351-400|it|382 Sei tu il mio Dio, fuori di Te non ho altro bene

LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE

PASCUAL CHÁVEZ

ACG 382 ‘03


«SEI TU IL MIO DIO, FUORI DI TE NON HO ALTRO BENE» (Sal 16,2)

1.«Rendo grazie a Dio riguardo a tutti voi» (Rm 1,8)-2. «Ho promesso a Dio che fin l'ultimo mio respiro...» (MB XVIII, 258) -3. Il malessere odierno della vita consacrata - 4. L'eccellenza oggettiva della vita consacrata - 5. Un modello in crisi - 6. CG25, un invito a orientarsi in questa linea - Per concludere

8 Giugno 2003
Solennità di Pentecoste

Carissimi confratelli,
all’inizio della sessione estiva del Consiglio generale mi metto in comunicazione con voi, seguendo il ritmo trimestrale delle lettere che abitualmente invio a tutta la Congregazione. Lo faccio nella festa di Pentecoste, che celebra l’irruzione dello Spirito Santo nel cenacolo dove si trovavano radunati i discepoli di Gesù con Maria. Secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (cf.
At 2, 1-11), questo fu un evento che sconvolse profondamente il cuore di ciascuno di loro, appunto «come un vento che si abbatte gagliardo». Lo Spirito Santo, che è la potenza con cui Dio interviene nella storia, li avvolse e «come fuoco» li penetrò nel profondo. La paura crollò e cedette il passo al coraggio, l’indifferenza lasciò il campo alla compassione, la chiusura fu sciolta dal calore, l’egoismo fu soppiantato dall’amore. La Chiesa iniziava così il suo cammino nella storia. Mi auguro che lo Spirito Santo, come vento e fuoco, aggiorni l’esperienza di Pentecoste nella Chiesa e nella nostra cara Congregazione, perché possiamo diventare testimoni sempre più convinti, coraggiosi e credibili di Gesù e del suo Vangelo.
Nell’ultima mia lettera avete trovato la relazione delle attività del mio primo anno di servizio a tutta la Congregazione; perciò ora mi conoscete un po’ meglio e siete informati di ciò che il Rettor Maggiore fa e pensa. Certamente la vita non si ferma; negli ultimi tre mesi ho avuto un’agenda molto fitta d’impegni: la giornata al Borgo Ragazzi di Roma, gli Esercizi Spirituali a Fatima, la visita all’Ispettoria del Portogallo, il viaggio in Terra Santa, il raduno intermedio del Consiglio Generale, la visita in Gran Bretagna, i giorni a Treviglio e Chiari, la visita alle Ispettorie di Sicilia, Bilbao e Monaco di Baviera, la giornata a Bonn e Colonia, la visita alla Ispettoria di Verona, il raduno dell’Unione Superiori Generali, la visita all’Ispettoria Adriatica.
Vi posso dire che conosco sempre meglio la realtà della Congregazione, le sue risorse, i suoi problemi, le sue sfide, le sue potenzialità. Apprendo inoltre sempre più i compiti da svolgere come Rettor Maggiore. È una missione assai bella ed esigente, dinanzi alla quale mi sento inadeguato rispetto alle necessità ed alle aspettative. Sento il bisogno quindi della vostra comprensione e soprattutto delle vostre preghiere, affinché possa diventare, come desidero, un Successore di Don Bosco paterno e lungimirante, fedele e dinamico.

1. «Rendo grazie a Dio riguardo a tutti voi» (Rm 1,8)

Prima di condividere con voi alcune riflessioni a riguardo della vita religiosa, sperando che vi siano utili come stimolo spirituale, pastorale e vocazionale, vorrei ringraziare ognuno di voi per il dono della sua vita a Dio sui passi di Don Bosco.
Mi sento in obbligo di ringraziarvi; lo faccio volentieri con questa lettera, come anche lo faccio personalmente quando vi incontro visitando le Ispettorie e le comunità. Da una parte ogni confratello è un tesoro per la Congregazione; non mi stancherò mai di ripeterlo e di cercare di farvelo sentire. Dall’altra la vocazione salesiana, sia laicale che presbiterale, è un dono straordinario per ognuno di voi. Questa è la mia esperienza ed immagino sia anche la vostra. Mi piace pregare alcuni salmi in questa luce, come per esempio il Salmo 16 (15), dove leggiamo: «Ho detto al Signore: sei tu il mio Dio, fuori di te non ho altro bene… Sei tu, Signore, la mia eredità, il calice che mi dà gioia… Splendida è la sorte che mi è toccata, magnifica l’eredità che ho ricevuto» (vv. 2.6). E non mi riferisco al fatto di essere Rettor Maggiore, che è un ministero da svolgere temporaneamente, ma al dono inestimabile della vocazione come progetto di vita centrato su Gesù, che ci chiama per nome, ci sceglie per essere con sé e per condividere la sua passione per Dio e per l’uomo (cf.
Mc 3,13-15). Avere una vocazione significa aver scoperto che la vita ha senso: c’è un bel “sogno”- quello di Dio - da realizzare, una missione - da Dio concessa - da svolgere, un traguardo - persone che ci sono state affidate - da raggiungere. E questo riempie di forza e di gioia tutta una vita, che risulta unificata come fu quella di Don Bosco (cf. Cost. 21). Questa è la vocazione salesiana.
Essa è un dono del Signore talmente prezioso, che va coltivata accuratamente e va proposta decisamente ai giovani, perché vogliamo che essi siano felici come noi. Mi convinco sempre più che il problema più grande e più diffuso tra i giovani non è ciò che richiama l’ attenzione, come la droga, l’alcool, e neppure la confusione nel campo della sessualità, anche se purtroppo tantissimi giovani vi sono coinvolti – e questo è un problema che non ci può lasciare indifferenti. Il vero problema è la mancanza di direzione, di orizzonte, di senso, di progetto di vita. Questo li porta a vivere superficialmente, consumando cose ed esperienze, senza un elemento che unifichi e dinamizzi la loro vita. Vi ringrazio dunque per la vostra vocazione, che sarà sempre più ricca della migliore biografia. Come poter infatti raccogliere alla fine della vita, in un libro o in una lettera mortuaria, una storia di fedeltà a Dio per i giovani, tessuta di gioie e tristezze, sogni e disillusioni, speranze e frustrazioni, sudore, lacrime e sorrisi?
Perciò, permettetemi che faccia mie le parole di Paolo per ringraziare Dio per quello che siete – consacrati da Dio ai giovani – e per quello che Dio è per voi – l’unico e supremo Bene. Come l’Apostolo, anch’io «rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (
Rm 1,8-12).

2. «Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro …» (MB XVIII, 258)

Come ricordate, già nella mia prima lettera vi ho espresso il desiderio di voler fare della santità un programma di vita, una scelta di governo, una proposta educativa. Da questo punto di vista mi ero azzardato a dire che quella prima lettera non era una tra le altre, ma che voleva diventare il testo programmatico del sessennio.
E quando parlo di santità, non penso a qualcosa di generico o ad un ideale da proporre indistintamente a tutti; sto pensando a noi salesiani. Quando parlo di santità, penso dunque a una vita di santità che ci è propria: la santità
salesiana, vissuta secondo il modello del nostro amato padre Don Bosco. Mi riferisco appunto a quella santità che solo si può raggiungere e vivere in qualità di consacrati da Dio alla missione salesiana: «la nostra vita di discepoli del Signore è una grazia del Padre che ci consacra col dono del suo Spirito e ci invia ad essere apostoli dei giovani» (Cost. 2).
La nostra è quindi una
santità consacrata, un dono specifico che Dio fa a noi per i giovani ai quali siamo inviati. Tutto ciò ha delle conseguenze. Vorrei soffermarmi con voi su questo aspetto della santità salesiana, che ritengo del tutto strategico, perché «noi salesiani di Don Bosco» intendiamo «realizzare il progetto apostolico del Fondatore in una specifica forma di vita religiosa» e perché «nel compiere questa missione, troviamo la via della nostra santificazione» (Cost. 2).
Non di rado, visitando la Congregazione, mi è capitato di trovare confratelli strapieni di energie e coraggio apostolico, che lavorano in opere stupende a favore di ragazzi, che non sembrano però essere sorretti ed animati da una pari passione per Dio. Così che se da un canto non si può che apprezzare una tale dedizione, dall’altro non si può tralasciare di domandarsi qual è il movente reale di così grande attività. Noi sappiamo che la missione salesiana e la Congregazione, che è sorta al suo servizio, sono nate da Dio e in Dio rinascono: il salesiano infatti è stato «mandato ai giovani da Dio» (
Cost. 15); la Società alla quale appartiene «è nata non da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio» (Cost. 1); inoltre il tratto più caratteristico della nostra vocazione, quello a noi più caro, «la predilezione per i giovani», «è uno speciale dono di Dio» (Cost. 14). Dio è all’origine, come fonte e fondamento, della nostra missione salesiana; e così deve rimanere. Questa realtà oggettiva viene vissuta da ciascuno e traspare attraverso la propria vita.
Non diversa è stata l’esperienza personale di Don Bosco. Prete pastore dei giovani per vocazione, diventa per loro e con loro sollecito educatore; e l’ educatore-pastore dei giovani si fa fondatore di Istituti religiosi, «religioso egli stesso, formatore di consacrati e, più tardi, di consacrate… Il problema giovani, infatti, gli era apparso troppo complesso e impegnativo da ritenersi risolto con il solo coinvolgimento saltuario e volontaristico di collaboratori fluttuanti»
[1] . «L’esperienza stava a dimostrare che il personale volontario non garantiva stabilità, continuità, omogeneità di azione, quando, invece, il pianeta giovani si rivelava sempre più complesso e l’abbandono e la povertà più estesi e articolati. Era consequenziale il ripensamento radicale del problema degli operatori, del loro status spirituale e giuridico e della loro organizzazione. Don Bosco avrebbe scelto infine la forma della Società religiosa, affiancata da altre forze associate»[2]
Cosicché, consapevole che la missione fra i giovani, specialmente i più poveri, abbandonati o a rischio, richiedeva «un vasto movimento di persone» (
Cost. 5), Don Bosco dovette cercare tra i propri giovani i suoi collaboratori migliori, quelli che condividevano con lui una stessa esperienza spirituale e apostolica, quella di Valdocco, e che, invitati da Don Bosco a “restare con lui”, divennero i primi salesiani. «Egli era partito da ragazzi, che non avevano alcuna idea di vita religiosa… Dall’ essere nella casa di don Bosco egli li ha gradualmente indotti al desiderio di vivere e di lavorare stabilmente, in comunità, con don Bosco, infine alla decisione di condividere la sua stessa missione e legarvisi mediante i voti religiosi, diventando membri di una vera e propria Società di consacrati»[3] .
Vero è che, almeno per noi salesiani, è stata la missione a richiedere la nascita di un gruppo di consacrati: i giovani ci hanno portato a Dio, e non per svago o come passatempo, ma come meta e motivo. Per assicurare il lavoro coi giovani Don Bosco ha scoperto che aveva bisogno di persone dedite per intero a Dio; per avere dei collaboratori completamente consacrati ai suoi giovani, Don Bosco divenne fondatore. Non so se questa sia stata una scelta pragmatica del nostro amato padre, quando si rese conto che i collaboratori ordinari non garantivano lo sforzo quotidiano del lavoro apostolico, lungo le 24 ore del giorno, tutti i giorni della settimana, o piuttosto una conclusione logica della sua propria esperienza, marcata dal “sogno” dei nove anni, che lo portò a pensare che Dio ha un “sogno” per ciascuno di noi, una vocazione speciale che irrompe nella consacrazione da parte di Dio per una specifica missione. A partire dalla propria esperienza spirituale e pastorale, Don Bosco scopri così le potenzialità di una vita religiosa, nata al servizio della missione salesiana.

3. Il malessere odierno della vita consacrata

È evidente che oggi esiste un certo disagio nei confronti della vita religiosa, di cui risente anche la nostra Congregazione. Il declino numerico e l’aumento dell’età media dei confratelli, almeno in alcune delle Regioni, ne sono un segnale, oltre al fatto della fragilità vocazionale che è un fenomeno ricorrente in tutti gli Ordini, Congregazioni e Istituti. Questo malessere è tanto più difficile da comprendere e da assumere, quando si ritenga che la Congregazione sia stata fedele alle richieste della Chiesa, alle esigenze del mondo e della cultura, ai bisogni sempre nuovi dei giovani, e che essa abbia cercato di rispondervi con fedeltà e con creatività.
Si deve pure ammettere che un certo disagio risulta connaturale alla vita consacrata odierna, che avendo sempre come suo primo compito «l’affermazione del primato di Dio e dei beni futuri», si trova oggi a vivere in un mondo «dove sembrano spesso smarrite le tracce di Dio» (
VC 85). Per di più sperimentare Dio, soggetto al di là del probabile e persino del narrabile, è sempre un compito assai arduo; di conseguenza può diventare eroico, qualora sia possibile, testimoniare Dio dove Lui non viene più sentito o dove Lui è stato messo in silenzio; e ciò capita spesso. Ma il malessere che la vita religiosa oggi soffre non nasce solo dall’esterno, dalla sua naturale incompatibilità col mondo[4] , ma scaturisce anche dal suo interno, perché fra l’altro all’ improvviso essa si è vista privata di quei compiti sociali che le diedero per tanto tempo sicurezza e rilevanza sociale[5] .
Il modo in cui si parla oggi di “ri-nnovamento”, “ri-creazione”, “ri-fondazione” della vita religiosa non diventa certo comodo o gradevole, ma ci obbliga a verificare se veramente l’atteso rinnovamento messo in atto dal Concilio Vaticano II non sia rimasto una «accommodata renovatio» di forme, senza avere raggiunto in profondità la mente e il cuore delle persone.
È molto comune affermare che nei giorni precedenti al Concilio Vaticano II era facile “identificare” i religiosi, la loro forma di vita ed il loro posto nella Chiesa. La vita religiosa era una forma di vita caratterizzata dalla professione dei consigli evangelici di povertà, castità e ubbidienza, secondo le Costituzioni di una Congregazione, approvate dall’autorità della Chiesa. I religiosi  abitavano in case religiose, monasteri o conventi, e si distinguevano, dentro e fuori dei loro Istituti, per il loro abito e per le loro abitudini. Lo stile della loro vita e la chiara visibilità dei loro membri li separavano realmente dal ‘mondo’ e li rendevano differenti dai ‘laici’ dentro la stessa Chiesa.
Il Concilio iniziò un cambiamento copernicano, nel quale tutte le istituzioni furono coinvolte ed evidentemente modificate, per essere state invitate a ricollocarsi
dentro la Chiesa ‘nel’ mondo (GS), con una nuova ecclesiologia di comunione (LG), secondo cui tutti i battezzati formano un unico popolo di Dio con diversità di vocazioni, ruoli e carismi.
 È vero che, dopo tutto il processo di rinnovamento fatto, la vita religiosa è rimasta talmente trasformata che oggi non è facile “identificarla” e definire il suo luogo nella Chiesa, cosa che succede invece per i laici e i pastori (vescovi, preti e diaconi). È ovvio che la difficoltà non proviene dall’esterno, dal fatto per esempio che l'abito sia stato tralasciato e si sia adottata una forma borghese di vestire; piuttosto sorge da una interpretazione della chiamata universale alla santità e da una serie di fattori esterni ed interni che hanno cancellato, o quanto meno offuscato, i tratti caratteristici del suo vero volto. Questo spiega l’insistenza odierna circa la sua «eccellenza oggettiva» (
VC 32), la sua «visibilità» (VC 25), e quindi la sua significatività, la sua credibilità, il suo primo fascino.
Possiamo dunque dire che la vita religiosa sia stata messa in crisi, esternamente dalla secolarizzazione e internamente dalla perdita di identità.

Crisi esterna

Il fenomeno più grave del nostro tempo non è più l’ateismo (
GS 19)[6] , ma la  secolarizzazione della società che ha raggiunto livelli di secolarismo esacerbato ed è riuscita a creare una cultura della non-credenza, una cultura a-religiosa, praticamente a-tea. Si vive in un clima di indifferenza e relativismo. Non si nega l’esistenza di Dio, Gli si nega però uno spazio dove sopravvivere; non si discute la ragionevolezza della fede, ma si vive facendo a meno praticamente di essa; ormai non si deve giustificare l’ incredulità, ma la fede; Dio non è più problema, perché la sua presenza non è più evidente[7] . La pratica religiosa diventa meno visibile; il vangelo non risuona più in una società logorata da nuovi messaggi; Dio e il sacro, se persistono tra noi, è perché sono stati interiorizzati. Il profano conquista terreno, si è fatto padrone del sociale e si sta impadronendo del privato; la coscienza individuale e la propria intimità non sono più il focolare di Dio.
Potrebbe sembrare eccessiva la diagnosi; cito a questo punto un testo di Don Viganò che, scrivendo in termini simili alla fine dell’anno 1991, continua ad essere valido ed eloquente:
«Finora molte espressioni sociali e culturali erano permeate da una dimensione religiosa. È andata crescendo, invece, l’irrilevanza sociale di ciò che è religioso, che rende più difficili e lunghi i ritmi della maturazione della fede, come conoscenza dei suoi contenuti e, ancor più, come pratica di vita. E questo sia per i giovani delle nostre opere che per i giovani salesiani in formazione.
Essere cristiani – ossia vivere l’opzione battesimale – in una società pluralista, diviene una modalità sociale tra tante altre, con lo stesso diritto di cittadinanza. Può affiorare così un clima di relativismo, di offuscamento degli ideali tradizionali, di perdita del senso della vita: molti giovani sembra che galleggino alla deriva su un’imbarcazione senza bussola. Perdono la prospettiva del trascendente, che è il traguardo della fede, e si chiudono in piccole risposte sul senso della vita, assolutamente insufficienti per le grandi ansie del cuore umano. Le stesse risposte che la scienza intende offrire loro risultano carenti nell’ottica della ricerca di significato, perché non si riferiscono alla finalità ultima della vita e al senso globale della storia».
[8]
Questa secolarizzazione può avere un triplice volto nella vita consacrata. Infatti si può manifestare in forma di:
-  
Perdita di trascendenza, che diviene evidente quando si indebolisce o si smarrisce la fede come orizzonte della vita e della vocazione, che diventano così un puro progetto umano; si rende più difficile, o persino scompare, la motivazione di vivere come consacrato a Dio e centrato sulla missione da Lui affidata.
Antropocentrismo, che non pone più Dio come centro della vita o come ultimo punto di riferimento, ma l’Uomo, in modo tale che la vita viene modellata a misura delle esigenze e sullo sviluppo dei dinamismi propri della natura, senza nessun margine di spazio per i valori del Regno.
Prassi socioeconomica, che porta a sentire con passione il fatto che l’uomo sviluppa se stesso nel lavoro creatore, nel dominio del mondo e nell’accompagnare altri nel loro maturare personale e nel loro successo sociale; la missione apostolica si riduce a lavoro sociale o si identifica con l’impegno per il cambio.
A mio avviso, in questa prospettiva secolarizzata della vita religiosa ha influito anche – e molto – una lettura teologica riduttiva del principio della incarnazione, che insiste in tal modo sul primo termine, quello del «quod non assumptum» di Ireneo, da mettere in secondo ordine o tralasciare assolutamente la novità che ci viene da Dio attraverso l’incarnazione. Attirati dalla decisione di Dio di diventare uomo, si dimentica spesso il fatto portante che mai il Dio-uomo ha smesso di essere Dio e di conseguenza che non è l’uomo che è diventato divino, ma Dio che si è fatto uomo e, anche se vero uomo, rimane pure vero Dio.

Crisi interna

Naturalmente la crisi della vita religiosa non ha né esclusivamente né prevalentemente un’origine da fattori esterni, sebbene dobbiamo riconoscere che questi la condizionino fortemente; essa sorge piuttosto dall’interno di essa e si manifesta soprattutto attraverso alcuni sintomi:
-  
L’indebolimento dell’identità ecclesiale della vita religiosa. Eravamo abituati a definire la vita religiosa come stato di perfezione;il Concilio Vaticano II ha affermato che la vocazione alla santità è di tutti i battezzati. Come definire il significato e il compito della vita religiosa all’interno della universale vocazione alla santità?
Ancora più radicale diventa lo svigorimentosul versante della missione.Noi siamo cresciuti in un clima in cui si riteneva che il duplice compito dell’annuncio del vangeloe della diaconia della carità fosse un’esclusiva dei presbiterie dellepersone consacrate. Il Vaticano IIci ha ricordatoche la missione è responsabilità di tutti i battezzati, ognuno secondo la propria vocazione;la crescita del laicato a tutti i livelli è un segno che lo conferma. Quale può essere allora il significato della presenza della vita religiosa?
Ci siamo perfino accorti che neanche il carisma, con la spiritualità e la missione che vi sono incluse, può essere posseduto in esclusiva, come proprietà dell’Istituto. Esso ha per destinatari tutti coloro che ne vengono in contattoe raggiunge il suo traguardoquando è vissuto anche da loro. Che compito hanno i consacrati nei confronti del carisma?
Questi interrogativi, anche se non sono sempre proposti esplicitamente, rendono meno chiara e meno forte la coscienza della propria identità e funzione nella Chiesa.
-
  La visione della vita religiosa centrata sulla funzione, cioè la visione funzionalista più che ontologica della vita consacrata. La vita religiosa dell’Ottocento era definita, e molto più eravissuta, come un mezzo per la missione. Lo richiedevano i tempi ed iservizi offerti erano evangelicamentesignificativi. Ma l’evoluzione delle nostre società moderne ha fatto sì che lo Stato o i gruppi sociali assumessero molti servizi creati e realizzati dalla vita religiosa.Oggi nelle opere stesse, che lecomunità religiose hanno, i laici partecipano sempre di più alla gestione e allaresponsabilità di direzione.
Le opere dei religiosi funzionano bene, generalmente assai meglio di quelle pubbliche;ma c’è anche qualcosa che lascia profondamente inquieti: non solo le vocazioni continuano a non venire, ma si constatache la gente viene a prendere da noi prestazioni e servizi, mentre le ragioni per vivere le cerca altrove. Allora comincia a serpeggiare un interrogativo che si va  intensificando: che senso hala nostra presenza in una tale situazione?.
-Il
superamento delle strutture passate. La vita consacrata ha corso il rischio di rinchiudere i suoi membri in una rete di precetti e norme, che non sempre hanno aiutato le persone a maturare e a vivere secondo la libertà dei figli di Dio.Ancora di più,le forme di vita religiosa, anche quelle rinnovate, non corrispondono sempre alle nuove situazioni nelle quelli oggi dobbiamo realizzare la nostra vita e missione:basta pensare aglischemi di vita comunitaria o alle forme di preghieraPer altro verso,queste forme e strutture tradizionali non riescono ad esprimere i nuovi valori,quali quelli dell’autonomia personale, del senso del dialogo e della partecipazione.
C’è la sensazione che sappiamo bene la direzioneverso la quale dobbiamo camminare, ma nella realtà ancora non abbiamo trovato un modello divita e di azione che faciliti e appoggi questo cammino.Ci troviamo in una situazione molto scomoda:abbiamo abbandonato le strutture passatee inadeguate, ma ancora non abbiamo raggiunto e definito le nuove
[9] . I Superiori Generali (USG) hanno espresso ciò con un’affermazione unpo’fortema veritiera: essi diconoche un modello di vita religiosa è giunto a esaurimento e non riesce più a motivare neanche quelli che ci stanno dentro.Padre Maccise aggiunge che oggi noi non siamo in grado di sapere quale sarà il modello di vita religiosa di domani.
Questi sintomi erano già stati identificati da don Viganò
[10] e da don Vecchi[11] , che avevano cercato di indicarci la soluzione attraverso lo sviluppo del senso della consacrazione apostolica, della grazia dell’unità, della specificità della spiritualità salesiana. Forse oggi ci troviamo in condizioni migliori per fare la diagnosi delle cause più profonde e di conseguenza per trovare le soluzioni.

4. L’eccellenza oggettiva della vita consacrata

Conferma quanto ho detto sopra, cioè che la vita consacrata attraversa un “periodo delicato e faticoso”, la testimonianza di Giovanni Paolo II, il quale scrive:  «Èstato un periodo ricco di speranze, di tentativi e proposte innovatrici miranti a rinvigorire la professione dei consigli evangelici. Ma è stato anche un tempo non privo di tensioni e di travagli, in cui esperienze pur generose non sono state sempre coronate da risultati positivi»(
VC 3). Queste difficoltà non riescono ad oscurare «lo speciale valore della vita consacrata»nella Chiesa, anzi rendono più urgente una chiarificazione della identità teologica, anche in confronto con gli altri stati di vita (cf. VC 31-32).
In questa linea, nell’ultimo raduno della Conferenza Episcopale Italiana del maggio scorso, in occasione dei 25 anni della
Mutuae Relationes, uno dei Vescovi ha scritto: «Alla luce delle indicazioni suddette il carisma della vita consacrata va ricompreso e vissuto con maggior chiarezza teologico-pastorale, sia in rapporto alle altre espressioni vocazionali nella Chiesa, sia in rapporto alla missione nel mondo. L’interpretazione più diffusa, anche all’interno della comunità cristiana, evoca più una visione funzionalistica che ontologica della vita consacrata… La consacrazione non è mezzo per garantire la funzionalità dei servizi nelle opere, ma è il contenuto fondamentale della missione dei consacrati: è dire il primato di Dio, il valore delle realtà ultime, nel mondo dell’oblio di Dio, per un uomo troppo curvo sulle cose penultime»[12] .
Come ricordava ilP. Tillard, «allaradice di ogni vita religiosa autentica troviamo come motivazione prima e onnicomprensiva non un “per” ma un “a causa di”. E l’oggetto di questo “a causa di” altro non è che Gesù Cristo. Non ci si fa religiosi “per” qualche cosa, ma “a causa di” qualcuno: di Gesù Cristo e del fascino che egli esercita».
[13] Non c’è spazio per indugiare su questo punto. Generalmente lo si dà per scontato, mentre se c’è qualcosa che non lo è, è proprio questo. La vera sfida attuale della vita consacrataè quelladi restituire Cristo alla vita religiosa e la vita religiosa a Cristo, senza darlo per assicurato.
Penso che parte del problema si sia originato, quando una comprensione riduttiva della
Lumen Gentium portò a cancellare proprio l’identità specifica della vita religiosa, annullando, o per lo meno sminuendo, l’eccellenza oggettiva della “sequela Christi” che essa rappresenta. Ripensare lo “status” teologico della vita religiosa «è una delle sfide più grandi che debbono affrontare i religiosi e le religiose oggi»[14] .
Senza pregiudicare la santità soggettiva di tanti laici e preti, dobbiamo ribadire con decisione che la “sequela Christi” e la “imitatio Christi” trovano nella vita religiosa il loro campo più favorevole; essa è, appunto, «
memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli». (VC 20). «I consigli evangelici, con i quali Cristo invita alcuni a condividere la sua esperienza di vergine, povero e obbediente, richiedono e manifestano, in chi li accoglie, il desiderio esplicito di totale conformazione a Lui… La sua forma di vita casta, povera e obbediente, appare infatti il modo più radicale di vivere il Vangelo su questa terra, un modo – si può dire – divino, perché abbracciato da Lui, Uomo-Dio, quale espressione della sua relazione di Figlio Unigenito col Padre e con lo Spirito Santo. È questo il motivo per cui nella tradizione cristiana si è sempre parlato della obiettiva eccellenza della vita consacrata»(VC 18).
Nell’armonioso insieme di doni che formano la Chiesa, «a ciascuno dei fondamentali stati di vita è affidato il compito di esprimere, nel suo proprio ordine, l’unao l’altra dimensione dell’unico mistero di Cristo. Se nel far risuonare l’annuncio evangelico all’interno delle realtà temporali ha
una particolare missione la vita laicale, nell’ambito della comunione ecclesiale un insostituibile ministero è svolto da coloro che sono costituiti nell'Ordine sacro, in modo speciale dai Vescovi… Quanto alla significazione della santità della Chiesa, un’oggettiva eccellenza è da riconoscere alla vita consacrata, che rispecchia lo stesso modo di vivere di Cristo. Proprio per questo, in essa si ha una manifestazione particolarmente ricca dei beni evangelici e un'attuazione più compiuta del fine della Chiesa che è la santificazione dell'umanità»(VC 32).
Non c’è dubbio che la missione della vita religiosa è quella di
essere segno, metafora:
Segno della memoria viva di Gesù, il quale prolunga la sua presenza rivelatrice attraverso la vita di quelli che portano nel proprio corpo “le stigmate” della passione del Signore (Gal 6,17). Alla vita consacrata corrisponde di vivere ed esprimere pubblicamente «l'adesione “conformativa”a Cristo dell’intera esistenza»(VC 16), che porta alla configurazione con il Signore Risorto. «Questo comporta una particolare comunione d’amore con Lui, diventato il centro della vita e la fonte continua di ogni iniziativa»(RdC 22).
Infatti, la vita consacrata è in se stessa una «progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo»(
RdC 15; cf. VC 65). «È necessario quindi aderire sempre di più a Cristo, centro della vita consacrata, e riprendere con vigore un cammino di conversione e di rinnovamento che, come nell’esperienza primigenia degli apostoli, prima e dopo la sua risurrezione, è stato un ripartire da Cristo. Sì, bisogna ripartire da Cristo»(RdC 21).
Segno della presenza e delprimato di Dionel mondo, del Dio di Gesù, fonte di vita e di umanità, che si manifesta nella stoltezza e debolezza della croce (cf. 1 Cor 1,22-31), che denuncia il peccato e apre all’azione vivificante dello Spirito nella Risurrezione. C’ è bisogno dunque che diamo veramente a Dio il primato che gli corrisponde, come valore assoluto della nostra vita, personale e comunitaria, intima e istituzionale.
Fare
esperienza di Dio non è per noi saltuaria occupazione né compito secondario, ma nostra ragione d’essere nella Chiesa e nostra prima missione: «nella semplice quotidianità, la vita consacrata cresce in progressiva maturazione per diventare annuncio di un modo di vivere alternativo a quello del mondo e della cultura dominante. Con lo stile di vita e la ricerca dell’Assoluto, suggerisce quasi una terapia spirituale per i mali del nostro tempo»(RdC 6).
Segno della novità del Regno di Dioche è nel mondo, ma che non è di questo mondo (cf. Gv 18,36), che assume i valori umani, ma anche li trascende e li redime, introducendo in essi una vera e assoluta novità. «La stessa vita consacrata, sotto l’azione dello Spirito Santo, diventa missione. Più i consacrati si lasciano conformare a Cristo, più lo rendono presente e operante nella storia per la salvezza degli uomini»(RdC 9).
Questo comporta di vivere con gioia e radicalità le Beatitudini come programma di vita e come lievito capace di trasformare il mondo. Peculiare
missione della vita consacrata è, infatti, «tener viva la consapevolezza dei valori fondamentali del Vangelo, testimoniando in modo splendido e singolare che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle Beatitudini»(VC 33).
Segno della comunione ecclesiale, che è vissuta da chi fa professione di vivere fino in fondo il comandamento di Gesù nella vita di comunità, dove si fa «in qualche modo tangibile che la comunione fraterna, prima d’essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto (cfr Mt 18, 20)»(VC 42). Il contributo dei consacrati e delle consacrate all’evangelizzazione «sta perciò innanzi tutto nella testimonianza di una vita totalmente donata a Dio e ai fratelli, ad imitazione del Salvatore»(VC 76; cf. RdC 34).
Questo avviene grazie all’amore reciproco di quanti compongono la comunità, che prima di diventare progetto umano, è parte del progetto divino (cf.
VFC 7).  «La vita di comunione rappresenta il primo annuncio della vita consacrata, poiché è segno efficace e forza persuasiva che conduce a credere in Cristo. La comunione, allora, si fa essa stessa missione, anzi la comunione genera comunione e si configura essenzialmente come comunione missionaria»(RdC 33; cf. ChL 31-32): «chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo»(NMI 40).
«La vita consacrata oggi ha bisogno soprattutto di un rilancio spirituale, che aiuti a passare nel concreto della vita il senso evangelico e spirituale della consacrazione battesimale e della sua
nuova e speciale consacrazione. La vita spirituale dev’essere dunque al primo posto nel programma delle Famiglie di vita consacrata, in modo che ogni Istituto e ogni comunità si presentino come scuole di vera spiritualità evangelica»(RdC 20; cf. VC 93).
Chiamati ad essere segnidella novità profetica del Vangelo, novità che deve illuminare ed essere punto di riferimento per ogni battezzato, abbiamo una grande responsabilitànella Chiesa: se tutti sono chiamati alla santità, noi dobbiamo fare della santità uno stile di vita, la nostra vera “professione”, per divenire tra i cristiani una chiamata vivente. Vivere consacrati a Dio è la nostra prima missione apostolica.
E questo è tanto più urgente per noi come educatori dei giovani, i quali cercano e hanno bisogno di persone che siano per loro stimolo e proposta di vita, persone che con la propriaforma di vita diano loro ragioni di vita e di speranza e li accompagnino nel loro sviluppo umano e cristiano.

5.  Un modello in crisi

A partire daquesta identità possiamo individuare meglio le radici della crisi attuale della vita religiosa, di cui la mancanza di vocazioni, la poca visibilità e la debole significatività non sono che un sintomo.
È stata una concezione – direi – “
liberale” e riduttiva di vita religiosa, che ha ritenuto che il rinnovamento doveva essere un adeguamento alla modernità, assumendo il meglio dell’Illuminismo, dell’emancipazione, dei diritti umani. Così si è passati a collocare al centro la persona, la sua coscienza, la sua dignità, il proprio progetto. Questo ha contribuito a suscitare una salutare liberazione, consistente in una maturazione umana più ricca e rispettosa della persona, ma anche ha introdotto elementi di segno negativo:
-  Il rifiuto di
qualsiasi distintivo particolare della VC; si sono andati abbandonando i tratti sociali di appartenenza, come l’abito, le strutture, le abitudini, il linguaggio, un modo caratteristico di presentarsi davanti alla gente; si evitava di essere riconosciuti e di apparire differenti. Si riteneva importante l’invisibilità e il lasciar sepolto il tesoro (cf. Mt 13,44).
Ma se la stessa vita consacrata nega d’essere segno visibile di qualcosa, allora che senso ha? Proprio per questo oggi si parla tanto del bisogno di ricuperare un luogo nel mondo e nella Chiesa attraverso la sua
visibilità, per mezzo della quale appaiono «i tratti caratteristici di Gesù» (VC 1).
-  La voglia ardente di diventare
normali, come tutto il mondo, senza che ci sia qualche cosa che ci possa distinguere dagli altri, senza portare con noi il nostro tratto caratteristico d’essere stati guadagnati dal Cristo e di Lui innamorati, cioè impegnati «a vivere con amore appassionato la forma di vita di Cristo» (RdC 8)
Ma se la vita consacrata non spicca per nulla
in più, se non desta sentimenti più profondi e risorse meno comuni, perché diventare religiosi? Se i voti non hanno niente di straordinario, d’insolito, di “pazzesco”, non sarà forse perché sono stati ridotti a nostra misura? Se la vita consacrata si è installata nella normalità, vuol dire che ha perso tutta la sua forza profetica[15] ; se fa di tutto, ma niente di speciale, se non anticipa nulla di meglio, né annuncia né denuncia qualcosa, a cosa serve?
-  A questo si aggiunge la riaffermazione della
professionalizzazione. Prima, forse, si voleva che la grazia della vocazione venisse a sostituire la nostra incompetenza professionale; “l’obbedienza fa miracoli”, si diceva spesso. Oggi invece la necessaria preparazione professionale diventa sovente un pretesto per non essere disponibili per la missione. Stiamo perdendo la freschezza della disponibilità evangelica, la spontaneità dell’apostolo, per diventare semplici professionisti dell’educazione. Mi domando se tutti i Salesiani sarebbero disposti a lasciare la propria professione per un servizio alla Congregazione? La mia esperienza mi convince che sono in molti quelli che lo fanno, e volentieri; ma purtroppo non siamo tutti.
Ma se la vita consacrata conta soltanto su dei professionisti della sanità, dell’educazione, dell’emarginazione, si deve pur ammettere che ha sbagliato, cambiando tragicamente il fine per il mezzo. Il fare prende il sopravvento sull’essere; ma è giusto privilegiare il lavoro delle nostre mani più che la volontà di Dio su di noi?
-  Si è introdotta così una grande dose di
individualismo, che rende l’obbedienza quasi impossibile. Il fatto è tanto più grave, quanto meno è cosciente; o se risulta notorio, allora è più ragionato. Dinanzi ai propri diritti, al proprio progetto, alla realizzazione della vocazione personale, non c’è niente da fare: essi non vengono messi in questione e neppure valutati.
Ma se la vita consacrata interpreta se stessa dalla prospettiva dell’
auto-realizzazione, ha perso la strada del vangelo. Ricordiamo le parole decisive di Gesù: chi vuol conservare la propria vita, la perde (cf. Mc 8,35; Gv 12,25). L’auto-realizzazione mette al centro il proprio io e i propri interessi. Il vangelo, al rovescio, ci de-centra, mettendo al centro Dio e il prossimo. La cultura dell’auto-realizzazione stravolge il discernimento comunitario; esso viene preso non tanto come un processo di distacco e di purificazione per sintonizzarsi con la volontà di Dio, ma come una strategia per imporre una decisione personale, sovente già presa. Dov’è dunque la sequela Christi, dove il fare, come Gesù, della volontà di Dio il proprio cibo (Gv 4,34)?
Facendo così si perde il senso della
missione comunitaria, perché il primato dell’io comporta la perdita della missione comune. Ma se la vita consacrata acconsente e lascia spazio a questa visione individualistica di vocazione e di missione, essa è orientata all’autodistruzione. Il rischio non è immaginario; è così reale che oggi è diventato un problema per la formazione e per il governo.
-   La
riduzione della preghiera è un altro elemento di questo modello di vita consacrata “liberale”. Le pratiche di pietà si riducono “ad usum privatum”, perdono frequenza, visibilità ed obbligatorietà; si fanno quando c’ è tempo, perché non c’è altro di più urgente da fare; o quando se ne sente il bisogno, perché c’ è qualcosa da chiedere. È vero che prima ci poteva essere una certa routine e formalismo e poteva mancare spontaneità e autenticità; ma è anche vero che senza praticare la preghiera, che esige disciplina e metodo, regolarità di vita e fedeltà quotidiana, si produce uno svuotamento interiore e una profonda frammentarietà nella persona credente.
Ma è un controsenso che la vita consacrata si allontani da Dio, perché non lo frequenta. Infatti, «dalle persone consacrate si espande sulla Chiesa un persuasivo invito a considerare il primato della grazia e a rispondervi mediante un generoso impegno spirituale» (
RdC 8; cf. NMI 38). Come spiegare che per un salesiano ci siano occupazioni più importanti di Dio? In questo modo si produce quello che era stato già detto dai latini: Corruptio optimi pessima; niente di peggio che un religioso secolarizzato. A che serve il sale, se diventa insipido (Mt 5.13)?
-  Il tipo di
comunità che si promuove in questo modello è visto come uno spazio di tranquillità, di rispetto mutuo, di personale benessere, di star bene senza sentirsi scomodati. Per riuscire in questo si preconizza il valore di comunità omogenee, formate da uguali; e se questo non è sono possibile, si fa ricorso al pluralismo e alla tolleranza, come l’ideale da raggiungere. La cosa più importante sarebbe la mancanza di conflitti, di scontri, o semplicemente di diversità di vedute; e dunque si lascia correre, facendo sì che ognuno si senta bene, non andando oltre quello che tutti sono disposti a dare, né domandando quello che richiede il vangelo. Aumentano così il numero di macchine, le sale di TV, l’indipendenza economica dei confratelli, l’autonomia per i viaggi e le vacanze, l’apertura ai rapporti con persone di altro sesso; la povertà si rilassa, il superiore diventa un facilitatore, non più l’animatore e il padre, e la casa si trasforma in una residenza di singoli.
  Ma se la vita consacrata non forma personalità robuste, uomini di comunione che vedono il fratello come «uno che mi appartiene» (
NMI 43), non ha ragione di esistere, perché la comunione vissuta e testimoniata è uno degli elementi che la fanno significativa, luminosa ed evangelica. Oggi infatti «la Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato dall'odio etnico o da follie omicide» (VC 51).
-  Forse l’elemento più debole e il più doloroso di questo modello è la difficoltà a far sorgere
vocazioni. Fa pensare molto che siano appunto i nuovi movimenti e le congregazioni appena fondate che hanno più successo in questo campo. Qualcosa, senza dubbio, ci è mancato. Chissà se il modello “liberale” di vita consacrata, che si è imposto qua e là e che indubbiamente ha dei tratti anti-vocazionali, non spieghi la situazione! Difatti i gruppi, che hanno più successo vocazionale, presentano tre elementi fondamentali: una spiritualità robusta, visibile, condivisa; una vita di comunità intensa, gioiosa, attraente; un impegno sicuro, chiaro, forte a favore dei poveri, che porta a vivere per loro e come loro.
Ecco, penso che il problema più grande del modello “liberale” sia quello di pretendere di evangelizzare la cultura moderna, assumendo questa a scapito delle scelte e dei valori evangelici. La conseguenza è che così noi restiamo trasformati dalla logica del mondo, anziché diventare evangelizzatori della cultura. Dovremmo essere come il sale, che ha la virtù di poter immergersi fino a dissolversi, ma senza perdere mai la sua identità, la sua efficacia, così da poter di nuovo tornare al suo stato originale.
Questo è il modello di vita consacrata che è in crisi. Noi salesiani abbiamo ragione d’essere se ci manteniamo fedeli alla nostra vocazione e missione: essere segni e portatori di Dio. Rifondare la vita religiosa non vuol dire altro che tornare all’essenziale, all’assoluto di Dio, ai valori del Vangelo, alle beatitudini e ai consigli evangelici, alla forza della comunità, alla presenza in mezzo ai ragazzi, come ci esortava Don Bosco nella sua lettera da Roma del maggio 1884.
5.   CG25, un invito a orientarsi in questa lineain merito al tema
Leggendo il CG25, mi rendo conto che la Congregazione ha voluto rispondere a queste sfide quando ha affrontato la realtà della
Comunità Salesiana Oggi, presentando una visione d’insieme di tutta la nostra vita consacrata. Il tema è la comunità, ma il contenuto comprende l’esperienza e la testimonianza di Dio, la comunità fraterna e la presenza tra i giovani. In questo modo missione, fraternità e vita evangelica sono viste nella prospettiva del tipo di comunità che la Congregazione si sente chiamata a promuovere, cercando il suo rinnovamento più profondo.
La comunità infatti non è stata vista come un “club d’amici” o come una équipe di lavoro, anche se importa – e molto, perché appartiene allo spirito salesiano – che ci sia un’atmosfera cordiale e attraente dal punto di vista umano e un’efficacia professionale dal punto di vista educativo pastorale. Essa è stata presentata anzitutto come una comunità consacrata, di apostoli, con una chiara identità carismatica, erede di un patrimonio spirituale a cui attingere per poter rispondere con competenza alle nuove sfide.
La seconda scheda, che porta come titolo
Testimonianza Evangelica, ha trattato esplicitamente questo tema ispirandosi al “Sogno dei dieci diamanti”, dove viene descritto il modello del vero salesiano. Stando alle parole del commento di Don Viganò, possiamo affermare che proprio lo stesso Don Bosco «è stato sempre in tutta la sua vita l’incarnazione vivente di questo simbolico personaggio»[16] . Contemplato di faccia, il personaggio fa vedere la vita salesiana innanzitutto «nella sua attività» (i diamanti del lato anteriore); contemplato di spalle, il personaggio ci fa vedere la vita salesiana «nella sua spiritualità interiore»  (i diamanti a tergo). Se si vuole, davanti, la sua figura sociale, il volto, il “da mihi animas”; a tergo, il segreto di costanza e di ascesi, la nervatura e il fondamento, il “cetera tolle”.[17]
Applicando queste caratteristiche fondamentali alla comunità salesiana, il CG25 afferma: «Ogni comunità è formata da uomini, immersi nella società, che esprimono la passione evangelica del “
da mihi animas, cetera tolle” con l’ottimismo della fede, con la dinamicità e la creatività della speranza, e con la bontà e la donazione totale della carità. Questo impegno è sostenuto da una struttura spirituale forte ed essenziale, caratterizzata in particolare dalla dimensione ascetica dei consigli evangelici e da uno stile di vita laborioso e temperante»(CG25, 20).
Si è consapevoli che l’ambiente culturale odierno, segnato dal secolarismo, dall’individualismo e dall’edonismo, non favorisce tanto la stima, l’assunzione personale e la maturazione di una vita consacrata; e quindi si rendono più chiare le sfide da affrontare.Ma anche si capisce la forza profetica che può avere la vita religiosa vissuta in pienezza, come forma di vita alternativa,che manifesti nuove vie di umanesimo secondo il Vangelo.
«I consigli evangelici non vanno considerati come una negazione dei valori inerenti alla sessualità, al legittimo desiderio di disporre di beni materiali e di decidere autonomamente di sé. Queste inclinazioni, in quanto fondate nella natura, sono in se stesse buone. La creatura umana, tuttavia, debilitata com’è dal peccato originale, è esposta al rischio di tradurle in atto in modo trasgressivo. La professione di castità, povertà e obbedienza diventa monito a nonsottovalutare le ferite prodotte dal peccato originale e, pur affermando il valore dei beni creati,
li relativizzaadditando Dio come il bene assoluto. Così coloro che seguono i consigli evangelici, mentre cercano la santità per se stessi, propongono, percosì dire, una “terapia spirituale”per l'umanità, poiché rifiutano l'idolatria del creato e rendono in qualche modo visibile il Dio vivente. La vita consacrata, specie nei tempi difficili, è una benedizione per la vita umana e per la stessa vita ecclesiale»(VC87; cf. CG25, 33).
Non fa meraviglia quindi che si parli del
primato di Dio, «che è entrato nella nostra vita, ci ha conquistati e ci ha mesi a servizio del suo Regno, come segni e portatori del suo amore»(CG25, 22); del valore umanizzante e profetico della sequela di Cristo come risposta all’idolatria del potere, dell’avere e del piacere; della grazia dell’unità, «che è dono dello Spirito Santo e sintesi vitale tra unione con Dio e dedizione al prossimo, tra interiorità evangelica ed azione apostolica, tra cuore orante e mani operose, tra esigenze personali e impegni comunitari. In tal modo si integrano armonicamente, nell’alleanza con Dio, la missione apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli evangelici»(CG25, 24).
Tutto questo si dovrebbe tradurre nella centralità della Parola di Dio nella vita personale e comunitaria, nella celebrazione dell’Eucaristia, nella qualità della vita di preghiera fino a fare della comunità una “scuola di preghiera”, nella revisione di vita, nella direzione spirituale, nel progetto di vita personale e comunitario. Ancora una volta, il punto su cui far leva è la comunità locale e la vita fraterna della comunità presente nella vita dei giovani.

Per concludere

Non posso non concludere questa lettera senza fare memoria di Maria Vergine,  modello di consacrazione e di sequela. Se «fissare gli occhi sul volto di Cristo, riconoscerne il mistero nel cammino ordinario e doloroso della sua umanità, fino a coglierne il fulgore divino definitivamente manifestato nel Risorto glorificato alla destra del Padre, è il compito di ogni discepolo di Cristo» (
RMV 9), noi salesiani vogliamo fare questa contemplazione del volto di Cristo con e come Maria: Ella è «modello insuperabile»; poiché «alla contemplazione del volto di Cristo nessuno si è dedicato con altrettanta assiduità di Maria» (RMV 10), «nessuno meglio di Lei conosce Cristo, nessuno come la Madre può introdurci a una conoscenza profonda del suo mistero» (RMV 14)
«Guardiamo [dunque] a Maria, Madre e Maestra per ciascuno di noi. Lei, la prima Consacrata, ha vissuto la pienezza della carità. Fervente nello spirito, ha servito il Signore; lieta nella speranza, forte nella tribolazione, perseverante nella preghiera; sollecita per le necessità dei fratelli (cfr.
Rm 12, 11-13). In Lei si rispecchiano e si rinnovano tutti gli aspetti del Vangelo, tutti i carismi della vita consacrata» (RdC 46). Mi domando se non risiede proprio in questo la sua bellezza, il suo fascino, la sua novità, il suo splendore!
Vorrei farlo citando un testo di
Vita Consecrata, perché anche questo dato ci dovrebbe spronare a conoscere meglio questo importante documento; e raccomando vivamente anche l’approfondimento dell’Istruzione “Ripartire da Cristo”[18] :
«In tutti (gli Istituti di vita consacrata) vi è la convinzione che la presenza di Maria abbia un'importanza fondamentale sia per la vita spirituale di ogni singola anima consacrata, sia per la consistenza, l’unità, il progresso di tutta la comunità. Maria, in effetti, è
esempio sublime di perfetta consacrazione, nella piena appartenenza e totale dedizione a Dio. Scelta dal Signore, il quale ha voluto compiere in Lei il mistero dell'Incarnazione, ricorda ai consacrati il primato dell'iniziativa di Dio. Al tempo stesso, avendo dato il suo assenso alla divina Parola, che si è fatta carne in Lei, Maria si pone come modello dell'accoglienza della grazia da parte della creatura umana…La vita consacrata guarda a Lei come a modello sublime di consacrazione al Padre, di unione col Figlio e di docilità allo Spirito, nella consapevolezza che aderire “al genere di vita verginale e povera” di Cristo significa far proprio anche il genere di vita di Maria» (VC 28).
A Lei chiediamo che ci insegni ad aprirci all’azione trasformante e santificatrice dello Spirito. A Lei affidiamo la nostra vocazione salesiana perché ci renda “segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani”.

Don Pascual Chávez V.
Rettor Maggiore

[1] P. Braido, Don Bosco Prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. I. Roma, LAS, 2003, pag. 14.
[2] P. Braido, Don Bosco Prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. I. Roma, LAS, 2003, pag. 360.
[3] P. Braido, Don Bosco Prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. II. Roma, LAS, 2003, pag. 56.
[4] C. J. B. Metz – T. R. Peters, Gottespassion. Zur Ordensexistenz heute (Friburgo-Basilea-Vienna: Herder, 1991) pag. 29.
[5] Cf. D. O’ Murchu, Rehacer la vida religiosa. Una mirada abierta al futuro(Madrid: Ediciones Claretianas, 2001) pag. 14-15.
[6] Paolo VI, “Ecclesiam Suam”: AAS (1964), pag. 650-651.
[7] J. Gómez Caffarena, Raíces culturales de la increencia (Santander: Sal Terrae, 1988).
[8] E. Viganò, “C’ è ancora terreno buono per i semi”: ACG (1991) 339, pag. 12-13.
[9] Cf. Angelo Arrighini, “Carisma e Istituzione. Intervista a Rino Cozza’: Testimoni  10 (2003) pag. 9-11.
[10] E. VIGANO’, Invitati a testimoniare meglio la nostra “consacrazione”, ACG 342; Il Convegno dei Superiori Generali su “La vita consacrata oggi”, ACG 347; Il Sinodo sulla Vita consacrata, ACG 351; Come rileggere oggi il carisma del Fondatore, ACG 352.
[11] J. VECCHI, Il Padre ci consacra e ci invia, ACG 365.
[12] A 25 anni dalla Promulgazione del Documento Mutuae Relationes”, pag. 4 (ciclostilato, con sottolineature personali).
[13] J. Ma. R. Tillard, Carisma e sequela (Bologna: EDB 1987) pag. 54.
[14]   0’ Murchu, Rehacer  la vida religiosa... pag. 67.
[15] F. J. Moloney, Disciples and Prophets: A Biblical Model for Religious Life (London: Darton, Longman & Todd, 1980) pag. 155-170.
[16] E. Viganò, Profilo salesiano del sogno del personaggio dei dieci diamanti, ACS 300 (1981) pag 13.
[17] Ib, pag. 14.
[18] CIVCSVA, Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio, Roma 2002.