301-350|it|310 Don Bosco Santo

22.


DON BOSCO SANTO



Introduzione. - La canonizzazione di Don Bosco. - La nostra consacrazione religiosa. - I grandi valori della santità salesiana: servire il Signore in allegria; avere un cuore oratoriano; saper farsi amare; essere asceti nel quotidiano. - L’intimità con Gesù Cristo «Redentore». - I due più dannosi nemici della nostra santità. - Saluto finale.

Lettera pubblicata in ACS n. 310



Roma, 24 settembre 1983


Cari Confratelli,


siamo ormai alla vigilia del Capitolo Generale: intensifichiamo l’adorazione e la preghiera perché scendano abbondanti sull’assemblea capitolare e su ognuno dei suoi membri la luce e i doni dello Spirito Santo. L’Atto di affidamento di tutta la Congregazione a Maria Ausiliatrice, proprio all’inizio del Capitolo, vuole ricordare l’atteggiamento di Don Bosco verso di Lei, come Madre e Guida, perché ci ottenga dallo stesso Spirito di essere interpreti e testimoni fedeli e attuali del patrimonio spirituale ed apostolico del Fondatore.

Sta per conchiudersi il sessennio del mandato di servizio del Rettor Maggiore e del Consiglio Superiore: un Consiglio assai operoso e fraterno. A nome di ognuno dei colleghi e mio desidero ringraziare gli Ispettori e tutti i Confratelli per la comunione e collaborazione sperimentata insieme in questi anni di intenso lavoro e di speranza. È anche il momento, da parte mia, di un esame di coscienza per chiedere perdono al Signore e a tutti per le immancabili deficienze e inadeguatezze nel ministero di animazione e di governo della Congregazione e nel dialogo con i fratelli.

Tutti abbiamo bisogno di crescere molto di più in ciò che costituisce l’energia di vita e l’efficacia di missione dell’eredità di Don Bosco, ossia: nel maturare secondo il suo tipo di santità.

Il prossimo anno, 1984, ci offre l’opportunità di commemorare il cinquantenario della canonizzazione del nostro Padre e Fondatore (1-4-1934). Consideriamolo come un appello che «ci muove — come dice la Strenna ’84 — a rinnovati propositi di santità tipicamente sa-lesiana».



La canonizzazione di Don Bosco


Il Papa Pio XI volle che Don Bosco venisse canonizzato nel giorno stesso della solennità di Pasqua del 1934, a conclusione dell’Anno Giubilare della Redenzione.

Rileggendo gli Atti del Consiglio e il Bollettino Salesiano dell’epoca, si rivive un clima di straordinaria emozione, di gioia festiva e di approfondimento vocazionale. L’allora Rettor Maggiore, don Pietro Ricaldone, scriveva: «Il dì della Canonizzazione sarà certamente il più glorioso di quanti la nostra Congregazione ha avuti finora e vorrei dire di quanti sarà per avere in seguito».l Egli ravvicinava, inoltre, la Pasqua del 1934 a quella del 1846, quando il nostro Padre «passato di tribolazione in tribolazione, reietto da ogni parte della città dove aveva tentato d’iniziare la sua opera, era rimasto senza un lembo di suolo, del quale potesse liberamente disporre a pro dei suoi giovani, in quella Pasqua la Provvidenza lo metteva in possesso di tanto spazio che fosse sufficiente a piantare le tende e a cominciare con un principio di stabilità la propria missione... Le due Pasque aprono veramente e chiudono un primo ciclo storico dell’Opera Salesiana e lo introducono a prendere ormai stabilmente il suo posto negli annali della Chiesa».2

Certamente la canonizzazione del Fondatore riveste un’importanza speciale e un concreto significato ecclesiale per una Famiglia religiosa. Egli viene proclamato a tutti come espressione originale della vitalità e santità della Chiesa. Il canonizzato non è più semplice «proprietà privata», ma porzione eletta del patrimonio universale del Popolo di Dio. Per questo il Fondatore acquista un’autorità incontestabile nel campo spirituale per i suoi seguaci. In una Famiglia religiosa la canonizzazione del Fondatore ha più importanza ecclesiale dell’approvazione stessa delle Regole. Il procedimento seguito, nei due casi, dalla Sede Apostolica ne testimonia la differenza. Il primo articolo delle nostre Costituzioni ce lo ricorda: la canonizzazione di Don Bosco è uno dei principali interventi con cui la Chiesa riconosce ufficialmente le iniziative dello Spirito del Signore nella fondazione della nostra Società; a ragione, perciò, «con senso di umile gratitudine crediamo che Essa è nata non da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio».3

Infatti, come già ricordavo alle FMA nella mia lettera per commemorare il centenario della morte di S. Maria Domenica Mazzarello, la santità del Fondatore ha una sua configurazione peculiare, differente da quella del canonizzato non-fondatore, non solo per delle note personali e storiche, ma precisamente per una sua indole propria di «stile originale nella santificazione e nell’apostolato» e di esperienza di Spirito Santo da «trasmettere a dei discepoli per viverla, custodirla, approfondirla e svilupparla costantemente in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita».4

L’essere Santo e l’essere Fondatore si fondono insieme nella vita di Don Bosco, così da farne il padre e il modello di noi tutti. Lo Spirito Santo lo ha plasmato a tal fine con un tipo concreto di santità, arricchita da una capacità generatrice di figli spirituali che gli fa ripetere con l’Apostolo: «siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo».5

Le vicissitudini storiche ci mostrano come egli non ha trovato altra strada per realizzare la sua vocazione e la sua santità se non quella di Fondatore. La Provvidenza lo ha condotto e, in certo modo, «quasi forzato a dare inizio — come scrivevo alle FMA — a una esperienza inedita di santificazione e di apostolato, cioè, a una rilettura del Vangelo e del mistero di Cristo in chiave propria e personale, con speciale duttilità ai segni dei tempi. Questa originalità comporta essenzialmente una “sintesi nuova”, equilibrata, armonica e a suo modo organica degli elementi comuni alla santità cristiana, dove le virtù e i mezzi di santificazione hanno una propria collocazione, un dosaggio, una simmetria e una bellezza che li caratterizzano».6

Sappiamo bene che ciò che distingue, nella Chiesa, una famiglia spirituale da un’altra non è il cristianesimo, ma uno speciale modo di viverne i contenuti e la missione. Così la Famiglia Salesiana rilegge il Vangelo con gli occhi della santità di Don Bosco.

Questo è per noi sommamente importante; ci proclama che la nostra santità è intimamente relativa a quella del Fondatore a cui ci siamo vincolati attraverso una consacrazione religiosa maturata nella professione perpetua. La consacrazione religiosa, infatti, deve crescere e manifestarsi nella santità salesiana.



La nostra consacrazione religiosa


Il rito della Professione perpetua è centrato, da parte del Ministro celebrante, su una solenne benedizione o consacrazione liturgica, con cui la Chiesa sigilla i candidati con il dono dello Spirito, confermando così la loro Professione religiosa.

«Guarda, o Padre, questi tuoi eletti — invoca il ministro della Chiesa con le braccia estese —; infondi in loro lo Spirito di santità, perché possano adempiere con il tuo aiuto ciò che per tuo dono hanno promesso con gioia».7

«Ti preghiamo umilmente, o Padre: manda il tuo Spirito su questi tuoi figli... rafforza il loro proposito... perché diventino segno e testimonianza che tu sei l’unico vero Dio e ami tutti gli uomini con amore infinito».8

Ora, ciò che i candidati «hanno promesso con gioia» e che costituisce «il loro proposito» è espresso nella formula della Professione emessa nelle mani del Superiore. Vogliono praticare i consigli evangelici seguendo la via tracciata nelle Costituzioni salesiane, impegnandosi così a vivere lo spirito e la missione del Fondatore in comunione con i fratelli di tutta la Congregazione.9

Il sigillo, dello Spirito Santo comporta, dunque, una speciale assistenza Sua, un insieme di doni, di grazie e di congiunture provvidenziali che aiutano il salesiano a farsi santo vivendo in fedeltà lo spirito e la missione di Don Bosco.

La consacrazione religiosa, quindi, è tutta rivolta a rendere possibile quel tipo di santità che viene promesso nell’emissione dei voti e che è descritto nelle Costituzioni.

Da una parte, essa è (come nel sogno dei dieci diamanti) la struttura di sostegno e di spinta, la nervatura quasi nascosta, ma indispensabile e portante, della nostra santità.

Dall’altra, essa è titolo autentico che assicura ai professi la mediazione della Chiesa per impetrare efficacemente su di essi di vivere come segni e portatori validi dell’amore di Dio, li incorpora in uno stato di vita ecclesiale sigillato dallo Spirito attraverso la sua azione, e procura loro i mezzi e le forze per testimoniare in gioiosa fedeltà lo spirito delle beatitudini.

Così la consacrazione religiosa alimenta, sviluppa e difende in noi la santità salesiana. È un sigillo dello Spirito Santo impresso attraverso la Chiesa nel cuore di ogni confratello perché sappia essere testimone preclaro di quella santità a cui Iddio ha dato inizio in Don Bosco.

Ma qui è interessante osservare che il Concilio Vaticano II ha ricuperato in profondità la peculiare consacrazione religiosa degli Istituti di vita attiva. È un genere speciale di alleanza con Dio in cui l’azione dello Spirito Santo imprime nei cuori una modalità di dedizione che ben si può chiamare «consacrazione apostolica»: ossia, una consacrazione «religiosa» che è simultaneamente «apostolica», portatrice di una «grazia di unità» che si effonde in «carità pastorale».

Il Concilio rinnovò innanzitutto il concetto stesso di consacrazione religiosa quale azione di Dio attraverso la sua Chiesa,10 ma poi descrisse l’originalità della vita religiosa attiva nel famoso n. 8 del Perfectae caritatis. In questi anni postconciliari si è progredito nella riflessione sulle peculiarità della «consacrazione apostolica». All’interno di questo tipo di consacrazione religiosa vibra il sigillo divino di un istinto e di una genialità apostolici che permea tutta la vita religiosa di zelo pastorale e informa ogni attività e iniziativa apostolica di spirito religioso.11

Così i doni e le grazie che lo Spirito unisce a questa consacrazione concorrono a esprimere quotidianamente in atteggiamenti peculiari di vita la «grazia di unità» tra l’amor di Dio e l’amor del prossimo, per essere portatori di una originale testimonianza del mistero della Redenzione. In tal senso, attraverso la nostra consacrazione apostolica, vissuta in fedeltà alle Costituzioni, lo Spirito del Signore ci invita e ci spinge ad approfondire e a riattualizzare continuamente la santità caratteristica del nostro Fondatore e Padre.

Il cinquantenario della sua canonizzazione ce ne offre una felice e straordinaria opportunità.



I grandi valori della santità salesiana


Nella circolare dell’anno scorso «Riprogettiamo insieme la santità» vi ricordavo che «solo Iddio è santo».

Per noi la santità non è altro che la vita stessa di Dio inserita intimamente nella nostra esistenza. Siamo santi per ciò che c’è di Dio in noi.

Quando guardiamo alla santità di Don Bosco intendiamo percepire ciò che c’è di Spirito Santo in lui, e sappiamo che anche in noi Egli intende forgiare un cuore con lo stesso tipo di fede, di speranza e di carità, irrobustito e difeso da una medesima peculiare ascesi di svuotamento di sé.


Servire il Signore in allegria


Il primo aspetto che ci colpisce nella santità di Don Bosco, e che è lì quasi a nascondere il prodigio dell’intensa presenza dello Spirito, è il suo atteggiamento di semplicità e di allegria che fa apparire facile e naturale ciò che in realtà è arduo e soprannaturale.

È la gioia di vivere, testimoniata nel quotidiano; è l’accettazione degli eventi come strada concreta e ardita per la speranza; è l’intuizione delle persone con i loro doni e con i loro limiti per formare famiglia; è il senso acuto e pratico del bene nell’intima convinzione che esso è (in noi e nella storia) più forte del male; è il dono di predilezione verso l’età giovanile che apre il cuore e la fantasia al futuro e infonde una duttilità inventiva per saper assumere con equilibrio i valori dei tempi nuovi; è la simpatia dell’amico che si fa amare per costruire pedagogicamente un clima di fiducia e di dialogo che porta a Cristo; è un pergolato di rose che si percorre cantando e sorridendo, anche se ben muniti di scarponi e di difese contro le numerose spine.

Quel «noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri» è frutto di uno speciale tocco dello Spirito Santo. Un tesoro divino, dunque, rivestito di semplicità e di gioia quasi a nasconderne il prodigio.


Avere un cuore oratoriano


Sotto questa prima apparenza di semplicità e bonarietà, il segreto di tutto è il cuore di Don Bosco, che ha palpitato sempre all’impulso del «da mihi animas».

Il suo animo è contrassegnato dal marchio di una peculiare e intensa «consacrazione apostolica». Lo Spirito Santo gli ha infuso una caratteristica «grazia di unità» che sottolinea nel suo atteggiamento contemplativo il mistero della Redenzione. Il suo cuore ammira e ama ininterrottamente un «Dio-che-salva». Per questo il suo amore di carità è instancabilmente operoso.

Don Bosco stesso ci ha insegnato che dobbiamo saper far «andare di pari passo la vita attiva e contemplativa, la vita degli Apostoli e quella degli Angeli».12

Don Albera, descrivendo la sua santità, ci assicura che in lui «perfezione religiosa e apostolato sono stati una sola cosa».13

Egli ha testimoniato l’assoluto di Dio vivendo interamente disponibile alla missione di Cristo e della sua Chiesa.

Nella mia circolare sulla Famiglia Salesiana14 ho cercato di approfondire quel tipo di amore soprannaturale proprio del cuore di Don Bosco che è la «carità pastorale»: l’energia unificatrice del suo spirito, l’originalità che accompagna la nostra consacrazione religiosa e la sorgente viva della nostra santità.

È necessario, per noi, far palpitare il cuore, come lui, all’impulso del «da mihi animas». Non è, questa, una semplice espressione verbale, ma la intuizione della «scintilla prima» che spiega tutta la nostra santità: vivere di carità pastorale, incarnata nel dono di predilezione verso la gioventù e caratterizzata dalla «bontà».

Ecco la vena d’acqua cristallina e salutare della santità salesiana alla sua scaturigine!


Saper farsi amare


Ho appena nominato la bontà. È parte sostanziale della santità di Don Bosco: una santità simpatica e attraente. Ma è tale, non per ingenuo affanno di popolarità (che contraddirebbe alla santità), bensì perché la carità pastorale, da cui sgorga, è intrinsecamente orientata al dono della predilezione verso i giovani; diviene quindi, per esigenza pastorale, una «carità pedagogica».

La bontà è un insieme di atteggiamenti, di ragionevolezza, di stile di convivenza, di dono di sé, di umiltà, di pazienza, di giusti e vivi sentimenti, di amorevolezza, di gioia, di comunicabilità, di contagio nel bene, che crea l’atmosfera della confidenza.

Nella Strenna ’84 ho voluto far presente a tutti il centenario della famosa lettera di Don Bosco da Roma perché «ci muova a rinnovati propositi di santità tipicamente salesiana». L’avverbio «tipicamente» occupa, qui, un posto strategico: deve spiegare e giustificare l’iniziale affermazione, di per sé paradossale, che l’amore non basta.

Sì: il «non basta amare!» della lettera da Roma potrebbe, a prima vista, scandalizzare qualcuno: non aveva, infatti, proclamato il grande Agostino d’Ippona «Ama, e fa quel che vuoi»? Ma per un santo «pedagogo», come Don Bosco, è esperienzialmente provato che non basta amare. La «carità pedagogica» esige che si aggiunga qualcosa di più: «farsi amare!»: ossia, saper tradurre l’amore in atteggiamenti di bontà, in metodologia di amicizia, in familiarità di dialogo e in allegria di convivenza. Rileggiamo insieme alcune affermazioni della lettera da Roma:

«l’affetto era quello che ci serviva di regola»;

«essere considerati come padri, fratelli, amici»;

«far crescere la confidenza cordiale»;

«chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama»;

«chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani»;

«questo amore fa sopportare le fatiche, le noie, le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze»;

«quando illanguidisce questo amore, allora è che le cose non vanno più bene»;

«il piatto migliore in un pranzo è quello della buona cera!»;

e, infine, l’accorato appello di Don Bosco:

«Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumato tutta la vita?... che ritornino i giorni dell’affetto e della confidenza cristiana, dello spirito di accondiscendenza e di sopportazione per amore di Gesù Cristo, i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore, i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti».15

In definitiva, dunque, il segreto della nostra carità pastorale e pedagogica, ossia del nostro cuore oratoriano, sta nella «bontà» che sa farsi amare.

E appunto per questo che ci chiamiamo «salesiani»: dalla dolcezza e amabilità di S. Francesco di Sales.


Essere asceti del quotidiano


Vivere allegri e farsi amare è bello e simpatico, ma può non essere santità. Don Bosco, per rivestire la sua santità con le attraenti caratteristiche pedagogico-pastorali che abbiamo ricordate, ha fatto enormi e ininterrotti sforzi ascetici. Egli ha curato sempre, per sé e per gli altri, una forte pedagogia del dominio di sé. L’ha espressa nel realistico motto «lavoro e temperanza».

Questo binomio, per noi inseparabile, implica un senso spirituale e pratico del «quotidiano», nella cui concretezza s’incarnano, ora dopo ora e giorno dopo giorno, gli ideali e i dinamismi della nostra fede, della nostra speranza e della nostra carità. Nello spessore della realtà giornaliera, nelle esigenze del proprio dovere, delle persone con cui si convive, delle situazioni di fatto, si trovano gli elementi pratici per smussare il proprio egoismo e per arrivare a un vero dominio di sé. Il lavoro e la temperanza, sempre insieme, esprimono assai positivamente tutto il vasto campo della disciplina ascetica salesiana: sono essi, ci ha detto Don Bosco, che «faranno fiorire la Congregazione».16

Nel sogno del pergolato di rose, tanto significativo al riguardo, il nostro Padre annota: «Tutti coloro, ed erano moltissimi, che mi osservavano a camminare per quel pergolato dicevano: “Oh, come Don Bosco cammina sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene!” Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere gambe. Molti preti, chierici e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi festanti, allettati dalla bellezza di quei fiori, ma quando si accorsero che si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da ogni parte, incominciarono a gridare dicendo: “Siamo stati ingannati”. Io risposi: “Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro: gli altri mi seguano”».l7

E noi lo seguiamo, convinti che senza disciplina ascetica non costruiremo la santità salesiana.

La carità pastorale tradotta in un instancabile lavoro apostolico, e la bontà del farsi amare sostenuta da una intelligente e permanente temperanza (che implica umiltà, mansuetudine, purezza, equilibrio, santa furbizia, sobrietà e gioiosa austerità), ci faranno evitare i pericoli del comodismo, delle agiatezze, del sentimentalismo, della sensualità, propri di chi si va secolarizzando e imborghesendo.

Nella praticità ascetica del lavoro e della temperanza il nostro Padre e Fondatore ci ha lasciato una sperimentata metodologia per la nostra santità. Senza di essa non potremo essere fedeli a quella consacrazione apostolica che ci ha segnati col sigillo dello Spirito Santo e ci attira i doni e le grazie per divenire salesiani santi.



L’intimità con Gesù Cristo «Redentore»


La canonizzazione di Don Bosco è avvenuta nella Pasqua di un Anno Santo della Redenzione. Nel discorso della solenne udienza che Pio XI accordò il 3 aprile 1934 nella basilica di San Pietro a tutta la Famiglia Salesiana convenuta a Roma per la proclamazione della santità del Fondatore, il Papa ha voluto sottolineare la connessione di questo fausto evento con i valori dell’Anno Santo della Redenzione. Disse Pio XI: Gesù Cristo «ha espressamente indicato il frutto di tutta l’opera sua di Redenzione (affermando): “Io sono venuto perché abbiano la vita, una vita vera e completa” (Gv 10,1) [...]. E questa è la vita cristiana, perché è Cristo che l’ha data al mondo [...].

Ed ecco che Don Bosco oggi ci dice: “Vivete la vita cristiana così come io l’ho praticata e insegnata a voi”. Ma ci pare che Don Bosco a voi figli suoi, e così particolarmente suoi, aggiunga qualche parola anche più specificatamente indicatrice [...]. Vi insegna un primo segreto, (che è) l’amore a Gesù Cristo, a Gesù Cristo Redentore! Si direbbe persino che questo è stato uno dei pensieri, uno dei sentimenti dominanti di tutta la sua vita. Egli lo ha rivelato con quella parola d’ordine: “da mihi animas”. Ecco un amore che è nella meditazione continua, ininterrotta di ciò che sono le anime non considerate in se stesse, ma in quello che sono nel pensiero, nell’opera, nel Sangue, nella morte del divino Redentore. Lì Don Bosco ha veduto tutto l’inestimabile, l’irraggiungibile tesoro che sono le anime. Da ciò la sua aspirazione, la sua preghiera: “da mihi animas”! Essa è un’espressione dell’amore suo per il Redentore, espressione sulla quale, per felicissima necessità di cose, l’amore del prossimo diventa amore del divino Redentore, e l’amore del Redentore diventa amore delle anime redente, quelle anime che nel pensiero e nell’estimazione di Lui si rivelano non pagate a troppo alto prezzo, se pagate col suo Sangue. È proprio quell’amore del divino Redentore — conclude il Papa —, che siamo venuti ricordando, ringraziando, in tutto questo Anno di moltiplicata Redenzione».l8

Ebbene: per felice coincidenza anche noi commemoriamo il cinquantenario della canonizzazione del nostro Padre alla conclusione di un altro Anno Santo straordinario della Redenzione. Le parole di Pio XI a commento del «da mihi animas» ci proclamano chiaramente che il segreto del cuore di Don Bosco è l’intima amicizia con Gesù Cristo contemplato nella sua missione di Redentore.

Sarà dunque indispensabile coltivare le nostre relazioni d’amicizia personale con Gesù Cristo, così da essere suoi discepoli, come lo è stato il nostro Fondatore.

Ora: per essere un «vero discepolo» si richiedono due condizioni fondamentali: innanzitutto, avere gli stessi sentimenti di Cristo e, poi, portare generosamente la sua croce.


— La prima condizione, quella di sentire come Cristo, è frutto di meditazione e di preghiera, ossia di quella dimensione contemplativa che, al fissare lo sguardo sul Redentore, riempie il proprio cuore degli stessi ideali e propositi che aveva Lui. Si tratta di coltivare una unione con Cristo che sommerga il proprio spirito nel mistero della salvezza: una testimonianza e una missione che sono insieme amore di Dio e zelo di redenzione. È un mistero situato al centro dell’intimità della nostra persona, che la muove come sorgente e alimento della sua carità pastorale e pedagogica.

Ecco perché il salesiano che si vuol far santo cura il suo incontro costante con Cristo. L’incontro quotidiano con Cristo — vi scrivevo l’anno scorso — «comporta senz’altro una amicizia permanente; ma io mi riferisco, qui, proprio anche a uno spazio concreto di tempo inserito in ogni giornata, che si chiama meditazione e preghiera personale, ore liturgiche, Eucaristia. Il sacramento del memoriale della sua Pasqua, che rinchiude l’amore più grande di tutta la storia, deve divenire vitalmente il centro propulsore di ogni nostro cuore e di ogni nostra casa».19


— La seconda condizione per essere vero discepolo è quella dello spirito di sacrificio, di dominio di sé e di rinuncia: ossia, il saper accettare e assumere nella propria esistenza il mistero della Croce.

«Essere “discepolo” senza rinunzie e senza sofferenze — scrive un esegeta protestante — è un’aperta contraddizione, come il sale che ha perso la sua consistenza essenziale. La qualità costitutiva del discepolo è inseparabile dalla funzione che egli deve compiere a favore del mondo e viceversa. Essere “discepolo” è sempre essere discepolo per il mondo. E dato che, per essere “discepolo”, si richiede spirito di sacrificio, il mondo ha bisogno di un discepolo che sappia soffrire, rinunciare, sacrificarsi».20

Don Bosco, lo abbiamo visto, ci ha insegnato a sopportare le spine: «chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro: gli altri mi seguano!».

In questo senso abbiamo meditato, alcuni mesi fa, gli apporti profondi del martirio e della passione nello spirito apostolico salesiano.21

«Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata — ci ha lasciato scritto Don Bosco — non entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base la parola del Salvatore che dice: “Chi vuol essere mio discepolo... mi segua colla preghiera, colla penitenza, e specialmente rinneghi se stesso, prenda la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua”... fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una morte di croce. Ciò è quanto nella Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell’insegnamento od altro esercizio (apostolico), fino ad una morte eziandio violenta di carcere, di esilio, di ferro, di acqua, di fuoco, fino a tanto che, dopo aver patito ed essere morto con Gesù Cristo sopra la terra, possa andare a godere con Lui in cielo».22



I due più dannosi nemici della nostra santità


La natura della consacrazione religiosa è tutta rivolta a portarci alla santità; in caso contrario, ossia se non la viviamo in vista della santità, essa verrebbe adulterata e perderebbe, di fatto, tutta la sua ragion d’essere.

È, questa, una terribile affermazione che purtroppo è constatabile, nel suo aspetto negativo, anche nella vita; la crisi di questi anni ce ne offre concreti e numerosi elementi.

Nella mia esperienza di questo sessennio ho potuto individuare qua e là gli inizi di due deficienze che considero, nel loro grado più alto, i due nemici più pericolosi per la santità salesiana. Sono: primo, lo svuotamento dell’originalità pastorale, e, poi, lo smantellamento della disciplina religiosa.


— Abbiamo visto, innanzitutto, che la carità pastorale è al centro del nostro spirito e, quindi, della nostra santità.

La «pastorale» è un’invenzione di Gesù Cristo; Lui l’ha introdotta nella storia dell’umanità; procede dal suo mistero della Redenzione; tocca tutto ciò che è umano, ma non si identifica con nessuno dei suoi aspetti (cultura, scienze, politica, promozione, economia, ideologie, ecc.): è assolutamente originale. Essa comporta una «forma mentis» e un modo di agire totalmente proprio e singolare, alimentato e giudicato solo dalla fede e dalla carità soprannaturali. Non basta essere lavoratori, generosi, coraggiosi, aggiornati e attuali; è indispensabile avere, come motore di tutto, un «cuore pastorale». Purtroppo c’è nell’aria, in non poche regioni, un senso di orizzontalismo che provoca vera superficialità spirituale; questa, poi, svuota facilmente la pastorale della sua eccelsa originalità, facendo cadere i suoi cultori nelle mode delle ideologie o nell’attivismo di un semplice fare.

Per sgominare tale nemico, urge coltivare un atteggiamento di riflessione e di contemplazione per cui si ridoni il suo posto centrale al «da mihi animas». Solo da questa posizione si ascende alla santità salesiana.


— L’altro nemico è lo smantellamento della disciplina religiosa. Per essere fedeli alla donazione di sé nella professione religiosa bisogna aver cura di una metodologia pratica, fatta di grandi e di piccole rinunce, di sensibilità verso alcune qualificate mediazioni, di convinzioni ascetiche, di valorizzazione di determinati segni, di mezzi disciplinari, di tradizioni collaudate nel proprio Istituto, di iniziative personali di mortificazione, ecc. È impossibile vivere gli ideali religiosi senza una pedagogia ascetica.

Ora, non è difficile trovare oggi un modo di ragionare e di giudicare che si crede innalzato a un livello ideologico da cui può guardare, dall’alto in basso, le esigenze concrete di una metodologia di fedeltà. Soprattutto per noi Salesiani che tendiamo a una santità caratterizzata appunto da una speciale dimensione pedagogica, questa petulante superficialità diverrebbe una flagrante contraddizione. Che tipo di santo potrà essere quel salesiano che, volendo testimoniare una carità pastorale e pedagogica, disprezzasse o non considerasse le rinunce inerenti ai voti, le mediazioni del Magistero ecclesiale, gli orientamenti e le direttive dei Capitoli Generali e dei Superiori, l’esercizio quotidiano dello svuotamento del proprio io, i segni ecclesiali della sacra liturgia, la disciplina del vivere comunitario, le esigenze ascetiche di certi articoli delle Costituzioni e dei Regolamenti, lo sforzo mortificante del dominio di sé? L’imborghesimento, il secolarismo, il camuffamento mondano, i plagi della moda, non fanno certo un buon servizio alla santità salesiana.

Don Bosco Santo ci interpella e ci esorta a non smantellare mai le esigenze della professione religiosa: «Primo oggetto della nostra Società — ci ha lasciato scritto — è la santificazione dei suoi membri [...]. Ognuno se lo imprima bene in mente e nel cuore: cominciando dal Superiore generale fino all’ultimo dei soci, niuno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il Capo, il Padrone assolutamente necessario. Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro Capo, al loro vero Padrone, al Rimuneratore, a Dio, e per amore di Lui ognuno deve farsi iscrivere nella Società; per amore di Lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva nel mondo per poter dire in fine della vita al Salvatore, che abbiamo scelto per modello: “Ecco noi abbiamo abbandonato tutto per venire con te. Che cosa dobbiamo aspettarci?”».23

Dunque, la canonizzazione di Don Bosco ci muova, come dice la Strenna ’84, «a rinnovati propositi di santità tipicamente salesiana».


* * *

Ed eccoci all’ultimo saluto.

Cari confratelli, i nostri incontri di animazione negli «Atti del Consiglio Superiore» in questo sessennio sono stati ben 22, su temi d’importanza per il nostro rinnovamento. Li abbiamo incominciati con l’appello mariano di prendere la Madonna in casa e di rilanciare, in forma rinnovata e conciliare, la nostra devozione a Maria Ausiliatrice.24 Ora li concludiamo con queste brevi considerazioni ed esortazioni sulla santità di Don Bosco.

La nostra vocazione e missione salesiana è tutta permeata di consacrazione religiosa per la testimonianza di una peculiare santità apostolica. Siamo figli di santi e viviamo per essere segni e portatori di santità. Non scoraggiamoci. Fa parte della santità anche la conversione e la penitenza per combattere e superare i nostri difetti.

Don Bosco nel suo testamento ci saluta affettuosamente così: «Addio, o cari figliuoli, addio. Io vi attendo al cielo. Là parleremo di Dio, di Maria madre e sostegno della nostra Congregazione; là benediremo in eterno questa nostra Congregazione, la cui osservanza delle Regole contribuì potentemente ed efficacemente a salvarci: “Sia benedetto il nome del Signore da adesso fino al secolo futuro. In te,

Signore, ho sperato, non sarò confuso nell’eternità”».25

Che Don Bosco Santo ci ottenga sempre la materna assistenza di Maria per saper donare ai giovani il più ambito e fecondo regalo salesiano per loro: la nostra santità pastorale e pedagogica!

Preghiamo intensamente il Signore per il buon esito del prossimo Capitolo Generale.

Cordiali saluti a tutti.

Con fraterna speranza e grato animo,

D. Egidio ViganÒ


NOTE LETTERA 22 -------------------------------------------


1 ACS, 21 gennaio 1934, pag. 143

2 ACS, 8 dicembre 1933, pag. 116

3 Cost 1

4 MR 11

5 1 Cor 11, 1

6 ACS n. 301, pag. 24

7 1º formulario del Rituale

8 2º formulario del Rituale

9 cf. Cost 74

10 cf. LG 44. 45; MR 8

11 PC 8

12 cf. Cost FMA 1885, c. XIII

13 D. ALBERA, Lettera 18 ottobre 1920 - Lettere circolari di D. Paolo Albera, Torino 1965, pag. 366

14 cf. ACS n. 304

15 MB XVII, 104-114

16 cf. Cost 42

17 MB III, 34

18 ACS n. 66, pag. 181-182

19 ACS n. 303, pag. 18

20 O. CULMANN, La fe y el culto en la Iglesia primitiva, Studium, Madrid 1971, pag. 308

21 cf. ACS n. 308

22 Lettera circolare, 9 giugno 1867; MB VIII, 828-830

23 ib.

24 cf. ACS n. 289

25 MB XVII, 258-259