301-350|it|338 «Carisma e preghiera»

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«CARISMA E PREGHIERA»



Introduzione. - Fascino dei carismi. - L’uomo in dialogo orante. - L’originalità della preghiera cristiana.- Per Cristo con Cristo e in Cristo. - Il cardine del pregare cristiano è l’“orazione mentale”. - La “meta” della preghiera secondo S. Francesco di Sales. - Rinnoviamo la nostra preghiera. - Tre poli da privilegiare. - Ci aiutino lo Spirito e Maria.

Lettera pubblicata in ACG n. 338



Roma, 15 agosto 1991

Solennità dell’Assunzione della B. V. Maria


Cari Confratelli,


negli scorsi mesi di giugno e luglio, durante la sessione plenaria del Consiglio Generale, abbiamo approfondito vari aspetti della vita delle Ispettorie oggi. Uno di essi, in qualche modo legato al nostro rinnovamento, è il seguente: «Spiritualità salesiana e Movimenti ecclesiali». È un dato che ci può far riflettere per intensificare la nostra identità e anche, in qualche caso, per evitare deviazioni.

Si è fatto un rilevamento della situazione. Riguardo alla consistenza della partecipazione di confratelli a determinati Movimenti, è risultato difficile quantificare con esattezza. Alcuni vi partecipano come assistenti ecclesiastici (specialmente nelle nostre parrocchie); altri vanno sporadicamente ad alcune riunioni per esserne informati; altri vi prendono parte esplicitamente adducendo come ragione il desiderio di una ricarica spirituale; e altri, infine — spero siano pochi —, vi aderiscono così fortemente da arrivare praticamente a quella doppia appartenenza che comporta disaffezione verso la spiritualità del proprio carisma.

Ci siamo chiesti il perché di questa attrazione verso tali Movimenti. Ci è parso che, in diversi casi, si può pensare ad una reazione contro un certo stile di superficialità che forse si vive in qualche casa: una specie di carenza di autenticità religiosa nella consacrazione apostolica, un bisogno avvertito di maggior interiorità contro certe forme di attivismo. Alcuni che vi partecipano si sentono gratificati, perché dicono di incontrare lì una forma di immediatezza evangelica, relazionalità profonda, protagonismo spirituale. Ma tra le cause ci può anche essere una non sufficiente comprensione della natura stessa della nostra spiritualità, che è realista, senza eccessi emotivi, equilibrata e operativa, destinata a fermentare la prassi educativa nel quotidiano. Una spiritualità per nulla inferiore alle altre perché, al di là delle differenti tipologie, ogni modello di vita spirituale approvato dalla Chiesa rappresenta un cammino autentico di santità. Essa è rivestita esternamente di ordinarietà: straordinaria nell’ordinario — come ci è stato detto più volte —, composta di cose apparentemente piccole, che sono però elementi organici di un insieme vitale, radicato in una forte personalità spirituale.

Vi invito, allora, a riconsiderare con più attenzione la proposta della nostra spiritualità salesiana, che veniamo approfondendo già da anni, concentrando l’attenzione sull’elemento vitalizzante di ogni interiorità, che è quello della preghiera, o, come si diceva prima fra noi, dello «spirito di pietà».1 Ci sia di sprone, per un argomento tanto vitale, la commemorazione del 150° dell’inizio del carisma dell’Oratorio di Don Bosco, il prossimo 8 dicembre.



Fascino dei carismi


È bello sentirsi coinvolti nella presenza rinnovatrice dello Spirito Santo. L’attuale stagione del Popolo di Dio è un’ora carismatica.

Il nostro rinnovamento si è mosso da anni su questa linea; così hanno fatto tanti altri Istituti religiosi. Ma nella Chiesa sono sorti anche dei carismi nuovi, a modo di «Movimenti ecclesiali». Il Sinodo sui fedeli laici (1987) ne ha trattato esplicitamente.2

Il Papa e i Vescovi li considerano, nel loro insieme, un fatto positivo: smuovono l’apatia, generano entusiasmo, svegliano la creatività, pongono in atteggiamento di risposta evangelica alle sfide dei tempi.

Come in tutte le cose umane, anche se spirituali, questo fenomeno si può prestare anche ad espressioni non equilibrate, di forte valenza emozionale, di intimismo accentuato, di insistenza sulla «guida» diretta dello Spirito Santo senza bisogno delle mediazioni dell’autorità e della comunità. Può, a volte, comportare anche rischi a livello pastorale: o di sostituzione, o di confusione, o di monopolio da parte di gruppi.

In questo stesso numero degli Atti il Vicario generale, don Juan Edmundo Vecchi, indicherà alcuni criteri di discernimento in vista dell’influsso che la partecipazione ai Movimenti può avere sulla nostra identità.

Il contatto con altri carismi dovrebbe servire sempre a intensificare l’appartenenza al proprio.

Il versante su cui si verifica la partecipazione di confratelli ai Movimenti è soprattutto quello della ricerca di maggior interiorità e di più genuina preghiera. Perciò vogliamo riflettere un po’ sulla «preghiera salesiana». Carisma e preghiera sono tra loro inseparabili e formano insieme i tratti di una particolare fisionomia. Ogni carisma dà un suo tono peculiare alla preghiera, mentre ne richiede un intenso esercizio.

Ma per riflettere sulla preghiera dobbiamo trasferirci prima e più in là dei carismi.

Ad ogni modo, sarà bene fare subito alcune affermazioni riferentisi al rilancio del nostro carisma; esse ci scuotono nel profondo: senza preghiera non c’è, per nessuno, sintesi tra fede e vita; non c’è, per noi, reciprocità tra evangelizzazione ed educazione; non c’è unità tra consacrazione e professionalità; non c’è corrispondenza tra interiorità ed operosità. Ossia, senza respiro interiore orante: il lavoro non è santificante; la competenza umana non è testimonianza evangelica; gli impegni educativi non sono pastorali; il vivere quotidiano non è religioso. Queste affermazioni possono sembrare eccessive ed estremiste, ma mettono il dito sulla piaga.

L’assenza di vera preghiera sarebbe, per noi, una sconfitta su tutti i fronti. Ce lo ha lasciato scritto Don Bosco stesso: «La storia ecclesiastica ci ammaestra che tutti gli Ordini e tutte le Congregazioni religiose fiorirono e promossero il bene della religione fino a tanto che la pietà si mantenne in vigore tra loro; e al contrario ne abbiamo veduti non pochi a decadere, altri a cessare di esistere, ma quando? Quando si rallentò lo spirito di pietà, e ciascun membro si diede a “pensare alle cose sue, non a quelle di Gesù Cristo” (Fil 2,21), come di alcuni cristiani già lamentava San Paolo».3



L’uomo in dialogo orante


Ma l’attacco di fondo alla preghiera viene da lontano: procede dall’interpretazione secolarista dell’attuale svolta antropologica che caratterizza i cambi culturali. L’evolversi dei segni dei tempi incide direttamente sulla preghiera: in male e in bene. Vediamone i due volti antitetici che l’accompagnano.

Un volto è quello «laicista», che interpreta i valori emergenti solo in forma antropocentrica: porta all’agnosticismo o a forme svariate di non-credenza. Nella città secolare la preghiera è svalutata; l’agire porta a dimenticare l’essere.

L’altro volto è quello «cristiano», che accetta la svolta antropologica e considera l’uomo vero centro del mondo, lo interpreta e gli dà senso: egli è protagonista della storia; porta in sé il mistero di essere immagine di Dio; «all’uomo, fatto a tua immagine — si legge nel Prefazio V delle Domeniche del tempo ordinario —, hai affidato le meraviglie dell’universo, perché, fedele interprete dei tuoi disegni, eserciti il dominio su ogni creatura, e nelle sue opere glorifichi Te, Creatore e Padre, per Cristo nostro Signore».

Così il Cristo è, con noi e per noi, l’«Uomo Orante».

La fede cristiana ha un concetto integrale dell’uomo; non lo considera solo come superiore agli altri animali (“homo sapiens”), non ne ammira solo l’industriosità (“homo faber”), né la sola capacità organizzativa e amministrativa (“homo oeconomicus”), né si arresta davanti ai progressi della scienza e della tecnica (“homo technicus”), ma percepisce la dignità suprema del suo essere nella capacità di dialogare con Dio, secondo la cui immagine è stato formato. Rivestito di tale dignità, l’uomo scopre nel Creatore e Salvatore il “Tu trascendente” con cui entrare in relazione; considera il mondo come un dono ricevuto da Lui e perciò si sente amato e si riempie di gratitudine divenendo, con tale atteggiamento, «il liturgo dell’universo». A ragione uno studioso — B. Häring — lo ha definito homo orans. Un uomo che apprezza senz’altro l’intelligenza e la cultura, che si dedica alla scienza e alla tecnica, che sviluppa l’organizzazione sociale e la convivenza politica, ma che inoltre è convinto che tutto è non solo «oggetto» da conoscere, da promuovere e da sfruttare, ma «dono» di Qualcuno che gli vuol bene.



L’originalità della preghiera cristiana


Tra le molte definizioni della preghiera, piace ricordare quella di S. Agostino: la preghiera è un dialogo con Dio.4

Ma quale Dio? e quale dialogo?

Nel dar risposta a queste domande scopriamo l’originalità della preghiera cristiana. Alla base di tutto c’è l’oggettività del mondo, la realtà, la storia. Per pregare, non c’è da evadere dalla realtà; c’è da perforarla.

Una religione semplicemente concettuale, con riferimento a una trascendenza piuttosto anonima, può sfociare in una specie di alienazione e ridurre la preghiera a formule di parole da ripetere (o da gridare, come suggeriva Elia ai falsi profeti). Chi poi ascolti, non si sa; gli idoli — dice il salmo — hanno occhi e non vedono, e dalla loro bocca non emettono suoni.

Il Cristianesimo è propriamente una “fede”: ossia uno sguardo che penetra la realtà e aderisce al mistero che si raccoglie in persone ed eventi storici. Da questo incontro sgorga nell’uomo la preghiera quale dialogo di risposta al Tu del Creatore e Salvatore che gli vuol bene e che lo interpella continuamente. Questa fede è tutta centrata sull’uomo Cristo e, in Lui, sulla storia e sulla realtà del mondo. In Cristo si capisce Chi è veramente Dio e quali sono i rapporti del mondo e della storia con Lui; l’uomo si sente nella condizione di figlio prodigo; scopre che c’è un patto d’amicizia, un’Alleanza da vivere in esaltante dialogo.

Così, per parlare adeguatamente della preghiera, c’è da rifarsi anzitutto all’atteggiamento orante di Cristo, come maturazione dell’esperienza delle antiche Alleanze storiche: Adamo, Noè, Abramo, Mosè.

Bisogna riconoscere che Israele è stato il popolo della vera preghiera; ha insegnato a pregare dialogando con il Dio Creatore e Provvidente; era un popolo molto realista, privilegiato dall’esperienza di Dio nella vita. Le benedizioni, i salmi, i vari riti e le feste — espressioni di preghiera di questo popolo — fanno sentire la presenza di Dio nel tempo e nel mondo: si gusta la benedizione e la letizia, l’adorazione e il ringraziamento, la lode e la supplica, la lamentazione e la richiesta di perdono, l’audacia dei sentimenti e il peso delle oscurità, l’angustia per tante difficoltà e il vivo e convinto senso di fiducia, un universo di sentimenti umani e religiosi aperti verso Dio.

Un autore ebreo, Robert Aron, descrive dettagliatamente in che forma la preghiera del suo popolo fosse intensa: costellava la giornata, la settimana e i mesi, riempiva il tempo di dialogo con Dio. Lo studio di questo autore aiuta a immaginare l’assiduità con cui la praticavano i pii ebrei come Giuseppe, Maria e Gesù.5

Vivere senza pregare in forma autentica e vera significa, dolorosamente, non rendersi conto del mistero della storia e del significato genuino del mondo.

Nel fenomeno dei Movimenti c’è da scorgere — come merito di speciale attualità — una forte reazione contro l’antropocentrismo imperante, terribilmente riduttivo della dignità e della vocazione umana. Reagire contro un clima che vorrebbe emarginare l’“homo orans” è certamente un insegnamento fondamentale per la fede oggi.



Per Cristo, con Cristo e in Cristo


Sullo sfondo di questo sguardo complessivo circa la preghiera, sorge la domanda: ma che tipo di dialogo è la preghiera cristiana? Siccome esso si svolge all’interno della Nuova Alleanza, bisogna dire che al centro c’è Gesù Cristo, il Mediatore. La fede ci unisce a Lui. Egli, con il Padre, invia il suo Spirito che incorpora a Lui: «Rimanete uniti a Me, e io rimarrò unito a voi. Io sono la vite; voi siete i tralci. Se rimanete uniti a me, e le mie parole sono radicate in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato».6

La vera preghiera è — come la fede — un dono. Essa è simultaneamente personale, comunitaria e liturgica. Ha una sua identità peculiare. Per capirne gli elementi essenziali sarà utile concentrare l’attenzione sulla celebrazione dell’Eucaristia.

In essa ci sono delle tappe caratteristiche che rivelano la dinamica del pregare cristiano.

— Innanzitutto la scelta di un tempo apposito che si inizia con una autocritica penitenziale, sorretta dalla fiducia nella misericordia del Padre: ha grande importanza il sincero atteggiamento di umiltà nei confronti delle proprie manchevolezze e dei propri limiti.

— Viene poi uno spazio di ascolto della Parola di Dio, che «ci ha amati per primo»,7 con un commento di meditazione che proietta quanto suggerisce il Signore nell’attualità della propria vita (ruolo illuminante dell’omelia!).

— A continuazione si svolge il simbolismo conviviale dell’offertorio e della mensa, che introduce nel dialogo l’offerta di se stessi e del proprio lavoro attraverso il simbolismo del pane e del vino (piccole cose, ma assai significative: diventeranno cibo e bevanda di vita eterna!): orienta la preghiera all’atteggiamento del dono di sé.

— Si inizia, quindi, il dialogo personalizzato con il “Tu” del Padre («Te igitur»): è il grande Amico a cui è rivolta tutta la celebrazione e di cui si proclamano le meraviglie di un amore che crea, che libera, che trasforma (adorazione, lode, ringraziamento, fiducia).

— Si raggiunge, così, il culmine della celebrazione nel memoriale che, per la potenza dello Spirito Santo, rende presente — qui ed ora — gli eventi pasquali di Cristo, fratello solidale di tutti: è il supremo atto umano di donazione di sé nella risposta dell’uomo a Dio; è il momento supremo della liturgia di tutti nel Cristo; è il vertice dell’Alleanza; è l’esistenza donata: «e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito».8

— Si recita, poi, il Padre nostro con i suoi due aspetti di adorazione e di richiesta. Nella prima parte, avendo conosciuto attraverso l’ascolto l’infinita bontà del Padre, il cuore erompe nella più bella proclamazione della speranza: sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà. Nella seconda parte, avendo chiara consapevolezza delle situazioni concrete dell’esistenza, sgorga spontaneo il «Dacci oggi» che include realisticamente nella preghiera la cronaca e la storia (offesa, perdono, tentazioni, ecc.); il Signore sa che siamo fragili.

— Infine, si realizza la comunione con il sacramento del pane e del vino per essere insieme un unico Corpo e vivere ed operare per la salvezza degli altri. Giustamente la celebrazione si conclude con l’invio in “missione” per collaborare di fatto, con le opere e con la vita, alla piena realizzazione dell’Alleanza.

Penso risulti illuminante questo sguardo sintetico sulla celebrazione eucaristica, avendo la preoccupazione di approfondire la natura peculiare della preghiera cristiana. Ci colpisce subito il fatto che si parte dall’umiltà dell’«ascolto» e si approda alla «missione», passando attraverso l’incorporazione viva al mistero di Cristo: si diviene figli nel Figlio e solidali con tutti i fratelli. Così l’“homo orans”, riportato alla dignità della prima origine e molto oltre, fa risplendere in sé l’immagine di Dio.



Il cardine del pregare cristiano


Da parte del credente, nel dialogo dell’Alleanza, è indispensabile incominciare con un atteggiamento di ascolto, preparato dall’umiltà penitente. L’autenticità della preghiera è radicata, come inizio primo di risposta, in un’esperienza personale di Dio: pensiamo, per es., a Mosè davanti al roveto ardente. Si tratta di un atteggiamento di scoperta e quasi di sorpresa. È il Signore che dice: «Ascoltate, io sto alla porta e busso. Se uno mi sente e mi apre, io entrerò e ceneremo insieme, io con lui e lui con me».9

Questo atteggiamento di attento ascolto si rivela particolarmente fecondo nella forma di preghiera che chiamiamo orazione mentale, alla quale i grandi Santi del Cinquecento spagnolo hanno dato la forma più compiuta. L’orazione mentale non è affatto un esercizio riservato ai monaci e agli eremiti, ma è il fondamento stesso di ogni preghiera; infatti la fede è innanzitutto ascolto.

Non c’è preghiera — come non c’è vita di fede — senza l’intervento della coscienza e della libertà di ognuno. La nostra stessa esperienza conferma che i momenti, spesso più intensi, della preghiera sono quelli dell’interiorità personale: della meditazione più che dei sentimenti; quelli del silenzio più che della loquacità; quelli della contemplazione più che dei ragionamenti; infatti: «la Parola di Dio è viva ed efficace; è più tagliente di qualunque spada a doppio taglio».10

«Tu quando vuoi pregare — dice il Vangelo — entra in camera tua e chiudi la porta. Poi, prega Dio; e Dio, tuo Padre, che vede anche ciò che è nascosto, ti darà la ricompensa».11

Questo non va contro la preghiera comunitaria, tanto importante, che ha nella celebrazione eucaristica l’espressione ecclesiale più perfetta, ma sottolinea qual è la condizione previa e l’autenticità di partecipazione anche a quella.

L’orazione mentale evolve con gradualità dalla meditazione alla contemplazione; è un atteggiamento interiore per cui si entra in rapporto con l’amore di Dio.

Santa Teresa l’ha descritta come un tratto amichevole con il Signore.

Paolo VI ne fa questa bella descrizione: «Lo sforzo di fissare in Dio lo sguardo e il cuore, che noi chiamiamo contemplazione, diventa l’atto più alto e più pieno dello spirito, l’atto che ancor oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana».12

Non dobbiamo pensare che la «contemplazione», in cui sfocia la meditazione, sia un atteggiamento di pochi privilegiati. Non si tratta qui di presentarla con difficili definizioni astratte, né di elencarne i diversi modi e gradi con i loro delicati problemi, bensì di guardare all’esempio di quei Santi che hanno vissuto la stessa nostra spiritualità. Per farcene un’immagine concreta a noi basta guardare Don Bosco: «lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia. Profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito Santo, viveva “come se vedesse l’invisibile”».13

La meditazione diviene contemplazione quando l’amore, nato nell’ascolto, prende il sopravvento e fa entrare direttamente nel cuore del Padre.14



La “meta” della preghiera secondo S. Francesco di Sales


Giunti a questo punto, possiamo fare ancora un passo avanti per capire a fondo l’intensità orante del da mihi animas, che è il respiro della preghiera di Don Bosco. Ci riferiamo alla profonda testimonianza e illuminazione di S. Francesco di Sales. La sua preghiera lo portava a una «unione con Dio» tradotta in una vita instancabilmente apostolica, mentre ne approfondiva la natura con acute riflessioni dottrinali.

Lo ha fatto con impressionante originalità soprattutto in due libri del suo Trattato dell’amore di Dio, il sesto e il settimo: opera cara alle prime generazioni della nostra Congregazione. Egli usa, nelle sue riflessioni, il termine “estasi”; non gli dà però il significato di perdita della coscienza o di svincolamento dalla realtà, come succede in certi fenomeni paramistici; il santo vescovo non indulge alle evasioni emotive, che possono essere allucinatorie e ridursi a vane illusioni.

«Quando si incontra una persona — scrive — che nell’orazione ha dei rapimenti per mezzo dei quali esce e sale al di sopra di se stessa fino a Dio, e tuttavia non ha estasi nella vita, ossia non conduce una vita elevata e congiunta a Dio, con la mortificazione dei desideri mondani, della volontà e delle inclinazioni naturali, per mezzo di una dolcezza interiore, di semplicità e umiltà, e soprattutto per mezzo di una continua carità, credimi, Teotimo, tutti i suoi rapimenti sono molto dubbi e pericolosi; sono rapimenti adatti a creare ammirazione negli uomini, ma non a santificare chi li prova».15

Con il termine “estasi” S. Francesco di Sales approfondisce il traguardo a cui deve arrivare l’orazione mentale. La meta è quel rapimento, quell’“uscire fuori di sé” per cui Dio ci attira e ci innalza a sé; e tale rapimento lo chiama “estasi” in quanto per suo mezzo rimaniamo al di sopra di noi stessi.

S. Francesco raggiunge, in queste riflessioni, l’aspetto più alto della sua analisi su quella spiritualità che, da lui, viene chiamata «salesiana».

La preghiera conduce a un atteggiamento interiore che oltrepassa il dialogo e diviene amore unitivo. La risposta dell’io verso il Tu non è più né parola né sentimento, ma uno scambio di vita: l’uscita di sé verso l’Amato; non uno svuotamento, ma un gioioso riempimento che fa sperimentare quanto afferma l’Apostolo: «Vivo, ma non più io; è Gesù Cristo che vive in me».16 Una vita che sorpassa le motivazioni e le forze umane perché si nutre di Dio. La preghiera sbocca, così, nella carità; ne è la via indispensabile, ne è come la madre feconda; ma una madre che si dimentica di se stessa per la pienezza di vita di ciò che ha generato, ossia dell’“unione con Dio”.

Questo “amore unitivo”, afferma infatti S. Francesco di Sales, non si misura più nella sola preghiera, che potrebbe anche divenire quietismo; neppure si identifica semplicemente con una qualsiasi operosità, che potrebbe essere puro attivismo, ma si traduce in una vita e in un’azione di carità; cura più le intenzioni che le parole. Non è vivere in noi, ma al di sopra di noi; «e siccome nessuno può uscire in questo modo al di sopra di se stesso se non l’attira l’eterno Padre (Gv 6,44), ne consegue che tale modo di vivere deve essere un rapimento continuo e un’estasi perpetua d’azione e di operazione».17 Di qui la necessità di rinnovare spesso la preghiera per assicurare l’amore unitivo, che non è difficile e che incomincia dai gradi più bassi per crescere senza limiti.

S. Francesco di Sales enumera tre tipi di rapimento nella preghiera, tre “estasi”: «una riguarda l’intelletto; una seconda l’affetto; e una terza l’azione». La terza — ossia, «l’estasi della vita e dell’azione» — corona le altre due, le quali, senza di essa, rimarrebbero incompiute: «non c’è mai stato santo che non abbia avuto l’estasi o il rapimento della vita e dell’azione, superando se stesso e le proprie inclinazioni naturali».18

Certo l’“estasi dell’intelletto” per l’incontro con una verità illuminante può nutrire una speciale contemplazione. E anche l’“estasi dell’affetto” può svegliare un entusiasmo di fervore al di sopra di se stessi. Però entrambe sono ordinate a far scattare la testimonianza della vita e la collaborazione dell’azione; sono legate alla terza; purtroppo, non necessariamente.

Se il rapimento dell’intelligenza — dice il santo — è più bello che buono, più speculativo che affettivo, più di scienza che di esperienza, più di vista che di gusto e sapore, rimane fortemente dubbio. E se il rapimento dell’affetto è più di sentimento che di impegno, più di fervore nell’ammirazione che di sacrificio di sé, più di sensibilità che di operosità, più dolce che pratico, appare pericolosamente superficiale.

«Due sono i principali esercizi del nostro amore verso Dio — scrive —, l’uno affettivo e l’altro effettivo. In forza del primo amiamo Dio e ciò che Egli ama; in forza del secondo serviamo Dio e facciamo ciò che ci comanda... Per mezzo dell’uno concepiamo, per mezzo dell’altro generiamo; con l’uno mettiamo Dio sul nostro cuore..., con l’altro lo poniamo sulle nostre braccia, come una spada di dilezione con la quale operiamo tutti gli atti di virtù».19 E aggiunge ancora: «Ci sono delle ispirazioni celesti, per l’attuazione delle quali non soltanto è necessario che Dio ci innalzi al di sopra delle nostre forze, ma anche ci elevi al di sopra degli istinti e delle inclinazioni della nostra natura. Infatti, tali ispirazioni, pur non essendo contrarie alla ragione umana, la superano, la sovrastano e le sono superiori: di modo che in tal caso non viviamo soltanto una vita civile, onesta e cristiana, ma una vita sovrumana, spirituale, devota ed estatica, ossia una vita che, in ogni caso, è fuori e al di sopra della nostra condizione naturale...

Abbandonare tutti i nostri beni, amare la povertà, chiamarla e ritenerla una deliziosa padrona, considerare gli obbrobri, il disprezzo, le abiezioni, le persecuzioni, i martìri come felicità e beatitudini, mantenersi nei limiti di una assoluta castità, e infine vivere nel mondo e in questa vita mortale contro tutte le opinioni e le massime del mondo e contro la corrente del fiume di questa vita, con abituale rassegnazione, rinuncia e abnegazione di noi stessi, non è vivere secondo la natura umana, ma al di sopra di essa».20

L’unione con Dio è, dunque, la vera meta della preghiera; ha molti gradi e cresce sempre; incomincia piccola e con carenze, cresce a poco a poco; è «una luce che aumenta come l’alba del giorno».

Queste riflessioni di S. Francesco di Sales ci immergono nel realismo della preghiera salesiana.

Uno studioso di S. Francesco di Sales, André Ravier, afferma che questa profonda visione, frutto dell’esperienza personale del Santo, comportò nel suo tempo una specie di ribaltamento mentale: «d’un colpo, la “devozione” (= spiritualità) veniva liberata dalle note controversie che vedevano opposta la contemplazione e l’azione, il culto interno e il culto esterno, la pietà e il giuridicismo canonico, l’ascesi e la mistica, il servizio di Dio e il servizio degli uomini e, più profondamente, il monaco e il laico». 21

Possiamo ricordare, qui, alcune affermazioni di Don Bosco e dei suoi successori sull’importanza che ha per noi la testimonianza e la dottrina di S. Francesco di Sales.

«Oh, se i Salesiani — disse Don Bosco in una conferenza ai confratelli — mettessero veramente in pratica la religione nel modo che la intendeva S. Francesco di Sales, con quello zelo che aveva lui, diretto da quella carità che aveva lui, moderato da quella mansuetudine che aveva lui, sì che potrei andarne veramente superbo e vi sarebbe motivo a sperare un bene stragrande nel mondo! Anzi io vorrei dire che il mondo verrebbe dietro a noi».22

Don Albera, il secondo successore, parlò spesso del nostro Patrono; nella circolare sullo «spirito di pietà» parlò della pratica della «preghiera continua» insistendo, in particolare, perché si praticasse in Congregazione la «pietà attiva di cui tratta sovente S. Francesco di Sales, e che fu il segreto della santità di Don Bosco».23

E don Rinaldi, terzo successore, riferendosi all’indulgenza del lavoro santificato scriveva: «Notate che questo favore ci è stato largito nel terzo centenario della morte del nostro celeste Patrono S. Francesco di Sales, la cui soave dottrina è tutta permeata di questo confortante pensiero. Egli potrebbe anche essere chiamato l’apostolo della santificazione del momento presente».24

Per S. Francesco di Sales, dunque, la preghiera è indispensabile per arrivare, nel Cristo, all’amore unitivo col Padre; da qui si sprigiona quell’energia che è la carità pastorale: «quella carità — dice il Concilio — che è come l’anima di tutto l’apostolato».25 Sì: l’anima dell’apostolato salesiano è la carità pastorale! 26 Ecco il traguardo che dobbiamo privilegiare nel rinnovamento della nostra preghiera!

Essa non si caratterizza con speciali espressioni esterne; non ha nulla di affettato nei suoi atteggiamenti; non mette l’accento su alte riflessioni intellettuali, anche se si nutre di esse; non privilegia manifestazioni singolari o inconsuete di sentimenti, anche se muove profondamente gli affetti del cuore; essa si concentra sull’effettiva identificazione con la volontà salvatrice di Dio per tradurla in atteggiamenti pratici. Le sue contemplazioni intellettuali e i suoi sentimenti di fervore li orienta tutti alla missione di salvezza: come dice S. Francesco di Sales, con essi «concepisce» in ordine a «generare», ossia a far passare il sangue dal cuore ai dinamismi delle braccia e delle mani.

E qui credo sia utile ricordare come questa dottrina del nostro Patrono coincide sostanzialmente con quella dei due massimi maestri dell’unione con Dio: S. Teresa e S. Giovanni della Croce — di cui si celebra nel prossimo dicembre il 4° centenario della morte —. Essi hanno testimoniato e comunicato l’esperienza di Dio che li accompagnò nell’ardua impresa di riformare dei religiosi.

Nonostante la profonda differenza del carisma carmelitano da quello salesiano, ci si trova nella stessa meta dell’amore unitivo. Una coincidenza che proclama la verità: quella di un’unione con Dio divenuto il «Tutto» e di uno svuotamento dell’io divenuto «Nulla»; così da affermare: «Io vivo senza vivere in me».

È un altro modo di parlare di una stessa “estasi”.



Rinnoviamo la nostra preghiera


Alla luce delle riflessioni di S. Francesco di Sales vediamo chiaramente che carisma di Don Bosco e preghiera salesiana sono tra loro inseparabili; costituiscono un’unità vitale, così che nessuno dei due aspetti ha senso senza l’altro perché si fondono in un unico volto spirituale.

I nostri ultimi Capitoli Generali hanno avuto come obiettivo quello di rilanciare il carisma del Fondatore nella nuova orbita conciliare; e il Vaticano II ha aperto la sua provvidenziale svolta proprio con il rinnovamento della preghiera della Chiesa. Si doveva concludere che il rilancio di ogni carisma chiamava a privilegiare il rinnovamento della preghiera, ridonandole il suo ruolo vitalizzante nella comunione ecclesiale dei credenti.

Perciò ci siamo impegnati a fare un salto di qualità nel rinnovamento della nostra preghiera. La bella «Introduzione» alla «Guida» per la preghiera delle comunità 27 ci presenta un’attenta sintesi del cammino fatto in Congregazione circa le «pratiche di pietà»: vi si sottolinea chiaramente sia il pensiero genuino di Don Bosco, sia il rinnovamento profondo voluto sostanzialmente dal Capitolo Generale Speciale, sia la continuità di una tradizione viva che proviene dal Fondatore e che ha la capacità di adeguarsi ai nuovi tempi ecclesiali.

È stato un lavoro delicato e ben riuscito; dopo averne fatto esperienza pratica per due sessenni, è stato codificato dal CG22 nelle Costituzioni rinnovate.

Certo, la preghiera cristiana — come la vocazione globale della Chiesa e la natura specifica della fede — è sostanzialmente comune a tutti i credenti; ma, così come nella liturgia influiscono le differenze culturali e le sane eredità storiche, in modo simile nei vari tipi di preghiera incidono le peculiarità del carisma del Fondatore e il collaudo di quelle tradizioni genuine che lo hanno radicato nel mondo.

Di fronte alla sfida dell’attuale secolarismo e ai coraggiosi esempi di reazione cristiana proposti da vari Movimenti ecclesiali, ci dobbiamo chiedere in che cosa consista, per noi, e come viviamo la preghiera rinnovata: quali sono i nuclei vitali da curare perché essa costituisca davvero il respiro attuale della nostra vocazione.

«La preghiera — leggiamo nell’Introduzione sopra citata 28 — è il luogo dell’assoluto, il luogo di Dio; o, per essere più precisi, il luogo in cui la “Parola di Dio” prende il suo senso, e, con essa, la nostra esistenza tutta quanta. Luogo dell’identità e dei dialoghi veri, in cui il nostro mistero tocca quello di Dio...

E se la preghiera deve essere realtà umana, non può non emergere nella storia, a un momento e in uno spazio preciso, non può non farsi “pratica”, “esercizio”».

Se guardiamo ora al testo della Regola dedicato al nostro «dialogo con il Signore», possiamo sottolinearne meglio gli aspetti più caratteristici e vitali.

Incominciamo col dire che il capitolo 7° delle Costituzioni non è collocato “dopo” quasi fosse un argomento di minore importanza, ma è lì alla fine della 2ª parte come “al vertice”, quale sintesi vitale di tutto ciò che lo precede; quasi a dire che la “missione”, la “comunità” e la “pratica dei consigli evangelici” (ossia, la nostra “estasi di vita e di azione”), per la stessa loro natura di partecipazione al mistero della Chiesa, non si possono vivere senza l’energia di quella unione con Dio e di quella carità pastorale che procedono dalla preghiera.

La prima cosa da sottolineare è che il modello a cui rivolgere il nostro sguardo è certamente Don Bosco: «da lui impariamo».29

Rileggiamo insieme una pagina del Commento alle Costituzioni: «Abitualmente Don Bosco ci viene presentato come modello di azione, meno sovente come modello di preghiera... Sono numerose (invece) le testimonianze sullo spirito di preghiera di Don Bosco. Si può dire — ha dichiarato don Barberis — “che pregava sempre; io lo vidi, potrei dire, centinaia di volte montando e scendendo le scale sempre in preghiera. Anche per via pregava. Nei viaggi, quando non correggeva bozze, lo vedevo sempre in preghiera!”. E don Rua aggiunge: “Molte volte lo sorpresi raccolto in preghiera in quei brevi istanti che, bisognoso di riposo, trovavasi nella solitudine”... Dava alla preghiera una precedenza assoluta: “non si incomincia bene — diceva — se non dal cielo”.

La preghiera era per lui “l’opera delle opere”, perché la preghiera “ottiene tutto e trionfa di tutto”».30 31

Il Card. Cagliero dichiarò: «Don Bosco pregava sempre, perché tutto ciò che faceva era diretto alla gloria di Dio e lo faceva alla Sua presenza. Quindi era per lui preghiera anche il lavoro continuo, santo, incredibile: univa con ammirabile perfezione la vita contemplativa all’attiva».

L’aspetto di fondo che risalta nel nostro Fondatore è quello «che congiunge spontaneamente l’orazione con la vita».32 È una caratteristica su cui insistono vari articoli costituzionali,33 fino ad affermare che dobbiamo abilitarci «a celebrare la liturgia della vita, raggiungendo “quella operosità instancabile, che dev’essere la caratteristica dei figli di S. Giovanni Bosco”».34

Tale caratteristica suppone uno stile di preghiera impastato di semplicità, di gioia, di speranza; senza indulgere a manifestazioni emotive un po’ strane, ma curando quel clima attraente (splendore della liturgia) che porta insensibilmente al gusto del sacrificio nella donazione di sé.

L’art. 12 delle Costituzioni descrive esplicitamente la meta della nostra preghiera: «operando per la salvezza della gioventù», il salesiano fa esperienza viva dell’Alleanza; «prega senza sosta»; «compie tutto per amore di Dio»!

Vale la pena riportare ancora alcune righe del già citato «Commento»: «Per capire la profondità di questa unione con Dio, occorre rifarsi a quella “grazia di unità”, di cui parlammo a proposito della nostra vocazione. Essa non è situata primariamente nelle attività e neppure nelle “pratiche di pietà”, ma nell’intimo della persona e ne permea tutto l’essere: prima ancora di tradursi nel “fare” o nel “pregare”, è un “modo spirituale di essere dinamico”, in quanto è la cosciente partecipazione dell’amore stesso di Dio attraverso la donazione di sé, nella disponibilità pratica all’opera di salvezza. È un atteggiamento interiore di carità, che è proteso verso l’azione apostolica, nella quale si concretizza, si manifesta, cresce e si perfeziona».35

Così ci colloca al di sopra della famosa distinzione tra “contemplazione” e “azione”. Due termini che la tradizione stessa ci ha sempre tramandati insieme, quasi che il senso di ciascuno di essi sgorghi dalla loro congiunzione e non dalla loro separazione. Lo afferma anche il Concilio trattando del ministero sacerdotale.36

La significativa espressione del gesuita Girolamo Nadal: «simul in actione contemplativus» riferita al suo Fondatore S. Ignazio (MHSI, Epistolae et Monumenta P.J. Nadal, V, 162) noi la interpretiamo alla luce dell’esperienza di Don Bosco, nostro modello, che ha tradotto il da mihi animas nella testimonianza di tutta la vita, sia nella “contemplazione” che nell’“azione”, e fortemente anche nella “passione”, ossia, in quell’atteggiamento costante che lui chiamava «martirio di carità e di sacrifizio pel bene altrui».37

Questa modalità salesiana brilla con speciale chiarezza nella vita di Madre Mazzarello, confondatrice dell’Istituto delle FMA.38 Essa seppe appropriarsi connaturalmente il segreto dell’interiorità apostolica di Don Bosco, manifestata già da quei primi consigli del Padre: «Pregate pure, ma fate del bene più che potete, specialmente alla gioventù»; «crescete nell’esercizio della presenza di Dio; amate il lavoro; portate a tutti amabilità e gioia; siate nella Chiesa ausiliatrici per la salvezza».

Egli delineò il tratto più caratteristico di una FMA asserendo: «In essa deve andare di pari passo la vita attiva e contemplativa, ritraendo Marta e Maria, la vita degli Apostoli e quella degli Angeli».

È un fatto stimolante per noi Salesiani vedere in Madre Mazzarello le caratteristiche della nostra interiorità, portate ad altezze di intensità nella semplicità, da un cuore arricchito dei preziosi valori femminili.

«In verità — scrive don Ricaldone — nella Madre Mazzarello “spiccava uno spirito di pietà tale, che ben si scorgeva essere sempre alla presenza di Dio, non solo nell’orazione vocale e nella meditazione, ma altresì nei lavori materiali”. Deposero le sue figliuole: “vedendo la Madre si vedeva un’anima che rivelava Dio... con così limpida semplicità, che l’amor di Dio sembrava in lei connaturale”».39

Dunque: per rinnovare oggi la preghiera dobbiamo convincerci innanzitutto che il carisma apostolico di Don Bosco ci chiede di puntare fortemente sull’unione con Dio, ossia di curare tutte quelle espressioni di preghiera, «in dialogo semplice e cordiale», che ci portano all’amore di carità. Giustamente il S. Padre Giovanni Paolo II, parlando ai capitolari in quel famoso 1º maggio 1990, ha affermato: «Quanto più un salesiano contempla il mistero del Padre infinitamente misericordioso, del Figlio fattosi generosamente fratello, e dello Spirito Santo potentemente presente nel mondo come rinnovatore, tanto più si sente spinto da questo insondabile mistero a donarsi ai giovani per la loro maturazione umana e per la loro salvezza».40



Tre poli da privilegiare


Ma c’è da chiedersi oggi se il rinnovamento della preghiera sia stato assunto effettivamente da tutti i confratelli e in ogni comunità. Non è azzardato riconoscere che rimangono in Congregazione delle zone di ritardo che provocano difficoltà e interrogativi. E così, invece di saper approfittare delle esperienze di altri, assimilandone e armonizzandone i valori con le esigenze del nostro carisma, le si confronta negativamente con gli esempi di una comunità tiepida. Il formalismo nelle pratiche di pietà, la mentalità abitudinaria, il peso negativo di qualche casa disgregata nell’osservanza delle pratiche di pietà, l’assenza del tema vitale della preghiera nella formazione permanente, la non rilevanza data ai tempi forti, la noncuranza del genuino rinnovamento liturgico, la crisi della penitenza e la caduta dell’ascesi — e questo proprio quando nella Chiesa si sta sperimentando un’ora speciale dello Spirito — possono senz’altro farci capire perché, in certi casi, si ricerchi altrove qualcosa di più vitale.

Urge davvero curare di più il rinnovamento della preghiera. Per raggiungerlo bisognerà far leva su tre poli dinamici, fra loro complementari anche se a tre livelli distinti: quello della persona, nell’orazione mentale e nell’ascesi; quello della comunità, nell’incorporazione a Cristo attraverso la liturgia; e quello della presenza ministeriale tra i destinatari, nell’azione apostolica e caritativa. Si sprigiona tra questi poli una specie di circolo dinamico con mutua reciprocità per l’intensificazione della carità pastorale.

Ma innanzitutto facciamo una osservazione preliminare, che ci aiuterà ad apprezzare di più la cura di questi tre poli.

L’unione con Dio, che è al centro di tutto, ha una gradualità di espressioni molto ampia; esse vanno dalla contemplazione cosiddetta acquisita (con varia intensità) a quella cosiddetta infusa (fino ad alti gradi mistici). Tutti la possono raggiungere in qualche grado.

Le riflessioni di S. Francesco di Sales ci aiutano a valutare l’intensità della nostra unione con Dio per dedicarci ad innalzarne il livello. Abbiamo considerato il significato dell’uso che fa del termine “estasi”: essa comporta un uscire fuori di sé per vivere in Cristo. Ebbene: se noi applichiamo il concetto di “estasi della vita” alla nostra convivenza in comunità, alla nostra pratica dei consigli, alla nostra comunione di un cuor solo e di un’anima sola, sarà facile misurare fin dove arriva la verità dell’“estasi” quando scopriamo presenti in noi elementi di individualismo, di arbitrarietà, di freddezza, di compensazioni pericolose, ecc. Così pure, se applichiamo il concetto di “estasi dell’azione” al nostro lavoro, una verifica oggettiva ci farà ritrovare facilmente non pochi difetti che non ci portano «fuori di noi»: egoismo, suscettibilità, intenzioni non soprannaturali, cedimenti alla superbia e alla concupiscenza, attivismo senza testimonianza, ecc.

Questo esame di coscienza ci invita a concentrarci continuamente sui tre poli indicati perché esprimano veramente la nostra carità pastorale di unione con Dio: più preghiera, più vita consacrata, più qualità pastorale vanno insieme. Così si scopre che il tema della preghiera deve essere, di fatto, un impegno costante e sempre rinnovato e curato da ciascun confratello e da ogni comunità. È l’aspetto formativo più vitale, che richiede attenzione, revisione e permanente pedagogia di crescita. Ci obbligherà a individuare dei criteri pratici per coordinare la “vita di comunità” e l’“azione apostolica” in intima armonia con la pratica della preghiera. Il non farlo danneggerebbe non solo la testimonianza della comunità orante, ma anche la sua realtà di vita consacrata e la sua efficacia pastorale.

Tre poli, dunque, mutuamente includentisi, che misurano la loro vitalità in un costante rapporto reciproco, che ha come fonte prima la preghiera e come meta la carità.

Don Bosco diceva — come abbiamo visto — che «non si incomincia bene se non dal cielo». Come leggiamo nell’Imitazione di Cristo: «Lasciati a noi soli, affondiamo e periamo. Da Te visitati, invece, viviamo e ci rialziamo. Sì: davvero siamo instabili, ma da Te siamo stabilizzati. Intepidiamo, ma da Te siamo riaccesi».41

Vediamo, dunque, alcuni aspetti dei tre poli.

1. – Il polo della persona si riferisce evidentemente ad ogni confratello e sta alla base di tutto. Senza «persona» non c’è preghiera.42 Qui non si può evadere dando la colpa agli altri.

È un impegno che esige spazi propri e distinti dalle attività lavorative, interamente dedicati al dialogo diretto con Dio. C’è da rinnovare l’ascolto quotidiano della Sua Parola (meditazione, lettura della Parola di Dio, partecipazione alla comunità orante, iniziative individuali); i tempi forti di ripresa interiore (ritiro mensile, giornata trimestrale, esercizi spirituali); la partecipazione viva all’anno liturgico con le sue celebrazioni della storia di salvezza; la considerazione assidua dei misteri di Cristo nella recita del rosario; ecc.

L’atteggiamento fondamentale è sempre l’ascolto attraverso l’orazione mentale. La Parola di Dio è, in definitiva, Gesù Cristo, contemplato da noi come Buon Pastore.43 Ci parla in molti modi e sempre a tono nelle varie situazioni. Ma la sua proposta centrale e suprema — che costituisce il suo Memoriale — è la sua testimonianza pasquale: «Questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue versato per voi». È l’“estasi della vita” più sublime!

Non si può ascoltare passivamente questa Parola di Dio, rifratta in tutte le sfide che ci interpellano. Il divenire della vita è complesso, ma il Memoriale del Cristo è chiarissimo. Un ascolto che porta alla carità pastorale non può essere fuga dal sacrificio, e meno ancora un lasciarsi portare alla deriva da ideologie e da mode. Nella pluralità delle vicissitudini ripetiamo sempre con il salmista: «Il tuo volto, Signore, io cerco; non nascondermi il tuo volto».

Un aspetto personale, intimamente unito all’orazione mentale, è l’impegno responsabile che ogni confratello deve mettere nella pratica dell’ascesi e della penitenza. Non dimentichiamo mai che il peccato, la mancanza di autodisciplina, la condotta tiepida e immortificata, lo spirito di mondanità sono la morte della preghiera. L’autocritica dell’esame di coscienza per un sincero atteggiamento di conversione personale e per un acuto “senso del peccato” — tanto estraneo all’attuale mentalità antropocentrica —, nutre la indispensabile consapevolezza del mistero della misericordia del Padre e dona la gioia e la speranza del perdono.44 Ciò sveglierà anche tante iniziative personali per intensificare quella peculiare ascesi del “farsi amare”, che ci caratterizza come apostoli educatori.45

Mosè, i Profeti, lo stesso Gesù, i Santi e in particolare i grandi Fondatori (Benedetto, Francesco di Assisi, Ignazio di Loyola, Domenico di Guzmán, Teresa di Avila, ecc.) hanno unito sempre intensamente la loro orazione al digiuno, all’ascesi, alla penitenza. Guardiamo attentamente Don Bosco e ne rimarremo fortemente impressionati: la sua pratica dell’umiltà, lo spirito di sacrificio, il senso concreto della mortificazione, l’accettazione delle sofferenze fisiche e morali, le incalcolabili esigenze del suo motto «lavoro e temperanza».46

Mi piace ricordare qui il rilievo che dava S. Ignazio di Loyola — nella direzione spirituale — agli sforzi personali di ascesi e penitenza; egli dimostrava di stimare più la mortificazione delle passioni che il tempo stesso della preghiera; consigliava: «più mortificazione di amor proprio che della carne; e più mortificazione delle passioni che preghiera»; e aggiungeva: «a un uomo che tiene mortificate le passioni, deve bastare un quarto d’ora per incontrare Dio».47

Quando si parla, dunque, dell’indispensabilità dell’aspetto «personale» nella preghiera, si apre un vasto orizzonte di impegni per ogni singolo confratello.

2. – Il polo della comunità esige, poi, un secondo livello vitale assai vincolato con il rinnovamento liturgico. Al vertice c’è l’incorporazione a Cristo attraverso l’Eucaristia: è lì che la comunità si costruisce come tale e riceve quotidianamente le energie dello Spirito Santo per essere davvero «segno di fede», «scuola di fede» e «centro di comunione e partecipazione».48 La comunità diviene nel Cristo «nucleo animatore» alla maniera di una piccola chiesa di base chiamata a fermentare evangelicamente il territorio e i destinatari.

È vero che senza preghiera personale non c’è comunità orante: ma questo non basta. Non si tratta di una somma di preghiere individuali, bensì di una preghiera d’insieme. Il Concilio ci ha invitati a fare un salto di qualità di tipo comunitario. Converrà, così, curare un’animazione liturgica opportunamente aggiornata.

L’auspicato «giorno della comunità», promosso dal CG23(49) per una formazione permanente vivace e concreta, dovrebbe avere al centro, in ogni casa, la più significativa concelebrazione settimanale. Bisognerà dedicare del tempo per prepararla bene, e curare la sincera partecipazione di tutti.

La preghiera liturgica ci fa sentire «chiesa-insieme» e ci svela l’originalità carismatica della nostra consacrazione per cui «la missione apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli evangelici sono (per noi) elementi inseparabili, vissuti in un unico movimento di carità verso Dio e verso i fratelli».50

E da questa consapevolezza di “comunione apostolica” nasce poi l’impegno del comune “progetto pastorale”.

Una osservazione pratica, che desidero non tralasciare, è quella di curare in ogni casa una cappella degna, vivificata dalla presenza del Santissimo. «Riunite nel nome del Signore — scrisse il Papa in un messaggio alla Plenaria della Congregazione per la vita consacrata — le comunità religiose hanno come loro centro naturale l’Eucaristia. È normale, perciò, che esse siano visibilmente raccolte attorno ad un oratorio (= luogo di preghiera), nel quale la presenza del Santissimo Sacramento esprime e realizza ciò che deve essere la missione principale di ogni Famiglia religiosa».51

3. – Il polo della presenza ministeriale tra i destinatari è l’altro livello indispensabile per il rinnovamento della nostra preghiera.

Non è tanto semplice vivere la «grazia di unità» e capire il nesso che lega mutuamente tra loro interiorità e operosità nella nostra presenza tra i destinatari. C’è da saper rispondere almeno a due domande sostanziali. La prima: che cosa significano per noi i destinatari? E la seconda: che tipo di presenza e quale azione è la nostra?

Nel cercare una risposta a queste domande ci accorgeremo che la Parola di Dio si presenta sempre con novità esigenti. In questi decenni le novità si chiamano: rilancio del carisma di Don Bosco,52 nuova evangelizzazione,53 nuova educazione.54 Ossia, un vasto campo inseparabile dall’ascolto di ciò che va suggerendo il Signore anche attraverso i segni dei tempi, il magistero dei Pastori e gli orientamenti della Congregazione.

I destinatari sono per il salesiano una specie di «roveto ardente» che gli fa lampeggiare la sua speciale Alleanza; egli vede in essi l’immagine di Dio; le loro necessità materiali divengono le sue preoccupazioni spirituali.

Giustamente il CG23 ci proclama: «Noi crediamo che Dio ama i giovani. Questa è la fede che sta all’origine della nostra vocazione... Noi crediamo che Gesù vuole condividere la “sua vita” con i giovani: essi... portano in sé, nascosti nelle loro attese, i semi del Regno. Noi crediamo che lo Spirito si fa presente nei giovani e che per mezzo loro vuole edificare una più autentica comunità umana e cristiana... Noi crediamo che Dio ci sta attendendo nei giovani per offrirci la grazia dell’incontro con Lui e per disporci a servirLo in loro, riconoscendone la dignità ed educandoli alla pienezza della vita. Il momento educativo diviene, così, il luogo privilegiato del nostro incontro con Lui».55

Questa è la prima risposta: noi cerchiamo nei destinatari il volto di Cristo!

La presenza, poi, e l’azione fanno del salesiano il segno e il portatore dell’amore di Dio ai giovani. Non si tratta, però, di qualunque “presenza”. Ci sono delle presenze che potrebbero anche portarci lontano dalla preghiera; qui si tratta di una “presenza ministeriale” che ci fa ascoltare dalla bocca stessa di Gesù Cristo: Avevo sete e avevo fame e tu mi hai dato da bere e da mangiare.

Inoltre, la presenza va accompagnata non da un’“azione” qualsiasi, la quale potrebbe anche essere di ordine semplicemente umanitario, culturale, sociale o politico, ma — come dice il Concilio — un’«azione apostolica e caritativa»,56 originata e animata dallo Spirito del Signore. Solo una simile azione «rientra nella natura stessa della vita religiosa in quanto costituisce un ministero sacro e un’opera particolare di carità che sono stati affidati (a noi) dalla Chiesa e devono essere esercitati in suo nome».57

L’azione «apostolica e caritativa» è pregnante, per se stessa, di unione con Dio ed è portatrice di più intensa preghiera. Non è occasione di distrazione, ma spazio di speciale incontro. Però, affinché l’azione sia veramente apostolica, deve essere animata dal fuoco della carità pastorale: essa è davvero l’anima dell’apostolato, ma anche l’azione apostolica diviene animatrice della carità pastorale!

Nel cuore del salesiano deve essere racchiuso il grande segreto che alimenta questo fuoco.

Così, non ci dovrebbe essere dualismo tra lavoro e preghiera, perché la preghiera si traduce in apostolato, e il lavoro apostolico intensifica la preghiera.

Lo ha sottolineato anche il Papa nel già citato discorso ai capitolari parlando della nostra missione educativa: «Mi piace sottolineare anzitutto, come elemento fondamentale, la forza di sintesi unitiva che sgorga dalla carità pastorale. Essa è frutto della potenza dello Spirito Santo, che assicura l’inseparabilità vitale tra unione con Dio e dedizione al prossimo, tra interiorità evangelica e azione apostolica, tra cuore orante e mani operanti. I due grandi Santi, Francesco di Sales e Giovanni Bosco, hanno testimoniato e fatto fruttificare nella Chiesa questa splendida “grazia di unità”. L’incrinatura di essa apre un pericoloso spazio a quegli attivismi o intimismi che costituiscono una tentazione insidiosa per gli Istituti di vita apostolica. Invece, le segrete ricchezze, che questa “grazia di unità” porta con sé, sono la conferma esplicita, provata con la vita dei due Santi, che l’unione con Dio è la vera sorgente dell’amore operoso del prossimo».58



Ci aiutino lo Spirito e Maria


Cari confratelli, queste riflessioni ci invitano a intensificare in Congregazione gli impegni per una preghiera rinnovata in sintonia con il carisma di Don Bosco. Certamente in questi anni postconciliari si è fatto un bel passo avanti. Il Vaticano II ci ha portato un clima nuovo: il senso del mistero, la multiforme presenza di Dio, del Cristo e del suo Spirito, la vitalità della comunione ecclesiale, il prezioso rinnovamento della liturgia, il meraviglioso significato della creazione e anche del «mondo» con la sua complessità e con la dimensione escatologica della storia. I Capitoli Generali ci hanno ripresentato il carisma di Don Bosco in questa immensa orbita di rinnovata spiritualità.

È da tempo che ci stiamo convertendo un po’ tutti; ma rimane sempre molto per convertirci pienamente, soprattutto nel delicato campo della preghiera. Il segreto del pregare è situato, in primo luogo, nella “persona”, il cui atteggiamento di fondo è l’orazione mentale. In essa, ognuno di noi deve scoprire la sua “trappa” per la contemplazione; la Provvidenza, poi, in certi periodi speciali della vita ci assegnerà anche qualche “monastero” di vita dove ci sarà più passione che azione, come nelle malattie e nell’anzianità.

Ma perché ci sia tra noi una concreta facilitazione dell’orazione mentale salesiana, bisognerà curare in ogni Ispettoria la presenza di competenti animatori, soprattutto per ciò che riguarda gli aspetti della liturgia e delle varie pratiche comunitarie. L’Ispettore e il Direttore, in particolare, si sentano responsabili di assicurarne con tutti i mezzi un autentico rinnovamento.

Il carisma di Don Bosco brillerà, così, con il suo peculiare fascino. E tutto ciò che servirà per apprezzarne meglio l’identità e per ringiovanirne le radici profonde, potrà essere accolto con gratitudine e profitto. Invece tutto ciò che ne offuscasse il primato nei nostri cuori o che ne diminuisse l’attrattiva, dovrebbe essere da noi accuratamente evitato.

La preghiera salesiana non è difficile né complicata; è fatta per tutti: per i giovani e per il popolo; fa vedere che la vocazione alla santità non è solo per una piccola élite, né solo per “spazi monastici”; essa vive inserita nel quotidiano, nell’ordinario e nello straordinario, nell’attività e nell’infermità, in ogni stato e in ogni professione, in ogni età e in ogni situazione.

Ci sono nei Gruppi della Famiglia Salesiana anche modalità un po’ differenti di dedicazione alla preghiera; noi ci siamo rallegrati assai, per esempio, quando le Visitandine di S. Francesco di Sales hanno voluto essere, in Italia, annoverate tra i nostri Cooperatori; così come ammiriamo i disegni di Dio che fa sorgere qua e là dei gruppi dedicati con più spazio di tempo a una preghiera che vuole assicurare in tutta la Famiglia l’intensità della carità pastorale.

È sorta, ad esempio, sul Colle Don Bosco ai Becchi una presenza di preghiera permanente a favore della santità dei giovani. È situata accanto alla casetta di Mamma Margherita dove ha avuto inizio il nostro carisma, proprio sul luogo che Giovanni Paolo II ha chiamato «Colle delle beatitudini giovanili» e «Scuola di spiritualità». Quando pellegrini, soprattutto giovani, vi arrivano in cerca di messaggi di speranza, si associano volentieri all’adorazione e all’ascolto e comprendono che è necessario, nella vita, saper pregare.

In modo particolare, però, dovremmo preoccuparci di più, nelle Ispettorie, di far sorgere dei gruppi giovanili di preghiera con le caratteristiche proprie del carisma salesiano. Anzi, la nostra pastorale giovanile dovrebbe saper curare vere scuole di orazione attiva per contrastare la perdita del senso di Dio in tanta gioventù. Non avrà esito la promozione di una spiritualità giovanile che non coltivi lo spirito di preghiera.

Noi sappiamo, cari confratelli, che il carisma di Don Bosco è un prezioso dono dello Spirito e di Maria alla Chiesa. Infatti, lungo i secoli, insieme all’azione vivificante dello Spirito Santo, interviene maternamente anche Maria: per il nostro carisma, ce lo assicura esplicitamente il Fondatore.

Lo Spirito e Maria ci insegnino, dunque, a pregare con quello stesso stile salesiano con cui l’hanno fatto Don Bosco e Madre Mazzarello.

Vi scrivo queste riflessioni nel clima della solennità dell’Assunzione della B. V. Maria al cielo; è la grande Pasqua personale della Madonna, il mistero che inizia universalmente in Lei il ruolo materno di Ausiliatrice nella storia.

Quando lo Spirito attualizzò in Maria la sua capacità di essere madre, nacque in Lei Gesù, nostro Fratello e Signore, al quale il Padre poteva dire con assoluta verità «Tu sei il mio Figlio prediletto»; 59 e il cuore orante di Gesù poteva rispondere «Ecco, io vengo per fare, o Padre, la tua volontà».60

A questo atteggiamento del Cristo s’assomiglia quello di Maria nell’Annunciazione: «Ecco, sono la serva del Signore, si compia in me la Tua volontà».61 Un atteggiamento orante, «filiale» e «missionario», che va dalla unione d’amore con il Padre al realismo della vita attiva nel quotidiano.

Chiediamo con insistenza allo Spirito del Signore, primo Autore del nostro carisma, che, per intercessione di Maria sua Sposa, ci faccia crescere costantemente in quella interiorità che porti anche noi «a congiungere spontaneamente l’orazione con la vita».62

Amiamo con entusiasmo l’identità della nostra vocazione ed alimentiamola quotidianamente con l’autentico «spirito di pietà» ereditato da Don Bosco: è questa la via che ci conduce all’Amore!

Un cordiale saluto a tutti.

Con stima ed affetto nel Signore,

D. Egidio Viganò


NOTE LETTERA 49


1 cf. P. RICALDONE, La Pietà: Vita di Pietà; l’Eucaristia, vol. III, serie «Formazione salesiana» - Colle Don Bosco, 1955

2 ChL 24

Regole e Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales, «Introduzione» - Torino, 1885

4 cf. PL 22, 411

5 cf. ROBERT ARON, Così pregava l’ebreo Gesù - Mondadori, 1988

6 Gv 15, 1-6

7 1 Gv 4, 10

8 Preghiera eucaristica III

09 Ap 3, 20

10 Eb 4, 12

11 Mt 6, 6

12 PAOLO VI, 7.12.1965

13 Cost 21

14 cf. Cost 12

15 S. FRANCESCO DI SALES, Trattato dell’amor di Dio - Ed. Paoline, 1989, pag. 527

16 Gal 2, 20

17 o.c. pag. 525

18 o.c. pag. 528

19 o.c. pag. 427

20 o.c. pag. 523, 524

21 ST. FRANÇOIS DE SALES, Oeuvres - Bibliotèque de la Pléiade - Ed. Gallimart, 1986: «Introduction à la Vie devote», pag. 8

22 MB XII, 630; cf. 30

23 Lettere di don Paolo Albera, ediz. 1965, pag. 40

24 ACS n. 17, 1923, pag. 36

25 AA 3

26 cf. Cost 10

27 In dialogo con il Signore - LDC 1990, per le Ispettorie d’Italia, pag. 7-15

28 ib. pag. 20-21

29 Cost 86

30 Il progetto di vita dei salesiani di Don Bosco: Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane - Roma, 1986, pag. 619-620

31 Nota: Converrebbe rileggere ogni tanto il prezioso studio di don E. Ceria: Don Bosco con Dio.

32 Cost 86

33 cf. art. 86. 87. 89. 92

34 Cost 95

35 Il progetto di vita dei salesiani di Don Bosco: Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane - Roma, 1986, pag. 159

36 cf. PO 14

37 cf. ACS n. 308: Martirio e passione nello spirito apostolico di Don Bosco

38 cf. ACS n. 301: Riscoprire lo spirito di Mornese

39 P. RICALDONE, o.c. pag. 316

40 CG23 332

41 Imitazione di Cristo, L. III, n. 2 - Tiburzio Lupo, Prima versione dell’edizione critica - LEV, Città del Vaticano, 1983

42 cf. Cost 93

43 cf. Cost 11

44 cf. Cost 90

45 cf. ACG n. 326: Studia di farti amare

46 cf Cost 18

47 MI, Fontes narrativi, cit. II, 419, n. 24; e I, 644, n. 196

48 CG23 216-217

49 CG23 222

50 Cost 3; cf. anche 24 e 50

51 SCRIS, 1980, n. 1, pag. 7-12

52 cf. ACG n. 312: Il testo rinnovato della nostra Regola di vita

53 cf. ACG n. 331: La nuova evangelizzazione

54 cf. ACG n. 337: Nuova educazione

55 CG23 95

56 PC 8

57 ib.

58 CG23 332

59 Eb 1, 5

60 Eb 10, 5

61 Lc 1, 38

62 Cost 86