Iraq: don Pascual Chavez, uscire da una guerra immorale con un efficace progetto di pace

Iraq: don Pascual Chavez, uscire da una guerra immorale con un efficace progetto di pace


Secondo il Rettor Maggiore dei Salesiani i tempi sono difficili, ma occorre cogliere i segni dei tempi, aprire un dialogo profondo e vero con i new global e coordinarsi tra religiosi e suore per maggiori sinergie


Roma(Italia), 17 aprile (VID) – La guerra in Iraq ha sconvolto le regole del mondo e ha aperto un periodo difficile per la comunità internazionale e in questa prospettiva occorre che i religiosi coltivino un dialogo intenso con i new global, decidano di continuare con determinazione nel solco della “Pacem in terris” e realizzano un coordinamento sempre più stretto mettendosi in sinergia per rendere credibile ed eloquente la loro testimonianza cristiana e il messaggio educativo verso i giovani.

Sono alcune delle idee portanti dell’intervista rilasciata da don Pascual Chavez, Rettor Maggiore dei salesiani, primo successore di don Bosco di origine non italiana (è nato in Messico), a un anno dalla sua elezione.

Sottolineato in particolare il cambiamento che si richiede dalla nuova stagione della storia nella quale occorre scommettere sulla pace e che necessita di un percorso formativo, a cominciare dai salesiani, nuovo e adeguato.


Con gli occhi di una persona del Terzo Mondo


Come valuta lei, con gli occhi di una persona del Terzo Mondo, la dottrina della guerra preventiva e del predominio di una sola superpotenza?


"Guardando l'attuale situazione mondiale con gli occhi della gente del Terzo Mondo, nella politica dell'attuale amministrazione degli Stati Uniti si vede l'affermarsi di una superpotenza ma soprattutto di una prepotenza. Si ha la sgradevole impressione che il governo degli Stati Uniti, anche a dispetto di tantissimi cittadini di sentimenti democratici, si senta custode di un ordine mondiale a proprio uso e consumo. Come persona originaria del Messico - ma penso che un analogo interrogativo attraversi la mente di milioni di persone al mondo - mi chiedo chi abbia nominato o affidato agli Stati Uniti questo ruolo di moderatore universale dal momento che esistono già le Nazioni Unite che meglio possono garantire soluzioni democratiche e attente al pluralismo culturale che fortunatamente prospera nel mondo. E' indubbio che manchi un contrappeso all'unica superpotenza americana e ciò rende reale il pericolo di una gestione unilaterale dei rapporti internazionali quando non ci sia un'autodisciplina del limite e del giusto che gli Stati Uniti dovrebbero avere nella stessa misura della loro potenza. A differenza di quando esisteva il contrappeso dell'URSS, ora ci troviamo a vivere i guasti di una egemonia che vorrebbe gestire tutto. Per questo penso che un'Europa sempre più unita sia un vantaggio per un sano equilibrio nel mondo. Vedo e sento in giro la reazione mossa da sentimenti antiamericani. Non si possono negare le atrocità commesse da governi e personaggi come Saddam Hussein, ma neppure si possono ignorare le responsabilità americane nella corsa al riarmo, nel possesso e uso di armi di distruzioni di massa, nel persistere al suo interno della pena capitale, nell'uso privilegiato delle leggi commerciali. Ci sono convenzioni e istituzioni internazionali pienamente legittime che debbono valere per tutti. E i necessari aggiornamenti di queste istituzioni dovrebbero essere migliorativi per la rappresentanza e la dignità di tutti i popoli e non punitivi ed emarginanti di culture e interessi diversi dalle potenze maggiori''.



Il conflitto in Iraq e specialmente la teoria del nuovo ordine portata avanti dal governo americano, fuori contesto ONU ha cambiato profondamente lo scenario mondiale rispetto a un anno fa quando lei fu eletto successore di don Bosco. E' spiazzato da questo cambiamento?

Non e' stata una sorpresa completa questo nuovo scenario. Mi ero già dichiarato contrario al canto di Fukuyama sulla fine della storia e al suo inno in favore del liberismo economico e la fine del terzomondismo. Egli parlava di ricostruire la torta delle risorse prima di ridistribuirle. Mi pareva già allora un linguaggio cinico. Se così fosse – senza voler considerare che attualmente una torta distribuita c’è già, sebbene all’80% della popolazione mondiale tocchi solo il 20% delle risorse mentre una ristretta minoranza consuma l’80% dell’intera torta ed è preoccupata del futuro dove una così alta percentuale non appare garantita - dovremmo accettare che milioni di persone muoiano prima che la nuova torta sia pronta e senza garanzia alcuna sul come e tra chi e da chi verrà distribuita. La storia fatta solo dai vincitori mi disturba. L'11 settembre 2001 è stato senza dubbio l’inizio di un nuovo capitolo di storia, ma la grande storia continua. Alla vigilia del 2000 mi pareva che fosse fuori luogo brindare a champagne sulle rosee sorti del mondo. Era da ingenui pensare che con la caduta del muro di Berlino e la fine dell'URSS, un mondo migliore fosse spuntato come per incanto.


I religiosi hanno scelto la pace non per passiva ubbidienza


Lei pensa che i religiosi e le suore si siano schierati con forte convinzione o solo per passiva ubbidienza al papa contro la guerra in Iraq?


Di fronte a una guerra così grave e sorprendente come quella che ha distrutto l'Iraq, provando duramente la vita fisica e la coscienza di quel popolo, non sono in grado di giudicare quali siano le convinzioni individuali più profonde dei confratelli della mia Congregazione, tanto meno quelle degli altri religiosi o suore.

Penso comunque, da quello che vedo e da quello che ascolto, che c'è stato e permane un ripudio generale contro questo conflitto che, alla luce dell'opinione pubblica, appare irrazionale, perché non si erano esaurite tutte le vie offerte dalla diplomazia; illegale, perché non sancita dall'ONU attraverso il Consiglio di Sicurezza; e immorale, perché è arbitrario dichiarare una guerra preventiva, pessimo precedente per una giungla mondiale dove prevale il diritto della forza e non la forza del diritto.

Non credo, dunque, che religiosi e suore si siano schierate dietro la posizione del papa per passiva ubbidienza, ma per una crescente coscienza dei problemi legati alla mondializzazione. Devo dire però che il Santo Padre è stato il più chiaro, il più deciso, il più coraggioso, il più onesto, il più disinteressato nel promuovere la pace e nel voler allontanare lo spettro della guerra. E ritrovarsi in sua compagnia è stato importante per dare una immagine di Chiesa finalmente unanime contro la guerra.


I salesiani e le altre congregazioni educative come vivono questa situazione?


I salesiani nel mondo per motivi diversi sono dentro contesti di violenza e di morte. Noi operiamo in una varietà di contesti e stando con la gente sperimentiamo le conseguenze del monopolio informativo che minimizza l'esistenza di altri conflitti ed esalta l'eco delle guerre direttamente americane. Ma la gente combatte e muore in tantissime regione della terra. I salesiani cercano di stare vicini ai confratelli che vivono in quelle situazioni di lotta, di sopravvivenza a volte difficilissima e credo che si senta la questione con forte sensibilità da parte dei salesiani. Tanto più che la nostra agenzia interna, l'ANS, documenta puntualmente queste situazioni di sofferenza. Ma devo anche dire che non esiste una maniera monolitica dei salesiani di valutare queste situazioni.


Religiosi per un mondo interculturale


Il cambiamento del magistero sulla pace, ripescando fortemente la spinta della Pacem in Terris, apre un nuovo modo dei cristiani di contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e pacifico. Si pongono domande di cambiamento anche nella formazione alla pace dei religiosi e delle suore rispetto a un passato dove la guerra era vista con occhi diversi a seconda che si appartenesse al primo o al terzo mondo?


La consapevolezza di vivere in un mondo che se da una parte è più globalizzato, dall'altra appare più diviso dalla diversità culturale, sociale, economica, politica, religiosa e presenta nuove sfide alla formazione, la principale delle quali è l'educazione all'interculturalità. Questa è - a mio avviso - la chiave di soluzione al difficile problema di riuscire ad armonizzare l'unità della umanità nella diversità dei popoli che la compongono. Implica una pedagogia per l'accoglienza delle differenze, per la cultura del dialogo e della reciprocità, della solidarietà, della pace. Questo è possibile nella misura che scopriamo che ci sono valori transculturali, validi ovunque, e che dovrebbero aiutare i religiosi a diventare uomini e donne di comunione. Come ci ricordava il Papa in Vita consacrata (n.51), le comunità multiculturali e internazionali si rivelano in molte parti testimonianze significative e ambiti di addestramento al senso della comunione tra i popoli , le razze e le culture.

Come inciderà, a suo parere, la centralità del vangelo della pace, e quindi anche del dialogo ecumenico e interreligioso, nell'identikit dei futuri religiosi?


Le sfide per la formazione dei religiosi provengono dal nuovo ordine mondiale in gestazione, dal contesto culturale imperante, dalle tendenze che ci sono anche dentro la Chiesa. La mobilità delle nostre comunità, la pluralità della loro composizione, ci obbligano a rinnovare e rafforzare la forma concreta di vivere e organizzare la vita fraterna. In essa appare come centrale l'educazione al dialogo, la capacità di assumere positivamente i conflitti, la condivisione di valori fondamentali nella diversità di realizzazioni e responsabilità. Naturalmente la cultura della comunione deve tradursi anche nel dialogo ecumenico e interreligioso. Oggi l'evangelizzazione non la si può fare senza rispetto delle culture, la cui anima è la religione. La Chiesa, alla quale si chiede anzitutto la testimonianza cristiana, non si può impiantare senza dialogo con le altre confessioni cristiane e le altre religioni. Ma non per tattica, bensì per convinzione dei valori che sono in gioco. Questo non implica però che la "missio ad gentes", anche nelle grandi città del primo mondo, non si debba più fare. Semplicemente si afferma che la missione deve essere inculturata.

Non basta essere per la pace e non contro la guerra


Può essere compatibile essere buoni religiosi/e con l'essere per la pace ma non sempre contro la guerra?


In via di principio direi di no. I valori del vangelo che i religiosi e le religiose professano pubblicamente hanno come fondamento, significato e traguardo, l'amore agli altri come Gesù ci ha amati a vivere e privilegiare. Diventa quindi incompatibile professare una cosa e al contempo approvare la contraria. La guerra è sempre un'aberrazione, che attenta contro l'umanità, non soltanto per la perdita della vita di innumerevoli persone, ma perché ritarda lo sviluppo e la democrazia, rende disumani quanti la fanno e spoglia della dignità umana le tante vittime che la subiscono. Penso che essere per la pace ma non sempre contro la guerra si può vedere come una tappa intermedia del cammino di conversione all'amore cristiano che ha nella nonviolenza una componente naturale. E' un cammino difficile ma necessario se non vogliamo ritrovarci in altri e malaugurati conflitti futuri a discutere se si tratti di una guerra giusta o ingiusta, legittima oppure illegale. La guerra è una regressione sempre. A volte dolorosa come quando ci si deve difendere da un ingiusta aggressione. Ma anche in questo caso, almeno a livello individuale, resta valido l'esempio di Gesù, vittima dell'ingiustizia e mai uccisore. Si tratta di una dura lezione quella di vincere il male con il bene.


Dentro il mondo dei new global


In questo anno della sua guida dei salesiani si è assistito a una maggiore attenzione delle suore al movimento new global rispetto ai religiosi. Perché il passo più rapido delle religiose rispetto a una certa prudenza dei religiosi?


Non credo di avere elementi per esprimere una valutazione globale e affermare che le suore siano coinvolte maggiormente dei religiosi nel movimento new global. Posso dire che le suore Figlie di Maria Ausiliatrice hanno intrapreso con decisione questo percorso in forma esplicita. Ma allo stesso tempo mi pare fondato e giusto riconoscere che sono moltissimi i religiosi, anche salesiani, contro l'attuale modello di globalizzazione. Sono tantissimi i religiosi che lavorano - anche se non sempre si manifestano pubblicamente - per la creazione di un mondo alternativo, più vivibile per tutti attraverso l'educazione e la promozione di esperienze di comunione e condivisione.



Lei pensa che bisogna diffidare del movimento new global oppure che sia un nuovo contesto che facilita l'evangelizzazione e la proposta educativa cristianamente ispirata?


Non è giusto battezzare un movimento che non è stato originato solo da motivi religiosi. Quelli che vi si riconoscono e vi operano più o meno attivamente provengono da correnti molto diverse che vanno dagli ecologisti, pacifisti, femministe, gruppi di volontariato sociale, partiti politici di sinistra o centro sinistra, religiosi, fino agli anarchici. Direi dunque che non è così scontato che si tratti di un contesto che per se stesso facilita l'evangelizzazione.

Si pensi a quanti non sono schierati con questo movimento o addirittura lo contestano e avversano, e a quanti vi operano o si schierano per motivi per nulla religiosi.

Credo che si tratti anzitutto di cogliere il valore culturale alternativo del movimento e sottolinearne le grandi possibilità nell'ambito della solidarietà e della politica al servizio delle persone. Altro è dire che sia in se stesso facilitatore di evangelizzazione. Ciò che mi sento di riconoscere e affermare è che ci sono valori che circolano nel movimento new global che sono in sintonia con il vangelo e che devono essere tradotti in programmi educativi.

Sul piano educativo e sul piano della missione mi sembra saggio far leva molto su questi valori anziché su altri aspetti.

Di fronte al movimento per una diversa globalizzazione è sufficiente la sinergia finora adottata dalle congregazioni e ordini religiosi per un percorso comune?

Penso che la vita consacrata, dentro questa cultura e spiritualità della comunione, è chiamata ad allargare gli spazi di sinergia, innanzitutto fra i diverse ordini, congregazioni e istituti, ma anche lavorando in rete con gli altri movimenti, ad esempio la Comunità di Sant'Egidio, e con tutti i movimenti e gruppi impegnati nella creazione di un mondo migliore.

Soltanto così potremo essere più incisivi e avere un influsso maggiore nel territorio dove operiamo. E' una grossa sfida. In questa collaborazione stanno nascendo iniziative diverse per un'educazione alla mondialità e alla solidarietà, di appoggio al commercio equo e solidale, di volontariato e di servizio gratuito ai più poveri. Si deve fare uno sforzo di pedagogia collettiva per offrire vie e progetti concreti, in cui coinvolgersi, insieme a molta gente disposta ad assumere, come umile avanguardia evangelica, uno stile di vita solidale e generosa, una cittadinanza più attiva ispirata alle magna charta del cristianesimo, le Beatitudini.


Ci sono molti segni di morte nel mondo che angosciano i giovani. Potrebbe segnalare invece qualche segno di speranza per un mondo nuovo che è nato a cominciare dall'America Latina?


Nell'America Latina ho trovato tre grandi segni di novità che possono diventare dinamismi di trasformazione: 1) la presenza inculturata tra gli indigeni, sia dell'Amazzonia che delle Andes, che ha sboccato in alcuni casi nella creazione della Federazione dei popoli indigeni, assicurando così non soltanto la loro identità culturale ma loro stesso futuro. Si tratta di una vera riserva di umanità; 2) la rete di opere a favore dei ragazzi della strada, che avendo cominciato nella Colombia e nel Brasile, fino a far approvare una legge sui diritti dei ragazzi della strada, si è estesa in tutta l'America Latina, in Africa ed Asia; 3) la sensibilità e iniziative per venire incontro ai ragazzi drop-out del sistema scolare ufficiale attraverso centri di abilitazione lavorativa di educazione non-formale.

Se la vita consacrata adottasse maggiormente occhi dalla parte del Terzo Mondo cosa potrebbe cambiare al suo interno e nella sua missione?


Penso che potrebbe ricuperare la sua freschezza, il suo slancio, la sua audacia, la semplicità degli origini, la forza della sua fraternità e la significatività della sua presenza e azione. Capita sovente che la storia provochi nelle istituzioni quello che gli anni producono nella persona umana: più esperienza e meno energia, più struttura e meno creatività, più sicurezza e meno audacia, più rilevanza sociale e meno identità evangelica. Il meglio sarebbe naturalmente un equilibrio di questa serie di fattori.


Il futuro dei salesiani e degli altri religiosi passa per l’innovazione formativa


Lei guida da un anno un'importante congregazione educativa. E' più facile o difficile educare oggi i giovani e perché lo è?


Quelli che lavorano direttamente nel campo della educazione, soprattutto quella formale, riconoscono che oggi l'educazione è diventata più difficile. Si è modificato radicalmente il contesto in cui si svolgeva l'educazione. Siamo passati da un modello fortemente unitario, monolitico, ad un altro chiaramente frammentato, cominciando dalle famiglie, che dovrebbero continuare ad essere i primi e i principali luoghi di educazione. Ci troviamo difatti con un uomo e una donna che sono culturalmente diversi, più abili per certe cose e più incapaci per altri, più sensibili verso certi valori e più restii verso altri. Si sono moltiplicate le agenzie educative, fra le quali la più incisiva è il mondo dell'internet. Al tempo stesso, da salesiano, posso affermare che i bisogni più vitali e sentiti dei giovani sono gli stessi: il desiderio di felicità, il sentirsi accolti, ascoltati, apprezzati, il trovare adulti che come punti di riferimento significativi, li accompagnino e li incoraggino nel loro sforzo di crescita umana e cristiana.


Con l’esperienza di governo di un anno ritiene che la sua congregazione si ancora vitale nel diffondere il carisma fondativi o teme i primi segni del declino?


La Congregazione salesiana mi è apparsa vitale. In Asia ed Africa in grande crescita. Complessivamente numericamente stabile. In America Latina c’è dinamismo, vita, futuro.

L’Europa è la regione del mondo più in crisi e allo stesso tempo dove si porta avanti un ripensamento profondo di come collocarsi in un contesto secolarizzato, benestante. Si tratta di capire come rendersi significativi dove la maggioranza della gente vive nella sazietà e allo stesso tempo sperimenta un cambio demografico con le forti iniezioni di immigrati. Occorre avere ben chiaro che non saranno le leggi restrittive dei governi europei a fermare gli immigrati perché l’immigrazione continuerà fino a quando esisteranno i paesi della miseria. Per gli immigrati morire di fame nel proprio paese o sulle sponde di un paese sognato non cambia nulla. Ho sentito l’ispettore dell’Olanda dove non ci sono vocazioni che si dice convinto che un futuro c’è anche se avrà sicuramente un altro volto.

Non è il tempo della fine per il carisma salesiano, bensì ci sono sfide diverse e spesso inedite che occorre saper affrontare.



E per fronteggiare il nuovo pensa che sia sufficiente la formazione attuale dei salesiani?


Prima ancora che fossi chiamato a questo incarico ritenevo necessaria una revisione della Ratio studiorum. Non si tratta solo di problema di contenuti della ratio. E’ cambiato il punto di partenza, ci troviamo di fronte a candidati alla vita consacrata e alla vita salesiana completamente diversi dal passato. Non basta più creare un ambiente formativo che nel passato garantiva la riuscita e la qualità. Ora è cambiato l’intero percorso. Si richiede un processo di assimilazione personale dei valori e per conseguire tale obiettivo l’ambiente non serve più. Occorre una proposta capace di personalizzarsi. Eravamo abituati a fare gli assistenti dei ragazzi. Ora dobbiamo imparare a lavorare in rete e ad essere animatori.

Personalmente credo molto nella formazione per garantire un futuro. Ho chiesto una mappa delle case di formazione, della loro condizione, della qualità della proposta formativa, della preparazione dei formatori, del livello intellettuale che si persegue. E non si può pensare che ogni ispettoria salesiana faccia da sé e risolva il problema formativo. Occorre definire quale tipo di salesiano si vuole formare per i tempi che viviamo e che ci aspettano nel futuro.


Ha qualche proposta da avanzare per una crescita di sinergia nella vita consacrata sia a proposito della testimonianza di vita che nella missione?


Noi la stiamo spingendo all'interno della Famiglia Salesiana, che accoglie più di venti rami di consacrati/e, di consacrati/e secolari, di laici, invitandola a lavorare insieme nel campo del Movimento Giovanile Salesiano, dell'Oratorio e centri giovanili, delle vocazioni, del volontariato, delle missioni. Pur nel rispetto all'autonomia di ciascuno dei gruppi, si deve promuovere la sinergia in progetti concreti, specialmente a livello locale.

A livello della vita consacrata, anche se si fanno parecchie cose attraverso l'Unione Superiori Generali, forse potremmo crescere in sinergia nel campo dell'economia, della formazione, dell'educazione, dell'inculturazione e in particolare della comunicazione sociale.


Ecco perché i religiosi restano negli stati ingiustamente definiti “canaglia”

Perché le congregazioni religiose continuano a restare e consolidarsi in tanti Paesi che nella filosofia politica di Bush, dominante ora in occidente, vengono definiti "Stati canaglia"? la vita consacrata forse è un po' meno occidentale e meno convinta della sua superiorità culturale come nel passato?


Ma penso che in Occidente, soprattutto nei paesi ricchi, si danno una serie di fattori decisamente avversi alla vita consacrata: il calo demografico (se non ci sono figli per la società, nemmeno ci saranno per la Chiesa); il secolarismo che rende vieppiù difficile la proposta e la risposta religiosa; l'alto benessere che rende la vita più agiata, per cui sembra andare controcorrente il fatto di pensare ad organizzare la propria vita attorno alla rinuncia, al sacrificio, all'impegno definitivo, oltre al fatto che lo Stato è autosufficiente per portare avanti opere che sembravano essere proprie dei religiosi (scuole, ospedali...).

In altre parti ci sono invece elementi che favoriscono la vita consacrata: la popolazione è maggioritariamente giovanile, l'humus culturale è ancora molto religioso, e c'è molta povertà, per cui si sente il bisogno di fare qualcosa per dare sollievo alle persone, specialmente le più povere e bisognose, tanto più che lo Stato non ha delle risorse per risolvere tutte queste necessità.

Sembra, dunque, che la vita consacrata si addica molto di più ai paesi poveri. Il che vuol dire che nei paesi benestanti ha una altra funzione: essere segno visibile, credibile, leggibile di Dio per una società atea, che vive come se Lui non esistesse. Questo lo potrà fare nella misura che sia veramente un elemento controculturale, con identità evangelica, fortemente centrata su Dio, testimoni di comunione e totalmente dedita agli altri.

Mi lasci poi dire che non mi pare né lungimirante sotto l'aspetto politico e culturale, né giustificabile sotto l'aspetto cristiano, la filosofia che mira a discriminare i Paesi del mondo nella misura in cui si avvicinano o si allontanano dalla nostra cultura e dai nostri interessi. Politiche di dominio o messianismi politici spingono sempre l'umanità in stagioni buie della storia. Parlare di "Stati canaglia" non rientra nell'orizzonte della Chiesa che è stata mandata ad annunciare a tutte le genti il vangelo di liberazione e salvezza. I religiosi e le religiose non fanno niente di straordinario, che non sia evangelico, a vivere e camminare in solidarietà con la gente di ogni paese, specialmente povero o in difficoltà.


Lei è stato di recente in Terra Santa. Si è fatto un'idea della situazione?


Ci sono due mondi differenti: nell'area controllata da Israele non sembra che ci sia una guerra in corso. Il problema si avverte forte e chiaro quando si deve attraversare un chek-point. Non esiste agibilità e si vede l'altra faccia della medaglia. Ho visitato Betlemme e Cremisan. Sono fiero di cosa fanno i salesiani per la gente di Betlemme con la loro "Casa del pane" e spero che possano continuare a farlo.E' piuttosto difficile in queste condizioni contribuire allo sviluppo dell'educazione dei giovani in presenza del controllo israeliano e dell'intifada.

Anche per la Terra Santa ci vorrebbe il coraggio di una svolta storica per la pace che finora è tardata a venire.