RM-Omelia nell’Eucaristia del “compleanno” di Don Bosco

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Ciò che avete ascoltato e veduto in me

è quello che dovete fare

Omelia

nell’Eucaristia del “compleanno” di Don Bosco





Carissimi confratelli, amici



La celebrazione del “compleanno” del nostro amato Don Bosco ci ha convocato di nuovo nel luogo degli origini, suoi e nostri, della sua storia personale e della sua missine e del suo carisma.


Qui a I Becchi torniamo ad innalzare la nostra lode al Signore per il dono che ha significato per la Chiesa e per il Mondo, in particolare ma non solo per il “pianeta giovani” la nascita di Giovanni Bosco 190 anni fa. Certo, quel bambino nato in questi lari è maturato lungo tutta la sua esistenza da adolescente, giovane studente, seminarista a Chieri, prete al Convitto, prete per i giovani a Valdocco fino ad spegnersi il 31 gennaio 1888, ed è tutta la sua vita quella che ringraziamo ed è tutta la sua storia che diventa testamento.


Oggi ci sentiamo ridire il suo messaggio sintetizzato nelle parole di San Paolo alla sua prediletta comunità di Filippo: «Ciò che avete ascoltato e veduto in me è quello che dovete fare». E che cosa è quello che abbiamo ascoltato e veduto in lui sì da dover riprodurlo e continuarlo?



Nello sconvolgimento politico, sociale, economico, religioso italiano che caratterizzò buona parte del secolo XIX, e che definiamo con il termine “Risorgimento”, don Bosco sentì il dramma di un popolo che si allontanava dalla fede e soprattutto sentì soprattutto il dramma della gioventù, prediletta da Gesù, abbandonata e tradita nei suoi ideali e nelle sue aspirazioni dagli uomini della politica, dell’economia, magari anche della Chiesa.


A tale situazione ha reagito energicamente, trovando forme nuove di opporsi al male; alle forze negative della società ha resistito denunciando l’ambiguità e la pericolosità della situazione, “contestando” - a suo modo si intende - i poteri forti del suo tempo.


Si è allora sintonizzato, per svilupparle e potenziarle, con le possibilità offertegli dalle condizioni storico-culturali e dalla congiunture economiche del momento storico: la struttura sociale paternalistica dell’ancien regime del regno sardo, l’assetto politico liberale aperto al decentramento della carità e della filantropia; la disponibilità di risorse per la beneficenza, i consistenti consensi, nonostante parziali opposizioni del mondo ecclesiastico, di autorità e fedeli. Fondò così oratori, scuole di vario tipo, laboratori di artigiani, giornali e riviste, tipografie ed editrici, associazioni giovanili religiose, culturali, ricreative, sociali; chiese, missioni estere, attività di assistenza agli emigranti, oltre a due congregazioni religiose e una laicale che ne continuarono l’opera.


Ebbe successo grazie anche alle sue spiccate doti di comunicatore nato, nonostante la mancanza di risorse economiche (sempre inadeguate alle sue realizzazioni), il suo modesto bagaglio culturale ed intellettuale (in un momento in cui c’era bisogno di risposte di alto profilo teorico), l’essere figlio di una teologia e di una concezione sociale con fortissimi limiti (e pertanto inadeguata a rispondere alla secolarizzazione e alle profonde rivoluzioni sociali in atto). Sempre sospinto da superiore ardimento di fede, in circostanze difficili, chiese ed ottenne aiuti da tutti, cattolici ed anticlericali, ricchi e poveri, uomini e donne del denaro e del potere, e esponenti della nobiltà, della borghesia, del basso e dell’alto clero. Le sue richieste di aiuto non potevano non risuonare direttamente o indirettamente di sfida, di condanna morale verso coloro che avevano chiuso il cuore alla realtà dolente del prossimo, rimuovendone la presenza di rimprovero, perché era più vantaggioso per loro vivere nel perbenismo dei criteri dell’etica libertina.


L'importanza storica di don Bosco è però da rintracciarsi, prima che nelle tantissime «opere» e in certi elementi metodologici relativamente originali – il famoso “sistema preventivo di don Bosco “ –

  • nella percezione intellettuale ed emotiva che ebbe della portata universale, teologica e sociale, del problema della gioventù «abbandonata», cioè dell’enorme porzione di gioventù di cui non ci si occupava o ci si occupava male;

  • nella intuizione della presenza a Torino prima – in Italia e nel mondo dopo – di una forte sensibilità, nel civile e nel “politico”, del problema dell’educazione della gioventù e della sua comprensione da parte dei ceti più avvertiti e dell’opinione pubblica;

  • nell’idea che lanciò di doverosi interventi su larga scala nel mondo cattolico e civile, come necessità primordiale per la vita della Chiesa e per la stessa sopravvivenza dell’ ordine sociale;

  • e nella capacità di comunicarla a larghe schiere di collaboratori, di benefattori e di ammiratori.


Né politico, né sociologo, né sindacalista ante litteram, semplicemente prete-educatore, don Bosco partì dall’idea che l’educazione poteva molto, in qualsiasi situazione, se realizzata con il massimo di buona volontà, di impegno e di capacità di adattamento. Si impegnò a cambiare le coscienze, a formarle all’onestà umana, alla lealtà civica e politica e, in questa prospettiva a "cambiare" la società, mediante l’educazione.


Trasformò i valori forti in cui credeva - e che difese contro tutti - in fatti sociali, in gesti concreti, senza ripiegamento nello spirituale e nell’ecclesiale inteso come spazio esente dai problemi del mondo e della vita. Anzi, forte della sua vocazione di sacerdote educatore coltivò un quotidiano che non era assenza di orizzonti (bensì dimensione incarnata del valore e dell’ideale); che non fosse nicchia protettiva e rifiuto del confronto aperto (ma sincero misurarsi con una realtà più ampia e diversificata); che non era un mondo ristretto di pochi bisogni da soddisfare e luogo di ripetizione quasi meccanica di atteggiamenti tradizionali; che non era rifiuto di ogni tensione, del sacrificio esigente, del rischio, della rinuncia al piacere immediato, della lotta. Ebbe per sé e per i salesiani la libertà e la fierezza dell’autonomia. Non volle legare la sorte della sua opera all'imprevedibile variare dei regimi politici.


Il noto teologo francese M.D. Chenu, O.P. rispondendo negli anni ottanta del secolo corso alla domanda di un giornalista che chiedeva di indicargli i nomi di alcuni santi portatori di un messaggio di attualità peri tempi nuovi, così affermò senza esitare: “Mi piace ricordare, anzitutto, colui che ha precorso il Concilio di un secolo: don Bosco. Egli è già, profeticamente, un uomo modello di santità per la sua opera che è in rottura con il modo di pensare e di credere dei suoi contemporanei.”


Fu un modello per tanti; non pochi ne imitarono gli esempi, diventando a loro volta il “Don Bosco di Bergamo, di Bologna, di Messina e così via”.


La figura e il significato di don Bosco e della sua opera sono storicamente è universalmente riconosciuti, con buona pace di chi ebbe a scrivere, come il noto scrittore Alberto Moravia, che “ i santi non fanno storia”. Ovviamente il “segreto” del suo “successo” ciascuno lo trova in una delle diverse sfaccettature della sua complessa personalità: capacissimo imprenditore di opere educative, lungimirante organizzatore di imprese nazionali e internazionali, finissimo educatore, grande maestro ecc.


Ecco cari miei, quanto abbiamo ascoltato e veduto in Don Bosco e quanto siamo chiamati a continuare con fedeltà dinamica. A Colei che gli fu data come madre e maestra, Maria Immacolata Ausiliatrice, affidiamo il nostro impegno per essere oggi pegno di speranza per i giovani.





Pascual Chávez V.

Colle Don Bosco, 16 agosto 2005