della pastorale giovanile


Se guardiamo a Don Bosco e alle finalità assegnate alla nostra Congregazione, vediamo che la prospettiva vocazionale è al centro delle preoccupazioni educative. Le Costituzioni infatti indicano la «cura particolare delle vocazioni apostoliche»8 come una delle finalità che guidano la missione salesiana.

Trattando poi dei nostri «destinatari» affermano che tra i giovani privilegiati dalla missione salesiana ci sono quelli che mostrano segni di speciale vocazione;9 inoltre indicano l’orientamento vocazionale come indispensabile nei piani educativi, quale contenuto e servizio per tutti i giovani.10

Il CG23 considera giustamente la «comunità salesiana» come soggetto globale dell’impegno vocazionale; essa coinvolge ognuno dei confratelli in comunione operativa con l’Ispettore e il Direttore, secondo un accurato progetto educativo-pastorale a livello sia ispettoriale che locale. È un progetto di pastorale giovanile per l’educazione alla fede, particolarmente permeato da un efficace orientamento vocazionale.

È evidente che, affrontando oggi i problemi della «nuova evangelizzazione» e della «nuova educazione», ci saranno da considerare non poche novità nell’elaborazione del progetto di pastorale giovanile e, quindi, anche dell’orientamento vocazionale; per questo è necessario dedicargli attenzione e tempo con premura e predilezione. Non basta continuare semplicemente con la metodologia pastorale del passato; c’è urgenza di una nuova riflessione comunitaria e di intelligente creatività nella ricerca di iniziative in campo vocazionale. Si può dire che la misura di una vera pastorale giovanile è il suo spessore vocazionale! Se non si forma la vocazione comune cristiana e se non si coltivano speciali vocazioni al suo servizio, risulterà sterile tutta l’educazione dei giovani alla fede!

Perciò appare più che urgente dedicarsi, tra noi, anche alla cura delle vocazioni specifiche per i gruppi della Famiglia Salesiana, in particolare a quelle orientate verso la nostra Congregazione: di chierici e di coadiutori. La parabola del seminatore ci deve aprire il cuore alla speranza.

Sono sorte, è vero, nuove e numerose difficoltà, ma appaiono anche consolanti motivi di ripresa. I tempi sono divenuti particolarmente difficili, ma la potenza dello Spirito del Signore è più forte delle difficoltà; e giustamente noi chiamiamo la Vergine Ausiliatrice «Madonna dei tempi difficili».

Ma vediamo in che senso l’orizzonte è divenuto più oscuro oggi per le possibilità vocazionali.



Sfide del contesto attuale


Senza dubbio ci sono oggi contesti che rendono difficile il nascere e il crescere delle vocazioni. C’è un intreccio di condizionamenti negativi, pur se accompagnato da risorse nuove, che richiede la nostra attenzione comunitaria e la progettazione di un’azione sistematica — non solo occasionale — per delle risposte nuove e appropriate che non siano solo ripetizioni di modalità che hanno perso incisività.

I contesti sono diversificati secondo le regioni, ma conviene non dimenticare che va crescendo, un po’ ovunque, un tipo di cultura con note universali. Alcune difficoltà che enumereremo brevemente saranno presenti con maggior intensità in un luogo piuttosto che in un altro, ma la loro considerazione apporta ovunque delle riflessioni utili nella progettazione dell’orientamento vocazionale.

— Incominciamo dalla secolarizzazione della società, che si espande come macchia d’olio nel mondo.

Finora molte espressioni sociali e culturali erano permeate da una dimensione religiosa. È andata crescendo, invece, l’irrilevanza sociale di ciò che è religioso, che rende più difficili e lunghi i ritmi della maturazione della fede sia come conoscenza dei suoi contenuti e sia ancor più come pratica di vita.

Essere cristiani — ossia vivere l’opzione battesimale — in una società pluralista, diviene socialmente una modalità tra tante altre, con lo stesso diritto di cittadinanza. Può affiorare perciò un clima di relativismo, di offuscamento degli ideali tradizionali, di perdita del senso della vita: molti giovani sembra che galleggino alla deriva su un’imbarcazione senza bussola. Perdono la prospettiva del trascendente, che è il firmamento della fede, e si chiudono in piccole risposte sul senso della vita assolutamente insufficienti per le grandi ansie del cuore umano. Le stesse risposte che la scienza intende offrire loro risultano carenti nell’ottica della ricerca di significato, perché non si riferiscono alla finalità ultima della vita e al senso globale della storia.

Urge far sentire la necessità di esperienze di silenzio e di riflessione, di ascolto del mistero e di preghiera, di incontro con gli eventi veramente significativi dell’esistenza per meditarli negli strati profondi dello spirito.

— Un’altra difficoltà è provocata dalla molteplicità dei messaggi, con abbondanza di proposte, fondate su concezioni filosofiche e religiose diverse, unita a un’accelerazione dei cambi in quasi tutti i campi del sociale: politica, economia, scienza, etica, stili di vita. La presentazione di tanti messaggi, anche contrastanti, rende particolarmente difficile il discernimento vocazionale. Ne consegue una concezione di libertà come «possibilità mai chiusa di nuove scelte», che porta con sé una marcata indecisione per le opzioni definitive; si è facili, magari, alla generosità per tempi limitati, ma riesce veramente arduo il «per sempre», perché le continue trasformazioni potrebbero riservare altre novità più appetibili alla scelta.

In questa atmosfera mobile si possono avere due reazioni estreme: in molti l’«indifferentismo» — perché nessun ideale sarebbe oggettivamente entusiasmante —; e in alcuni quell’atteggiamento di reazione quasi viscerale chiamato «fondamentalismo» — ossia, un affanno per il recupero delle certezze perdute attraverso l’affermazione volontarista di antiche modalità di giudizio — senza apertura alle esigenze oggettive dei segni dei tempi.

Né l’indifferentismo, né il fondamentalismo sono un clima favorevole a un orientamento vocazionale salesiano.

— Un’altra difficoltà è costituita dal dato culturale del prolungamento dell’età giovanile, per cui le decisioni personali sogliono venir differite. Le fasi tradizionali dell’iniziazione cristiana, considerate ieri come momenti privilegiati per un progetto personale di fede, non poche volte risultano collocate in tempi inadeguati e insufficienti. Infatti, le situazioni che determinano l’orientamento nella vita (ingresso nel mondo del lavoro, università, ecc.) hanno luogo oltre l’adolescenza in un’età più avanzata. Le esperienze e i contenuti evangelici dell’iniziazione cristiana conservano assolutamente tutta la loro importanza, ma non ricoprono più, almeno sistematicamente, l’età giovanile. Così i «giovani» sono in certo qual modo non seguiti specificamente proprio quando sono ancora in piena evoluzione, negli anni in cui si dispongono a fare scelte di esistenza. D’altra parte essi hanno un livello culturale più alto, sia nell’ambito degli studi che delle esperienze, per cui abbisognano di un accompagnamento più adeguato e, inoltre, opportunamente diversificato.

Il discorso dell’orientamento vocazionale richiede, perciò, di essere assai più consistente e convincente, la testimonianza più nitida, le proposte più concretamente valide. E questo certamente sfida la capacità delle nostre comunità di dialogare coi giovani per la maturazione della fede in progetti di vita.

— Un’altra interpellanza che può comportare anche delle difficoltà parte da un fatto di per sé assai positivo, ma non sempre illuminato in pienezza nei suoi significati. È quello che potremmo chiamare dei «temi generatori»: sono valori nuovi che sogliono entusiasmare oggi i giovani, come la pace, la solidarietà, la giustizia, l’ecologia, la mondialità, la soggettività, ecc. Essi aprono un orizzonte affascinante, ma che potrebbe interessare la coscienza solo con prospettive orizzontali, favorendo un atteggiamento di temporalismo che diviene facile preda di strumentalizzazioni, di mode, di ideologie, le quali, a non lungo andare, provocano delusione e disagio.

L’orientamento vocazionale non deve rifuggire da questi «temi generatori», ma deve saperli illuminare con quel valore supremo e assoluto a cui è ancorata ogni scelta di fede. È indispensabile vincolare questi temi con la persona stessa di Cristo, l’unico vero Liberatore: la sua risurrezione, che lo fa Signore della storia, è la più grande novità di tutti i tempi.

— Infine non va dimenticata, tra le attuali difficoltà, una diffusa perdita di apprezzamento sociale (almeno in occidente) in riferimento alle specifiche vocazioni ecclesiastiche. La crisi sacerdotale e religiosa di questi ultimi decenni ha introdotto, in vari ambienti, disaffezione e sospetti. Anche le nostre comunità non sempre hanno presentato un volto attraente, accogliente ed apostolico, non hanno proclamato con chiarezza ed entusiasmo l’identità del proprio progetto evangelico di vita, non hanno saputo proporre spazi di protagonismo all’impegno cristiano dei giovani.

Perciò il rapporto con la vocazione e le vocazioni, invece di essere coinvolgente, è divenuto piuttosto debole, meno propositivo, fino a convertirsi più d’una volta in silenziosa passività.

È evidente che, in tal caso, bisogna reagire con tutte le forze: convertirsi. Senza testimonianza di vita muore ogni cura valida delle vocazioni.

Dunque, la molteplicità delle difficoltà e dei problemi viene a indicarci l’urgenza e l’indispensabilità di una attenta e nuova riflessione comunitaria circa l’orientamento vocazionale per saper poi elaborare degli itinerari concreti di accompagnamento, continuamente sottoposti a verifica.



Risveglio del trascendente e itinerari da elaborare


Le difficoltà non sono poche, ma ci sono anche promettenti segni di ripresa. L’orizzonte religioso dei giovani sta segnando un risveglio

e nuove possibilità. Non è una ripresa universale né totalmente chiara; si presenta marcata da una certa ambivalenza, ma si apre in forma crescente alla ricerca di un orizzonte di trascendenza. L’evento Czeþstokowa (agosto 1991) è stato significativo ed è promessa di moltiplicazione di una gioventù che riscopre con entusiasmo contagioso il mistero di Cristo.

Cresce tra non pochi giovani la stima dell’esperienza religiosa, come qualità nobile dell’esistenza umana; essa appare, è vero, fortemente soggettivizzata, ma è una preziosa apertura verso la trascendenza.

Si intensifica anche una costante ricerca di senso che si manifesta soprattutto in gruppi particolarmente affiatati e ben motivati; ciò stimola anche in altri la disponibilità per momenti di riflessione e di spiritualità. Sempre più condivisa è la partecipazione ad iniziative di solidarietà di vario tipo, anche di segno apostolico. Si vede, insomma, che sta espandendosi un clima di novità aperte al Vangelo; esso porta con sé, in forma quasi connaturale e quindi facilmente accettata, un insieme di interrogativi vitali proprio sul senso della vita.

In questo clima non è difficile inserire il tema dell’orientamento vocazionale. Non sono pochi i giovani che si lasciano interpellare; e se la proposta viene introdotta con sensibilità e simpatia verso le novità positive sopra indicate, risveglia vero interesse.

È anche possibile pensare che l’attuale crisi delle vocazioni sia essa stessa collegata con i segni dei tempi e, quindi, permessa dal Signore per risvegliare nelle comunità cristiane una dinamica di conversione, di creatività e di innovazione che adegui la cura delle vocazioni alle sfide socioculturali.

Perciò: niente cedimenti al disimpegno né allo scoraggiamento, ma volontà di intensificare l’orientamento vocazionale all’interno di una pastorale giovanile rinnovata, centrata su obiettivi appropriati ai tempi!

Alcuni punti di riferimento da privilegiare, suggeriti dalla situazione religiosa che stiamo vivendo, sono i seguenti:

— la presentazione del mistero di Cristo come valore storico centrale, accessibile a ognuno attraverso una vita ispirata ai valori evangelici di amore, di servizio, di austerità, di universalità;

— l’attrattiva dell’esperienza fraterna di gruppo, come un modo di introdursi alla comunione ecclesiale;

— l’apprezzamento per ideali di servizio, come l’opzione preferenziale per i poveri, la ricerca della giustizia, il coraggio della non- violenza, le iniziative per la pace, ecc.;

— il desiderio di protagonismo con assunzione di responsabilità concrete in vista di progetti socialmente utili;

— l’esperienza del volontariato con le sue esigenze di organizzazione e di sacrificio.

La possibilità di proporre con efficacia ai giovani di oggi un impegno cristiano da sviluppare in un itinerario vocazionale, è legata innanzitutto alla nostra genuina spiritualità, come persone e come comunità, così da esprimere in forma trasparente il valore della vita in Cristo. Da qui deriverà la qualità dell’educazione dei giovani alla fede, a cui bisognerà aggiungere una cura attenta e costante verso quelli che dimostrano segni di vocazione speciale.

Spiritualità, qualità pastorale e accompagnamento vocazionale sono tre aspetti necessari e inseparabili. Quando uno solo di essi è mancante, l’itinerario vocazionale diventa sterile.

Mi sembra perciò opportuno indicare alcuni punti pratici che richiedono nelle case uno sforzo rinnovato per applicare convenientemente le direttive dell’ultimo Capitolo Generale.

Ma a tal fine occorrerà anzitutto tener presenti alcuni principi fondanti che costituiscono la costellazione orientativa di ogni impegno vocazionale.

— Il primo di tutti è che ogni vocazione è iniziativa di Dio e dono del suo amore; c’è quindi da poggiare tutta l’azione sulla preghiera non dimenticando mai la sua natura «spirituale».

— All’iniziativa di Dio bisogna aggiungere l’indispensabile parte attiva del giovane in tutto il processo vocazionale; è lui, in prima persona, il soggetto del dialogo con il Signore e delle decisioni da prendere; di qui l’importanza di saper illuminare la sua libertà e di promuovere la sua capacità di riflessione e ricerca.

— Quindi la necessità di appropriate mediazioni educative, sia di persone che della comunità. Il proporre e il chiamare per nome è proprio del buon educatore, che sente di essere mediazione scelta da Dio per rivelare al giovane un suo nobile progetto.

Questi principi devono essere considerati attentamente nel cammino vocazionale che si vuol fare insieme ai giovani. Essi invitano a dedicarsi, personalmente e comunitariamente, a una oculata revisione dell’orientamento vocazionale nella pastorale giovanile delle opere.

Ecco allora alcuni punti concreti su cui concentrare l’attenzione e la progettazione.



Essere comunità propositiva


Un primo punto è quello sottolineato fortemente dal CG23: la comunità salesiana come «segno» e «scuola di fede» e come «centro di comunione e partecipazione». Essa è, in concreto, il luogo e la forma di vita a cui viene invitato il giovane vocabile. È una mediazione privilegiata: nella sua stessa quotidianità diventa appello che aiuta a sentire da vicino, ad accogliere e interpretare la chiamata interiore del Signore; offre al giovane riferimenti concreti per realizzare il suo desiderio di donazione. Mette a sua disposizione un tessuto di rapporti, permeati di tratto familiare e d’impegno, e un ambiente di condivisione in cui il giovane può vivere e sviluppare meglio la propria fede, sentire il fascino attrattivo della missione, riuscendo anche a capire che i difetti, degli altri e propri, non sono ostacolo alla realizzazione di un progetto di vita autenticamente vincolato con Cristo ed evidentemente efficace nel produrre il bene.

Ma la comunità non può essere solo un «tema» da trattarsi con i giovani quando si parla di vocazione, deve essere una realtà viva e condivisa. Ciò fa emergere la necessità di curare molte modalità concrete delle nostre espressioni comunitarie, religiose e apostoliche. A tal fine converrebbe ribadire vari aspetti della convivenza salesiana già abbondantemente esposti in altri documenti: non sarà difficile riconsiderarli in comunità, soprattutto quello della spiritualità.11 Qui ne sottolineiamo solo qualcuno.

Un primo aspetto da considerare con concretezza rinnovatrice è quello di centrare l’attenzione su ciò che caratterizza la nostra comunità, ossia sulla vitalità della missione giovanile. La comunità è chiamata a creare ed animare un «ambiente» e una più ampia «comunità educativa» dove i giovani entrano in contatto tra di loro e con adulti cristiani, che hanno coscienza della scelta battesimale, ossia della vocazione comune del Popolo di Dio. L’ambiente diventerà terreno fertile per i semi di vocazioni particolari se coinvolge i giovani nella partecipazione attiva alla missione comune di tutti nella Chiesa, offrendo possibilità di dialogo sui problemi dell’evangelizzazione oggi, qualificandosi con iniziative capaci di far sintesi tra crescita umana e impegno cristiano, e proponendosi come centro di aggregazione e di irradiazione nel territorio per creare solidarietà e sentirsi protagonisti di fronte a bisogni concreti.

Qui entra in gioco la partecipazione alla vita della Chiesa locale (parrocchia, diocesi, conferenza episcopale) che proietta la missione di Cristo su tutti gli abitanti del territorio e anche su coraggiose iniziative missionarie. Nell’ambiente ecclesiale locale l’invito di specifici impegni vocazionali trova un’espressione più comprensibile e un’attenzione più disponibile. Parlano le sue proposte di bene verso i vicini e i lontani, parlano i suoi messaggi sul senso della vita, parlano pure le esperienze religiose di preghiera, di meditazione e di ansia apostolica, parlano i suoi luoghi di incontro, i suoi segni, le persone che la rappresentano.

Non è difficile, così, fare un paragone tra la forza di appello della Chiesa e altre suggestioni mondane la cui validità nella ricerca di senso è oggettivamente irrilevante. La Chiesa, poi, supplisce e rimedia i limiti di testimonianza e di incisività apostolica dei singoli educatori. I giovani scorgono che nel mistero globale della Chiesa c’è un’energia di vita più grande di quella che esprimono i vari operatori. Sentire e agire con la Chiesa è dunque, per quanto riguarda i fini vocazionali, una via fortemente efficace da prendere assai in conto nelle nostre comunità.

Non poche case, poi, almeno in questi ultimi anni, hanno già sperimentato positivamente l’accoglienza di qualche giovane vocabile che condivida la preghiera comunitaria, la corresponsabilità apostolica, la fraternità, la gioia del vivere salesiano. È, questa, un’iniziativa praticata anche da altre Congregazioni, maschili e femminili, contemplative e attive. Evidentemente essa non può essere offerta come prima fase del processo vocazionale. Ma è certamente opportuna per coloro che già manifestano precise intenzioni e capacità e sono in grado di partecipare responsabilmente a uno stile comunitario di convivenza. Ciò aiuta anche a dare la misura del confronto e della revisione a cui devono sottoporsi le comunità.

Insomma, siamo invitati a ravvisare nella comunità stessa il solco, l’humus, dove si colloca e germoglia il seme delle vocazioni. Il giovane vede nei gesti della comunità e negli atteggiamenti dei suoi membri, nei valori che essa esprime, nella sua tensione apostolica, e soprattutto nella sua spiritualtà di sequela del Cristo, le sostanze nutrienti che garantiscono una crescita robusta e serena dei germi del battesimo.



«Personalizzare» l’itinerario di fede


La grazia del Battesimo porta dentro di sé per connaturalità il dinamismo vocazionale, anche quello delle vocazioni speciali. La fede medesima è vocazione: Dio chiama e il battezzato risponde: c’è dono e accoglienza, invito e accettazione, proposta e progetto.

Questo dialogo di fede va prendendo espressione concreta man mano che il credente si addentra nella propria esistenza e si fa carico della storia della salvezza. Da qui scaturiscono i motivi e l’energia per le scelte d’impegno più radicali. Quando la fede battesimale non è curata e non va maturando, non solo rimane trascurata la vocazione, ma neppure fioriscono le vocazioni.

Ma quali sono le condizioni di nascita, mantenimento e crescita della fede nei giovani d’oggi? Abbiamo già indicato sopra alcuni fenomeni che ne ostacolano la maturazione.

Il CG23 vede la risposta a questa complessa situazione in un «cammino» graduale che metta in comunicazione continua la vita dei giovani e il senso della fede. Il documento capitolare si ispira all’icona di Emmaus: camminare in compagnia di Gesù.

L’immagine del cammino suggerisce la elaborazione di itinerari in cui si includa un accompagnamento personale, soprattutto per i giovani più avanti nella maturazione di fede. È necessario che i valori e le proposte vengano interiorizzati da essi in modo che divengano, dal di dentro dei loro cuori, chiara «luce» per orientarsi e vera «energia» per progredire. Incominciare un cammino significa prendere in considerazione i punti di partenza dei singoli soggetti, ma anche non fermarsi in mete intermedie o minime alla portata di tutti; esige, invece, di sentirsi impegnati a progredire sempre oltre con chi ne ha le forze, presentando mete ulteriori fino a una spiritualità personale solida e coerente.

Per «personalizzare» un itinerario si dovranno far interagire nell’ambiente, sia le proposte di base per coloro che incominciano, sia quelle più esigenti, secondo le possibilità delle persone e dei gruppi.

A volte nelle nostre presenze non mancano richiami esplicitamente vocazionali, magari anche abbondanti, ma la risposta è scarsa, mentre si possono vedere altre esperienze ecclesiali che risultano più feconde. Una chiave per superare la sterilità è certamente la «personalizzazione» della crescita della fede. Dove non si predispone e non si accompagna la persona ad ascoltare la voce del Signore, le proposte e le mediazioni risultano ininterpretabili. Ecco perché consideriamo urgente verificare la consistenza dell’educazione alla fede che offriamo ai giovani; bisogna andare oltre il lavoro di massa (pur tanto valido e indispensabile) e accompagnare ciascuno secondo il livello a cui è giunto.

La diversità di progresso dei giovani in questo cammino richiede un concreto dialogo con ciascuno di essi. Dobbiamo cercarne lo sviluppo massimo. Esso è vitale in ogni senso: come battezzato dialogante con Cristo, come protagonista delle proprie decisioni, come intelligente osservatore in ricerca di discernimento. Proporre un itinerario è aiutare a passare dal desiderio vago e dalla prima informazione sulla fede all’iniziazione sistematica nel mistero di Cristo e della Chiesa e da questa a una spiritualità concreta e organica.

«Personalizzare» significa anche coinvolgere in maniera più diretta, passando da valori evangelici in genere ad una responsabilità di contatto e di dialogo con Cristo, fino ad una vera amicizia con Lui e alla condivisione consapevole, anche se graduale, della sua missione nel mondo.

Proprio nella prospettiva di aiutare a percorrere un itinerario verso la fede matura, urge dare più importanza all’esperienza sacramentale con Cristo per mettere solide fondamenta di convinzioni e atteggiamenti evangelici.

Le vocazioni speciali nascono da una «scelta di Dio»; a volte ed eccezionalmente, essa può essere istantanea come un lampo, ma normalmente è calma e prolungata, seguendo un processo lento e maturante.

Occorre lo sforzo pedagogico di illuminare il giovane con la Parola di Dio, con l’esperienza dei sacramenti, con il contatto di comunione con altri credenti; e ciò comporta una pianificazione di preghiera, di purificazione ascetica, di vita eucaristica.

La generosità spontanea, la voglia di spendersi per gli altri, la simpatia per i valori evangelici si possono consumare presto se non vengono integrati in un itinerario personale coerente, che porti a collocare il mistero di Cristo nel centro della propria esistenza.

Se è vero, dunque, che un itinerario di orientamento vocazionale comprende vari aspetti, tutti importanti per una risposta pienamente consapevole, è altrettanto vero che il segreto di tutto sta nell’avviare la libertà del giovane a crescere in una spiritualità sentita.

È qui dove non bisogna assolutamente sbagliare i calcoli e dove vanno concentrati gli sforzi della comunità e dei singoli educatori.



Curare esperienze maturanti


La verifica degli sforzi vocazionali compiuti in Congregazione negli ultimi anni manifesta che lungo il cammino di fede si trovano dei momenti particolarmente fecondi: sono come oasi benefiche, come stazioni di rifornimento, come dossi montani di bellavista da cui si scorgono panorami nuovi. I giovani che vi sono condotti scoprono in maniera più incisiva le caratteristiche di un progetto di vita con Cristo e se ne sentono attirati per la bellezza, per la novità e per la profondità. Tali momenti costituiscono una specie di eremo, quasi un po’ di deserto, lontano dal frastuono della città, dove è più facile trovare «esperienze forti» che toccano la persona nel più profondo. Piacevano anche a Gesù e ai suoi discepoli. Rispondono al desiderio, da parte dei giovani, di avere contatto diretto con il trascendente, di lanciare lo sguardo all’immenso firmamento del cielo molto al di sopra delle luci al neon e degli avvisi propagandistici delle strade cittadine.

Nella lettera circolare su Carisma e preghiera 12 sottolineavo come i Movimenti ecclesiali attirano per la capacità di coinvolgimento personale, di impegno di fede e di condivisione sentita. Anche il bilancio del Movimento giovanile salesiano animato dalla nostra spiritualità è oggettivamente positivo in tal senso. Bisognerà saper incrementare le esperienze maturanti dando profondità e consistenza agli elementi che le costituiscono e facendo in modo che tengano seguito nella vita e non si limitino a intervalli sporadici.

Ricordiamo alcune di queste esperienze maturanti.

— Una è certamente quella che si chiama scuola di preghiera: imparare ad ascoltare Dio e a dialogare con Lui. La preghiera e l’orazione mentale sono espressione genuina della fede; fanno passare dalla periferia della propria esistenza all’interno della vita, dove la persona incontra se stessa, scopre il significato della propria soggettività con la sua dimensione trascendente e sociale. Non si tratta di togliere importanza alle pratiche di preghiera nell’insieme dell’ambiente, ma di far emergere l’indispensabilità di un apprendistato e di un’esperienza vissuta e sentita in forma personale.

È certamente un bene che queste esperienze di preghiera e le scuole della Parola si stiano moltiplicando tra la gioventù. Si tratta di tempi, di luoghi, di gruppi che servono ad aprirsi alla voce dello Spirito che abita in noi, a imparare le diverse forme di dialogo con il Signore, a sentirsi permeati dalla verità di salvezza. I giovani li ricercano come occasione privilegiata di sintesi interiore e di approfondimento di senso.

Da questi momenti, ben preparati, fluisce un segnale positivo di fecondità vocazionale. In più di un caso la tematica stessa di questi momenti può essere esplicitamente vocazionale, anche nel senso della radicalità evangelica. Dalla preghiera si passa spontaneamente al dialogo di discernimento e alla direzione spirituale. Così i centri di preghiera divengono, di fatto, anche centri di orientamento vocazionale in complementarità con le altre iniziative del cammino.

— L’attenta cura dei «tempi forti» è anche particolarmente maturante. Essa è assai vicina alle scuole di preghiera, ma si distingue da esse. È più tradizionale tra noi e suole essere esperienza di conversione e di ripresa. I frutti delle case di ritiro o di spiritualità giovanile, sorte in questi decenni in tante Ispettorie, sono risultati dovunque molteplici e incoraggianti, soprattutto se tali case sono state organizzate non semplicemente come luoghi di ospitalità, ma come centri spirituali con una équipe efficiente di orientamento, di preghiera e di speciale celebrazione della revisione di vita per la riconciliazione. Esse offrono, in particolare, l’approfondimento e la frequenza del sacramento della penitenza, che esercita una straordinaria importanza nell’orientamento vocazionale.

— Un’altra esperienza maturante si trova in svariate iniziative di servizio e di apostolato. Se, superando la tentazione del semplice attivismo, esse vengono ricondotte a motivazioni di fede e di solidarietà evangelica, aprono i giovani ai grandi bisogni della gente e della Chiesa e fanno percepire la forza dell’amore testimoniato da Cristo.

— Anche l’animazione di ambienti o di attività, i vari impegni di tipo culturale e sociale, il volontariato in patria e all’estero, la collaborazione alle missioni, ecc. sono opportunità e stimoli per una riflessione sull’impegno della propria esistenza con aperture di fraternità. In tutte queste iniziative l’accompagnamento pedagogico e spirituale è indispensabile se si vuole che il loro esercizio diventi processo di crescita e non si esaurisca in una generosità transitoria.

— Una importante iniziativa maturante è quella del gruppo: è un’esperienza privilegiata che assume anche alcune delle iniziative precedenti e le colloca in un contesto di condivisione, di protagonismo d’insieme e di corresponsabilità. I gruppi possono essere di differente tipo, ma devono venir attraversati da una atmosfera spirituale; vale la pena indicare come particolarmente fecondi, tra noi, quelli del Movimento giovanile salesiano e dei Giovani Cooperatori. Le statistiche confermano quello che già si osserva ad occhio nudo sull’incidenza dell’esperienza di gruppo riguardo al nascere delle vocazioni. Non però, come dicevo, di qualunque gruppo, ma di quelli che sviluppano la coscienza di appartenenza, senso di ecclesialità, radicamento nella fede e tensione apostolica.

Nell’attività di questi gruppi convergono, di fatto, diversi fattori di maturazione vocazionale. Il vedere e il giudicare insieme, il realizzare attività ben organizzate, creano un abito di attenzione e di discernimento. L’azione apostolica, in specie, allena alla donazione, mette a contatto con le situazioni dei bisognosi. L’incontro personale con gli animatori (preti, religiosi, laici e gli stessi giovani più responsabili) irrobustisce la possibilità di scelta.

Ogni gruppo impegnato diventa così «vocazionale», non solo in senso generale perché coltiva l’appartenenza e la partecipazione attiva all’opzione battesimale, ma anche in senso specifico perché offre itinerari di chiarimento e di esperienza iniziale.

Non a caso il CG23 ha dedicato un orientamento operativo a favore del «gruppo»,13 facendo rilevare l’incidenza della dimensione associativa sulla maturazione della fede.14

C’è da muoversi al riguardo; si ricupera qui un vitale aspetto oratoriano della nostra pastorale giovanile.



Saper chiamare e accompagnare


La testimonianza silenziosa e l’invito implicito non sempre bastano a risvegliare le vocazioni. La testimonianza di Gesù era quanto mai trasparente e il suo fascino era grande, eppure Egli ha indirizzato l’appello diretto e la proposta personale a ciascuno degli apostoli.

Il Papa e i suggerimenti magisteriali dei Pastori parlano esplicitamente del coraggio di chiamare; pure il nostro CG21 invitava già ad «avere il coraggio di prospettare ai giovani anche le vocazioni più impegnative».15

C’è stato purtroppo, e forse persiste ancora in qualcuno, il dubbio o la negligenza di voler esprimere apertamente, in forma opportuna, l’invito personale. Il non farlo risulta, di fatto, un pernicioso «silenzio vocazionale»; si potrebbe parlare anche di codardia o di incoscienza circa il proprio ministero, perché un giovane cristiano ha oggettivamente il diritto di conoscere le proposte vocazionali della Chiesa. Si suol dare come scusa di questo svogliato atteggiamento il rispetto per la libertà: le decisioni vocazionali dovrebbero maturare da sole. Ma questa è una irresponsabile razionalizzazione. Gesù e la Chiesa non insegnano così. Ricordiamo anche gli inviti concreti che faceva Don Bosco e la sua instancabile dedizione ad ascoltare le confessioni dei suoi giovani, specialmente delle ultime classi, anche quando era già anziano e malato. Pensiamo alla forma straordinaria con cui Don Bosco ha chiamato Filippo Rinaldi; un caso eccezionale, certo, che rivela però una sua metodologia ordinaria al riguardo, fatta sempre con acuto discernimento.

Il coraggio di chiamare proviene dalla fede, dalla paternità spirituale, dalla convinzione della bellezza e della indispensabilità della missione di Cristo nella storia, dalla conoscenza intima del candidato. «Chiamare» è il nobile atteggiamento di chi offre un grande valore, di chi si preoccupa di elevare la maturazione del giovane invitato, di chi si sente preoccupato del maggior bene della società e della Chiesa.

Questo coraggio si esprime già, in forma generica, in una attività vocazionale organica, fatta parte viva della pastorale giovanile; essa si rivolge in un primo momento a tutti, ma tende di fatto a concentrare progressivamente l’attenzione e le cure differenziate verso quelli che dimostrano segni specifici.

In tal senso ci orienta il CG23 quando indica16 le fasi della crescita vocazionale del giovane: scoperta delle proprie risorse,17 allenamento alla generosità,18 annunzio vocazionale,19 proposta esplicita,20 discernimento21 e scelta iniziale.22

L’appello al coraggio della proposta è rivolto non solo al Direttore ma anche ai confratelli. Suppone in ognuno oculata osservazione e familiare convivenza per scoprire i segni di vocabilità e per saper iniziare (o far iniziare) un dialogo personale. «Non abbiate paura a chiamare» ci ha detto il Papa. La nuova stagione vocazionale è segnata da un clima di lealtà cristiana e di franchezza nel presentare ai giovani le vocazioni di speciale impegno. Molti di essi non riuscirebbero a interpretare la voce del Signore, se non li si aiutasse con una proposta esplicita. Oggi, purtroppo, la disinformazione sul sacerdozio ministeriale, sulla vita consacrata e su altre forme di speciale impegno, rende difficile una conoscenza obiettiva della loro importanza sociale ed ecclesiale. Possono apparire ai giovani lontane dalla loro esistenza e persino estranee alla cultura emergente. Così molte disposizioni generose rimangono inespresse, anche in presenza di testimonianze pur tanto valide; perciò è necessario mostrare in modo convincente gli spazi e i modi che assicurano la straordinaria validità delle vocazioni speciali per il futuro e farle rifiorire.

Prescindere dalla proposta sarebbe una forma sorpassata di rinuncia al proprio ministero pastorale ed educativo. Il Signore mette sul nostro cammino ragazzi e giovani con ammirevoli disposizioni, coltivate già — più di una volta — dalla famiglia e maturate nella prima catechesi. Un’amicizia educativa, una convivenza di ricerca, una richiesta di direzione spirituale, la condivisione di qualche impegno apostolico ci mettono nella invidiabile opportunità di coronare l’opera con una adeguata proposta personale.

Al coraggio della proposta bisogna, poi, aggiungere la cura e la programmazione di un costante e amichevole accompagnamento. Nel documento conclusivo del 2° Congresso internazionale per le vocazioni (1981) si afferma che «quando un giovane o una persona adulta avverte la chiamata divina e ha chiesto e ricevuto consiglio, sente il bisogno e l’utilità di un aiuto e una guida per trovare con crescente chiarezza la sua strada e seguirla: è il problema dell’accompagnamento».

Oltre a organizzare, dov’è possibile, ambienti particolarmente adatti (aspirantati rinnovati, comunità-proposta, ecc.), è divenuto sempre più indispensabile (a volte come unica possibilità, a causa di certe esigenze locali, culturali, familiari, età e circostanze) l’accompagnamento personale prima del prenoviziato.

I criteri da seguire per questo servizio devono essere concordati e condivisi comunitariamente, per ovviare al rischio di arbitrarietà e di individualismo su aspetti che sono sostanziali nello sviluppo di una vocazione.

La convergenza e l’accordo vanno cercati soprattutto riguardo a tre esigenze: l’autenticità e la consistenza delle motivazioni, la corretta impostazione della vita spirituale e la capacità di rapporti. Seguire criteri divergenti nel rispondere a queste esigenze risulta dannoso — prima o poi — alla maturazione vocazionale di tipo salesiano.

L’accompagnamento dovrà anche aiutare a superare gli eventuali limiti della formazione cristiana di base che in vari candidati può apparire lacunosa, sia dal punto di vista delle conoscenze necessarie sia da quello della pratica cristiana di vita. Un sano accompagnamento saprà pure far superare la perniciosa tendenza a differire continuamente la propria decisione; la volubilità e l’indecisione — tanto facili oggi — portano insensibilmente verso l’abbandono delle mete.

In una parola, l’accompagnamento è un compito delicato ma assai incisivo; è con esso che si consolidano alcuni dinamismi-chiave per l’ulteriore processo vocazionale.

Nell’elaborazione ispettoriale del Progetto educativo-pastorale converrà assegnare uno spazio anche ai criteri che devono guidare la pedagogia dell’accompagnamento, gli obiettivi a cui tendere e la gradualità dell’iter da seguire.



Conclusione: i primi responsabili


Nel concludere queste riflessioni vedo l’importanza, cari confratelli, di aggiungere ancora una parola su tre fattori che risultano vitali per la nostra pastorale vocazionale: il ruolo dell’Ispettore, la responsabilità del Direttore e il contatto con la famiglia dei candidati.

— Nel ruolo dell’Ispettore (con il suo Consiglio) l’esercizio del ministero pastorale è legato connaturalmente con l’impegno vocazionale. È infatti aspetto vitale della sua animazione e governo assicurare il futuro del carisma, preparare nuove leve, rigenerare le risorse di personale. Sarebbe assai pernicioso che il suo ministero si riducesse a pensare soltanto a come impiegare le forze già esistenti senza calcolare se i fronti e i tipi di lavoro sono atti a generarne delle altre.

La preoccupazione per le vocazioni non può diventare marginale nell’esercizio del governo. Deve al contrario essere oggetto di approfondimento e di misure concrete che incidano di fatto sulle comunità locali, sulle persone dei confratelli e sul funzionamento delle opere. Si tratta di convertire le comunità e i confratelli in «animatori». La capacità di animazione è il segno più espressivo del rinnovamento conciliare della missione, dei ministeri e dei carismi. Grazie alla pratica dell’animazione, si è iniziata una stagione nuova nella Chiesa, negli Istituti religiosi, nei Movimenti, nelle Associazioni e nei Gruppi. Sarebbe veramente incomprensibile che ciò non si verificasse nelle nostre presenze.

Si tratta di motivare i confratelli e le comunità, di stimolarli e prepararli affinché ciascuno sappia svolgere, nel suo campo di lavoro, un’opera di orientamento; di far appoggiare con sussidi le iniziative vocazionali; di rilanciare la presenza della direzione spirituale e l’esercizio del ministero delle confessioni; di programmare una formazione permanente per una maggior qualificazione pastorale.

— La responsabilità del Direttore è ben definita dal CG21: «a livello locale il primo responsabile dell’animazione vocazionale è il Direttore proprio per la sua funzione di guida della comunità; egli promuova, in clima di fede e di preghiera, un periodico scrutinio vocazionale».23

Egli si sforza di coinvolgere veramente tutta la comunità, secondo gli impegni dei singoli confratelli. Non si tratta di delegare qualcuno, ma di corresponsabilizzare ognuno esplicitando un piano comune, facendo assimilare criteri di discernimento, accordandosi su forme di intervento e indicando il tipo e la gradualità della sua azione personale. Egli si preoccuperà di seguire con attenzione la scelta e il coordinamento delle iniziative giovanili curandone il senso e le finalità, preoccupandosi di non lasciar mancare quelle che promuovano l’orientamento vocazionale.

Anche per il Direttore e la sua comunità sarebbe avventato e imprevidente pensare soltanto al funzionamento e all’estensione dell’opera lasciando che prendano il sopravvento settori meno influenti sulla maturazione giovanile del senso cristiano della vita.

Al ruolo del Direttore si collega, in modo particolare, la sua capacità e disponibilità per la conversazione personale con i giovani, soprattutto coi più maturi e con quelli che offrono segni di vocabilità. «Il Direttore — afferma il Capitolo — prenda a cuore l’incontro personale coi giovani, particolarmente con quelli il cui cammino sta giungendo ad una decisione importante di vita».24 È davvero un invito a ricuperare le modalità pedagogiche proprie del Sistema Preventivo e della figura «pastorale» voluta da Don Bosco per il Direttore.

— Infine il contatto con la famiglia dei candidati ha una peculiare importanza per l’accompagnamento dei giovani avviati verso la vocazione salesiana. I genitori sono, di per sé, i primi responsabili della vocazione dei figli. Già a livello di pastorale giovanile in genere ci si sta muovendo nella Chiesa su un piano di maggior complementarietà con la pastorale familiare; lo ricordava l’Esortazione apostolica Familiaris consortio (specialmente n. 74).

Anche l’impegno per il funzionamento, nelle nostre presenze, della «comunità educativa» e il «Progetto laici» (a favore soprattutto di tanti Cooperatori ed Exallievi), invitano a sintonizzare di più e costantemente la pastorale giovanile con la pastorale familiare.

In un clima di maggior coordinamento, frutto di quella ecclesiologia conciliare di comunione che costa ancor tanto far crescere, acquista uno speciale rilievo vocazionale la conoscenza, il contatto, il dialogo con le famiglie dei candidati. Se ne approfondiscono le motivazioni, si scoprono anche certe dolorose difficoltà, ma soprattutto si cerca di promuovere il radicamento familiare della vocazione proprio nell’ambiente dove è sbocciata la fede battesimale. Con questo contatto si intensificano qualità e cooperazione e si evitano sorprese. Lo stile di vita dei genitori, la loro azione educativa e la loro testimonianza sono davvero il miglior terreno per una vocazione salesiana. La paternità e maternità cristiana sono uno degli obiettivi privilegiati della pastorale della Chiesa oggi. Quante vocazioni sono nate e nascono proprio in seno a famiglie credenti. A ragione la pastorale vocazionale si preoccupa anche, in comunione con gli sforzi della Chiesa locale, di aiutare seriamente le famiglie nella loro rinnovata coscienza cristiana e nel loro compito educativo. Lanciare delle iniziative in questo senso, promuovere la fede dei genitori interessati, introdurli nell’orbita del nostro carisma, ricordare e sviluppare quanto afferma Don Bosco in loro favore, è certamente un campo fecondo da prendere maggiormente in considerazione.

Oggi cresce il bisogno di aiutare le famiglie perché siano capaci di opporsi al sottile clima secolarista che imperversa nella società. Solo una pastorale più ampia e di cooperazione serve a coltivare quei germogli, ricchi di promesse, che si stanno presentando sempre più numerosi in questa primavera della Chiesa. Il Vangelo, pur insegnandoci che i figli non sono proprietà dei genitori, ci proclama che essi sono un dono di Dio affidato primordialmente a loro per il rinnovamento della società attraverso la missione di Cristo. Anche Gesù, il Verbo incarnato, è stato affidato, per il bene di tutti, a una santa famiglia.

Guardiamo con ammirazione a Giuseppe e a Maria, invochiamoli con fiducia e costanza. Essi sono, senz’altro, i principali intercessori per una più efficace pastorale vocazionale. Confidiamo a loro le attuali necessità della Chiesa e del mondo, parliamo con loro dell’immensità della messe, dei crescenti bisogni educativi della gioventù, ringraziamoli per quanto hanno già fatto a favore del carisma di Don Bosco, e chiediamo loro con insistenza di aiutarci ad aumentare la qualità e il numero degli operai della vigna.

Il documento conclusivo del già ricordato Congresso internazionale del 1981 chiama la Vergine Maria «mediatrice di vocazioni», «modello di ogni persona chiamata», «Madre di tutte le vocazioni».

Uno speciale ricorso a Lei, cari confratelli, sia sempre collocato alla base e al centro del rinnovamento della nostra pastorale vocazionale.

Auspico per tutti un fruttuoso anno nuovo in operosa speranza. Il Vangelo ci assicura che «alcuni semi caddero in un terreno buono; i semi germogliarono, crebbero e diedero frutto».25

Dedichiamoci, dunque, a coltivare meglio il terreno buono.

Porgo a tutti i migliori auguri di più numerose vocazioni.

Con affetto nel Signore,

D. Egidio Viganò


NOTE LETTERA 50


1 cf. Mt 9, 37

2 CG23 247

3 cf. ACS n. 273

4 CG21 106-119

5 ib. 119d

6 cf. CG23 149ss

7 GS 45

8 Cost 6

9 Cost 28

10 Cost 37; cf. Reg 16-17

11 cf. ACG n. 334

12 cf. ACG n. 338

13 CG23 274-283

14 ib. 143-145

15 CG21 113e

16 CG23 151-156

17 ib. 151

18 ib. 152

19 ib. 153

20 ib. 154

21 ib. 155

22 ib. 156

23 CG21 114

24 CG23 287

25 Mc 4,8